PART 06 - Homeless

Una pugnalata in pieno petto. Questa era, pressappoco, la sensazione che provava in quegli interminabili istanti, quelli appena seguiti all’inattesa dichiarazione. Non era agitato, stavolta. Nessuna goccia fredda di sudore gli scendeva dalle tempie. Ed il cuore, quello non batteva all’impazzata, come era successo dopo la rivelazione di Shingo. Non batteva affatto. Almeno non poteva udirlo distintamente, tanto si era fatto lieve il pulsare del muscolo. Il tempo pareva essersi fermato. Poco contava che le sue gambe continuassero a muoversi meccanicamente, seguendo padre e figlia, i quali avevano già ripreso il cammino. Poco contava che ormai le tenebre avessero inghiottito l’enorme calotta del cielo. Per lui, il tempo si era fermato.

“Sei matto? Genma e Nodoka Saotome non hanno mai avuto figli.”

Quelle parole – proferite con una tale naturalezza! Quell’uomo pareva sapere bene di cosa stesse parlando. Non dava l’impressione di essere un bugiardo, oppure un burlone – nonostante le sue chiassose risate potessero a prima vista far pensare l’esatto contrario. Perché mai, comunque, avrebbe dovuto dare ascolto? Ad una cosa così assurda, così folle, così… Eppure, adesso, tutto cominciava a prendere la forma giusta, ad assumere il suo vero significato.

“Ti ho già chiesto ben due volte di dirmelo… si può sapere chi sei?!”

“Ricominci?! Lo sai benissimo chi sono! Sono Ranma! Ranma Saotome! Veramente non ti ricordi più di me?”

“Come potrei? Non ti ho mai visto prima d’ora.”

“Piacere di conoscerti. Il mio nome è Ukyo Kuonji.”

Non si ricordavano più di lui. Ma questo non voleva dire necessariamente che avessero dimenticato. In effetti, come si poteva ricordare qualcosa che – che non è mai avvenuto?!

“L’unico che non ricorda sei tu.”

Rabbrividì, rievocando le parole di Shingo. Pensò che la sua precedente ricostruzione dei fatti non reggeva per niente. Un tassello non si incastrava nel puzzle. Ryoga non si trasformava. Come spiegarlo, questo? Era guarito dalla maledizione? Oppure era più corretto sostenere che – che non fosse stato mai maledetto? Non era una cosa così difficile, dopotutto: bastava solamente che una ragazza dalla chioma fulva in tenuta da kempo non lo avesse scaraventato con un calcione nella Heito Uen Nichuan. Bastava che Hibiki in Cina non ci fosse mai andato, non avesse mai dovuto inseguire per mezzo mondo il suo avversario che era mancato alla sfida.

In quanto ad Ukyo… Quello che aveva con sé, era evidentemente il carretto di okonomiyaki che suo padre non le aveva fregato, dal momento che non aveva nessun figlio da darle come fidanzato e nessuna dote da rivendicare… Il castello di carte crollava al primo alito di vento… Tutto portava ad una sola incredibile conclusione…

Possibile? Lui – lui non esisteva! Ranma Saotome, figlio di Genma Saotome, ultimo discepolo della scuola di lotta Saotome, futuro erede della palestra Tendo, non era mai venuto al mondo!

Era sparito dalla circolazione… Allora era questo, l’effetto del Saishuu Shiyou Rei-ryuujin… Lui era veramente la vittima del Dragone del Rimedio Definitivo! Bel modo per sbarazzarsi di una persona sgradita, non c’era che dire: non bisognava neppure sporcarsi le mani. Eccola, la sorte progettata per Akane. E che ora, come gli aveva detto Shingo, era divenuta sua. Gliene erano accadute, di cose strane, negli ultimi tempi: ma questa, questa le superava di gran lunga tutte quante.

“Eccoci arrivati!”

La voce di Ukyo lo riportò al presente. E si accorse che davanti a lui c’era il ryokan.

“Bene, stanotte potremo pernottare qui” disse il padre di Ucchan, la quale scrutava, incuriosita, quel bel giovane dagli abiti cinesi: uno che in Cina doveva esserci stato, uno che doveva aver viaggiato molto. E quello sguardo assorto, quelle iridi blu-grigie così profonde e tristi, che lo rendevano così misterioso… Del resto, cosa non aveva di misterioso uno che vagava in un bosco apparentemente senza alcun motivo? Forse quel ragazzo aveva bisogno di aiuto, di una persona amica. Sembrava così timido.

“Senti” si decise infine a chiedergli, quando ormai si stavano accingendo a mettersi a dormire, entrando in camere separate.

“Mh?” fece un Ranma ancora immerso nei propri pensieri.

“Tu, ecco” farfugliò la coetanea, giocando nervosamente con le dita. “Volevo dire, insomma – dove sei diretto?”

Dov’era diretto? Lui?… Già, dov’era diretto? La fretta di raggiungere casa Tendo era cessata di colpo, adesso che gli si era parata dinanzi la realtà – la nuda, dura realtà. La realtà che il mondo aveva smesso improvvisamente di girargli attorno… Buffo, proprio a lui che ormai ci aveva preso l’abitudine, ad essere sempre al centro dell’attenzione…

“Io… io non lo so” ammise, con un sospiro.

Ukyo lo fissò dolcemente. Sentiva per quello sconosciuto un forte senso di compassione… o forse anche qualcos’altro?

“E… cosa farai domani?” chiese con fare candido. “Non potrai dormire sempre al ryokan.”

“Già” si limitò ad ammettere lui.

“A-allora… io p-pensavo… che…” balbettò la ragazza, arrossendo visibilmente. Ranma la guardò incuriosito.

“E-ecco… Noi domattina ripartiremo, ci dirigeremo molto lontano da qui…”

Cosa? Non era un fulmine nel capire cosa passasse per la testa degli altri, ma stavolta l’intenzione della ragazza gli sembrava chiarissima. Ukyo stava per proporgli di seguirlo nel suo viaggio. Perché mai? E lui che doveva fare? Accettare, forse?… Eppure, eppure, un nuovo pensiero gli aleggiava nella mente. Lui portava guai, su questo non c’era dubbio. Colpa sua, se… se Akane aveva corso tanti pericoli: Shampoo che le dava il bacio della morte, Mousse che intendeva trasformarla in anatra – ma, primo fra tutti, risaltava, tra i suoi ricordi, quello della lotta contro Safulan: per poco non lo perdeva definitivamente, quella volta, il suo maschiaccio. Ed ora, ora questa trappola di Yakuzai! Era troppo! Sì, lui portava guai… ma adesso lui non esisteva più per nessuno. Perché ritornare ad invadere le vite tranquille delle persone cui teneva? Non avrebbe di certo cominciato con Ucchan.

“Ukyo, io…” la sua voce fu però sovrastata da quella della ragazza, che metteva faticosamente insieme le parole per concludere la propria frase.

“Ma – ma prima, ci fermeremo qualche giorno nella casa di quei nostri amici: sai, i Saotome.”

Le pupille del ragazzo col codino si dilatarono vistosamente.

“Hai detto… i Saotome?!”

No, non poteva. Non poteva tornare nelle vite dei suoi cari. Più di tutto, in quella della sua famiglia. “Vuoi venire con noi?”

Doveva andarsene, approfittare dell’incredibile occasione che gli si era creata. Nessuno avrebbe più corso pericoli a causa sua. Lei non li avrebbe corsi. Perché indugiare? Ranma Saotome non esisteva più. Perché coinvolgere ancora coloro cui voleva bene nelle pazze disavventure che attirava come fosse una calamita? Deciso e risoluto, stabilì che la sua risposta dovesse essere un netto rifiuto. Nossignore, non sarebbe tornato indietro.

“Benvenuti.”

La signora Saotome sorrise amabilmente agli ospiti sopraggiunti alla sua porta. Un'altra figura parzialmente nascosta dall’ombra le stava affiancato, ma in posizione di guardia. Ed allungò un braccio, impedendo alla donna di inginocchiarsi in segno di rispettoso saluto davanti al trio che si trovava sull’uscio di quella modesta dimora.

“Che fai?” protestò lei.

“Cosa fai tu, piuttosto” replicò agitato l’altro. “Ti sei sincerata che non sia qualche malintenzionato? O, peggio ancora, un creditore?!”

La porta parzialmente richiusa da quell’uomo occhialuto in tenuta da kempo non impedì di scorgere il luccichio di una grossa katana, appena sguainata dalla compagna.

“Stai al tuo posto, tesoro: non li riconosci?” avvicinò minacciosamente la lama affilata al suo collo. “E vedi di non azzardarti a gettare loro addosso il tatami, chiaro?!”

Gli occhiali del poveraccio, appannatisi per l’improvvisa colata di sudore proveniente dalla pelata malcelata da un vistoso fazzoletto, lasciavano intravedere un’espressione piuttosto intimidita, la quale rispondeva a quella ben più risoluta della donna. Dopodichè, sorridendo nervosamente, questo volse gli occhi in direzione dei nuovi arrivati. Uno di essi sghignazzò fragorosamente.

“Ah ah! Genma Saotome, vecchio mio! Vedo che non cambi proprio mai!”

L’altro sbatté le palpebre perplesso.

“Ku… Kuonji!” esclamò infine. “Sei proprio tu!”

“Ne è passato di tempo, dall’ultima volta!” gli andò incontro per abbracciarlo. E Genma Saotome lasciò crollare le ultime istintive difese, ricambiando affettuosamente la stretta di quello che pareva essere, dunque, un amico di vecchia data.

Ranma ne era sicuro. Erano molto amici. Magari non c’erano tra di loro quei modi fraterni che tanto caratterizzavano, nel suo vecchio mondo – quello che non c’era più – il rapporto con Soun Tendo. Ma erano grandi amici, il fatto era evidente.

Il giovane col codino avanzò timorosamente. La vista della katana di sua madre – ma doveva portarla con sé proprio in ogni momento? – aveva provocato in lui delle reazioni involontarie di terrore puro, tale da poter probabilmente venire superato solo dalla fobia per i gatti e dalle esibizioni del padre di Akane in versione demone blu con tanto di lingua biforcuta. Le vecchie abitudini erano dure da dimenticare.

“Ukyo, come sei cresciuta: ti stai facendo molto carina, sai?” Mentre gli uomini discorrevano animatamente, Nodoka si era avvicinata alla ragazza.

“La ringrazio, signora Saotome” sorrise la giovane Kuonji.

“E lui – lui chi è?” chiese curiosa l’altra, scorgendo il giovane col codino. “Il tuo ragazzo?”

“Ma nooo, si sta sbagliando!” Ucchan avvampò, mentre con una spatolata decisa spinse il giovane proprio di fronte a sua madre.

“Come ti chiami?” chiese lei, con aria cortese, ad un Ranma visibilmente imbarazzato.

“Io… er… Ranma” balbettò intimorito. Preoccupato soprattutto del fatto che si trovavano ancora all’aperto. E cosa sarebbe avvenuto se, con la fortuna che lui si ritrovava, avesse preso a piovere?

“Ranma… che bel nome!” sospirò Nodoka. “Proprio così lo avrei voluto chiamare mio figlio, se…”

Tacque improvvisamente.

“Sono proprio maleducata” riprese quasi subito. “Prego, entrate.”

Un lampo attraversò lo sguardo di Genma, mentre i due Kuonji si erano già accomodati. Intercettò il ragazzo vestito alla cinese, che stava solcando l’uscio, scagliandoglisi contro con un calcio.

Calcio che andò a sfondare parte del tatami, dal momento che Ranma si trovava già alle spalle del padre. Non aveva abbassato la guardia nemmeno per un istante, quindici anni di allenamenti erano pur serviti a qualcosa.

“Mmh, questo è l’Utsushimi no Jutsu [tecnica per spostarsi senza cancellare la propria presenza]. Il mio intuito non ha mai sbagliato, vedo che pratichi le arti marziali” disse Genma. “Bravo, mi piaci giovanotto!”

Giovanotto? La cosa lo fece sentire molto strano, lui che era abituato a sentirsi chiamare per lo più inetto e figlio degenere. Inoltre, suo padre che gli faceva un complimento?! E gli stava sorridendo! C’era da aspettarsi qualche trabocchetto, rimase all’erta: magari aveva in serbo per lui lo Jigokuno Yurikago, la Culla infernale¹.

Nessun trucco. Nessun doppiogioco. E le sorprese non erano affatto finite, come Ranma ebbe modo di considerare quella notte. Ripensò alla lauta cena preparata da sua madre, all’allegria che regnava al tavolo, nonostante Nodoka non avesse permesso la presenza del sake offerto dal padre di Ukyo e… in quel frangente, Genma aveva ubbidito alla moglie senza fiatare! Paura della katana…?

Ad un certo punto del pasto, il Saotome adulto aveva chiesto al Saotome adolescente dove avesse appreso quelle tecniche. Ranma si era ritrovato così a raccontare dei suoi duri addestramenti… col padre, aveva detto in modo generico…

“Che disgraziato, quel padre!” era sbottato improvvisamente Genma. “Tenerti lontano da casa tutto questo tempo, obbligandoti a fare cose che magari non volevi: se l’avessi io, la fortuna di avere un figlio cui trasmettere le mie conoscenze…”

Il ragazzo col codino aveva inghiottito a fatica il suo oden. Quelle parole… erano uscite veramente da quella bocca?! E sembravano sincere!… Si trattava veramente di Genma Saotome, l’idiota del suo vecchio?! Era ormai evidente, sua madre era riuscita a compiere su quell’uomo un vero miracolo, in quegli anni…

Si rigirò ancora una volta sul futon. Non poteva chiudere occhio. C’era riuscito nel ryokan, in quel caso la stanchezza del viaggio aveva prevalso su tutte le proprie emozioni. Ma rivedere suo padre così diverso – e, soprattutto, sua madre – lo aveva sconvolto non poco. Aveva recuperato una parvenza di rapporto normale con lei – tale, cioè, da poterla guardare in viso senza temere di dover fare harakiri – da così poco tempo! Ed ora, ecco che lo considerava un perfetto sconosciuto. Pensare che lo aveva cercato disperatamente, quell’ultimo anno e passa – dopo che padre e figlio avevano sperimentato le Sorgenti Maledette e Genma aveva improvvisamente smesso di scriverle.

E lui, lui le era sfuggito in tutti i modi possibili ed immaginabili. D’altronde, ci teneva a rimanere in vita… Poi era successo, Nodoka aveva scoperto il suo segreto… e lui respirava ancora. Maledizione, quanti mesi sprecati! Ad evitarla, evitare sua madre – come se non le volesse affatto bene. Rimpianse quei tempi: ora che sapeva, sarebbe voluto tornare indietro per potersi comportare diversamente… Quel suo sguardo cortese, gentile, ma freddo – diamine, come lo faceva star male. Cosa avrebbe dato per sentirla gridare ancora una volta il suo nome, per poter dare per scontato che lei lo stesse ancora cercando, per – per...

Si diede uno schiaffo. Come poteva essere così egoista, addirittura nei confronti di sua madre?! Chissà quante pene aveva patito! Ma adesso, adesso Nodoka Saotome non era più stata costretta a soffrire per quasi quindici anni, lontana dal suo unico figlio. Ranma cercò di convincersi, doveva essere lieto di ciò.

*Mamma… certamente sei stata più felice, in questa realtà… una realtà senza di me!*

Di colpo gli presero a luccicare gli occhi. Che stava succedendo? Lui… lui non doveva piangere. Un uomo non piangeva. Ed era tutta la vita, che lui si allenava per diventare un vero uomo e… ma tutto questo non aveva senso. Non più! A nessuno sarebbe più importato di quello che fosse diventato, non aveva più alcun obbligo da seguire. Libero! Doveva farsene una ragione. E ricominciare da capo… con la sua maledizione, certo, ma senza imposizioni.

Non aveva più fidanzate ufficiali o ufficiose, nemici che volevano fargli la pelle, una scuola di arti marziali da portare avanti, una palestra da prendere in dote.

Era libero.

Libero di scegliere il suo destino.

Lo era mai stato?

Ricordò gli anni trascorsi col padre, lontano da casa, tra cime innevate e inospitali, villaggi sperduti nei confini della civiltà. Ripensò ai lunghi mesi di sacrifici, stenti e digiuni. E di durissimo addestramento. Ricordò le parole del nuovo Genma (“…obbligandoti a fare cose che, magari, non volevi…”). Mai una pausa, mai una sosta. E tutto questo… per cosa? Per qualcosa che voleva lui, forse? Non era così. Non l’aveva scelta Ranma, quella vita. Le arti marziali non erano nate in lui come una passione. Erano penetrate in lui con forza, costituivano l’unica realtà praticabile. Non aveva alternative. Così, fin da piccolo, si era convinto di essere nato per combattere. Non aveva che una maniera, per dare un senso a ciò: diventare il migliore, il più forte. Era quello che desiderava, gli ripeteva continuamente, suo padre. Era, evidentemente, ciò che desiderava pure Nodoka: altrimenti perché avrebbe lasciato partire il marito col figlio?

Da sempre, erano gli altri a decidere per lui. Anche negli ultimi tempi, non aveva certamente scelto di propria volontà di fidanzarsi con quattro ragazze temporaneamente. Poteva essere per le stolte promesse paterne, per le ridicole leggi di un villaggio sperduto nel più remoto angolo della Cina, per la follia pura di una che si autonominava come propria fidanzata. Certamente, non era stato lui a fidanzarsi con nessuna di loro.

Basta! D’ora in avanti avrebbe agito di testa sua. Avrebbe operato le proprie scelte, preso le proprie responsabilità, compiuto i propri errori, pagato le conseguenze di questi – e forse sarebbe finalmente maturato, sarebbe diventato un vero uomo – ma nel vero senso della parola.

Tutto questo significava abbandonare coloro che conosceva.

Dopotutto, le loro vite erano migliorate, senza la sua esistenza.

Ukyo Kuonji aveva condotto una vita normale, col padre. Non aveva dovuto rinunciare alla propria femminilità e nello stesso tempo non aveva trascurato ciò che più contava al mondo per lei: le okonomiyaki. Genma Saotome era quasi divenuto un brav’uomo, non si poteva chiedere di più. Nodoka aveva vissuto tranquillamente col marito, senza angustiarsi per un figlio che non le avrebbe procurato che sofferenze. Ryoga Hibiki, beh, lui era il solito piagnone, era rimasto uguale: che avesse o meno incontrato tale Ranma Saotome, avrebbe sempre continuato a commiserarsi e ad essere l’Eterno Disperso. Comunque non si trasformava in un maialino: questa, a detta dello stesso, costituiva la peggior disgrazia che gli fosse capitata, la causa principale della propria infelicità. Bene, Ranma era sicuro che il suo amico-nemico, adesso, non sarebbe mai riuscito a scagliare quei potenti Shishi Hokodan d’un tempo.

E gli altri? Shampoo e Mousse erano sicuramente rimasti in Cina, a Joketsuzoku. L’atmosfera in casa Tendo era, di certo, molto meno movimentata. E Akane… Akane doveva avere ancora i capelli lunghi, Saotome l’avrebbe probabilmente vista lottare ogni giorno con decine di ragazzi per entrare al Furinkan, odiare con tutta l’anima i maschi e nello stesso tempo spasimare per il dottor…

Cambiò pensiero. Non poteva trattenersi in quella casa un minuto di più. Doveva rompere i legami col passato. Non ci voleva molto ad andarsene: non c’era nemmeno uno zaino da preparare, questa volta. Uscì dalla finestra, senza fare rumore.

Avanzò qualche metro, quindi si voltò. A vedere un’ultima volta casa sua. E invece vide il volto di sua madre. L’aveva seguito e lui non se ne era nemmeno accorto. Ora sì che la teneva abbassata, la guardia. Troppo emotivo, forse Shingo aveva ragione pure su questo.

“Ranma” disse lei.

“Ecco…io…”

“Non dire niente” continuò Nodoka. “Capisco che qualcosa turba il tuo animo… Non ho intenzione di chiederti perché ci lasci in questo modo, né dove sei diretto: sappi solo che non è mai bene cercare la solitudine, per risolvere i problemi che ci angustiano… Non fuggire coloro cui vuoi bene, che ti vogliono bene: non si tireranno mai indietro, saranno sempre disposti ad affrontare i tuoi ostacoli insieme a te.”

Ranma si sentì provato, dal vorticoso circolare di emozioni che non lo mollava un istante.

“Ma io… non posso” sentì l’improvviso bisogno di confidarsi. “Anche se non voglio, finisco sempre per fare loro del male, sono sempre la causa dei loro guai, delle loro sofferenze… questo vale anche per i miei genitori, li ho delusi profondamente” mormorò, pensando alla propria maledizione.

“Ascoltami” Nodoka lo fissò a fondo. “Il tuo cuore è limpido, ti si legge in viso che sei un bravo ragazzo: sono sicura che sarei felice, orgogliosa – non delusa – se potessi avere un figlio come te.”

La commozione stava prendendo il sopravvento sul ragazzo col codino.

“Grazie” disse con un alito di voce, guardandosi le scarpe, lo sguardo coperto dalla folta chioma. “Grazie di tutto. E addio.”

Corse via, ancora deciso a farsi una nuova vita, ma ignaro che i suoi passi lo stavano dirigendo verso un piccolo sobborgo di Tokyo, chiamato Nerima.

“Arrivederci…” accennò la madre con un muto movimento delle labbra.

¹ Genma adopera questa tecnica nel manga, quando si rende conto che il figlio è ormai diventato più forte di lui. Consiste nello stringere Ranma in un forte abbraccio e coccolarlo, dondolandosi come fa un... panda con il suo pneumatico! Mossa molto pratica, dal momento che Ranma non sopporta assolutamente questo atteggiamento da parte di suo padre.