9Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: 10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano. 11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. 13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. 14Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell'altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato».
Il tema La cattiva immagine di Dio, il peccato originale che ci portiamo dentro, ci spinge insistentemente a concepire la vita come un concorso in cui è premiato chi vale di più, è più capace e magari più concorrenziale degli altri. Così però si fa torto a Dio che, come padre, ama tutti i suoi figli indipendentemente dal merito e a tutti offre la salvezza ossia la vita con sé. Questo torto è il grande peccato del fariseo che così facendo si auto-esclude dall'amore di Dio.
Abbiamo visto in Luca 13,22-30 che la salvezza è una porta stretta, strettissima, dalla quale non passa alcun giusto ma, stranamente, passano tutti i peccatori perché la salvezza coincide con l'amore gratuito di Dio, che può essere compreso e accolto solo da chi sa di essere lebbroso, di essere peccatore. Il peccatore sa di non meritare la salvezza e per questo l'ottiene mentre il giusto, gonfio di sé (Luca 14,1-6) compie l'unico vero peccato che non può essere perdonato: considera Dio un giustiziere che concede grazia solo dietro pagamento... come una prostituta.
Nel film "Il piccolo lord" (1980) il nonno si riferisce con assoluta naturalezza alle persone del popolo come agli "inferiori".
Ed è bellissimo osservare la progressiva conversione di questo nonno ad opera del nipote che non ha alcun pregiudizio né per gli aristocratici né per ogni altra persona.
Questa parabola è - in Luca - l'ultima e più forte botta alla roccaforte del giusto che viene attaccato direttamente sulla sua fede, la sua preghiera e la sua onestà. E` anche una forte spallata al metodo delle religioni tradizionali (difetto da cui non è immune il cattolicesimo, purtroppo) che in vari forme sostengono o avallano o non contrastano questo modo satanico di intendere il rapporto con Dio, costellato di pratiche di pietà, intercessioni, liturgie-show, sacrifici e penitenze, richieste di denaro, indulgenze, buone opere: tutte attività orientate, alla fin fine, a ottenere un favore speciale di Dio, un miracolo, un vantaggio terreno, quasi che Dio sia un feudatario e noi i vassalli che cercano di rabbonirlo o per salvarsi dai suoi castighi o per ottenere benefici maggiori. La base teorica di tutte queste manifestazioni religiose è, in generale, valida ma viene completamente offuscata dalla quantità e dalla qualità della pratica e dal modo in cui viene insegnata e proposta. Distruggere questa "cattiva religione" significa distruggere anche l'ateismo, il quale si basa sulla ribellione a questa logica: se Dio è così tremendo allora non può esistere e se esiste meglio ribellarsi.
Come in tutte le parabole con due figure contrapposte (il figlio prodigo, il figlio che non va e quello che va a lavorare in Matteo 21,28-32) noi, che leggiamo, siamo un terzo personaggio chiamato a specchiarsi nelle due figure. Infatti il primo errore che possiamo commettere, dopo aver letto questa parabola, è metterci a pregare dicendo: "O Dio, ti ringrazio che non sono come questo fariseo...". Faremmo un doppio salto mortale perché ci ripugna sia identificarci nel fariseo, così sfacciato, sia nel pubblicano, certamente peccatore incallito. Ma saremmo caduti in una trappola ancora più sottile.
La parabola dichiara immediatamente il peccato fondamentale che vuole porre in evidenza: "alcuni che presumevano" ossia che confidavano in se stessi e di conseguenza "disprezzavano gli altri" (nientificavano nell'originale greco). Noi cadiamo in questo errore tutte le volte che diamo un valore economico alle nostre opere, sia quando pensiamo che esse siano "abbastanza", sia quando ci creiamo una sorta di senso di colpa ritenendo che non lo siano per spingerci a essere più rigorosi e più severi. In tutti questi casi siamo convinti di essere noi, con la nostra prassi, a produrre la nostra salvezza, quella eterna oppure quella effimera su questa terra. Questo significa però trattare Dio da contabile e nel contempo svalutare gli altri che non sono così perfetti come noi e non hanno questo tipo di ansia o di presunzione.
Entrambi gli uomini salgono al tempio a pregare il che ci insegna subito che, purtroppo, è possibile fare la stessa cosa - oggettivamente buona - sia in modo perverso sia in modo figliale. Questo discorso vale sia per azioni spirituali (pregare, appunto) che materiali (mangiare, lavorare, giocare, ...), come ci indica S.Paolo (1Corinzi 10,31 [1]). I farisei sono i "separati", oggi diremmo dei bravi cattolici molto impegnati. I pubblicani sono i "non-praticanti", gli uomini non religiosi, che impegnano la loro giornata nel far soldi, nel divertimento, nel successo. Al tempo di Gesù avevano una connotazione ulteriormente negativa: erano i collaborazionisti del nemico in quanto riscuotevano le tasse per i Romani, in genere facendoci la cresta.
Il testo greco dice che il fariseo pregava ritto in piedi davanti a sé ossia non davanti a Dio. Potremmo dire che "si recitava la preghiera" come se Dio fosse il suo io. La preghiera del fariseo sembra iniziare bene: invoca Dio ("O Dio", come il pubblicano) e ringrazia. Ma ringrazia di essere giusto, speciale, superiore, di non essere come gli altri uomini, che sono a lui inferiori. Questa preghiera è l'anti-magnificat per eccellenza, come se Maria avesse detto "L'anima mia ringrazia il Signore perché ha guardato alle mie doti". Il fariseo, con molta naturalezza, considera come qualità proprie i doni che Dio gli ha dato e quindi non si accorge che, così facendo, è ladro, deruba Dio della sua opera. E` inoltre ingiusto: la giustizia consiste nell'amare Dio e amare i fratelli invece lui disprezza i fratelli e ama il proprio io al posto di Dio. Infine è adultero perché pretende di pagare l'amore di Dio. Purtroppo questo modo di intendere le cose è un male molto diffuso e crea male: credendoci giusti automaticamente diventiamo severi e inflessibili con gli altri, opprimendoli in perfetta buona fede. Capita nei singoli e capita nei gruppi: i campanilismi, gli antagonismi e le gelosie fra ordini religiosi sono addirittura leggendari, codificati perfino nelle barzellette. Questa conversione, la faticosa conversione avvenuta anche in S.Paolo, dura tutta la vita e non è mai terminata.
Il digiuno, nella religione ebraica antica, è prescritto dalla Torah una sola volta all'anno, durante lo Yom Kippur (Levitico 23,26-32 [2]), il giorno dell'espiazione, ad inizio anno (settembre-ottobre). Questo pio fariseo invece digiuna due volte la settimana, probabilmente per espiare i peccati altrui, dato che si comporta come se non ne avesse. Le decime al tempio si pagavano su quanto si produceva e si vendeva (ad esempio il grano, l'olio, il vino) e non su quanto acquistato. Il fariseo invece paga le tasse su quanto acquista, forse per coprire l'eventualità che chi vende sia un evasore sacrilego. E` evidente che qui Gesù fa una caricatura ma dovremmo provare a considerare quanto qui si ritrovi dei nostri pensieri quando facciamo qualcosa di buono o di giusto, quando noi preghiamo composti in chiesa e altri no, quando noi siamo "impegnati" e altri no. Gesù finirà in croce per aver rivelato un Dio che tratta i peccatori come figli di cui aver maggior cura e non come scarti, una immagine di Dio che è una bestemmia per l'ebreo osservante e per il religioso di ogni epoca.
Più uno conosce se stesso e meno giudica gli altri; è più umile (cioè è più umano, più uomo) e infine conosce meglio Dio. Infatti la preghiera del pubblicano è una dichiarazione di fede in un Dio che è grazia per chi è peccatore. La sua preghiera è simile alla preghiera del Pellegrino Russo ("Gesù figlio di Davide abbi pietà di me peccatore"), ritmata sul respiro. Nella sua preghiera non vi sono riferimenti agli altri: è tutta concentrata sulla grazia di Dio ("abbi pietà") e sui propri limiti ("me peccatore"). Il fatto che esistano altri, sia più peccatori, sia più giusti, non ha importanza: questo corrisponde a quanto ci viene insegnato sull'utilizzo corretto della Parola di Dio e cioè che è stata scritta per me che la leggo, per la mia salvezza e non per condannare o ammirare gli altri. La conoscenza dei propri limiti è l'origine della migliore tolleranza verso tutti. Non si tratta di sottovalutarsi o di disprezzarsi ma di essere coscienti che siamo tutti impegnati in un cammino infinito verso l'amore, un cammino in cui facciamo progressi scoprendo, ad ogni passo, che prima eravamo un passo più indietro. La conoscenza dei propri limiti è la condizione necessaria per progredire. La presunzione dei propri meriti è invece l'ostacolo maggiore ad avanzare. Noi siamo un po' tutti contagiati dall'ansia di Donna Prassede (il famoso personaggio de I Promessi Sposi di Manzoni) e di Marta di salvare gli altri, convertire gli altri, giudicare del bene e del male negli altri.
Il "pregare sempre" del brano precedente qui si completa nel "sempre chiedere grazia", perché dell'amore gratuito di Dio abbiamo bisogno più che dell'aria. Nonostante i suoi molti peccati il pubblicano torna a casa - ha dunque una casa e dei famigliari - giustificato, reso giusto non per i propri meriti ma per aver accolto la giustizia di Dio. L'unico vero peccatore contro Dio è il fariseo che usa i doni di Dio come credenziali proprie e per distinguersi dai fratelli: sembra scomparire nel nulla, senza casa, come coloro che sono dispersi nei pensieri del loro cuore.
[1] 1Corinzi 10,31: Sia dunque che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio.
[2] Levitico 23,26-32: Il Signore parlò a Mosè e disse: «Il decimo giorno di questo settimo mese sarà il giorno dell’espiazione; terrete una riunione sacra, vi umilierete e offrirete sacrifici consumati dal fuoco in onore del Signore. In quel giorno non farete alcun lavoro, poiché è il giorno dell’espiazione, per compiere il rito espiatorio per voi davanti al Signore, vostro Dio. Ogni persona che non si umilierà in quel giorno sarà eliminata dalla sua parentela. Ogni persona che farà in quel giorno un qualunque lavoro io la farò perire in mezzo alla sua parentela. Non farete alcun lavoro. Sarà per voi una legge perenne, di generazione in generazione, in tutti i luoghi dove abiterete. Sarà per voi un sabato di assoluto riposo e dovrete umiliarvi: il nono giorno del mese, dalla sera alla sera seguente, farete il vostro riposo del sabato».
Ovviamente la festa riveste grande rilievo nel mondo ebraico: il 6 ottobre 1973 lo stato di Israele fu attaccato dalle coalizioni arabe proprio nel giorno della festa dello Yom Kippur per sfruttare al massimo l'effetto sorpresa.