49Tutti i suoi conoscenti assistevano da lontano e così le donne che lo avevano seguito fin dalla Galilea, osservando questi avvenimenti.50C'era un uomo di nome Giuseppe, membro del sinedrio, persona buona e giusta. 51Non aveva aderito alla decisione e all'operato degli altri. Egli era di Arimatèa, una città dei Giudei, e aspettava il regno di Dio. 52Si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. 53Lo calò dalla croce, lo avvolse in un lenzuolo e lo depose in una tomba scavata nella roccia, nella quale nessuno era stato ancora deposto.54Era il giorno della parascève e gia splendevano le luci del sabato. 55Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono la tomba e come era stato deposto il corpo di Gesù, 56poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo secondo il comandamento.
Il tema Gesù non sarebbe "fatto uomo come noi" se non fosse disceso nel sepolcro a incontrare tutti noi. Perfino il luogo più oscuro e pauroso è ora luogo di conforto e di vicinanza di Dio con noi: Gesù morto ci libera dalla paura della morte.
Il sepolcro di Gesù rappresenta certamente il più grande mistero del vangelo. In vita Gesù ha compiuto azioni straordinarie e nessun uomo è come lui. Anche la sua morte è unica, come ha riconosciuto il centurione e come hanno cominciato a capire le donne e il popolo. Con la morte invece Gesù diventa uguale ad ogni altro uomo e si compie completamente il mistero dell'incarnazione: nella tomba Gesù è interamente uno di noi, condivide completamente la vicenda di ciascuno, è uomo completamente. Per ogni morto si compie ora l'incontro con Dio, che è lì con lui. Perfino il luogo più oscuro e pauroso è ora luogo di conforto e di vicinanza di Dio con noi: Gesù morto ci libera dalla paura della morte.
Nella sua prima lettera Pietro (cfr. 1Pietro 3,19) ci spiega che durante la sua morte Gesù "andò ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione; essi avevano un tempo rifiutato di credere quando la magnanimità di Dio pazientava nei giorni di Noè..." (la storia del diluvio è, nella cultura ebraica l'esempio sommo dell'empietà contro Dio). Entrando nella morte Gesù salva anche coloro che erano morti prima, fin dai tempi più lontani. Sappiamo così che la salvezza operata da Gesù, anche se svolta in un tempo preciso, in realtà non ha limiti né di tempo né di spazio: è quanto noi affermiamo quando, recitando il Credo (il simbolo Apostolico), diciamo: "discese agli inferi".
Possiamo leggere l'intera Bibbia come la storia dell'uomo che si nasconde da Dio, cioè dalla vita e dall'amore, condannandosi alla morte. E, similmente, possiamo leggere l'intera Bibbia come la storia di Dio che cerca ciascun uomo fino a che, nel sepolcro, li incontra tutti.
Il brano inizia mostrando i conoscenti e in particolare le donne che contemplano la croce. Tutti e tre i sinottici sottolineano la presenza di parecchie donne, Matteo 27,56 e Marco 15,40 ne nominano alcune: Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe e la madre dei figli di Zebedeo (cioè Salome). Le donne che l'avevano seguito fin dalla Galilea, sono citate anche in 8,3 dove compaiono anche Giovanna, moglie di Cuza (amministratore di Erode), Susanna e molte altre. La compassione ossia la partecipazione spirituale alla passione, alla croce, è una caratteristica tipica femminile. Gli uomini hanno una mentalità più pratica e operativa: sopraggiunta la morte non c'è più nulla di utile da fare e tanto vale tornare a casa. Restare lì è una scelta rischiosa e dunque stupida. Queste donne sono figura di Dio: debole e stolto a cercare di farsi amare dagli uomini. Come dice S.Paolo: ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini (1Corinzi 1,25).
Poi compare Giuseppe d'Arimatea, citato da tutti e quattro gli evangelisti e solo in questo contesto [1]. Il vangelo è molto attento a evidenziare sprazzi di bene e di luce in mezzo al male e alle tenebre. Infatti il primo a ottenere il paradiso è un malfattore, il primo a riconoscere in Gesù il giusto è il centurione, a capo dei carnefici che l'hanno ucciso e colui che ottiene di deporre il corpo di Gesù è un membro del Sinedrio che l'ha condannato. Giuseppe, uomo ricco (cfr. Matteo 25,57) che aspettava il regno di Dio, era discepolo di Gesù ma di nascosto per timore dei Giudei (cfr. Giovanni 19,38). Nel momento in cui i Dodici sono scomparsi (tranne Giovanni) lui prende coraggio (lo dice Marco 15,43) e va da Pilato a chiedere il corpo di Gesù. E` descritto mentre compie una azione tipicamente femminile, una azione (avvolse... depose...) che richiama quella di Maria, la notte di Natale: lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia (2,7). Il regno di Dio è il corpo di Gesù, il seme posto sotto terra e che produce la vita e lo troviamo affidato a Giuseppe d'Arimatea.
Gesù, dicono i vangeli, è morto attorno alle tre del pomeriggio. Giuseppe e Nicodemo (l'altro membro dissenziente del Sinedrio) hanno dunque tempo fino a sera (le sei circa) per andare da Pilato, tornare con l'occorrente e seppellire Gesù. Il suo corpo viene avvolto, nudo, non lavato, in 4,8 metri di tela (il lenzuolo, la Sindone appunto, nella sua lunghezza originale) e legato mani e piedi con strisce di tela. Da Giovanni 19,40 sappiamo che Giuseppe e Nicodemo spargono sul corpo di Gesù e in tutto il sepolcro "circa trenta chili di una mistura di mirra e di àloe" e poi lo pongono nel sepolcro di Giuseppe, nuovo, una tomba nella quale nessuno era stato ancora deposto, perché un condannato a morte avrebbe contaminato una normale tomba di famiglia già utilizzata anche per altri.
Tutto quanto viene eseguito secondo le prescrizioni che ritroviamo nel Talmud (IV-VI sec. d.C.) per i morti violentemente, prescrizioni che evidentemente Giuseppe e Nicodemo conoscevano molto bene. Possiamo supporre che essi pagheranno le conseguenze di questo loro schiaffo al Sinedrio. Questa loro iniziativa è all'origine della storia della Sacra Sindone, venerata dai cristiani come il telo di lino in cui fu avvolto Gesù e che conserva non solo le tracce della passione - cioè i segni delle torture - ma anche l'impronta della resurrezione. Per merito di Giuseppe e di Nicodemo Gesù non finisce nella fossa comune dei giustiziati e la storia inizia a cambiare direzione. E` anche notevole la coincidenza che Giuseppe avesse acquistato una tomba per sé proprio lì, fuori Gerusalemme, nell'attesa del Messia, e si ritrovi a usarla per seppellirvi, ancora non lo sa, proprio il Messia.
Notiamo come questa sepoltura sia estremamente composta: nessuno strepito, nessun accenno a grida o pianti. Quasi si preparasse il riposo dopo aver terminato il lavoro. E` venerdì sera e cominciano a splendere le prime luci che si accendono la sera in vista del sabato, in cui è prescritto di sospendere ogni attività. Questo è un sabato particolarmente solenne perché è quello del 15 Nisan, la Pasqua ebraica in cui si ricorda lo sterminio dei primogeniti d'Egitto e la fuga verso il mar Rosso. Le donne si sono avvicinate e osservano nei dettagli l'attività dei due uomini. Non hanno alcuna speranza nella resurrezione, evento che nessuno immagina in alcun modo, c'è solo in loro l'amore verso chi ha voluto loro bene. Un amore gratuito dato, per l'amore gratuito ricevuto.
Alcune donne prima dell'inizio del sabato preparano aromi e oli profumati nell'intenzione di recarsi a onorare il loro amico quando fosse passato il sabato. Poi il sabato riposano, come Dio dopo la creazione (Genesi 2,2). Ma quei profumi non saranno utilizzati, come vedremo.
Gli appunti che seguono sono ricavati dal libro "Sulle tracce di Cristo Risorto" in cui un intrepido parroco, don Antonio Persili, espone i risultati del suo studio di quella parte dei vangeli che riguarda la resurrezione. Il libro è scaricabile gratuitamente in Google Libri e mostra come gli evangelisti non si contraddicano e invece si completino nel raccontare il fatto storico della resurrezione. La fede non si dimostra ma, certamente, si può mostrarne la ragionevolezza.
Molti popoli antichi credevano nell'immortalità dell'anima e gli Ebrei non facevano eccezione. Però non si credeva nella resurrezione dei corpi. L'essere umano era considerato una congiunzione di un principio divino (l'anima) e uno materiale o addirittura maligno (il corpo). Con la morte il primo passava ad una esistenza oltremondana (per gli ebrei era lo Sheòl) che si pensava perdurasse finché nel mondo di qua restavano tracce della precedente esistenza. Da questa convinzione discendeva la cura per il corpo del defunto presso molti popoli. Gli Ebrei svilupparono solo un po' alla volta una propria coscienza sulla resurrezione dei corpi, fondata sulla fede nell'Alleanza e nella promessa di Dio. Nelle relazioni politiche un re non accetta che vengano aggrediti i suoi alleati e considera questo un affronto al suo onore. Sulla base di questo gli Ebrei cominciarono a convincersi che Dio, il loro più potente alleato, non avrebbe permesso che il giusto venisse sopraffatto dalla morte. Alcuni tuttavia non arriveranno mai a questa fede, come i Sadducei con i quali Gesù affronta questo tema in una nota disputa.
Il popolo ebreo antico trattava la morte attraverso riti suoi propri. Nell'Antico Testamento non troviamo prescrizioni e descrizioni complete sulle usanze riguardo i defunti ma solo accenni sparsi che occorre comporre. Per esprimere il dolore causato dalla morte di una persona cara i parenti si stracciavano le vesti e vestivano di sacco, si cospargevano di polvere o cenere, si lamentavano, strepitavano e piangevano (cfr. Luca 8,52). Le manifestazioni più rumorose erano lasciate alle donne. Ai sacerdoti era richiesto di trattenersi da manifestazioni troppo scomposte del proprio dolore.
Dalla coscienza di essere creati da Dio e popolo di Dio discendeva il senso di rispetto per il proprio corpo e per l'igiene e questo atteggiamento era esteso al defunto che, subito dopo il trapasso, veniva lavato, unto di oli profumati e infine vestito con i suoi abiti usuali (non si usavano teli funerari). Al defunto venivano chiusi gli occhi, un fazzoletto (il sudario [2]) gli manteneva chiusa la mandibola e un altro, appoggiato, copriva il volto. Mani e piedi erano legati con bende per evitare che ciondolassero durante il trasporto. In epoca romana, sopra i vestiti usuali si inizia ad aggiungere un telo.
Poiché un cadavere era fonte di contaminazione e impurità dopo queste operazioni si provvedeva rapidamente a trasportare il morto verso la tomba in corteo e usando una sorta di barella (Luca 7,12). Anche i condannati a morte dovevano essere rimossi dal patibolo entro sera perché non contaminassero il paese (cfr. Deuteronomio 21,22-23): venivano gettati nella fossa comune.
Di norma ogni famiglia aveva la propria tomba, una grotta naturale o artificiale, sul terreno di proprietà. La tomba veniva ripulita e profumata con abbondanza di essenze liquide e in polvere (cfr. 2Cronache 16,14) da spargere e bruciare. Le ossa dei defunti precedenti venivano raccolte e messe in una buca all'interno della tomba in modo da creare spazio. Vi erano due tipi di tombe nella roccia: a banco o a tunnel. In quella a banco si scavava il bordo del pavimento della stanza in modo da creare un banco di roccia centrale in cui porre il cadavere. In quella a tunnel si scavavano loculi nelle pareti. Il sepolcro veniva chiuso entro il terzo giorno con una lastra di pietra che a volte era circolare e aveva il proprio canaletto in cui farla rotolare. Questi tipi di tomba erano ovviamente costosi e i più poveri erano invece sepolti in fosse poco profonde in campagna. Le tombe in ogni caso erano dipinte di bianco o corredate di sassi bianchi (cfr. Matteo 23,27) in modo da essere individuabili e non contaminarsi. Non esistevano cimiteri, a parte la valle del Cedron in cui si facevano seppellire alcuni che volevano essere "in prima fila" alla venuta del Messia e in cui esisteva anche una fossa comune.
Le visite al sepolcro, aperto, erano consentite fino al terzo giorno, quando la tomba veniva chiusa. Era questo il termine ultimo entro il quale potevano esserci risvegli nei rari casi di morte apparente. Oltre questo termine l'inizio della decomposizione richiedeva di sigillare tutto.
Il Talmud (il commentario e i regolamenti della Torah utilizzato dagli Ebrei e composto tra il IV e il VI secolo d.C.) prescrive cosa fare in casi particolari. In caso di morte con ferite e sangue versato per terra si doveva assolutamente evitare di lavare il corpo e si seppelliva anche la terra bagnata dal sangue, considerato parte integrante del corpo. Infatti per i popoli semiti (Ebrei, Arabi e Fenici) il sangue era la sede della vita, non un prodotto della materia, un vero e proprio dono di Dio. Perciò tutto il sangue appartiene a Dio, ha una sua voce che Dio ascolta [3], non va disperso e nemmeno quello degli animali va consumato. Da qui discendono le prescrizioni sulla macellazione in uso presso questi popoli.
[1] Al di fuori di questo evento le notizie su Giuseppe d'Arimatea sono esclusivamente leggendarie. Non è nemmeno ben identificata la posizione della sua città d'origine. A lui sono collegate le vicende del santo graal, cioè la coppa usata da Gesù nell'ultima cena e poi da Giuseppe per raccoglierne il sangue durante la deposizione. Giuseppe avrebbe infine portato questa reliquia nelle Isole Britanniche nella sua opera di evangelizzazione. Tutte queste storie non hanno alcun fondamento e nel corso del tempo sono state la fortuna di una ricca produzione letteraria (Parsifal, re Artù, ...) e cinematografica.
[2] il sudario è un fazzoletto grande come i nostri fazzoletti da naso o i foulard. Ed era usato per igiene e per asciugarsi il sudore (sudario, appunto). Non fa confuso con la tela o lenzuolo sepolcrale, lungo vari metri. La frase popolare, significativa, citata da papa Francesco "il sudario non ha tasche" contiene dunque un errore semantico.
[3] Si veda ad es. Genesi 4,10 dove il Signore rimprovera Caino per l'uccisione di Abele: «Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!