27Dopo questo egli uscì e vide un pubblicano di nome Levi, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi!». 28Ed egli, lasciando tutto, si alzò e lo seguì.
29Poi Levi gli preparò un grande banchetto nella sua casa. C'era una folla numerosa di pubblicani e di altra gente, che erano con loro a tavola. 30I farisei e i loro scribi mormoravano e dicevano ai suoi discepoli: «Come mai mangiate e bevete insieme ai pubblicani e ai peccatori?». 31Gesù rispose loro: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; 32io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori perché si convertano».
Il tema Gesù non fa una "selezione del personale", non ci chiama perché siamo migliori di altri, anzi vari elementi sembrano suggerire il contrario. I peccatori sono chiamati in quanto peccatori. Questo banchetto rappresenta la Chiesa che celebra l'eucarestia. Gli unici che non mangiano sono i giusti... finché non scopriranno d'essere peccatori.
Questo episodio ci mostra che Gesù oltre a perdonare i peccati chiama i peccatori stessi a seguirlo, a far parte della comunità e più tardi della missione. Limitarsi a perdonare i peccatori potrebbe sembrare un semplice atto di magnanimità da parte di chi è superiore a certe bassezze. La chiamata di Matteo ci mostra che il perdono apre a una vita utile e produttiva nella Chiesa.
Il Caravaggio, esempio luminoso di artista maledetto, ci ha lasciato una bella interpretazione pittorica della vocazione di Matteo: Gesù lo indica col dito (citazione della Creazione di Adamo nella Cappella Sistina) e Levi, sorpreso, indica se stesso come a dire: "proprio io?".
Matteo Levi rappresenta il prototipo d'ogni vocazione: anche gli altri discepoli dovranno capire di essere stati chiamati e amati proprio in quanto peccatori e non perché migliori. Tutti lo abbandoneranno, infatti, come ci ricorda Marco 14,50: Allora tutti lo abbandonarono e fuggirono (sembra sia l'unico caso, nella Chiesa, di decisione presa all'unanimità!). E` ciò che comprenderà anche S. Paolo: "Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io" (1Timoteo 1,15). La chiamata di Matteo nel vangelo di Luca è la sesta opera di Gesù, come la creazione dell'uomo il sesto giorno nella Genesi, e Matteo, nella narrazione di Luca, è l'ultimo dei chiamati come S. Paolo che dice di se stesso: "Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto" (1 Corinzi 15, 8).
Se anche l'ultimo, il "peggiore", è chiamato allora siamo tutti chiamati, nessuno escluso, e la chiamata avviene in base a un amore gratuito da parte di Gesù e non in base ai nostri meriti. A questo punto, chi si sa amato può allora anche amare, spontaneamente. Non bisogna infatti fare il bene credendo di compiacere Dio perché significa, in fin dei conti, considerare Dio un dio cattivo. Certo poi non bisogna prendere in giro la misericordia, profittando come certi bambini della pazienza di Dio. La legge conserva la funzione che hanno i guard rail nelle strade: indica quando certamente siamo completamente fuori strada. Chi ama, perché amato, poi impara tutta una serie di finezze e delicatezze come quelle della madre col bambino o della sposa con lo sposo. E' in questo senso che vanno intese tutte le prescrizioni e i consigli evangelici che troviamo nella Chiesa.
La scena inizia con Gesù che vede, cerca con lo sguardo, Matteo, come farà al cap. 19 con il suo collega Zaccheo. Lo sguardo riflette il sentimento del cuore: nella creazione si ripete continuamente che "Dio vide che era cosa buona". Dio è buono e dunque vede tutto buono, anche nell'uomo (Salmo 139,1.14), in ogni uomo, anche in Matteo, anche in me. Se invece siamo in malafede vediamo tutto di malocchio, e propaghiamo il male.
Pietro è stato chiamato ("sarai pescatore di uomini") proprio nel momento in cui ha scoperto di essere indegno ("allontànati... sono un peccatore"). E anche qui assistiamo alla chiamata d'un peccatore proprio mentre esercita la sua attività. L'esattore era forse la figura più odiata: prendeva i soldi della gente per consegnarli alla potenza occupante straniera, i Romani, una nazione pagana. Inoltre comunemente si faceva la cresta alle cifre pretese per cui gli esattori erano anche ladri: ce lo spiegherà Zaccheo più avanti. Probabilmente Andrea, Giacomo e Giovanni pagavano proprio a Matteo le proprie tasse: questo episodio è una prima lezione anche per loro. Dal cognome, Levi, rileviamo che Matteo apparteneva alla tribù dei leviti, i servitori del Tempio, dunque doveva essere decaduto per qualche motivo. Raccogliere soldi è tutto il senso della sua vita: non ha prestigio, è escluso dal popolo d'Israele, dalla religione, dalla decenza: il suo unico dio sono i soldi che accumula.
A quest'uomo Gesù fa la proposta: seguimi, diventa come me. Nessun discorso morale sulla sua condotta: chiediamoci se noi avremmo fatto altrettanto. Questa proposta è il vero contenuto del cristianesimo il quale non è una dottrina, non è una morale né una ideologia; non è una religione né una tecnica di vita o di meditazione. Il cristianesimo è una persona, Gesù, che propone di seguirlo per capire chi sia veramente. Un cammino verso casa, da cui lui è uscito per cercarci, verso l'identità di figli di Dio. Nella Bibbia, diversamente dalla stragrande maggioranza delle religioni, non si seguono dottrine o scuole di saggi: si segue uno solo: Dio. Matteo dunque smise di seguire le cose che aveva prima sempre davanti agli occhi e seguì Gesù. Tutta la scena concorre a mostrare che la decisione non dipende da una scelta stoica di perfezione ma dall'entusiasmo per aver trovato la perla preziosa (Matteo 13,44): è scritto che Matteo si alzò ed è usato lo stesso verbo della risurrezione.
Mentre il paralitico della scena precedente viene rimandato nella sua casa qui assistiamo a un banchetto nella casa di Matteo che accoglie Gesù. In questa casa, simbolo della Chiesa, si trova una folla di pubblicani e peccatori più alcuni giusti che brontolano: al banchetto Levi invita tutti i suoi amici che, va sottolineato, potevano essere solo di due tipi: altri esattori o gente dedita alla prostituzione, sia attiva che passiva. E, stando a Marco (2,15), anch'essi seguivano Gesù. Questo banchetto rappresenta la Chiesa che celebra l'eucarestia dove tutti diciamo: "per celebrare degnamente i santi misteri riconosciamo i nostri peccati". Proprio in quanto peccatore - colpevole senza diritti - ciascuno di noi riceve l'amore gratuito del Signore. Capita che alcuni preti modifichino la frase da "degnamente" a "meno indegnamente" ma si tratta di una interpretazione arbitraria ed erronea. Il testo corretto non intende dire che ci si debba scusare prima di poter accedere all'eucarestia ma esattamente il contrario: l'amore è gratuito e non è merito nostro, altrimenti è... meretricio cioè amore meritato, pagato. Analogamente prima di accostarsi alla Comunione si dice "non sono degno" con lo stesso significato: si va proprio perché non si è degni. Chi si considera degno è convinto di andare a ricevere il salario della propria bravura, non il dono di Dio.
Questa moltitudine segue Gesù e, contemporaneamente, è ancora nel suo mestiere: sono in cammino e occorrerà tempo, una vita, perché progrediscano. Perfino Paolo, quando era già apostolo (Romani 7,19-24) confessava: "io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio... Me infelice!". L'uomo che si esamina onestamente non può non sentire la distanza fra la sua realtà e il bene cui è chiamato in quanto immagine di Dio. Ed è in questo che comprendiamo veramente chi è Dio, sguardo di amore infinito. La non conoscenza di questo sguardo ci rende infelici e peccatori.
I farisei e gli scribi assistono ma non partecipano, né mangiano né bevono a questo banchetto: si escludono da soli. Avverrà così in vari episodi successivi e anche nella parabola detta del "figliol prodigo". Essi rappresentano l'ira del giusto, come il profeta Giona che nel suo libro (leggiamolo! ha in tutto 48 versetti) rimprovera Dio di lasciarsi impietosire. Che Dio è un Dio che perdona? Per il giusto "è meglio morire che vivere": se il giusto ha servito un Dio che perdona allora vuol dire che ha sbagliato tutto. I giusti non sono i destinatari della chiamata, almeno fino a quando continueranno a sentirsi giusti e quindi in diritto di ricevere il salario della loro giustizia. Quando comprenderanno si metteranno in fila, dopo gli altri: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio (Matteo 21,31). Così anche l'"irreprensibile" Paolo (Filippesi 3,3-11).
I farisei e gli scribi non si lamentano direttamente con Gesù ma con i discepoli: questo per noi significa che sempre la Chiesa, nella storia, in ogni tempo, anche nel presente, si trova a gestire questo problema: che fare dei peccatori? La risposta non viene dai discepoli, dalla Chiesa, ma da Gesù stesso: Dio viene per curare la malattia mortale dell'uomo, il non sapersi amato. Gesù guarisce il peccatore vivendo e mangiando con lui, come lo sposo con gli invitati, come è descritto nella discussione sul digiuno che viene subito dopo (Luca 5,34).