Le parole di Dante

La grandezza del sommo poeta e della sua opera riverbera in ogni angolo del “bel paese” (e non solo), divenendo parte integrante della vita di tutti i giorni. La rubrica “Verba Dantis” tratta delle parole ed espressioni dantesche ancora oggi utilizzate nel parlato comune, o comunque riconducibili a situazioni storico/sociali che frequentemente possono essere riportate sul piano della storia contemporanea. Di seguito alcuni esempi dei versi più celebri, con spiegazione di come essi riflettano aspetti comuni alla società odierna.



"Non ragioniam di lor, ma guarda e passa"


"Non ragioniam di lor, ma guarda e passa". Sono le celebri parole del poeta Virgilio, racchiuse nel verso 51, nella diciassettesima terzina del canto III dell’Inferno, nelle quali egli esorta il Sommo Poeta a non preoccuparsi dei dannati ma piuttosto di seguirlo. Il verso in questione è divenuto proverbio nell'uso comune seppure "storpiato" e alterato in "Non ti curar di loro, ma guarda e passa". La saggia guida rivolge le parole sopracitate allo smarrito ed intimorito Dante, invitandolo a non preoccuparsi minimamente di "color che visser sanza 'nfamia e sanza lodo" (vv.35-36). Virgilio sta descrivendo gli ignavi, i quali risiedono nell'Antinferno assieme agli angeli "neutrali" (ossia che non patteggiarono né per Dio né per Lucifero "ma per sé fuoro") e per cui Dante nutre particolare odio poiché (al suo contrario) non si sono schierati nel corso della propria vita né dalla parte del bene né del male a causa della loro viltá. Essendo qui collocati, sono così sminuiti a tal punto che gli stessi altri dannati possono addirittura sentirsi superiori ad essi avendo scelto, sebbene sia il male, una posizione ben precisa in vita. Virgilio spiega inoltre come non valga la pena nemmeno di parlarne, tanto non hanno lasciato alcuna traccia di sé a tal punto che "fama di loro il mondo esser non lassa; misericordia e giustizia li sdegna" (vv.49-50). Figura principale tra gli "sciaurati, che mai non fur vivi" è quella di "colui che fece per viltade il gran rifiuto": si tratterebbe di Celestino V, il papa che rinunciò al pontificato in favore di una vita eremitica cedendo l'incarico a papa Bonifacio VIII, oppure, secondo Natalino Sapegno, di Ponzio Pilato o per altri di Esaù, il quale rifiutó la primogenitura per un piatto di lenticchie. Versi simili a questo, nelle quali si percepisce una sottospecie di esortazione ad "ignorare", quasi di "noncuranza", sono: senz'altro i versi 91-92, del canto II dell'Inferno, nei quali è Beatrice a parlare, spiegando a Virgilio che "I' son fatta da Dio, sua mercé, tale, che la vostra miseria non mi tange, né fiamma d'esto 'ncendio non m'assale". L'espressione "non mi tange" significa propriamente "non mi sfiora neppure, non mi interessa" a testimoniare come Beatrice, in quanto creatura di Dio, non abbia nulla da temere nel regno di Lucifero. Nonostante la "Comedia", definita nel 1555 "Divina" da Boccaccio, sia stata scritta intorno al 1300, è comunque di straordinaria attualità. Di fatto, i versi esaminati in precedenza, "Non ragioniam di lor, ma guarda e passa" e l'espressione "non mi tange" (non mi sfiora neppure, non mi interessa), esprimono concretamente uno dei mali più grandi che affligge il mondo: il forte individualismo. Quest'ultimo, assieme all'indifferenza, marca la società odierna, non più dedita ad aiutare chi ne ha necessità bensì ad accrescere il proprio egoismo. Quante volte è capitato di vedere sui social, video nei quali qualcuno viene picchiato, insultato, ha un malore, si assiste ad una rissa e nessuno interviene o per lo meno, chiama chi sia più in grado? La risposta è ben ovvia. Sempre e quotidianamente. Tanti sono i mali che scandiscono la vita di chi sta vivendo un momento di evidente difficoltà ma di cui non si interessa alcuno se non direttamente coinvolto. Numerose sono le vignette o immagini che fanno piuttosto riflettere riguardo questa tematica ma di certo, quella che tutti hanno avuto modo di vedere, è la vignetta nella quale viene rappresentato un uomo in evidente difficoltà che sta annegando: è circondato da alcuni passanti che non lo soccorrono e pensano dentro di sé: "qualcuno lo aiuterà". E invece potrebbe accadere che nessuno lo farà e quell'uomo annegherà. Bisognerebbe essere più empatici, più aperti ai cuori altrui: è vero che delle volte si è impossibilitati ad aiutare a causa di difficoltà proprie. Delle volte però l'aiuto che potremmo dare risulterebbe indispensabile per coloro che ne hanno bisogno. Cambiando cantica, un'altra espressione degna di nota, è senza dubbio: "Quando si parte il gioco della zara, colui che perde si riman dolente, repetendo le volte, e tristo impara; con l'altro se ne va tutta la gente; qual va dinanzi, e qual di dietro il prende, e qual dallato li si reca a mente; el non s'arresta, e questo e quello intende; a cui porge la man, più non fa pressa; e così dalla calca si difende. Tal era io in quella turba spessa, volgendo a loro, e qua e là, la faccia, e promettendo mi sciogliea da essa" (vv.1-12, canto VI, Purgatorio). Dante ora si trova nel Purgatorio per espiare i suoi peccati e raggiungere le "beate genti". Egli si paragona ad un fortunato vincitore nel gioco della "zara": vengono lanciati a turno tre dadi e il lanciatore dichiara prima ad alta voce il punto che sarebbe uscito; la fortuna sta nell'indovinare la combinazione più probabile. Il vincitore viene così accerchiato da una folla nella quale uno lo prende per il braccio, l'altro chiede lui di tenerlo a mente; l'uomo vincente però non si ferma e con un gesto di mano promette qualcosa a tutti e ,di conseguenza, non viene più oppresso. Tale è Dante circondato dalle anime di chi come lui vuole raggiungere il Paradiso e ha bisogno delle preghiere dei vivi per procedere più velocemente attraverso il regno intermedio. La "turba spessa" è la folla di anime, definita così, poiché la loro è una "lotta", non una semplice processione. Dante infatti, all'interno della cantica, ricorre spesso e volentieri al "sermo castrensis" (linguaggio militare) di cui "turba" fa parte, volendo testimoniare quanto sia arduo espiare le proprie colpe in questo regno dinamico ma al contempo quanta soddisfazione si otterrà per aver resistito a tutte le fatiche.



Considerate la vostra semenza:

Fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e canoscenza

(Canto XXVI Inferno, 112-114)


Tra i versi più famosi ed utilizzati quotidianamente della Divina Commedia, sono le parole che Ulisse, relegato tra i consiglieri fraudolenti nell’ottava bolgia dell’Inferno dantesco, aveva pronunciato per spronare i propri compagni a conseguire il “folle volo”: attraversare le colonne d’Ercole, limite della conoscenza umana stabilito dagli dei. L’esito della spedizione, però, porterà alla morte dei compagni greci, dopo aver intravisto la montagna del Purgatorio.

Il messaggio di Dante è chiaro: l’uomo, per natura, è portato a conoscere, ma questa sua curiosità non deve prescindere dalla consapevolezza che la conoscenza umana, proprio in quanto tale, ha dei limiti. In Dante questo limite ha connotati divini, in quanto la conoscenza perfetta ed assoluta può essere accordata solo ad un Essere perfetto ed assoluto: Dio. Nonostante la forte influenza cristiana, però, non risulta difficile provare a trasferire gli stessi concetti nella società contemporanea. Infatti, sebbene Dante disti da noi ormai settecento anni, il dilagare dell’ignoranza persiste ancora, sebbene le strade della conoscenza siano accessibili ad un numero maggiore di individui. Non è raro, infatti, imbattersi, sia nella vita reale sia sui social media, in episodi di odio, sofferenza, violenza, guerra sotto diverse forme…. . La somma di tutti questi elementi dà vita a disordine, instabilità, caos nella vita umana e sono il risultato della potenza e della minaccia dell’ignoranza. D’altro canto, è proprio ad essa che molti politici italiani (e non solo) si appellano per perseguire politiche anti-umane in quanto, così come durante la notte si va alla ricerca della luce poiché, non potendo vedere e quindi comprendere il buio, ne abbiamo paura, allo stesso modo il timore, dovuto ad una non-conoscenza, è il tallone d’Achille del consenso pubblico. Anche questo aspetto politico non risulta moderno, ma è inserito anche da Dante nella Divina Commedia, in particolare nei versi 76-78 del canto VI del Purgatorio, dove descrive la situazione politico-sociale instabile dei suoi tempi con un’invettiva tagliente: “Ahi serva Italia, di dolore ostello,/ nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di province, ma bordello!”.

Il sommo poeta, però, indaga la conoscenza nella sua interezza e sottolinea come, sebbene essa sia alla base di una vita più serena ed equilibrata, il confine tra sapere, felicità e tracotanza sia molto labile e spesso anche invisibile. Infatti, da un punto di vista della condizione dell’uomo, bisogna sempre cercare di porre un freno alla propria sete di conoscenza perché sfociare nella hybris, come è accaduto ad Ulisse ed ai suoi compagni, può portare a conseguenza così disastrose, che la stessa ragione si trasforma in follia. Follia, però, che deve essere intesa come un annebbiamento della ragionevolezza, non delle capacità conoscitive e che, soprattutto, ha delle ripercussioni. Ulisse e gli altri greci hanno trovato la morte ad aspettarli, avendo superato un limite di natura e per questo hanno dovuto subire la “vendetta”, che in Dante è la giusta punizione. Per l’uomo moderno la vendetta si traduce in una vita di sofferenza, solitudine, continuo senso di insoddisfazione e di incompatibilità con la vita, che a volte può anche culminare con la morte.



“Poscia, più che 'l dolor poté 'l digiuno”


Poscia, più che ‘l dolor poté il digiuno” è il verso 75 del XXXIII canto dell’Inferno di Dante Alighieri. Il verso conclude il racconto del conte Ugolino della Gherardesca, interpretato dalla critica in vari modi.

La vicenda legata agli ultimi momenti della vita del conte Ugolino è raccontata da Dante in maniera molto suggestiva e cruda. Ugolino della Gherardesca era un nobile pisano, dapprima seguace della parte ghibellina, accostatosi poi al partito guelfo dei Visconti. Egli, proprio per questo voltafaccia alla fazione ghibellina, fu accusato di tradimento dall’arcivescovo Ruggieri e dalle famiglie Lanfranchi, Sismondi e Gualandi. Ugolino venne quindi rinchiuso nella Torre della Muda insieme ai figli Gaddo e Uguccione, e ai nipoti Anselmuccio e Nino, detto il Brigata. La Torre della Muda fu, in seguito all’episodio, ribattezzata “Torre della Fame”, in quanto i suoi prigionieri vi furono lasciati morire di fame.

Dante incontra Ugolino mentre egli sta consumando “Il fiero pasto”, espressione che indica un pasto bestiale (dal latino “fera”, belva) e che ancora oggi noi utilizziamo nel parlato comune. Quando Dante e Virgilio arrivano da Ugolino, egli sta infatti divorando il cranio dell’arcivescovo Ruggieri, causa delle sue sventure.

Ugolino, collocato tra i traditori della patria nell’Antenora, racconta come la sua agonia all’interno della Torre durò circa sei giorni. I figli e i nipoti, che Dante immagina ancora adolescenti, iniziarono a morire uno ad uno davanti a lui. Alla fine, il digiuno prevalse sul dolore.

Di quest’ultimo verso, due sono le interpretazioni principali. La più comune vuole che il conte sia stato alla fine ucciso dalla fame, che prevalse sul dolore per la morte dei ragazzi. Un’interpretazione più macabra prevede invece uno scenario folle e crudo. Secondo tale versione, infatti, Ugolino, avendo ormai perso il lume della ragione a causa della fame, avrebbe divorato i cadaveri dei figli e dei nipoti. L’interpretazione più macabra nasce proprio dai versi precedenti (61-63) al settantacinquesimo, in cui i figli del conte esortano il padre a mangiare le loro carni.

La prima tematica da prendere in considerazione è quella delle colpe dei padri che ricadono sui figli. Tema già sviluppato da tempi antichi, esso può comunque considerarsi attuale ed essere riportato sul piano della storia contemporanea.

Esempio eclatante è l’omicidio di Giuseppe Di Matteo, commesso a San Giuseppe Jato l’11 gennaio 1996. Santino Di Matteo, padre di Giuseppe, era al tempo un ex-mafioso, collaboratore di giustizia. Giuseppe fu rapito nel 1993, all’età di quasi tredici anni; rapimento ovviamente finalizzato a spingere il padre Santino a ritrattare le rivelazioni sulla strage di Capaci. Nell’estate del 1995 Giuseppe fu rinchiuso in un bunker, dove rimase per 180 giorni, fino alla morte, avvenuta per strangolamento e successivo scioglimento del corpo del bambino in una vasca contenente acido nitrico.

È quindi evidente come, anche nella storia contemporanea, spesso i figli debbano pagare per le azioni compiute dai propri genitori. Pur essendo la collaborazione con la giustizia la via più corretta da prendere per Santino Di Matteo, il figlio è comunque risultato vittima delle azioni del padre, come i figli e i nipoti del conte Ugolino. Giuste o sbagliate che siano, quindi, le azioni dei genitori si riflettono sui propri figli, che spesso ne scontano le conseguenze, pur non avendo colpe.

Giorgia Di Massimo,

Anna Paola Di Simone,

Arianna Di Felice