C’è un momento, in ogni vita, in cui ci si trova sospesi.
Non più di qua, e non ancora di là.
È uno spazio di silenzio e mistero, che i tibetani chiamano Bardo: il regno di mezzo, il corridoio tra due mondi.
Chi ha vissuto un’esperienza di premorte racconta spesso di aver attraversato un tunnel di luce,
di aver sentito una pace così grande da non voler più tornare,
di aver incontrato presenze amate, oppure una forza luminosa che sapeva di casa.
Non importa se lo chiamiamo Bardo, NDE o sogno dell’anima:
quel passaggio parla sempre della stessa cosa —
che la vita non finisce, ma si trasforma.
E forse non serve morire per conoscere il Bardo.
Ogni volta che lasciamo andare una parte di noi,
ogni volta che affrontiamo un cambiamento,
ogni volta che un dolore ci costringe a nascere di nuovo,
noi attraversiamo un piccolo Bardo.
Il messaggio è chiaro:
non temere il buio, perché dopo c’è sempre una luce,
non temere la fine, perché è solo l’inizio di un’altra forma,
non temere il vuoto, perché nel vuoto l’anima si ricorda chi è.
Il Bardo non è solo della morte: è della vita, di ogni soglia, di ogni passaggio.
Le esperienze di premorte ce lo sussurrano con forza:
la coscienza non muore, l’amore non muore.
E allora possiamo imparare a camminare nei nostri piccoli Bardo quotidiani —
con fiducia, con respiro, con cuore aperto.
Perché dietro ogni perdita c’è un dono,
e dietro ogni soglia c’è una nuova nascita.
“Il Bardo ci ricorda che ogni fine è un seme di inizio, e che l’anima conosce la strada anche nel buio.”