1Diceva anche ai discepoli: «C'era un uomo ricco che aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. 2Lo chiamò e gli disse: Che è questo che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non puoi più essere amministratore. 3L'amministratore disse tra sé: Che farò ora che il mio padrone mi toglie l'amministrazione? Zappare, non ho forza, mendicare, mi vergogno. 4So io che cosa fare perché, quando sarò stato allontanato dall'amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua. 5Chiamò uno per uno i debitori del padrone e disse al primo: 6Tu quanto devi al mio padrone? Quello rispose: Cento barili d'olio. Gli disse: Prendi la tua ricevuta, siediti e scrivi subito cinquanta. 7Poi disse a un altro: Tu quanto devi? Rispose: Cento misure di grano. Gli disse: Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta. 8Il padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. 9Ebbene, io vi dico: Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand'essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne.
Il tema Dopo il pastore che rischia vita e gregge per una pecora fuggitiva, dopo il padre che riaccoglie in casa il figlio che l'ha rovinato, abbiamo qui un padrone che desidera che il suo amministratore distribuisca i suoi averi. Parabole raccontate da Gesù per svelare il volto del Padre e la buona notizia che siamo figli e non servi.
Questa lectio è l'ultima che Silvano Fausti e il confratello Filippo Clerici hanno tenuto insieme il 7 aprile 2008. Due giorni dopo Filippo termina la sua avventura terrena scivolando durante una passeggiata sulla Grigna Set-tentrionale.
Questa parabola, come anche quella, appena vista, del "figlio prodigo", è esclusiva di Luca. Nel "vangelo nel vangelo" - così alcuni padri definiscono il capitolo 15 - Gesù non annuncia Dio semplicemente come "misericordioso" ma come "misericordia pura", materna, che sempre accoglie, che non tiene conto del male, che non giudica e non condanna (cfr. l'inno alla carità in 1Corinti 13,4-7 [1]). Questo è il passaggio fondamentale e "cruciale" (è stata necessaria la croce, infatti) tra qualsiasi altra religione e il cristianesimo: non ci si salva per i propri meriti ma per pura grazia accogliente di Dio - che sempre torna a perdonarci ad ogni caduta. Dalla consapevolezza di questa grazia, poi - è importante questo "poi" - possono derivare tutte le nostre buone opere che danno consistenza alla nostra nuova coscienza d'essere figli. In forza di questa rivelazione S.Paolo distingue tra "i peccati", che sono le cadute di chi è felicemente cosciente di essere figlio, e "il peccato" che è quello di non considerare Dio come padre. E` quest'ultima la situazione veramente grave: quella in cui noi ci consideriamo "giusti" o nella verità, nella condizione di rivendicare dei meriti di fronte a Dio. Disconoscere Dio come padre è il più grande insulto che possiamo fare a Dio.
Il vangelo di Luca - rivolgendosi ai cristiani di terza generazione - ha come punto caratteristico il "che fare" (come viene chiesto al Battista in Luca 3,10.12.14 [2] e come chiede a se stesso l'amministratore qui al v. 3). In questo capitolo, dopo l'annuncio della misericordia nel capitolo 15, si fa un passo ulteriore vedendo come si trasforma il nostro rapporto con le cose, con le persone, coi poveri, coi peccatori quando il nostro rapporto con Dio cambia nel senso evangelico. In altre parole qui vediamo come cambia la vita materiale quando cambia la nostra vita spirituale.
Il cristianesimo non si gioca sui sistemi teologici: Gesù è stato condannato come bestemmiatore dagli ideologi della religione. Il cristianesimo si realizza nella vita concreta, nella fraternità. E` proprio l'uso che facciamo dei beni del mondo che manifesta il nostro essere figli e fratelli. Tutto il bene e il male nel mondo deriva dall'uso che facciamo del creato: le lotte, le menzogne, le guerre si fondano sul desiderio di possesso dei beni, che non sono nostri, e di cui vogliamo essere padroni. I beni del mondo hanno come fine la condivisione e su questo si basa tutto il cristianesimo. Se noi non ci comportiamo da fratelli noi mentiamo quando tentiamo di convincere altri che Dio è padre e usiamo invece il nome di Dio per dominare il mondo, come avviene purtroppo dentro e fuori dal cristianesimo. La vera libertà dei figli di Dio è usare del mondo per essere in comunione con Dio (che ce lo dona) e con i fratelli (in una relazione di dono che ci rende uguali a Dio). Questa è la vita eterna, già da adesso, e non è una utopia, come spesso siamo portati a pensare. Questo è l'unico modo di vivere senza distruggere la terra e l'umanità. E` anche l'unico modo per vivere da uomini e non come gli animali che seguono solo l'istinto della loro specie.
Questa è una delle parabole più scomode del vangelo perché si loda una persona che commette dei reati sia prima che dopo. I commentatori si danno un gran daffare a giustificare il testo ma, come vedremo fra poco, è tutto molto più chiaro se applichiamo la logica evangelica. Forse Gesù si è basato su un fatto di cronaca dato che era frequente che i proprietari terrieri risiedessero in città e delegassero la gestione dei loro possedimenti ad amministratori i quali non è detto che fossero onesti, allora come oggi. La parabola è volutamente paradossale perché nei rapporti economici, come noi li conosciamo, il proprietario non richiede, ovviamente, che vengano distribuiti i suoi beni. Ma Dio non è un proprietario di questo mondo, la sua caratteristica è dare tutto e non accumulare niente. Questo padrone infatti assomiglia molto al pastore anomalo di 15,1-7, all'inverosimile padre del "figlio prodigo" (15,11-32) e anche a quel padrone che paga allo stesso modo tutti gli operai indipendentemente dalle ore lavorate (Matteo 20,1-16). Questo padrone è Dio stesso.
Nelle bibbie questo brano ha per titolo l'amministratore (o: il fattore) infedele (o: disonesto) ma questo non corrisponde al contenuto perché all'inizio del racconto l'amministratore non viene qualificato né in bene né in male e alla fine il suo padrone lo loda: noi restiamo molto stupiti di questo incredibile padrone il quale loda il suo amministratore (che prima lo derubava) quando questi comincia a distribuire gli averi del padrone a chi non ne ha diritto. Ma se abbiamo compreso qualcosa di come Gesù ha costruito le parabole precedenti dovremmo essere ormai abituati. L'espressione che le bibbie traducono con "amministratore disonesto" è in realtà "amministratore di ingiustizia", ossia colui che, fino a quel momento, ha amministrato male i beni del padrone. Nell'ottica evangelica dunque l'amministratore non diventa infedele o disonesto ma diventa sapiente (piuttosto che: scaltro).
Per facilitare la comprensione del testo possiamo mettere da parte la metafora padrone/amministratore traducendo direttamente i personaggi simbolici in personaggi reali. Dio (il padrone, l'uomo ricco), unico proprietario dei beni di questo mondo, dona a ciascuno di noi (l'amministratore) tutto il creato e la nostra stessa esistenza (i suoi averi). Diversamente dai padroni di questo mondo, Dio si aspetta che noi facciamo altrettanto con i nostri fratelli (gli affittuari, i debitori del padrone) ossia che condividiamo, a vantaggio di tutti, quello che ci è stato dato. Noi questo non lo capiamo - per l'inganno del serpente - e vogliamo essere come il dio che noi ci immaginiamo, vogliamo avere anche noi tutto nelle nostre mani. In questo modo tentiamo di derubare Dio dei beni che abbiamo ricevuto, danneggiando sia il mondo che i fratelli. Facciamo del creato motivo di contesa, lite, rapina, guerra, accumulo. In questo modo utilizziamo male il creato e pure lo roviniamo (sperperiamo i suoi averi). La nostra vita terrena non è infinita e viene il momento in cui tutto finisce (non possiamo più essere amministratori). Quando diventiamo coscienti di questo - e sarebbe meglio il prima possibile - allora ci domandiamo «che farò?». A questo punto, se non siamo come il ricco stolto (12,13-21), cominciamo a distribuire almeno un po', ove il 50% (cinquanta su cento barili d'olio), ove il 20% (venti su cento misure di grano). In questo modo iniziamo in questa vita un rapporto di fraternità che si compirà nell'aldilà (qualcuno che mi accolga in casa sua), nelle dimore eterne come spiega Gesù alla fine.
Le tre parabole precedenti erano rivolte a farisei e scribi (15,2). Ora Gesù si rivolge ai discepoli, cioè a noi, e racconta una parabola che completa quella del "ricco stolto" che abbiamo visto al cap. 12. Questo amministratore diventa sapiente mentre l'altro, proprietario, è e resta stolto.
Noi uomini siamo amministratori perché ciò che possediamo l'abbiamo ricevuto e non ha origine in noi. Noi siamo ospiti della creazione che siamo chiamati a coltivare e custodire, come è scritto in Genesi 2,15. Siamo amministratori ossia disponiamo dell'intera proprietà, che è cosa molto buona, senza esserne proprietari. Il bene e il male consistono nel modo in cui noi amministriamo la creazione. L'amministratore è accusato di sperperare i beni del padrone: un bene è sperperato quando non lo si fa rendere o lo si distrugge. Sulla base del finale della parabola sappiamo che il padrone vorrebbe che l'amministratore fosse prodigo nel regalare i beni tra gli affittuari. Fuori di metafora Dio si sta lamentando con noi che il mondo, che è suo, viene usato male, non rende ossia non raggiunge lo scopo per cui è stato creato. Dovrebbe essere il luogo della fraternità tra gli uomini e invece è occasione di litigio e di sfruttamento così egoistico da distruggerlo. Il creato è proprietà di Dio, è tutto bello - e vide che era bello, leggiamo in Genesi 1. Il creato ci viene consegnato perché sia vissuto come dono, di cui si rende grazie (entrando dunque in relazione filiale col Padre) e che si condivide con gli altri figli che diventano così nostri fratelli.
Quando nella parabola Dio ci chiede di rendere conto del nostro comportamento, che è in antitesi a quel che Dio desiderava, ci chiarisce che esiste un termine per tutti. Se fossimo logici capiremmo almeno questo: la nostra vita terrena è limitata. Che senso ha, allora, comportarsi in modo da rendere invivibile la vita e distruggere il mondo? Se noi uomini non cadiamo nel delirio di onnipotenza che ci fa credere d'essere dio - un dio satanico però! - dovremmo pur interrogarci sul motivo per cui esistiamo. E` la considerazione che fa l'amministratore quando cambia metodo: visto che sono mortale - dice - che farò? Interessante questo uso del futuro nel momento in cui tutto sembra finire. Trovare una risposta a questa domanda è nostra responsabilità, di noi che viviamo nel "primo mondo". Il "terzo mondo", che sta malissimo, non è in grado di porsi questa domanda: vive al di sotto della minima libertà sufficiente per farsi delle domande. Non c'è nulla che l'uomo possa fare per allungarsi la vita. Non ha forza per zappare ossia qualsiasi sforzo non cambierebbe il suo essere mortale: Chi di voi, per quanto si affanni, può aggiungere un'ora sola alla sua vita? (Luca 12,25). L'orgoglio inoltre ci vieta di mendicare da Dio altra vita: quali titoli abbiamo noi per chiedere a Dio ulteriori doni, visto che consideriamo Dio come padrone e non come padre?
La domanda "che farò?" se l'era posta anche il ricco stolto (Luca 12,17) ma la sua soluzione consisteva nell'illusione che con più beni avrebbe avuto più vita. Col risultato che, dopo aver sacrificato la vita alle cose, avrebbe lasciato tutto ai figli in lite per l'eredità (12,13.16). L'amministratore invece riesce a capire, anche se in modo confuso, che la radice di tutto è l'essere accolti. Tutto è proprietà del padrone e ognuno ha debiti con lui mentre nessuno ha debiti con l'amministratore. E mentre prima prendeva ciò che non era suo ora comincia a dare ciò che non è suo. In sostanza fa come Dio: distribuisce i beni e condona i debiti. Operare come Dio opera è già un anticipo di vita eterna.
L'amministratore condona le cose più fondamentali (l'olio, il grano). Ma sconta al primo debitore solo il 50% e al secondo solo il 20%: ha dunque ancora difficoltà a perdonare (tenendo anche conto che non è roba sua). Non è come Dio che condona tutto (Luca 7,41-42). Nel brano parallelo, Matteo 18,23-35, il debitore che ha un debito infinito, tutta la vita, diecimila talenti, 60 milioni di dracme, non vuole condonare un piccolo debito di un suo compagno. Potrà essergli condonato quando capirà che ha ricevuto tutto in dono. La proprietà privata (compresi i beni immateriali come salute, intelligenza, cultura) è un dato di fatto che non viene escluso né dal vangelo né dalla dottrina sociale della Chiesa. Soltanto che la proprietà privata non è un valore assoluto: è data per il bene comune, la condivisione. L'uso del futuro ("Che farò?") suggerisce che la condivisione non possa essere realizzata all'improvviso e per legge. Né il vangelo né la dottrina sociale della Chiesa suggeriscono di abolire la proprietà privata in modo coercitivo: sarebbe una bestialità e così è stato dove, purtroppo, si è tentato. Solo esercitando la sua libertà l'uomo può arrivare a comprendere il corretto uso dei beni.
Noi, in gran parte, non abbiamo meriti per quanto possediamo: sono beni donati da Dio, che ci ha creati, oppure ereditati da chi ci ha preceduto o addirittura tolti ad altri. San Giovanni Crisostomo diceva, con una certa durezza, che "i beni che hai sono frutto di rapina, se non tua, dei tuoi avi" in quanto i beni sono dati per la condivisione e non per tenerli per sé.
Occorre però essere realisti ed onesti con noi stessi: noi facciamo parte di un mondo di ingiustizia e se volessimo tenerci assolutamente estranei da ogni responsabilità probabilmente dovremmo andare in giro nudi e senza nulla da mangiare. Il mondo reale funziona in grandissima parte con regole di ingiustizia e tentare di non essere minimamente coinvolti è semplicemente impossibile. Assodato questo, torna la domanda "Che fare?". Ci risponde il padrone della parabola che "lodò quell'amministratore di ingiustizia" perché aveva cominciato a distribuire. Questa è la parte che ci è richiesta: cominciare a distribuire per quanto è nelle nostre possibilità: ora il 50% ora il 20%. L'importante è creare una inversione di tendenza cominciando a stabilire relazioni fraterne. Come i figli di questo mondo sanno fare i propri calcoli di convenienza, dice Gesù, è ora che anche noi guardiamo con realismo alla nostra situazione. Come nella parabola precedente del figlio prodigo anche qui la conversione dell'amministratore è ancora insufficiente ma Dio ci accoglie così come siamo, sfrutta anche una conversione zoppa.
Quando la vita terrena terminerà entreremo così nelle dimore eterne ossia si compiranno la figliolanza e la fraternità iniziate su questa terra. La parola casa (o dimora o tenda) richiama in ebraico la presenza di Dio (shekinah). Come si vedrà alla fine di questo capitolo 16 sono i poveri che salvano noi e non noi che salviamo loro: "ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me" (Matteo 25,40), cioè l'avete fatto a Gesù che si è posto nella posizione del più misero di tutti, in croce. Della nostra vita si salverà solo ciò che avremo investito in amore, il resto sarà bruciato. A questo punto proviamo a riconsiderare quel che ha deciso di fare l'amministratore: se pensiamo che col suo cambio di strategia abbia peggiorato la situazione vuol dire che ancora non abbiamo capito...
[1] 1Corinti 13,4-7: La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
[2] Luca 3,10.12.14: Le folle lo interrogavano: «Che cosa dobbiamo fare?»... Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare, e gli chiesero: «Maestro, che dobbiamo fare?»... Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi che dobbiamo fare?».