1In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. 2Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? 3No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. 4O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? 5No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».
Il tema Tutti noi moriamo o in un modo o nell'altro, indipendentemente dal ruolo - vittime o carnefici - che giochiamo nella storia. La paura di questo evento ci rende angosciati ed egoisti durante tutta la vita. La morte non sarebbe così velenosa se non ci fosse il peccato (cioè il rifiuto d'essere figli di Dio).
Nel capitolo precedente si è mostrato come il discernimento - ossia scegliere fra i desideri opposti - sia un passo necessario per affrontare le contrarietà del tempo, questo nostro tempo che ci è dato di vivere e che va sempre considerato il tempo opportuno in cui agire, senza aspettare i cosiddetti tempi migliori. Oltre alle contrarietà generazionali famigliari ("padre contro figlio..."), oltre ai contrasti con chi è in concorrenza con noi ("il tuo avversario") vi sono le vicende politiche e le calamità naturali che qui vengono ora esaminate.
E' un po' la storia che viene raccontata già in Genesi 3: il rifiuto della figliolanza divina rovina i rapporti moglie-marito, quelli tra fratelli, porta la violenza nella società e l'ostilità della natura.
La soluzione che in genere noi scegliamo consiste nell'indicare il male fuori di noi (come avviene nella favola di Esopo e poi Fedro [1]). Dopo aver deciso che il male sta fuori di noi (cioè negli altri, nei sistemi sociali, nella natura) crediamo di eliminarlo eliminando gli altri (o alterando la natura). La soluzione invece sta nell'individuare il male che è dentro di noi e di questo occuparci prima di tutto.
Nel mondo di qua nulla è eterno. Se non siamo figli di Dio allora siamo perduti, come le formiche schiacciate dalla famosa mela che cade nel Canto XXXIV "La ginestra" di Leopardi [2].
Il nostro male è la paura di morire, come certi bambini che non vogliono mai andare a dormire per paura di perdersi qualcosa. La morte non è il ladro che ci ruba tutto (12,39) ma il confine, il limite della vita fisica in cui comincia la comunione con Dio. In questa ottica possiamo comprendere che il male non è morire ma uccidere, non è aver fame ma affamare e così via. Se consideriamo la morte come la fine di una gestazione ossia la preparazione a una vita piena allora la morte non è più un male: una gestazione deve pur finire («Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore», Salmo 90-89,12).
Nel modo comune di pensare il male è sempre esterno a noi. Già in Genesi 3,12 Adamo si giustifica: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell'albero e io ne ho mangiato» ossia la colpa è della donna e quindi di Dio che gliel'ha posta accanto. E' in definitiva l'eterno problema del male studiato da S.Agostino: se c'è Dio perché c'è il male? Davanti al male la fede vacilla: dobbiamo dunque arrivare a una nuova comprensione del male e smettere di individuarlo dappertutto tranne che in noi.
Il procuratore Ponzio Pilato rappresentava il potere dell'imperatore che opprimeva molti popoli e in particolare quella zona turbolenta che era la Palestina. I Galilei si ribellavano e, nell'episodio riportato, Pilato li fa uccidere come guerriglieri dentro al Tempio. Il concetto di "pace" per i romani era abbastanza drastico: consisteva nel distruggere militarmente ogni opposizione e nel controllo del territorio e della popolazione. Era quella che si chiama la "pax romana". Questa concezione, sotto sotto, è quella che immaginiamo tutti: pace intesa come assenza di guerra perché domina il più forte.
Secondo l'antropologo René Girard tutte le civiltà hanno all'origine un mito equivalente a quello di Romolo e Remo: Romolo traccia un solco (simbolo della legge) e minaccia il fratello di non passarlo. Remo lo sfida e viene ucciso. La città dunque si fonda sul più forte che ha il diritto di morte su chi trasgredisce. Come nel branco dei lupi. Quando il re diventa debole si trasforma in vittima di quel bandito che diventerà re al suo posto. In questo modo la storia, come ci viene tramandata, è una continua "apologia di reato" del potente di turno. La Bibbia invece, già all'inizio, dà torto a Caino il quale, non avendo accettato il Padre, non accetta nemmeno il fratello: vuole essere l'unico.
I Galilei qui citati seguivano la stessa logica di Pilato. Se avessero vinto avrebbero instaurato l'impero esattamente come aveva fatto Roma. A Gesù viene posta la solita domanda che avrebbe dovuto metterlo in pericolo o nei riguardi dell'Impero o nei riguardi dei suoi connazionali.
Nella sua replica Gesù si sbarazza subito del confronto fra Romani e Galilei e introduce invece un confronto fra quei Galilei e tutti gli altri loro conterranei. Patire non significa essere più peccatori e nemmeno più santi. Quei Galilei avevano esattamente la stessa logica dei Romani. Se non ci convertiamo dall'idea che la vita consista nell'avere più cose e più potere sulle persone falliremo anche noi. O cambiamo logica o sbagliamo tutti. Anche nelle relazioni politiche se la logica cristiana non è quella delle beatitudini (beati i poveri, gli afflitti, ...) sbagliamo tutto. Quella di Gesù dunque non è una risposta evasiva ma un cambio di logica: Gesù sarà quel galileo che finisce in croce per tutti, condannato unanimemente da tutti i poteri anche se tra di loro erano avversari (Farisei, Sacerdoti, Sadducei, Erodiani, Romani), proprio perché egli contesta in radice la logica di tutti loro.
Dunque il male non si può vincere con l'uso della forza. Oggi, con la disponibilità diffusa di armi che possono distruggere l'intero pianeta, la cosa dovrebbe essere ormai evidente: l'umanità non ha altra strada che deporre le armi altrimenti periremo tutti allo stesso modo. Occorre una nuova coscienza personale e diffusa che non possiamo essere "homo homini lupus" l'uno per l'altro ma dobbiamo essere "homo homini deus". Questa, per ciascuno di noi, non è una scelta facile perché in questo modo, come accadde a Gesù, avremo contro sia i poteri del mondo sia le "vittime", che non capiscono. La scelta di Gesù non è per il più forte e non è per il più debole: è per la fraternità, è l'Agnello di Dio che porta su di sé il peccato del mondo. Gesù non parteggia per alcuni, ma è l'intercessore per tutti, quello che si pone in mezzo tra i nemici e infatti, diventa vittima di entrambi. Gesù vince il male portandolo. Vista in questi termini si comprende la radicale diversità del cristianesimo: Dio, in fondo, nessuno l'ha mai visto ma se ci comportiamo da fratelli diventiamo figli di Dio Padre e finalmente Dio regna.
Poi Gesù rincara la dose e cita un'altra notizia, a proposito di una torre di una località vicino a Gerusalemme (forse identificabile con Silam) che crolla e uccide diciotto persone: un evento naturale apparentemente senza colpevoli. Qui sembra che non c'entrino il peccato e la conversione. Ma Gesù desidera che poniamo attenzione su un fatto molto ovvio e che spesso occultiamo: tutti noi moriamo o in un modo o nell'altro, indipendentemente dal ruolo - vittime o carnefici - che giochiamo nella storia. La paura di questo evento ci rende angosciati ed egoisti durante tutta la vita ma è un atteggiamento illogico: non è con l'egoismo che sfuggiamo alla morte. Occorre capire che il nostro male non è morire ma porre il nostro io al centro di tutto, aggredendo e attaccando tutto ciò che limita e minaccia la nostra autoaffermazione. La morte non sarebbe così velenosa se non ci fosse il peccato (cioè il rifiuto d'essere figli di Dio): "Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge" (1Corinti 15,56). La morte, senza il peccato, è il "ritorno alla casa del Padre", come si legge sempre più raramente nelle epigrafi. La morte, per il credente, è il "dies natalis", il giorno della nascita.
La tensione fra il desiderio della vita divina, cioè la carità, e l'angoscia del passaggio per la morte era già stata manifestata da Gesù nel capitolo precedente (Luca 12,49-50): Gesù ha vinto la morte perché ha affrontato e superato questa paura.
Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch'egli [Gesù] ne è divenuto partecipe, per ridurre all'impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita (Ebrei 2,14-15).
Oggi, più che nei tempi passati, il grande tabù è la morte e la scienza opera per dilazionarla aggravando il problema: la vita diventa una "malattia" da curare e da curare sempre più a lungo in una sorta di "condanna alla vita". Solo se comprendiamo che da Lui veniamo e a Lui ritorniamo usciremo da questo gioco infernale.
[1] In questo famoso apologo, raccontato sia dal greco Esopo che dal latino Fedro, si racconta che Zeus - Giove ci ha dato due bisacce, quella davanti coi nostri pregi e quella dietro con i difetti. Dunque noi vediamo i pregi nostri e i difetti degli altri.
[2] Così inizia la celebre poesia "La ginestra" di Giacomo Leopardi:
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,cui là nel tardo autunnomaturità senz'altra forza atterra,d'un popol di formiche i dolci alberghi, cavati in molle gleba con gran lavoro, e l'opre e le ricchezze che adunate a prova con lungo affaticar l'assidua gente avea provvidamente al tempo estivo, schiaccia, diserta e copre in un punto...