A volte non è il dolore a far male, ma l’invisibilità.
Quella sensazione sottile di offrirsi e non essere colti, di parlare e non essere ascoltati, di esistere e non essere riconosciuti.
Non è questione di valore: è questione di sguardi.
Ci sono persone che, anche senza volerlo, non riescono a vedere.
Non hanno lo spazio, la profondità o la sensibilità per accogliere ciò che siamo davvero.
Fin da piccoli abbiamo imparato a rifletterci negli occhi degli altri, cercando in quello specchio la misura del nostro essere.
E se quegli occhi non hanno saputo contenerci, dentro si è creato un vuoto, un dubbio silenzioso che ci ha accompagnati nel tempo.
Così cresciamo cercando conferme nei luoghi sbagliati, bussando a porte che restano chiuse, sperando che qualcuno ci riconosca come non siamo mai stati riconosciuti.
Ma non tutto ciò che doniamo può essere ricevuto.
Non perché non sia prezioso: semplicemente, non tutti hanno le mani per tenerlo.
Non tutti hanno imparato a vedere la profondità negli altri, perché faticano ancora a vederla in sé stessi.
Insistere diventa allora un modo per allontanarci da noi.
È come restare davanti a una finestra buia, sperando che si accenda una luce che non è destinata a illuminare il nostro volto.
La vera svolta arriva quando comprendiamo che il nostro valore non nasce dallo sguardo altrui.
È una radice interna, un luogo sacro che vive sotto la pelle, indipendente da ciò che gli altri vedono o non vedono.
Saperci ritirare, scegliere, proteggere le nostre stanze interiori diventa un atto di amore verso noi stessi.
Un modo per tornare al punto essenziale:
noi.
E da quel ritorno nasce tutto il resto.
Relazioni che non chiedono prove.
Presenze che sanno vedere.
Luoghi dove essere noi è già abbastanza.
Dove il valore non va spiegato, ma semplicemente riconosciuto.