1Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». 2Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite:
Padre,
sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno;
3dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano,
4e perdona a noi i nostri peccati,
anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore,
e non abbandonarci alla tentazione».
Il tema Il senso di tutta la vita cristiana è poter dire «Dio è mio papà» e questa è una autentica rivoluzione nel modo di rivolgersi a Dio. Se sappiamo che Dio è nostro papà, allora sappiamo chi siamo, viviamo da fratelli e morte e persecuzione non ci possono abbattere.
La versione del Padre nostro di Luca è più breve rispetto a Matteo 6,9-13 ma senza omissioni importanti a parte la frase «sia fatta la tua volontà» che però viene detta da Gesù nell'orto degli ulivi. La struttura è tutta modulata sulla relazione fra tu e noi che sono legati l'uno all'altro. Il tu con cui ci rivolgiamo a Dio ci identifica come persone e come figli. Il noi ci identifica come figli che hanno altri fratelli. E` escluso che si possa usare il singolare «io»: se non riconosco gli altri come fratelli nemmeno io sono figlio e non posso rivolgermi a Dio con il «tu».
Il tono dell'intera preghiera è dato dalla parola Padre, che traduce l'aramaico «Abbà», un termine più confidenziale, una parola onomatopeica che riproduce il balbettare del bambino piccolo.
Nell'Antico Testamento Dio è chiamato Padre solo 15 volte, nel Nuovo testamento ben 180 volte. Il termine "abbà" corrisponde a un affettuoso «papà» ed è una autentica rivoluzione nel modo di rivolgersi a Dio: in nessun'altra religione una persona può dire: «Il mio papà è Dio» oppure «Dio è mio papà». Il senso di tutta la vita cristiana è poter dire questo. Potremmo dire che non occorre null'altro. Se Dio è nostro papà, allora sappiamo chi siamo, viviamo da fratelli e dunque viene il suo regno. Questa preghiera è la trasfigurazione nostra e di tutto il creato.
Questa preghiera è espressione di affetto e di amore e ripetendola nutre senza fine il nostro affetto verso il Padre. Ci permette di entrare a far parte della relazione di amore tra Padre e Figlio, ci permette di partecipare alla Trinità perché Dio ci ama dello stesso amore che lega tra loro il Padre e il Figlio: («li hai amati come ami me»: Giovanni 17,23).
A chiunque è permesso pregare Dio così. Anche il peccatore può pregare così, perché Gesù è diventato lui stesso maledizione per noi (Galati 3,13): nessuno, qualsiasi male abbia fatto, è escluso: dove abbonda il peccato sovrabbonda la grazia (cfr. Romani 5,20).
Un mondo senza padri e madri è un mondo di schiavi, di gente senza passato e senza futuro, buona solo per produrre, finché ha le forze, prima di essere eliminata come rifiuto differenziato. Dio ce ne scampi!
Purtroppo il giusto non si rivolge a Dio come a un "Padre" e si considera servo, come avviene nella parabola cosiddetta del Figlio prodigo (Luca 15,11-32). Il giusto ritiene d'essere amato per i propri meriti mentre il peccatore è nella condizione ideale per capire cosa sia l'amore ossia la sua gratuità.
Luca presenta spesso Gesù in comunione col Padre (Luca 6,12; 9,18.28-29; 11,1; 22,32.41.44) e anche qui i discepoli attendono, senza disturbare, che lui abbia finito.
Noi intendiamo spesso la preghiera come una delle cose da fare. Invece pregare è come respirare, è l'essenza della vita dell'uomo che, a differenza degli animali, è immagine di Dio. Possiamo fare, come Marta, tante buonissime opere e non essere in comunione con Dio: in questo caso siamo morti. Noi siamo della specie di Dio e dunque siamo vivi se ci specchiamo in Dio, se siamo in relazione con lui. La preghiera non è qualcosa che si sovrappone o è in concorrenza con altre cose: la preghiera dà la qualità della nostra vita, è la salvezza della nostra esistenza. Se si sta davanti a Dio si è se stessi e si è fratelli degli altri. Se non si sta davanti a Dio si è nel vuoto. Il nichilismo teorico o pratico che vediamo nella società è l'ultimo stadio dell'ateismo: se Dio non c'è allora nulla esiste, nulla può esistere e anche l'uomo non vale nulla. Allora, per reazione di autoconservazione, l'uomo cerca di riempire questo vuoto totale con brame e con idoli: avere, potere, apparire... Se, come Adamo, ci nascondiamo da Dio (Genesi 3,10) allora siamo davanti alla paura e alla morte.
Ovviamente la preghiera non consiste nello stancare Dio ripetendo formule quasi sperando che, sfinendolo, ci esaudisca (un po' come si fa in certe relazioni marito-moglie o genitore-figlio) oppure dando una sorta di valore magico alla preghiera. Le formule e la liturgia comunque non sono affatto inutili: sono un aiuto soprattutto per la preghiera comunitaria. Oppure, se vissute come uno "stare davanti a Dio" si trasformano in "preghiera continua" come nel caso della "preghiera del cuore" del pellegrino russo.
La preghiera, come l'amore, va coltivata come faceva costantemente Gesù. Come noi mangiamo in alcuni momenti della giornata e poi, durante tutto il tempo, viviamo di quel che mangiamo, così esistono momenti precisi in cui la preghiera alimenta il nostro rapporto con Dio che poi si distende nell'arco della giornata e della vita. In questo senso, in Luca 18,1, Gesù può dirci di «pregare sempre, senza stancarsi mai». La preghiera cui ci dedichiamo trasfigura la realtà nel senso che ci porta a vedere persone e cose in una luce diversa e ci fa comprendere, ad esempio, che le persone che incrociamo ogni giorno sono tutti figli di Dio.
E` importante imparare a pregare perché noi viviamo nel modo in cui preghiamo, come il fariseo e il pubblicano della parabola. E non è solo questione di sforzo o di tecnica: San Paolo ci ricorda che «lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili» (Romani 8,26).
Analizzando le invocazioni del Padre nostro possiamo notare che sono rivolte a noi e non sono un generico augurio che avvengano certe cose. Così, scoprendo che "Padre" è il nome di Dio, il suo nome è da noi santificato se riveliamo ai fratelli la santità ossia la diversità di Dio. Dunque noi cristiani portiamo la responsabilità diretta della santificazione del nome di Dio nel mondo, che realizziamo riconoscendoci come fratelli, figli dello stesso padre. Chiediamoci quanto concorso di colpa abbiamo, individualmente e storicamente, del fatto che il nome di Dio sia maledetto e bestemmiato.
Il regno di Dio esiste dove vi sono fratelli e sarà completo quando Dio sarà tutto in tutti (1Corinzi 15,28). Consapevoli di questa incompiutezza siamo noi stessi chiamati a operare affinché il regno "venga" e si radichi in noi.
Il pane è segno della vita ed è nostro (ossia anche degli altri) e non mio. Luca qualifica volutamente il pane con un aggettivo che può significare «che sta sopra» (o «sovrasostanziale»), «di domani» e anche «quotidiano». La nostra vita è qualcosa che sta sopra di noi, è l'amore del Padre e del Figlio cioè lo Spirito Santo. Questo amore è «di domani» cioè è il pane di vita eterna. E` anche l'amore che ci è donato oggi e giorno per giorno (cioè quotidianamente). L'amore di Dio, come la manna, non possiamo accumularlo: va raccolto ogni giorno e giorno per giorno. Non possiamo mai dire di possederlo.
L'amore si manifesta nel perdono ossia nel «super-dono». Noi viviamo di perdono: la nostra salvezza è scoprire in ogni nostro limite che c'è un Padre che ci accetta così come siamo. Dio manifesta il suo potere infinito nella sua infinita capacità di perdonare: l'amore di Dio non presuppone un mondo migliore e questa è una novità assoluta tra le religioni di tutti i tempi: un amore che si concretizza nel perdono.
Se noi non perdoniamo vuol dire che, in fondo, non ci fidiamo che il Padre ama noi gratuitamente. Oppure vuol dire che non accettiamo d'essere peccatori e perdonati da Dio. Infatti Dio perdona a ciascun altro come perdona a me, come vediamo nelle parabole dei due debitori (Matteo 18,23-35 e Luca 7,36-50). Se davvero comprendessimo e accettassimo il perdono da 10.000 talenti che riceviamo da Dio allora non avremmo tanta difficoltà a perdonare 100 denari ai nostri fratelli. Ma se non voglio essere figlio significa che mi considero nient'altro che un servo e qui torna il peccato d'origine che consiste nella radicale sfiducia nell'amore di Dio. E così facendo interrompo la libera circolazione dell'amore di Dio da lui a me e da me ai fratelli.
Si può intravvedere una finezza del testo dove le nostre mancanze sono chiamate peccati e quelle degli altri semplicemente debiti, quasi che il nostro peccato più grande sia proprio la mancanza di perdono verso gli altri, l'assenza di quella misericordia che è invece la caratteristica fondamentale del padre che è nei cieli (Luca 6, 36).
Questa tentazione è il nostro maggior pericolo per il quale chiediamo a Dio di non abbandonarci.