Capitolo 14 - Incontro alla luce

Si sentiva fuori posto, in più di un senso. Completamente inosservata agli altri, ancora radunati in cerchio attorno ad Akane, era uscita dalla sala grande con l’intenzione di dirigersi verso la propria camera al piano di sopra. Poco prima di raggiungere le scale, il suo sesto senso le aveva però comunicato qualcosa e aveva quindi deviato dal percorso, determinando che fosse opportuno rinfrescarsi un momento.

Ma di momenti ne erano passati parecchi da quando si era sciacquata e non poteva certo continuare a strofinare l’asciugamano al viso, la pelle stava protestando a furia di essere sfregata. Lo posò e disse a voce alta: “Ora, penso, potrebbe anche uscire allo scoperto...”

In quel momento stesso Ko Lun udì un forte rumore, come di un vetro in frantumi.

Ansimò, accorgendosi di aver trattenuto il respiro fino a quel momento. Si guardò di nuovo attorno: molte presenze stavano avvicinandosi a lei e alla zia Nodoka, ma all’appello mancava l’unica che contava.

“Ranma?” Domandò la signora, come se stesse davvero aspettando una risposta. Si portò una mano alla bocca, aveva un’aria sorpresa e forse anche delusa. Akane non poté dirsi di condividere del tutto quella sensazione.

Udì diverse voci, non riusciva a tradurle in frasi di senso compiuto né la cosa le importava. Stava realizzando tutta la portata di ciò a cui stava andando incontro e, nonostante il rumore da cui era circondata, si sentiva incredibilmente sola.

Dunque lui voleva evitarla? Non aveva nemmeno il coraggio di affrontarla, di parlare con lei? Non poteva davvero essere stupido fino a un tale punto, nemmeno Ranma. Avrebbe voluto picchiarlo, insultarlo e gridare la propria rabbia fino a farsi sentire in ogni angolo della nazione.

E al tempo stesso non trovava più nemmeno la forza di muoversi, di voltarsi e tranquillizzare chi le stava accanto, figurarsi di pronunciare parola. Perfino Ukyo, nella sua testa, era ammutolita da diversi secondi, probabilmente colta alla sprovvista dalla fuga del loro comune fidanzato. O forse era lei che non riusciva a sentire nemmeno le sue parole.

Inumidendosi le labbra inaspettatamente asciutte, strinse le braccia al corpo con fare meccanico. Fuori faceva freddo, ma di questo prese coscienza soltanto diversi secondi più tardi.

Balzò di tetto in tetto, tenendo con una sola mano il proprio carico, in un equilibrio che sarebbe apparso precario solo per l’occhio più disattento. Uno scherzo invece per lui, e questo nonostante la carenza di allenamenti, la mancanza di sonno e l’ansia che lo stava dominando; ma ora non era affatto dell’umore di vantarsene.

Chissà come reagirà.

Cercò di non immaginare la delusione sul volto di sua madre, e ovviamente ciò sortì l’effetto opposto. Non importava, si sarebbe giustificato, si sarebbe scusato, in qualche modo avrebbe perfino pagato i danni provocati. Sarebbe voluto uscire dal Nekohanten in un modo più ortodosso, ma quel che era fatto era fatto. E tutto questo, ora, passava in secondo piano.

Pregò di non stare per commettere una grossa stupidaggine, per quanto se lo fosse ripromesso: se ci fosse stato anche solo il minimo cenno di speranza, lui avrebbe provato qualunque cosa. Proprio sua madre era stata l’ispirazione per ciò che gli era venuto in mente, glielo avrebbe spiegato e magari lei avrebbe capito. Avrebbero capito.

Poteva salvare Akane, doveva salvarla. Era finito il tempo di piangersi addosso, stava tutto a lui: e se anche, una volta arrivato a destinazione, avesse dovuto affrontare altri cento, mille Safulan, ebbene l’avrebbe fatto senza battere ciglio.

“Il dottor Tofu, presumo.”

Afferrò la stanghetta degli occhiali e mise a fuoco, con un po’ di meraviglia, la figura non più alta di un comodino che aveva letteralmente balzellato nella sua direzione e si stagliava ora di fronte a lui abbarbicata al proprio bastone, con un’aria saccente e che per questo gli appariva quasi comica, associata a tale immagine. Poi ricordò di avere a che fare con una delle Grandi Anziane del leggendario popolo di Joketsuzoku e riacquistò un certo contegno.

“Venerabile Cologne”, cominciò aggiustandosi la voce, “ero venuto per…”

“Non è il momento.” La sua interlocutrice si guardò rapidamente attorno, forse solo per constatare che il rumore che aveva fatto sobbalzare entrambi poco prima non era stato causato da lui. Poi puntò gli occhi in direzione opposta del corridoio. “Lo sgabuzzino. Ma certo.”

“Vengo con lei!” Disse, traducendo in azione le proprie parole quando l’amazzone lo ebbe già distanziato di qualche metro.

La raggiunse che era intenta a contemplare una porta aperta per metà e fuori dai cardini, nonché l’interno della stanza, illuminato dall’interruttore acceso.

“Era chiusa a chiave… domani mi toccherà far sistemare la serratura.” Borbottò.

“Un ladro?” Chiese Tofu, affacciandosi a sua volta. “Mentre tutti noi eravamo in casa?”

“Sicuramente qualcuno che è entrato dalla porta sul retro, dato che eravamo riuniti nel salone. E che se n’è fuggito da… beh, direi che non ci sia neanche da domandarselo.” Concluse additando il vetro rotto e la finestra dalla quale faceva capolino, a tratti, qualche soffio di vento freddo. “Un’uscita ancora meno discreta, senza dubbio.”

Tofu ispezionò l’interno della stanza, scorrendo tra scope e scatole varie senza trovare niente che non facesse pensare a un comunissimo ripostiglio.

“E manca qualcosa?” Domandò infine.

“Sì.” Disse l’amazzone. “E si tratta delle uniche cose che potessero avere… un valore.”

Tofu ripensò alle foto che Nabiki aveva mostrato loro qualche ora prima, quando aveva smascherato il piano architettato dal signor Saotome. Non gli fu difficile tirare le somme.

“Le fiasche con le acque maledette, giusto? E il resto lascerebbe pensare a uno dei ragazzi. Uno come Mousse, Ryoga, o più probabilmente Ranma.”

Cologne lo fissò attentamente prima di rispondere. Poi alzò il capo, con l’aria del giocatore che decide di scoprire le proprie carte.

“Già, quelle fiasche. Tutte e tre, tra l’altro. E immagino che anche l’altra supposizione sia esatta.” Sospirò. “Pare che il consorte abbia in mente qualcosa, ma onestamente non saprei dire cosa di preciso possa avere intenzione di fare con quelle acque.” Socchiuse le palpebre. “L’unico fatto certo è che con Zhou Chuan Xiang non si scherza.”

“In verità”, Tofu aggiustò le lenti all’altezza del naso, “credo di avere un’idea a riguardo.”

L’interlocutrice tornò a fissarlo negli occhi, lasciando trapelare un poco di curiosità.

“Sentiamo.”

Si bloccò per qualche secondo. Si era recato da Cologne proprio per esporre questa intuizione ma non era sicuro della sua plausibilità, tanto che aveva finito per seguirla in silenzio ed era stato sul punto di lasciar perdere, quando lei era entrata in bagno. Si costrinse a ripetersi che doveva osare, doveva tornare ad avere fiducia nelle proprie capacità, e a ogni modo qualunque cosa era meglio della tortura a cui si era sottoposto fino a qualche minuto prima.

“Prima lei ci diceva che l’Akanenichuan ha fatto… se ricordo bene le sue esatte parole, ‘da tramite’. In pratica la sorgente non ha inglobato a sé una volta per tutte la tamashii di Akane, non opera in quel modo ma funge più semplicemente da conduttore. Quando Ukyo si è bagnata con quell’acqua, pur trovandosi a centinaia di chilometri di distanza dalla Cina e dal monte Kensei, l’anima senziente di Akane è stata trasferita nel suo corpo. E la sorgente è diventata una fonte normale, prova ne è quel coniglio che vi è stato immerso senza alcuna conseguenza.”

“Precisamente.”

“Allora pensavo…” Espose rapidamente la sua idea. Cologne lo ascoltò con attenzione, annuì quando ce n’era bisogno, non lo interruppe finché ebbe finito.

“È una teoria interessante.” Gli disse infine. “Sebbene non sappia se possa davvero essere messa in pratica, si potrebbe fare almeno un tentativo… ma…”

Alzò lo sguardo verso la stanza, intuendo il seguito della frase. “Pare che Ranma abbia avuto quest’idea prima di noi”, constatò a sua volta, “o almeno ci conviene sperare che sia andata così.”

L’amazzone non replicò nulla e Tofu la scrutò con interesse. Qualcosa non lo convinceva del tutto, forse la rapidità con cui Cologne aveva accettato quanto le aveva detto. Si domandò se per caso non fosse già arrivata per conto suo alla medesima conclusione, se l’avesse tenuta nascosta loro per un tornaconto personale.

La morte di una tra Akane e Ukyo poteva tornare utile a Shampoo, effettivamente, ma davvero non riusciva a darsi una risposta così crudele.

Da medico, non poteva concepire nulla di più importante di una vita umana e supponeva che la stessa Cologne non dovesse pensarla poi così diversamente. Del resto mai in tutto quel tempo era ricorsa a rimedi drastici per acquistare Ranma alla causa di Joketsuzoku, e di mezzi ne avrebbe avuti tanti.

Le urla della sua interlocutrice lo riscossero. Non comprendeva ciò che l’amazzone andava esclamando in lingua cinese, ma suonavano indubbiamente come delle imprecazioni.

“Venerabile Cologne, cos’è successo?”

Cologne rispose senza guardarlo. “Quello scellerato di un consorte non ha considerato il problema più ovvio. Che cosa ha mai combinato?!”

Non distingueva più le carezze sulle proprie spalle in segno di conforto, né sapeva di chi fossero le mani che avevano stretto le sue. Avvertiva solo la voce di Ukyo dentro di sé, che aveva ripreso a farsi sentire con nuovo vigore: ora la sentiva nitidamente, ma non era intenzionata a darle retta.

Scuotiti, le diceva. Vuoi forse che finisca tutto così? Intendi startene ancora a lungo a braccia conserte, trascorrere in questo modo i tuoi ultimi momenti, lasciare questo mondo senza nemmeno parlare un’ultima volta con lui, dirgli quel che provi? Ecco, guarda cosa mi stai facendo fare, proprio a me che se fossi al posto tuo non esiterei un istante a raggiungere Ran-chan con ogni mezzo, ma ti sembra giusto?! Scuotiti, insomma, o giuro su ogni okonomiyaki cucinata nella mia carriera che mi riprendo il mio corpo seduta stante!

Non puoi capire, le rispose mentalmente. Se lui non vuole vedermi, non posso costringerlo. E io non sono come te, non so esprimere i miei sentimenti come fai tu, non ne sono capace. Non ho la tua faccia tosta… il tuo coraggio, la tua forza d’animo.

Finiscila con queste baggianate, le replicò Ukyo con una irruenza tale da farle pensare di averla udita gridare sul serio e non solo nella sua testa. Non posso sentire questi discorsi dopo che hai preso una simile decisione, dopo che mi hai impedito il nobile gesto, il sacrificio espiatorio al posto tuo, che hai scelto di affrontare uno ad uno i tuoi cari, guardarli dritto in faccia e dire loro addio. Pensi che, di noi due, sia io quella ad aver avuto fegato?! E arrivata fin qui mi parli di rinunciare… di non rivedere più quello stupido che amiamo, quello stupido che ti ama?

“Ukyo…” Disse inavvertitamente a voce alta, colpita di cuore da quello sfogo, dalla verità di quanto detto. Anche se Ranma era fuggito, lei l’avrebbe ritrovato. Solo che non poteva…

Si interruppe, tornando alla realtà. Qualcuno le aveva appena messo in mano qualcosa di caldo. Spostando su di esso la propria attenzione, poté riconoscere la forma di un thermos.

“Non è da bere.” Disse Nabiki, sbucando di fronte a lei e facendole un occhiolino. “Con questo potrai ritrasformarti in Ukyo quando desideri, senza bisogno di tornare qui.”

“Sorellina…”

“Risparmiati il ‘sorellina’, con me non attacca: sappi che addebiterò questo servizio al tuo caro fidanzato. E ora vai, hai ancora tutto il tempo di trovarlo.”

Akane accennò a muoversi, poi si bloccò. Guardò ancora la sorella. E poco più distanti Kasumi, papà, la zia Nodoka, che annuivano piano.

“Cosa aspetti, un altro saluto melodrammatico? Sbrigati!” Nabiki accennò un gesto della mano per enfatizzare la propria esortazione, ma fu anticipata dal suo slancio. Non ne uscì fuori il migliore degli abbracci, ma per Akane andava benissimo lo stesso.

“Grazie. Ti voglio bene anch’io.” Mormorò, prima di interrompere il contatto e allontanarsi senza osservare la reazione di Nabiki, senza più guardare nessuno. Se si fosse voltata indietro, forse avrebbe perso il coraggio e non poteva, non voleva permettersi questo.

E corse, corse. No Ukyo, pensò, non voglio che tutto finisca così.

Ma era talmente assurdo, non sapeva nemmeno dove si stesse dirigendo. Ranma poteva trovarsi ovunque. No, non era questo l’atteggiamento giusto, non importava, doveva provare. Il cuore le gridava di farlo.

Anche se solo un’ultima volta, voleva vederlo ancora.

Forzò la finestra e scoprì che non ce ne sarebbe stato bisogno, nessuno aveva provveduto a chiuderla ermeticamente dopo la ‘fuga’ della notte prima.

Un altro conto da pagare…

Stupendosi della propria autoironia, pensò che andava bene così, il più era fatto e ora doveva imporsi di essere ottimista. Entrò e soltanto allora realizzò la fatica e la stanchezza e si permise di riprendere fiato per qualche istante, sedendosi per terra a poca distanza dal letto, dalla vera Akane.

Aveva bisogno di riordinare le idee.

Grazie alle parole di sua madre, il discorso di Obaba gli era tornato chiaro e vivido nella mente. Per qualche minuto, tutto aveva avuto perfettamente senso. Adesso, invece, i dubbi erano tornati a sovrastarlo e a impedirgli ogni lucidità di pensiero. Quante probabilità c’erano che la sua idea potesse funzionare?

Ma non aveva più tempo per pentirsi. Scrutò le tre damigiane. Era così agitato che, entrato nel ripostiglio del ristorante dove le aveva viste l’ultima volta, non era nemmeno riuscito a leggere con attenzione le scritte sulle etichette e, per timore di scambiarle, aveva deciso di portarle tutte con sé.

Si complimentò con se stesso per quella decisione così assennata, pur presa in un momento così confuso: non voleva nemmeno immaginare il disastro che avrebbe potuto combinare adoperando l’acqua sbagliata. Accese la luce. Fissò attentamente le damigiane e per un momento credette di essere ancora troppo nervoso, o che la vista gli stesse giocando un brutto scherzo. Poi la verità lo assalì come una scossa elettrica.

Le scritte erano in caratteri cinesi.

Per qualche secondo fu letteralmente dominato dal panico. Cosa diamine aveva fatto?! E ora come poteva riconoscere quella giusta? Calma, doveva mantenere la calma. Scrutò ogni centimetro della circonferenza di ogni fiasca, forse da qualche parte erano annotate le traduzioni… ma no, niente!

Quell’idiota di una guida! Non poteva scrivere nella nostra lingua?!

Calma, poteva ancora farcela. Sollevò una fiasca per volta: una poteva scartarla con sicurezza, ma le altre due… No, aveva assolutamente bisogno di capire cosa fosse scarabocchiato sulle etichette. Forse con un dizionario… ma dove trovarlo, ora?

Stupida guida! Stupido papà che non gli aveva mai fatto imparare il cinese, nonostante tutti i loro viaggi di addestramento!... Stupido lui, che non avrebbe dovuto fare di testa sua ma chiedere a Obaba…

“Maledizione!” Gridò contro un appendiabiti. Non poteva finire così, non poteva fallire. Lui era Ranma Saotome, non perdeva mai…

…quante stupidaggini. Glielo aveva detto anche sua madre, non doveva lasciare che fosse l’orgoglio a parlare per lui. Non c’era davvero nulla da vincere o perdere.

Appoggiandosi alla spalliera del letto cominciò a parlarle, la pregò di capirlo, di perdonarlo. Ma proprio guardandola ancora una volta, distesa su quel letto, lo comprese: lei non era la vera Akane, era solo un corpo senz’anima che non gli avrebbe mai potuto rispondere.

Solo un altro dei sogni che aveva rincorso inutilmente.

Contro ogni logica gridò il suo nome, come se la forza della sua voce potesse svegliarla e compiere il miracolo. In una fiaba a lieto fine, forse, sarebbe stato così, eppure nella realtà lei si ostinò a non proferire verbo e lui si sentì morire dentro.

In un ultimo impeto scagliò un forte pugno contro la parete, urlando la propria disperazione, consapevole di aver perso anche la sua ultima possibilità. Poi tutto divenne buio.

Una strana sensazione le attraversò il petto, simile a una fitta. Piegò il torace e appoggiò le mani sulle ginocchia, raccogliendo il fiato.

Si guardò intorno. Le era parso che qualcuno l’avesse chiamata, ma il luogo era deserto. Riconobbe lo spiazzo del parco giochi vicino casa, un breve intervallo tra le abitazioni della zona che permetteva di scorgere la linea dell’orizzonte. Quanto aveva corso? E quanto mancava ancora all’alba? Non ne aveva la minima idea e più ci pensava, più si convinceva che tutta questa cosa non aveva alcun senso. Lei stava per morire, e ne aveva una paura matta: aveva cercato di non affrontare davvero quella verità, ma il suo scudo mentale si era ormai infranto del tutto.

Stava per morire, ma non voleva. Si chiedeva perché dovesse toccarle questo destino, a lei che non aveva nemmeno finito di frequentare la scuola superiore. Si chiedeva perché proprio lei, quale karma dovesse scontare, cos’avesse mai fatto di male per essere punita così gravemente. Voleva vivere, diplomarsi, magari iscriversi all’università, guidare la palestra di arti marziali, farsi una famiglia e ora non avrebbe avuto niente di tutto questo.

Scoprì che la sua vista era annebbiata dalle lacrime. Non ricordava nemmeno di aver cominciato a piangere. Ukyo provò ancora a confortarla, ma lei stavolta ricacciò con rabbia quel gesto, non voleva più sentire la solidarietà di nessuno.

“Voglio vivere!” Gridò disperata.

E poi gridò ancora, e decise che avrebbe continuato fino a consumarsi le corde vocali. Cos’altro le restava da fare?

E all’improvviso, fissando l’immagine deformata della mano che stringeva il thermos, come una folgorazione, la risposta le si manifestò limpida e seducente nella sua semplicità.

Assolutamente nulla.

Le sarebbe bastato aspettare. Non doveva fare nulla. Aspettare e nient’altro. E sarebbe sopravvissuta. E sarebbe…

…cosa stava andando a pensare? Stava forse perdendo il lume della ragione?! Se lei non si fosse bagnata con quell’acqua calda prima del sorgere del sole, sarebbe stata Ukyo a fare la sua fine. Voleva vivere, ma non a quel prezzo, non poteva prendere in considerazione una simile…

Ma voleva vivere. Voleva vedere Ranma, ma non avrebbe potuto farlo se ora fosse morta. Anche Ukyo gliel’aveva detto, no? Anche Ukyo voleva che lei vedesse Ranma. Perciò non faceva una grinza, non faceva…

Il cielo. Era più chiaro rispetto a pochi minuti prima. Asciugandosi il viso, scorse i primi raggi del sole che premevano per uscire fuori. Adesso o mai più. Il braccio le tremò.

“Mi hai sopravvalutato, Ucchan”, disse piano, notando appena di averla chiamata con il diminutivo, “non ho affatto fegato, sto morendo di paura… perdonami, non trovo la forza di farlo.”

Non poteva farcela, non poteva versarsi quell’acqua. Era debole.

Allontanò lievemente da sé il thermos, fissandolo come la cosa più orribile sulla faccia della terra.

Kami, perdonami, perdonatemi. Ranma…

Soun dovette fermarsi. Non voleva, ma fu costretto. Le gambe gli avevano ceduto e non riusciva a contrastare l’ansimare del proprio fiatone, il corpo non gli rispondeva più come una volta. E poi, ormai, l’aveva vista.

La ragazza con la divisa del Furinkan era inginocchiata per terra e rivolta di spalle col capo basso, per cui, nonostante il sole fosse appena sorto e il cielo si stesse rapidamente rischiarando, non era in grado di identificarla.

Si avvicinò e udì un singhiozzare sommesso. Scoprì che la propria mano si era già posata con fare rassicurante sulla spalla della ragazza prima ancora che la sua mente avesse formulato un piano d’azione.

Lei sussultò. “Non volevo finisse così… non è giusto”, sussurrò, con una voce così roca che non riuscì a riconoscerne il timbro, “non è per niente giusto.” E con queste parole voltò il capo nella sua direzione. Soun non voleva, ma i loro sguardi si incontrarono.

Vide il volto.

I capelli.

Lunghi.

Quelli di Ukyo.

La strinse a sé come se fosse un simulacro della figlia, l’ultimo collegamento che l’aveva temporaneamente vincolata a questo mondo e, senza più niente che potesse trattenerle, lasciò che le proprie lacrime si unissero alle sue.