e un semplice rito di gratitudine per trasformare il momento del pasto in un atto più consapevole e rispettoso.
Molte persone vivono un conflitto silenzioso: amano profondamente gli animali,
e provano dolore al pensiero della loro sofferenza… ma allo stesso tempo mangiano carne.
Non si tratta di incoerenza o ipocrisia:
è una condizione umana complessa, fatta di emozioni, abitudini, ma anche cultura e gusti personali.
C’è chi sceglie la via vegetariana o vegana, rinunciando completamente ai prodotti animali; c’è chi non si sente pronto o non desidera fare questo passo,
ma allo stesso tempo non vive la carne come un semplice “prodotto”.
Perché dietro a ogni fettina, arrosto o salume, c’è stato un animale vivo, con un respiro, uno sguardo e una vita propria.
Molti di noi crescono in famiglie e contesti dove la carne è parte della tradizione,
della convivialità e perfino del linguaggio. Io l'ho vissuto in prima persona,
i miei genitori avevano un negozio di macelleria, e mio padre era anche un cacciatore. Maturando, mi sono accorta che chiamare ad esempio“rosticciana” o “prosciutto crudo” trasforma un animale in semplice merce.
Dietro a quei nomi c’è stato un essere vivente, e usarli senza consapevolezza rischia di cancellarne l'esistenza.
Questo risveglio interiore porta domande:
Come posso conciliare il piacere del cibo con il rispetto per la vita?
È possibile mangiare carne senza chiudere gli occhi davanti alla sofferenza degli animali?
Quando conosci la sofferenza, non puoi far finta di nulla
Per chi, come me, pratica Reiki per animali e comunicazione empatica con essi,
il legame non è solo affettivo ma energetico.
Ho imparato a percepire emozioni, paure e gioie, a guardare negli occhi un animale e sentire il suo mondo interiore.
Per questo, sapere cosa accade negli allevamenti e nei macelli non è solo un’informazione: è un dolore tangibile.
È immaginare la paura, lo smarrimento, il distacco. Eppure, nonostante questa sensibilità, non mi definisco vegetariana o vegana.
Mangio carne, ma evito gli animali più piccoli o giovani, ma il pollo o una fettina fanno parte della mia tavola.
Il punto non è essere perfetti: è cercare di essere più consapevoli.
Si sente dire che un animale, poco prima della macellazione, rilasci “veleni” che poi ingeriamo. In realtà, ciò che accade è diverso: durante lo stress, produce ormoni come adrenalina e cortisolo. Queste sostanze non sono tossiche per noi,
ma alterano il metabolismo muscolare e il pH della carne, peggiorandone qualità, sapore e consistenza.
La carne di un animale molto stressato può diventare più dura, meno succosa, dal colore alterato. Non si tratta di un rischio chimico per la salute, ma è un segno tangibile di un processo che ha generato sofferenza.
Che si creda o meno allo spirito degli animali, dedicare un momento di consapevolezza prima di mangiare può trasformare un atto quotidiano in un gesto di rispetto.
Non è una giustificazione, ma un modo per riconoscere che ciò che nutre il nostro corpo è sempre frutto di una vita.
Come fare:
Guarda il cibo nel piatto e riconosci che proviene da un essere vivente.
Respira profondamente e, mentalmente o a bassa voce, pronuncia parole come:
“Ti ringrazio per il nutrimento che mi offri.
Onoro la vita che hai vissuto e la trasformo in energia per fare del bene.”
Mangia lentamente, restando consapevole del dono ricevuto.
In molte culture tradizionali, come quelle sciamaniche e dei popoli nativi,
l’animale veniva ringraziato e onorato dopo la caccia, riconoscendone lo spirito e il dono della vita. Questo gesto di rispetto trasformava il cibo in un legame sacro tra chi riceve e chi offre.
Non esiste una scelta unica giusta per tutti.
Per qualcuno il rispetto si esprime nella rinuncia totale; per altri nella riduzione, nella selezione etica delle fonti, o nei gesti di consapevolezza quotidiani.
Mangiare o non mangiare carne non definisce chi siamo come persone.
La vera differenza la fa il rispetto che abbiamo per la vita, umana e animale,
e la consapevolezza con cui facciamo le nostre scelte.
Ogni tavola può essere un luogo di gratitudine, indipendentemente da ciò che contiene il piatto. Più che schierarsi, il vero cambiamento forse inizia da qui:
riconoscere la vita che c’è stata, prima di ciò che oggi è nel piatto.