Le Cartoline di p. Silvano - 2023

p. Silvano Zoccarato

2023

Spiritualità missionaria  (14):  Vera civiltà, vivere da discepolo di Gesù  -  Guida della Chiesa cattolica dell’Africa romana  -  Mille malati di lebbra lo seppelliscono ai piedi di un albero  -  Fino alle estreme conseguenze e a qualsiasi costo

Spiritualità missionaria  (13):  Orizzonte missionario senza limiti - Nella foresta insieme au Pigmei, gli ultimi - I Pigmei si appoggiano a noi - Missionario al computer e sul marciapiede - Vescovo del sorriso - Vocazione sacerdotale missionaria sempre sognata - Gioia del Natale

Spiritualità missionaria  (12):  La Missione rende Discepoli–oranti e spogli di se stessi  -  Chiesa in uscita  -  Il decalogo del missionario di mons. Bruno Maggioni, biblista  -   Lavoro della grazia di Dio  -  Gesuiti, desiderio di Missione -  La nostra forza non è la nostra

Spiritualità missionaria  (11): Silenziosamente, nascostamente come Gesù a Nazareth  -  Un prossimo soffre…sono il suo servitore  -  Partire per annunciare la Buona Notizia  -  Preghiera e adorazione eucaristica  -  Perdere del tempo per Lui

Spiritualità missionaria  (10):  Il Regno di Dio è un seme nel campo  -  Testimonianza. Il sacramento dell'incontro  -  La Chiesa è segno di pace di amore ai più poveri  -  Il santo è il Vangelo vissuto oggi  -  Le Beatitudini delle Missionarie dell’Immacolata (PIME)  -  Atto di offerta della propria vita a Dio per la missione  -  Non si ama abbastanza  

Spiritualità missionaria  (9):  Il missionario è una persona di frontiera  -  La Messa  -  Marius GARAU, la rosa dell’imam  -  Lieti nelle privazioni  Se Iddio mi troverà degno, anche del martirio  -  Carità fino alla follia  -  Il più sano qui sono ancora io!  -  Andrea Dung Lac e compagni. I 117 martiri che fecero fiorire e crescere il Vangelo nel loro Paese, il Vietnam

Spiritualità missionaria  (8): Felice l’uomo pietoso che dona ai poveri  -  Una Chiesa al Presepe. Visitazione  -  Gioia di vivere immensa - Un prossimo soffre…sono il suo servitore  -  La scienza della croce secondo P. Paolo Manna  -  Proclamare al mondo intero la presenza viva di Cristo

Spiritualità missionaria  (7): Missionario contemplativo - Tempo della Chiesa tempo della missione - Salerio, tra i primi missionari del Pime - Anima missionaria - Attorno al padre della loro fede - Una chiesa per i musulmani  

Spiritualità missionaria  (6): Il missionario e il samurai - L’Eucarestia tra le nazioni - La vita è un dono anche in Cina - La missione è ‘visitazione’ - Il più grande missionario della cristianità antica - Comune vocazione missionaria - «Lascia il tuo paese, la tua famiglia e la casa di tuo padre e va nel paese che io ti mostrerò» - Missionario profugo tra i profughi - Il santo è il Vangelo vissuto oggi

Spiritualità missionaria  (5): Luca Evengelista Missionario - Preghiera del respiro missionario - O prendi i poveri, o non prendi nessuno - Poveri, ma con il cuore grande - L'industriale per i poveri  - Duc in Altum, Andiamo al largo

Spiritualità missionaria  (4): Annalena di Dio e dei poveri - Seminando scintille... - Oranti che testimoniano. Legame tra preghiera e presenza evangelica - Uomo autenticamente sinodale - Rosario missionario - Tutta la Chiesa per tutto il mondo!

Spiritualità missionaria  (3): Abbondanza della gioia - Ricordiamo alcuni missionari del Pime - Che siano tutti una cosa sola - Nutrire lo spirito di povertà - La fiammella che ha acceso il fuoco

Spiritualità missionaria  (2): Solcare i mari - Francesco Saverio - Beato Giovanni Mazzucconi, Pime - Tutti chiamati alla missione - Cura per i poveri

Sinodo in preghiera - Come il Corano racconta la sublime figura di Maria -  Mese di ottobre. Spiritualità missionaria (1): Cura della salvezza degli altri

Il Papa alla Chiesa di Mongolia: siete piccoli, ma Dio ama la piccolezza - ll Papa in Mongolia: "Diamoci da fare, costruiamo insieme un futuro di pace" - “I cattolici lieti di contribuire alla crescita della Mongolia” - Il Papa alla Chiesa mongola: essere piccoli è una risorsa, conta una fede genuina - Quali risultati?  - In Mongolia, missionari, libri viventi di catechesi   

Ci lascia padre Bianchin Mario, missionario per 50 anni in Giappone - San Pio X e gli indios dell'America del Sud

Nuovi Martiri

Don Giuseppe Geremia. Prete in tormento  -  Un summit fra le Chiese in conflitto  -  Gioia di vita missionaria  -  Suor Biancarosa Biondo

"Lo chiamavano Baba Simon"

Antonio Marangon missionario con Nazareth nel cuore 

Spiritualità Missionaria

Le vie sono diverse, la meta è unica  -  San Francesco Saverio, patrono delle missioni  -  Uscire dalla patria per predicare il Vangelo è la grandezza di ogni missionario  -  San Francesco Saverio

La parrocchia di Conscio prega col diacono PILLON ANGELO  -  Il saluto è una porta e una benedizione  -  La preghiera in terra dell’Islam tiene uniti  

Restituire fa bene a tutti - Chi arriva con lingue e tradizioni diverse “adorna il paese”

Pensiero sui migranti - Quando è giorno - Stranieri... poertatori di "Buona Novella" 

L'Italia sempre più "terra di missione" - La Cartolina agli amici del Pime - Papa Francesco ha donato ai preti di Roma un libro di René Voillaume, l'erede di De Foucauld

In ginocchio davanti alle bare - Dialogo, fratellanza e prospettive di pace in Iraq

Più responsabilità ai laici - I Martiri del PIME - Martiri Africani

Papa Francesco in Sud Sudan

Papa Francesco in Congo

Annunciare Cristo secondo Joseph Ratzinger 

Benedetto XVI missionario (2)

Benedetto XVI missionario (1)

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Treviso,  26 - 29 dicembre 2023

Spiritualità Missionaria (14)

     
 

Vera civiltà, vivere da discepolo di Gesù
Albert Schweitzer. Nacque a Kaysersberg, il 14 gennaio 1875. Suo padre, Ludwig Schweitzer, era un pastore luterano a Gunsbach, un piccolo villaggio alsaziano. Particolarità della chiesa dove predicava il padre era che si trattava del luogo di culto comune a due paesi – Gunsbach e Griesbach-au-Val – e a due confessioni religiose, cattolica e protestante. Ancora oggi le celebrazioni si suddividono fra riti in francese, riti in tedesco e riti bilingui. A questo proposito Schweitzer scrive:
        

«Da questa chiesa aperta ai due culti ho ricavato un alto insegnamento per la vita: la conciliazione [...] Le differenze tra le Chiese sono destinate a scomparire. Già da bambino mi sembrava bello che nel nostro paese cattolici e protestanti celebrassero le loro feste nello stesso tempio».

    
Profondamente cristiano, la sua religione è sempre stato un perpetuo richiamo all'insegnamento originario di Cristo. Chi entrò in contatto con lui, vedendolo al lavoro nel suo villaggio-ospedale di Lambaréné, capì molto più di quanto possiamo noi leggendo la gran mole di scritti che ci hanno trasmesso sulla sua figura. Predicatore, teologo ed eccellente organista, giunto ai trent'anni cambiò vita e si dedicò alla missione, laureandosi in medicina per poi partire alla volta del Gabon, dove avrebbe speso buona parte della sua lunga vita ad aiutare il prossimo assistendo i bisognosi sul piano umano e spirituale, insieme alla moglie Hela Bresslau: un impegno che fece epoca, tanto da meritargli, nel 1952, il premio Nobel per la pace.
Non trascurò mai il lato spirituale, abbinando costantemente all'azione il raccoglimento. Un “dietro le quinte” che il missionario ha sempre volutamente tenuto lontano dai riflettori, ma che può aiutare ad arricchire il profilo del personaggio: proprio per questo si legge con interesse il nuovo saggio di Matthieu Arnold, strutturato in quindici brevi meditazioni tematiche che raccontano proprio la spiritualità di Albert Schweitzer.
L’autore prende spunto dal Padre Nostro, preghiera che il missionario non ha mai fatto mistero di amare profondamente e che considerava “un vero e proprio riassunto della fede cristiana”; per penetrare il modo in cui Schweitzer interpreta il rapporto con Dio, con il prossimo, i rapporti tra esseri umani e tra questi e il Creato. (…) Così, capitolo dopo capitolo, Arnold affronta, attraverso il pensiero di Scwheitzer, il difficile tema dell'esaudimento («Se vuoi sapere veramente cosa vuol dire “il Signore esaudisce le preghiere”, prega per cose spirituali»), il senso del “sia fatta la tua volontà” («La maggior parte degli uomini... non sa che cosa vuol dire... la riconoscono solamente nei duri colpi del destino... ignorano tutta la felicità e la sicurezza piena di pace che si trovano... quando si riconosce la volontà di Dio nella propria vita»), la sobrietà e la gratitudine che trapela dalla richiesta del “pane quotidiano”.
Difficile non notare che il pensiero di Schweitzer è sempre caratterizzato da un accento pratico: il perdono che sfocia in un'azione etica, il “liberaci dal male” che deve partire da ognuno di noi, il senso che acquista la vita al servizio di Gesù (e il suo desiderio di “conquistare alla chiamata” i suoi fratelli), la sofferenza che forgia il credente, la fraternità che va oltre ogni discriminazione («la sola vera civiltà consiste nel vivere da discepolo di Gesù»). Perfino quando parla della pace su cui investire, e del ringraziamento a Dio come condizione per la felicità, azione e raccoglimento si intrecciano costantemente nel suo pensiero.
       
         
Guida della Chiesa cattolica dell’Africa romana
Sant’Agostino (354-430). BENEDETTO XVI , il 9 gennaio 2008 ha detto:” Nacque a Tagaste – nella provincia della Numidia, oggi Algeria, nell’Africa romana – il 13 novembre 354 da Patrizio, un pagano che poi divenne catecumeno, e da Monica, fervente cristiana. Questa donna appassionata, venerata come santa, esercitò sul figlio una grandissima influenza e lo educò nella fede cristiana. Agostino aveva anche ricevuto il sale, come segno dell'accoglienza nel catecumenato, e rimase sempre affascinato dalla figura di Gesù Cristo. Egli anzi dice di aver sempre amato Gesù, ma di essersi allontanato sempre più dalla fede ecclesiale, dalla pratica ecclesiale, come succede anche oggi per molti giovani. Agostino aveva anche un fratello, Navigio, e una sorella, della quale ignoriamo il nome e che, rimasta vedova, fu poi a capo di un monastero femminile.
La conversione al cristianesimo, il 15 agosto 386, si collocò quindi al culmine di un lungo e tormentato itinerario interiore, e l’africano si trasferì nella campagna a nord di Milano, verso il lago di Como – con la madre Monica, il figlio Adeodato e un piccolo gruppo di amici – per prepararsi al Battesimo. Così, a trentadue anni, Agostino fu battezzato da Ambrogio il 24 aprile 387, durante la Veglia pasquale, nella Cattedrale di Milano.
Dopo il Battesimo, Agostino decise di tornare in Africa con gli amici, con l’idea di praticare una vita comune, di tipo monastico, al servizio di Dio. Ma a Ostia, in attesa di partire, la madre improvvisamente si ammalò e poco più tardi morì, straziando il cuore del figlio. Rientrato finalmente in patria, il convertito si stabilì a Ippona per fondarvi appunto un monastero. In questa città della costa africana, nonostante le sue resistenze, fu ordinato presbitero nel 391 e iniziò con alcuni compagni la vita monastica a cui da tempo pensava, dividendo il suo tempo tra la preghiera, lo studio e la predicazione. Egli voleva essere solo al servizio della verità, non si sentiva chiamato alla vita pastorale, ma poi capì che la chiamata di Dio era quella di essere Pastore tra gli altri, e così di offrire il dono della verità agli altri.
A Ippona, quattro anni più tardi, nel 395, venne consacrato Vescovo. Continuando ad approfondire lo studio delle Scritture e dei testi della tradizione cristiana, Agostino fu un Vescovo esemplare nel suo instancabile impegno pastorale: predicava più volte la settimana ai suoi fedeli, sosteneva i poveri e gli orfani, curava la formazione del clero e l’organizzazione di monasteri femminili e maschili. In breve, l’antico retore si affermò come uno degli esponenti più importanti del cristianesimo di quel tempo: attivissimo nel governo della sua Diocesi – con notevoli risvolti anche civili – negli oltre trentacinque anni di episcopato, il Vescovo di Ippona esercitò infatti una vasta influenza nella guida della Chiesa cattolica dell’Africa romana e più in generale nel cristianesimo del suo tempo, fronteggiando tendenze religiose ed eresie tenaci e disgregatrici come il manicheismo, il donatismo e il pelagianesimo, che mettevano in pericolo la fede cristiana nel Dio unico e ricco di misericordia”.
   
       
Mille malati di lebbra lo seppelliscono ai piedi di un albero
Josef Daamian de Veuster. (1840-1889). Nasce a Tremelo, in Belgio, il 3 gennaio 1840, da una famiglia numerosa di agricoltori-commercianti.
I coniugi fiamminghi De Veuster hanno otto figli, da cui escono due suore e due preti dei “Sacri Cuori di Gesù e Maria”, detti anche “Società del Picpus”, dalla via di Parigi dove è nata la congregazione. Giuseppe, penultimo degli otto, è destinato ad aiutare il padre, ma a 19 anni entra anche lui al Picpus prendendo il nome di fratel Damiano. Nell’istituto c’è anche suo fratello Pamphile: ordinato prete nel 1863, Pamphile non va in missione perché malato, e allora Damiano ottiene di partire al posto del fratello, anche se non è ancora stato ordinato sacerdote.
Destinazione della missione: le Isole Sandwich, così chiamate dal loro scopritore James Cook nel 1778 in onore di Lord Sandwich, capo della Marina inglese. Sono un arcipelago indipendente sotto una monarchia locale, e più tardi si chiameranno Isole Hawaii.
Damiano le raggiunge dopo 138 giorni di navigazione, da Brema a Honolulu. Completa gli studi, diventa sacerdote nel 1864 e lavora nell’isola principale, Hawaii. Istruisce la gente nella fede e insegna ad allevare montoni e maiali, come pure a coltivare la terra. Il divario culturale crea ostacoli duri, la solitudine a volte gli pare insopportabile.
Ma è solo un primo collaudo. Nel 1873 il suo vescovo cerca preti volontari per l’isola lazzaretto di Molokai, dove il governo confina tutti i malati di lebbra, togliendoli alle famiglie: si offrono in quattro, per turni di 34 settimane, e tra loro c’è padre Damiano, che va per primo a Molokai e vi resterà per sempre (tranne un breve soggiorno a Honolulu). Ci deve restare, perché il governo teme il contagio e gli proibisce di lasciare l’isola con i suoi malati ad alta mortalità: 183 decessi nei primi otto mesi.
Ma "tanti ne seppelliamo, altrettanti ne manda il governo". Ora fuma la pipa per difesa contro l’insopportabile odore di carne in disfacimento, che a volte lo fa svenire in chiesa. A Molokai è prete, medico e padre: cura le anime, lava le piaghe, distribuisce medicine, stimola il senso di dignità dei malati, che si organizzano, lavorano la terra, creano orfanotrofi: opera loro, orgoglio loro.
Nel 1885, ecco la scoperta: anche lui è stato contagiato dalla lebbra. Ed è solo, aspettando a lungo un altro prete per confessarsi, fino all’arrivo del padre belga Conrardy, pochi mesi prima della morte. Sopporta incomprensioni, ma è capace di dire: "Sono tranquillo e rassegnato, e anche più felice in questo mio mondo". Fino all’ultimo aiuta gli studi sulla lebbra, sperimentando su di sé nuovi farmaci.
Muore dopo un mese di letto, e mille malati di lebbra lo seppelliscono ai piedi di un albero. Nel 1936 il suo corpo verrà riportato in Belgio, a Lovanio. Giovanni Paolo II lo ha beatificato a Bruxelles nel 1995, continuando l’iter iniziato da Paolo VI nel 1967 su richiesta di 33 mila lebbrosi e concluso da Benedetto XVI che lo ha canonizzato in Piazza San Pietro l'11 ottobre 2009. 

Autore: Domenico Agasso 

   

       

Fino alle estreme conseguenze e a qualsiasi costo
Mario Gerlin. (1919-1993). Nato a Pieve di Soligo (TV) nel 1919, don Mario riceve un'educazione profondamente religiosa, ma a 17 anni come reazione alle sofferenze familiari (tre fratelli sono colpiti da una misteriosa e rarissima forma di paralisi progressiva e muoiono tutti all'incirca a quarant'anni) abbandona ogni pratica religiosa. Partecipa alla seconda guerra mondiale come sottotenente di fanteria. Al rientro si dedica all'insegnamento nelle scuole elementari. Nel 1953 nel corso di un viaggio in moto fa tappa a Lourdes e da lì inizia un cammino di riscoperta alla fede che ha il suo culmine nel 1955 ad Assisi quando si riavvicinò al sacramento della Riconciliazione. Dopo un'esperienza in Francia con i Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld decise di ritornare a casa per stare accanto ai suoi familiari. Nel 1960 diventa sindaco di Pieve per la Democrazia cristiana e lascia l'incarico nel 1969 per prepararsi all'ordinazione sacerdotale che avviene l'8 dicembre 1969 nel duomo di Pieve di Soligo per l'imposizione delle mani del vescovo Luciani. Nel 1970 don Mario parte come missionario per il Burundi, dove resterà fino al 1972: qui incontra per la prima volta gli hanseniani (ovvero i lebbrosi). Rientrato è per un anno cappellano a Lentiai, quindi nel 1974 riparte per il Brasile dove è cappellano dei sanatori hanseniani prima a Marituba con Marcello Candia (fino al '77) e poi a Bambuì dove istituisce centri sociali per i malati e trasforma l'ospedale cadente in un complesso sanitario moderno ed efficiente. Nel 1984 un hanseniano in sedia a rotelle, Antonio Martins, incontra per la prima volta un papa (Giovanni Paolo II) in Vaticano: ad accompagnarlo don Mario. All'inizio degli anni Novanta, già malato, decise di terminare la propria giornata terrena tra i suoi malati. Il 27 febbraio 1993 moriva tra i suoi hanseniani, "gli ultimi degli ultimi".
Tutta la sua corrispondenza con gli amici è sempre pervasa da un unico filo conduttore: l'amore e la dedizione totale e senza riserve per gli "ultimi degli ultimi", la condivisione della loro sofferenza, la fede, la carità e la speranza vissute quotidianamente con eroismo, la certezza della risurrezione della carne, anche quella martoriata degli hanseniani, e la partecipazione alla comunione dei Santi. È stato un cantore ed un consacrato della Madonna, che ha accompagnato il suo cammino e gli ha manifestato alcuni segni di predilezione. A Lei si è affidato sicuro, scrivendo nelle sue ultime volontà: "Grazie, Nostra Signora!".

A questo riguardo ci sembra doveroso citare il testo della lettera di Papa Giovanni Paolo II, che conosceva personalmente don Mario, in risposta all'invio del libro 'Il calice di don Mario': "Sua Santità ringrazia vivamente per il cortese omaggio e, mentre esprime apprezzamento per tale pubblicazione, che contribuisce a tener viva e a diffondere la memoria di don Mario Gerlin attraverso le sue lettere dai Sanatori di Bambuí e Sabará, in Brasile, invoca la materna protezione di Maria Santissima, di cui egli fu profondamente devoto, e di cuore invia a Lei ed ai soci la Benedizione Apostolica".
Nella commemorazione del 1º marzo 1993 nel duomo di Pieve di Soligo, il vescovo Ravignani ebbe a dire: "Padre Mario, sull'esempio del Signore, ha dato fino a morire. Poiché Gesù aveva dato la sua vita per i fratelli, anch'egli doveva consumarsi per loro, con quella volontà che in lui era determinazione decisa, che avrebbe amato, come aveva detto, ‘fino alle estreme conseguenze e a qualsiasi costo'. FC

 
Ancora auguri!

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Treviso,  18 - 22 dicembre 2023

Spiritualità Missionaria (13)

     
Orizzonte missionario senza limiti  
Francesca Saverio Cabrini. Tra il 1901 e il 1913 emigrarono in America ben quasi cinque milioni di italiani, di cui oltre tre milioni provenivano dal meridione. Un vero morbo sociale, un salasso, come lo hanno definito parecchi politici e sociologi. Accanto ai drammi che l'emigrazione ebbe a suscitare, merita ricordare una santa italiana, festeggiata il 22 dicembre, che a questo fenomeno guardò con gli occhi umanissimi di donna, di cristiana, meritando così il titolo di “madre degli emigranti”: Santa Francesca Saverio Cabrini.
Nata a Sant’Angelo Lodigiano il 15 luglio 1850 e rimasta orfana di padre e di madre, Francesca desiderava chiudersi in convento, ma non fu accettata a causa della sua salute malferma. Accettò allora l'incarico di accudire un orfanotrofio, affidatole dal parroco di Codogno. Da poco diplomata maestra, la ragazza fece ben di più: convinse alcune compagne ad unirsi a lei, costituendo il primo nucleo delle Suore missionarie del Sacro Cuore; era il 1880.
Ispirandosi al grande San Francesco Saverio, sognava di salpare per la Cina, ma il Papa le indicò quale luogo di missione l’America, dove migliaia e migliaia di emigranti italiani vivevano in drammatiche e disumane condizioni. Anche lei nella prima delle sue ventiquattro traversate oceaniche condivise i disagi e le incertezze dei nostri compatrioti, poi con straordinario coraggio affrontò la metropoli di New York, badando agli orfani e agli ammalati, costruendo case, scuole e un grande ospedale. Passò poi a Chicago, quindi in California, onde allargare ancora la sua opera in tutta l'America, sino all'Argentina.
A chi si congratulava con lei per l’evidente successo di cotante opere, Madre Cabrini soleva rispondere in sincera umiltà: “Tutte queste cose non le ha fatte forse il Signore?”. La morte la colse in piena attività durante l’ennesimo viaggio a Chicago il 22 dicembre 1917. Il suo corpo venne trionfalmente traslato a New York presso la chiesa annessa alla “Mother Cabrini High School”, perché fosse vicino ai suoi “figli”. Nei suoi quaderni di viaggio aveva scritto “Oggi è tempo che l'amore non sia nascosto, ma diventi operoso, vivo e vero”.
Papa Pio XII l’ha canonizzata nel 1946. Fabio Arduino
In una Lettera alle missionarie del Sacro Cuore di Gesù, il Pontefice sottolinea come Santa Francesca abbia “accolto da Dio una vocazione missionaria” particolare: “formare e inviare per tutto il mondo donne consacrate, con un orizzonte missionario senza limiti, non semplicemente come ausiliarie di istituti religiosi o missionari maschili, ma con un proprio carisma di consacrazione femminile, pur in piena e totale disponibilità alla collaborazione sia con le Chiese locali che con le diverse congregazioni che si dedicavano all’annuncio del Vangelo ad gentes”.


     
Nella foresta insieme ai Pigmei, gli ultimi  
Rita Rossi. Missionaria da quasi 50 anni, non è più fra noi, se ne è andata in silenzio, come sempre ha vissuto, in un incidente stradale il 7 dicembre 2014, nella sua Africa, in Camerun, mentre si avvicinava all’aeroporto per tornare in Italia a trascorrere le feste natalizie. Dire che Rita era speciale è troppo semplice, infatti lei era veramente speciale, ma lo era nel suo essere normale, semplice, in una quotidianità quasi leggera.Dopo alcuni anni in Laos, e in altre zone dell’Africa, Rita viveva da 45 anni nella foresta insieme ai Pigmei, popolo piccolo di statura e di fatto. I Pigmei sono gli “ultimi”, ma nel suo cuore grande e nel suo instancabile operare erano i primi, viveva con loro offrendo la sua professionalità di ostetrica e, al bisogno, di medico, di insegnante e quant’altro, senza tuttavia voler mai imporre niente, ma solo condividere.
La sua fede era profonda. “Avevo fame e mi avete dato da mangiare, ero forestiero e….”: questo è stato il messaggio che ha dato luce ai suoi passi e consapevolezza che la sua vita non poteva che essere vissuta così.
Ultimamente tornava abbastanza spesso in Italia e nella sua Marradi, dove vivevano i suoi cari e tanti amici. Intesseva moltissimi rapporti umani, Rita era la nostra missionaria e ci faceva sentire un po’ tutti partecipi del suo progetto, e i marradesi ne erano orgogliosi e non facevano mancare affetto e generosità a lei, ai suoi bambini e al suo popolo.
Il suo atteggiamento era semplice e austero, anche se ultimamente, forse per gli anni e l’esperienza si era “addolcito” e non mancava un gesto, una carezza, uno sguardo, in particolare per i bambini e gli anziani.
Rita ha scelto di rimanere nella sua Africa. Diceva: “La terra è terra ovunque” e così noi continueremo a pensarla, instancabile nella sua foresta, a far nascere bambini, a portare ogni giorno una piccola goccia, un frammento d’amore, per contribuire a costruire un mondo migliore e soprattutto più giusto.

        
Per proseguire la missione della marradese Rita Rossi in difesa del popolo Baka e delle foreste
Un legame, quello tra Marradi e il Camerun, che nasce da lontano e che vuole crescere. L’associazione Pro Joko nasce a sostegno dell’attività di Rita Rossi. Sono le foreste più sfruttate e maltrattate del Paese, e forse dell’intera Africa centrale. I pigmei sono il popolo della foresta, ora sfruttato e umiliato. Rita, che di mestiere faceva l’ostetrica, ha vissuto in un villaggio Baka a 10 km da Yokadouma, in una capanna di legno; lei e i suoi fratelli e sorelle pigmei. L’associazione vuole dare continuità ai suoi progetti: Joko in lingua Baka significa buono, bello, santo, è la parola che più di tutte è rappresentativa dello stile di vita dei pigmei e delle scelte di Rita.
   

     
I Pigmei si appoggiano a noi  
Fraternità delle Piccole Sorelle di Gesù tra i Pigmei di Bipindi e di Salapounbe. Tra le caratteristiche principali di questo popolo pigmeo vi è la bassa statura e la propensione alla creazione di tecniche di caccia. La prima mia sorpresa, giunto a Douala, città portuale del Camerun, nel dicembre 1968, è stata l’incontro con due Piccole Sorelle di Gesù alte due spanne. “Viviamo coi Pigmei a Bipindi nella foresta del Sud-Ovest, li seguiamo nelle loro avventure di caccia, perché a volte si spostano per alcuni giorni dal loro villaggio. Spesso dobbiamo difenderli di fronte alla prepotenza della gente residente dei villaggi lungo le piste, quando portano a vendere loro la selvaggina e i frutti della foresta”. Avevo chiesto se non avessero paura di vivere coi pigmei. Sollevatesi di mezza spanna, mi risposero: “No, sono loro che si appoggiano a noi”. Nel 1985 Giovanni Paolo II andò in Camerun. Le Piccole Sorelle avevano preparato la loro corale di pigmei, ma le altre corali non accettavano di cantare davanti al Papa assieme ai ‘non uomini’. Riuscirono a parlare col segretario del Papa e anche i pigmei cantarono danzando con gioia.
Dal 1974, le Piccole Sorelle del Vangelo sono a Salapoumbé, un villaggio pigmeo nella foresta equatoriale, nel Sud-Est del Camerun. Vivendo con un popolo sfruttato ed emarginato, hanno portato la testimonianza del Vangelo e dell’Amore di Dio per tutti. Alcune piccole sorelle hanno fatto un ottimo lavoro di traduzione della Bibbia e di alcune preghiere nella lingua “baka”; questo è stato di grande aiuto per le prime comunità cristiane nascenti. Le piccole sorelle accompagnano il “popolo Baka” nella sua lotta per una vita dignitosa, collaborando a progetti per la salute e l’istruzione, ma sono anche attente a facilitare l’integrazione con altri gruppi etnici, non pigmei.

         


Missionario al computer e sul marciapiede
Carlo Acutis (1991-2006). Il salesiano Antonio Cini presenta Carlo Acutis per la Giornata Missionaria Salesiana 2022 “Comunicare Cristo Oggi”. “Tutti nascono come originali, ma molti muoiono come fotocopie” è una delle sue citazioni più famose, invito per tutti a cercare e perseguire la propria originalità.
Può un giovane del XXI secolo trovare un vero modello di vita cristiana tra i suoi coetanei? C’è un ragazzo, ancora vivo in Paradiso, che può insegnarci che la “nostra Meta deve essere l’Infinito, nostra Patria, non il finito”, come lui sosteneva, e come arrivarci senza eccessive difficoltà.
Si tratta del Beato Carlo Acutis, nato a Londra il 3 maggio 1991, ma vissuto poi a Milano. In questa città cresce come un normale ragazzo della sua generazione, in una famiglia che gli insegna i valori cristiani e frequentando le scuole cattoliche. Già dall’infanzia si vede che in lui c’è qualcosa di speciale: a soli 7 anni viene ammesso alla Prima Comunione e dai 12 anni si prende come impegni recitare ogni giorno il rosario, partecipare alla Messa quotidiana, definita da lui “la scala più corta per salire al Cielo”, la confessione frequente e andare all’Adorazione Eucaristica.
I suoi impegni di preghiera non lo estraniano però dal mondo, anzi lo rendono un giovane attivo e impegnato nelle piccole cose che un ragazzo della sua età può fare (e forse anche di più). Si impegna nello studio e nell’aiutare i suoi compagni, gioca a calcio e ai videogiochi, suona il sassofono, esce con gli amici. In tutte queste attività, trova il tempo di aiutare i poveri e i bisognosi, donando loro vestiti, cibo e la sua compagnia. Un ragazzo attento e premuroso sotto tanti aspetti.
Carlo è stato un grande appassionato di tecnologia, di Internet...e allo stesso tempo dei miracoli Eucaristici. A soli 14 anni crea un sito internet che mostra i moltissimi miracoli presenti nel mondo, che ancora esiste e viene portato avanti insieme ad altri suoi progetti. Egli, infatti, credeva fermamente nell’uso di questi mezzi di comunicazione moderni per evangelizzare e l’amore che nutre per l’Eucarestia lo sprona a lavorare per far conoscere Gesù a tutti. Un’altra sua frase famosa è: “l’Eucarestia è la mia autostrada per il cielo”. Il suo chiodo fisso era diventare santo e parlare a tutti della santità.
Muore il 12 ottobre del 2006 nell’ospedale di Monza, a soli 15 anni, per una leucemia fulminante, vivendo la malattia come una prova da offrire per la Chiesa e il Papa. È stato beatificato il 10 settembre del 2020 ad Assisi, città da lui molto amata a visitata, nella quale voleva essere seppellito e dove tuttora riposa, nel Santuario della Spogliazione della chiesa di Santa Maria Maggiore.
Carlo, portando avanti lo slogan della personale originalità, vuole evidenziarci che ogni vita può comunicare Cristo agli altri e che ciascuno è chiamato a farlo con il suo modo caratteristico. Comprese che è indispensabile un grande sforzo missionario per annunciare il Vangelo a tutti. Il suo obiettivo, infatti, fu quello dei veri missionari: giungere a quante più persone possibili per far loro conoscere la bellezza e la gioia dell’amicizia con il Signore, sfruttando ciò che anche il mondo può offrire.

   


Vescovo del sorriso
Monsignor Aristide Pirovano nasce a Erba il 22 febbraio 1915. Dopo un’infanzia vivace, ma profondamente segnata dall’educazione religiosa ricevuta dalla madre, avverte la vocazione e nel 1931 entra nel Seminario del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime) di Treviso.
Durante gli studi perde il padre in un incidente sul lavoro, e deve quindi conciliare gli impegni del Seminario con la necessità di provvedere alla famiglia. Viene ordinato sacerdote nel 1941.

     
In prima linea
Vorrebbe partire immediatamente per l’Estremo Oriente, ma la guerra e il blocco delle relazioni internazionali frenano il suo desiderio. Assegnato all’economato della sede milanese del Pime, entra in contatto con il Comitato di Liberazione Nazionale, collaborando attivamente all’espatrio di ebrei e di antifascisti. Scoperto dai tedeschi, nel dicembre 1943 viene arrestato e incarcerato a San Vittore, dove rimane per tre mesi. Viene liberato per l’intervento diretto del cardinale Alfredo Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano, che all’uscita dal carcere gli raccomanda: «La prossima volta, non farti prendere!». Tornato a Erba, padre Aristide assiste la popolazione vittima di pesanti bombardamenti e si adopera per evitare sanguinosi scontri tra le brigate partigiane e le forze nazifasciste. Il 25 aprile 1945 si mette personalmente alla guida di una colonna tedesca armata, scortandola durante la ritirata. Successivamente protegge i fascisti da vendette e ritorsioni.

Pioniere della missione
Terminata la guerra, nel 1946 parte per il Brasile, dove il Pime intende aprire nuove missioni. Nel 1948 viene destinato all’Amapà, un territorio immerso nella foresta amazzonica e digiuno di evangelizzazione. Si impegna subito nell’esplorazione della zona, alla ricerca di tribù di indios, tra avventure e pericoli. Con i confratelli del Pime e le Suore di Maria Bambina apre la regione allo sviluppo, fondando villaggi, tracciando strade, costruendo scuole e dispensari medici, insegnando l’agricoltura moderna e l’allevamento di animali domestici. Ma soprattutto creando dal nulla una nuova Chiesa a Macapà, di cui nel 1955, a soli quarant’anni è nominato vescovo consacrato il 13 novembre per mano di monsignor Giovanni Battista Montini, allora arcivescovo di Milano e futuro Papa Paolo VI. L’impegno di monsignor Pirovano e il suo esempio di dedizione al prossimo convincono l’industriale milanese Marcello Candia a vendere la sua fabbrica, a impiegare le proprie risorse a favore della realizzazione dell’ospedale di Macapà e a recarsi in Brasile quale missionario laico.

Alla guida del Pime
Nel 1965 monsignor Pirovano viene nominato Superiore generale del Pime.
In linea con il suo stile di vita, non rimane chiuso in ufficio, ma viaggia in tutti i continenti, promuovendo l’apertura di nuove missioni in Filippine, Camerun, Costa d’Avorio, Thailandia e Mato Grosso. Grazie alla sua guida, il Pime mantiene vivo lo spirito missionario anche durante il difficile periodo post-Conciliare evitando le sbandate del Sessantotto riguardo alla fede e alla Chiesa. Al termine del Superiorato, nel 1977 decide di tornare in Amazzonia con l’amico Marcello Candia, che nel frattempo ha iniziato ad assistere i lebbrosi di Marituba, colonia a sud di Belem: diventa così cappellano del lebbrosario.

Un vescovo tra i lebbrosi
Pirovano e Candia creano servizi sanitari, scolastici, religiosi e sociali, danno lavoro agli indios, attirano gente dalla foresta. In pochi anni l’ex colonia diventa una vera e propria città, abitata da decine di migliaia di persone e visitata anche da Giovanni Paolo II, l’8 luglio 1980: una giornata passata alla storia per la commovente accoglienza riservata a Karol Wojtyla, profondamente toccato.
Dopo la morte di Candia (1983), monsignor Pirovano affida la direzione dell’ex-lebbrosario ai Poveri Servi della Divina Provvidenza (l’Opera Don Calabria) e rientra in Italia.
Continua comunque ad aiutare lo sviluppo di Marituba. Colpito da un tumore, si spegne alla Casa del Pime di Rancio (Lecco), il 3 febbraio 1997. È sepolto nel cimitero di Erba.

    



Vocazione sacerdotale missionaria sempre sognata
Don Edy Savietto, missionario fidei donum nella diocesi di Roraima (nord del Brasile) è morto il 20. 12. 2023 a causa di un infarto fulminante, mentre si trovava nella sua parrocchia, a Pacaraima, al confine con il Venezuela.
        

Nato a Montebelluna il 20 agosto 1972. Ordinato sacerdote il 23 maggio 1998, è stato vicario parrocchiale a San Martino di Lupari, Maerne, San Donà di Piave e Cattedrale di Treviso; quindi, parroco di Olmi e Cavrié. Lo scorso anno, la partenza per il Brasile, “apripista”, per la nostra diocesi, di una nuova esperienza missionaria, in collaborazione con le diocesi di Padova e Vicenza.
Scriveva nell’intraprendere questa nuova avventura: “Ringrazio con tutto quello che sono e posso per lo tsunami di affetto ricevuto. Non riesco a rispondere a tutti ma una cosa è sicura, quello che percepisco dentro è legame profondo che oltrepassa oceani e costellazioni e si fa gioia di vivere e voglia di condividere. Grazie fratelli e sorelle incontrati lungo il cammino del tempo, mi date forza per salire sempre più in alto”.
      

Dom Evaristo Spengler, vescovo della diocesi di Roraima, nell’omelia, dopo aver salutato le diocesi di Treviso, Vicenza e Padova, che partecipano ai progetti missionari nella diocesi di Roraima, ha esordito ricordando il testo del Vangelo: “Io sono la Risurrezione e la Vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà”. Ha riflettuto sul Signore che ci sorprende, parlando di Dio come “il Dio dell’inaspettato”, e leggendo quanto accaduto nella diocesi di Roraima, in cui due sacerdoti sono morti di infarto in quindici giorni, come parte del Mistero di Dio, insistendo sul fatto che “non spetta a noi chiedere, perché la nostra visione è limitata rispetto all’immensità del nostro Dio”, chiedendosi che cosa il Signore voglia dalla diocesi di Roraima all’interno della realtà che sta vivendo. Ricordando la persona di don Edy, il vescovo ha detto che egli contribuisce a illuminarci, sottolineando il suo sorriso, la sua gioia, la sua cordialità, la sua accoglienza, che conquistava tutti.
Secondo il vescovo, il missionario defunto aveva recentemente manifestato il desiderio di rimanere per tutta la vita con la gente di Pacaraima, cosa che alla fine è avvenuta. Un missionario che ha lasciato la sua famiglia e la sua terra per venire a Pacaraima e unire la sua passione e il suo amore a questa terra, ha ricordato dom Evaristo Spengler, che ha insistito sul fatto che il suo cuore era pieno di amore e di accoglienza e ha ricordato il desiderio che aveva, dopo aver partecipato al 5° Congresso missionario nazionale a Manaus, di un progetto missionario nella diocesi di Roraima che comprendesse tutte le comunità, le aree missionarie e le parrocchie, promuovendo lo spirito missionario tra tutti.
Sacerdoti, religiose, missionari e migranti hanno ringraziato per la vita e la missione di don Edy, il quale ha detto che dopo 25 anni come sacerdote, a Roraima la sua vocazione sacerdotale aveva chiuso il cerchio, perché quella era la vocazione sacerdotale che aveva sempre sognato, servire il prossimo, soprattutto i più poveri, in una terra dove aveva deciso di dare la sua vita. Una vita segnata dalla semplicità, dalla gioia e dalla sua grande umanità, che ha testimoniato nella sua vita di missionario nella diocesi di Roraima, dove ha lasciato il suo seme. 

 

        

GIOIA DEL NATALE
Riconoscere in ciascuno la somiglianza con Gesù         
Papa Benedetto il giorno dell’Immacolata ha detto:”Il messaggio che ci dona Maria, quando vengo qui, in questa Festa, mi colpisce, perché lo sento rivolto a tutta la Città, a tutti gli uomini e le donne che vivono a Roma: anche a chi non ci pensa, a chi oggi non ricorda neppure che è la Festa dell’Immacolata; a chi si sente solo e abbandonato. Lo sguardo di Maria è lo sguardo di Dio su ciascuno. Lei ci guarda con l’amore stesso del Padre e ci benedice… Si comporta come nostra "avvocata" – e così la invochiamo nella Salve, Regina: "Advocata nostra". Anche se tutti parlassero male di noi, lei, la Madre, direbbe bene, perché il suo cuore immacolato è sintonizzato con la misericordia di Dio… La Madre guarda noi come Dio ha guardato lei, umile fanciulla di Nazareth, insignificante agli occhi del mondo, ma scelta e preziosa per Dio. Riconosce in ciascuno la somiglianza con il suo Figlio Gesù, anche se noi siamo così differenti! Ma chi più di lei conosce la potenza della Grazia divina? Chi meglio di lei sa che nulla è impossibile a Dio, capace addirittura di trarre il bene dal male”.
       
Come vedere l’altro?
Lettera della fondatrice Maddalena alle Piccole Sorelle in Algeria: “Vorrei che foste convinte che ci possa essere una vera amicizia, un affetto profondo tra gli esseri che non sono né della stessa religione, né della stessa razza, né dello stesso luogo. Forse non avete ancora provato a guardare quelli che vi sono affidati con occhi così, con occhi di amici e di amarli con un cuore così…
In ciascuno c’è il volto del Signore!”
Varie volte mi capitava di discutere con le Piccole Sorelle su quanto accadeva a Touggourt. Non tutto mi sembrava positivo. Subito mi risponevano: “Ma… ma…” Mi sembravano diventate le avvocate che spiegavano, e dicevano anche il positivo. Le mamme difendono sempre i loro figli, li vedono col cuore.
   
Tanti auguri!

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Treviso,  11 - 16 dicembre 2023

Spiritualità missionaria (12)

     


La Missione rende Discepoli–oranti e spogli di se stessi
Comboni diceva che, quando una persona decide in modo definitivo di cambiare rotta, cioè rompere con tutto ciò che era abituato a fare mentre era dentro un sistema che lo omologava, quella persona deve vivere “una vita di spirito e di fede”, senza questo non si esce dal sistema. Bisogna continuamente essere collegati a Dio per capire il Suo Sogno, per agire di conseguenza, secondo il Suo progetto.
Il Missionario e la missionaria che non avessero un “forte sentimento di Dio ed interesse vivo alla sua gloria e al bene delle anime, mancherebbe di attitudine ai suoi ministeri”, senza un forte spirito di preghiera e senza interesse per la vita degli altri, il missionario/a “finirebbe per trovarsi in una specie di vuoto e d'intollerabile isolamento”.
Si può lasciar tutto: gli esseri cari, il proprio paese, le proprie abitudini di prima, girare il mondo da un continente all’altro, ma se non si è discepoli, se non si cammina dietro Gesù, nulla di questo ha senso, anzi.
Il missionario/discepolo di Gesù è spoglio di se stesso perché sa che semina speranza, amore e servizio con la propria vita, ma non sa cosa raccoglierà. Per questo motivo chi soffrisse troppo la “sindrome di protagonismo, di grandezza umana o di primo della classe” è meglio che si renda conto quanto prima che cammina dietro un Dio Servo, umiliato.
Comboni dice ancora: “Il missionario deve spesso riflettere e meditare che egli lavora sì in un'opera di altissimo merito, ma sommamente ardua e laboriosa, per essere una pietra nascosta sotterra, che forse non verrà mai alla luce....e quindi, spoglio assolutamente di se stesso e privo di ogni umano conforto, lavora unicamente per il suo Dio, per le anime più abbandonate della terra, per l'eternità”.

    

    

Chiesa in uscita 

Quando papa Francesco parla di “Chiesa in uscita” e ci invita alla “conversione pastorale”… non fa altro che ribadire che non c’è missione senza incarnazione, senza andare verso l’altro e identificarsi con lui; se è vero che i privilegiati del Regno sono i poveri, allora incarnazione è cercare assieme a loro percorsi di liberazione, giustizia, pace e difesa della dignità umana. Essere portatori del Vangelo e dei suoi frutti implica la conversione di noi stessi alla BUONA NOTIZIA. Lo viviamo davvero?
I poveri del nostro continente, quelli che vivono attorno alle nostre case, conventi, parrocchie e residenze ci riconoscono come “buona notizia”? Poveri, donne e bambini seguivano Gesù perchè vedevano in lui una persona che dava loro “buone notizie”: pieno di compassione annunciava la novità buona liberandoli da ogni oppressione, dando speranza, restituendo la dignità depredata, strappando da loro ogni genere di spiriti malvagi e demoni schiavizzanti, guarendoli dalla loro lebbra, ridonando vita, sedendosi con loro alla stessa tavola. Così i vangeli ci descrivono gli atteggiamenti del Signore, capaci di costruire il Regno. L’invito dei profeti dell’Antico Testamento a essere “santi come Yahwe” diventa nel Vangelo “siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso”.
Nel Regno di Dio, noi, portatori dei frutti del suo annuncio e della sua costruzione, dobbiamo essere innanzitutto compassionevoli e misericordiosi. Dobbiamo cioè diventare sacramento (essere segno e strumento, mostrare e fare) dell’amore di Dio che in Gesù si rivela come amore incondizionato, fino alle estreme conseguenze, e cercare, com’è tipico dell’amore, il meglio per la persona amata. Dio in Gesù lo fa per noi. Parlare di presenza sacramentale significa mostrare l’efficacia del sacramento che siamo…
Essere compassionevole non vuol dire soltanto soffrire per il dolore altrui, ma anche identificarsi con l’afflitto, farsi carico di lui, accompagnarlo nel suo processo di liberazione. Come il buon samaritano. Come riusciamo a diventare buona notizia per i poveri, gli emarginati, i fedeli di altre religioni, i popoli di altre culture? Qui la missione è riconoscere la loro storia sacra, la loro storia di salvezza. È nostro compito riconoscere che Dio ha già salvato tutti questi popoli in Gesù Cristo attraverso i loro sacramenti e li ha fatti crescere grazie alle loro dottrine, ai loro insegnamenti e ai loro testi. La missione perciò non è trascinarli al nostro Dio, alla nostra religione e alla nostra Chiesa, ma, in spirito di contemplazione e gratitudine, discernere la presenza amorosa di Dio in mezzo a questi popoli e alle loro storie di conquiste, sofferenze e speranze... Missione è stare con loro, contemplare con loro, ringraziare con loro. 

La missione è scoprire e aiutare a scoprire Dio in ogni popolo. Pregare con le loro preghiere, impregnarsi della loro spiritualità presente in tante opere e scritti sacri ricchi di sapienza. E nel frattempo: “non perderemo l’occasione di nominare il Nome di Colui che scelse i poveri e i senzatetto, che preferì la pietra scartata e fu il servo sofferente di tutti. Parleremo del Santo che sempre è presente e riempie di senso le ferite e le lacrime di tutti e pianta i semi della risurrezione nel cuore della nostra morte. Lo nomineremo con umiltà; lo mostreremo come il nostro tesoro e non come un martello con cui minacciare e schiacciare i popoli. Presenteremo Gesù nella sua kenosis e nel suo amore solidale della risurrezione, come amico della gente e donatore di libertà, non come un Giulio Cesare religioso che conquista, distrugge e domina
(SAMUEL RAYAN, Una spiritualità di missione in un contesto asiatico) 

     

 

Il decalogo del missionario di mons. Bruno Maggioni, biblista
1. Il cristiano fa proprio l’ideale che ha unificato tutta la vita dell’apostolo Paolo: annunciare Gesù Cristo.
2. Annuncia un Vangelo che aggrega. Ama la sua Chiesa ed invita uomini e donne a farne parte. Tuttavia non annuncia la sua Chiesa, ma il Signore Gesù.
3. Porta un annuncio che salva. Sa che il bisogno più profondo dell’uomo è l’incontro con Dio e sa che Gesù Cristo è la piena risposta a questo bisogno.
4. Si impegna per la liberazione di tutta la persona: dal peccato, dalla fame e dall’oppressione, e anche da quel troppo benessere, ingiusto e sciupone, che distrae da Dio e rende ciechi di fronte ai poveri.
5. Vuole la salvezza vera. Non si accontenta di curare i sintomi, scende alle cause. Non si limita ad offrire aiuti che lasciano i poveri nella dipendenza, ma fa di tutto per renderli protagonisti. Ed è convinto che anche per questo è importante annunciare ai poveri la lieta notizia dell’amore di Dio che li aiuta a ritrovare la dignità.
6. Vive l’universalità evangelica. E’ insofferente di ogni chiusura; ha il gusto dell’incontro con il lontano e il diverso. Sollecita la sua comunità a valutare i problemi e le decisioni nell’ottica universalistica. Suscita e collabora a tutte le iniziative volte ad intrecciare relazioni con le altre Chiese e con altri popoli.
7. Solidarizza con le situazioni in cui vive e con le persone che gli sono accanto. Si preoccupa di tutti: come in casa è attento a tutta la famiglia, così in parrocchia, nella scuola, in fabbrica e in ogni altro ambiente nessuno gli è estraneo.
8. Ricorda che Gesù ha privilegiato gli ultimi, mostra che la prima universalità è la solidarietà estrema con gli ultimi. In una società sovente indifferente si accorge subito degli ultimi, spesso nascosti.
9. Poiché annuncia una verità che è scomoda, il cristiano missionario, che è uomo di pace, suscita reazioni e contrasti. Questo lo addolora, ma non lo ferma. Trova il coraggio, come Gesù nella comunione con il Padre e nella solidarietà dei fratelli e delle sorelle.
10. E’ consapevole del dovere della coerenza, ma non ne ha l’angoscia. Non pone nella propria coerenza il diritto di annunciare il Vangelo, ma nella fedeltà del Signore che a questo lo chiama. Del resto, egli non parla di se stesso, ma solamente di quanto Dio ha fatto per tutti. E così può parlare anche se peccatore.
(da “La Voce dei Berici”, domenica 18 ottobre 1998)
      


Lavoro della grazia di Dio
Mons. Giuseppe Macchi, PIME, definito il patriarca del Bengala, scrive: " Vorrei persuadervi tutti di questa verità, che la conversione e la perseveranza di questi cristiani, non dipendono tanto dal nostro lavoro ma sono soprattutto lavoro della grazia di Dio. Senza la grazia, tutto il resto vale ben poco, per non dire nulla. Se veramente vi sta a cuore la gloria di Dio e la salvezza delle anime, aiutate i missionari con le vostre preghiere". Anche p. Manna insiste sulla forza della preghiera che diventa fiducia nel lavoro apostolico: “Il missionario non deve mai essere sfiduciato: sarebbe offesa a quel Dio onnipotente che lo ha chiamato e per il quale egli lavora! Il vero missionario è sempre ottimista, sempre fervido di quell'entusiasmo che un giorno gli fece lasciar tutto e lo mise alla sequela di Nostro Signore nelle vie dell’apostolato. Non s’incontrano uomini di preghiera, i quali siano pessimisti sul lavoro delle missioni. E quando in missione o fuori, si sente dire da qualche missionario, che, dopo tutto, i risultati che si ottengono nel lavoro apostolico fra gli infedeli non corrispondono agli sforzi che si fanno, è certo che chi parla così non è uomo di preghiera.
Solo i santi fanno le opere grandi e durature e solo i sacerdoti santi, ripieni cioè dello Spirito di Dio; solo sacerdoti che predicano Gesù Crocifisso convertiranno il mondo, perché per fare opere grandi che non muoiono, per convertire le anime non bastano le formule, i metodi e le forze dell'uomo; ci vuole la forza di Dio, e questa forza, Dio la comunica solo ai suoi intimi "
(Manna. Esortazioni, 1930, p. 74).

      

   
Gesuiti, desiderio di Missione
Nel giornale AVVENIRE, Antonio Musarra, il venerdì 15 dicembre 2023 scrive: «Che cosa l’ha spinta a essere gesuita piuttosto che sacerdote diocesano o di un altro Ordine?». «Quello che più mi è piaciuto della Compagnia è la missionarietà, e volevo diventare missionario […]. Ho scritto al Generale […] che era il Padre Arrupe, perché mi mandasse, mi inviasse in Giappone o in un’altra parte. Ma lui ha pensato bene, e mi ha detto, con tanta carità: “Ma Lei ha avuto una malattia al polmone, quello non è tanto buono per un lavoro tanto forte”, e sono rimasto a Buenos Aires. Ma è stato tanto buono, il Padre Arrupe, perché non ha detto: “Ma Lei non è tanto santo per diventare missionario”: era buono, aveva carità». Così, papa Francesco rispondeva a braccio a un interlocutore nel giugno del 2013, nel corso d’un incontro con gli studenti delle scuole gesuitiche d’Italia e Albania radunati nell’aula Paolo VI, in Vaticano.
       
Nelle sue parole, il riferimento a una prassi secolare.
     
Jorge Mario Bergoglio, novizio – nei primi anni Sessanta – della Compagnia di Gesù, non aveva fatto altro che scrivere una «littera indipeta», desiderando recarsi in Giappone, allora in fase di ricostruzione post-bellica. Di che si trattava? Siamo di fronte a una crasi tra le parole «Indias» e «petentes». Espressione con cui si era soliti indicare le lettere di coloro che “chiedevano le Indie”: «petebant Indias». Suppliche, insomma, inviate dai gesuiti al proprio superiore generale in cui era espresso il desiderio di partire in missione in Oltremare, verso le «Indie». Bergoglio non faceva altro che dare seguito a una tradizione antica, risalente alla metà del XVI secolo, di cui fornisce, ora, un affresco impareggiabile per accuratezza e sistematicità Emanuele Colombo, professore associato alla DePaul University di Chicago, dove insegna Introduction to catholicism, nel suo Quando Dio chiama. I gesuiti e le missioni nelle Indie (1560-1960), fresco di stampa per Il Mulino (pagine 296, euro 28,00).
     
(…). L’obiettivo dei giovani gesuiti – obiettivo quantomai nobile – era quello di convincere il superiore che Dio li aveva chiamati due volte: la prima, a lasciare il secolo, entrando nella Compagnia; la seconda, a lasciare la propria città, il proprio ambiente – oggi diremmo, la propria comfort zone – per oltrepassare l’Oceano e dedicarsi alle missioni in terre lontane. Sogno romantico, forse, di religiosi ardenti d’amore per l’abito, il Cristo e l’umanità intera. In realtà, un imperativo per ogni cristiano. (…)
       
L’autore restituisce una storia avvincente e accurata della Compagnia e del suo slancio missionario: una storia della vocazione missionaria, potremmo dire, e, naturalmente, delle suggestioni culturali, dell’immaginario, dei sogni che l’hanno sorretta e alimentata nel tempo. Una storia esauritasi – o, meglio, trasformatasi – negli anni Sessanta del secolo scorso. La definizione delle «Indie», concepite, inizialmente, come terre lontane, era mutata da tempo. Il mondo si era velocemente allargato: le candidature alle missioni provenivano, ormai, da province extraeuropee. Lentamente, la tradizione delle «indipetae» sarebbe scemata in favore d’una presenza differente ma non meno missionaria, capace di dialogare con la modernità. 

       


La nostra forza non è la nostra
Nella vita missionaria ci vuole una forza d'animo che sostenga il chiamato prima nella sua preparazione, poi al momento di partire dal suo paese, quando inizia il suo lavoro e poi durante tutta la sua vita.
In una lettera del missionario Mazzucconi, scritta mentre ancora si trovava in seminario, vediamo come aveva saputo partire col piede giusto: "Ti senti debole? La forza viene da Dio: Egli solo può darla, ed Egli ce la comanda appunto perché ce la vuol dare. Prega molto e confida. Sì, confidare, ma non in noi, non nei nostri lumi, non nella nostra virtù, confidare in Dio, confidare nei meriti de! buon Gesù; da noi sperare niente, da Dio pretendere tutto. E sta pur certo che quanto più confiderai in Dio, altrettanto ti si diminuirà la confidenza in te stesso e la vanità, e sarai altrettanto atto ad ogni passo difficile.
Il fanciullo presuntuoso che confida nella sua forza dice: io sono bastante a passare questo fiume, spicca il salto e cade in mezzo; ma quell'altro che si riconosce debole, ricorre a suo padre e il padre lo prende per mano, se lo mette sulle spalle e il ragazzo seduto sulle spalle del padre attraversa ridendo il fiume. Questo tale che ride e passa con sicurezza invidiabile è l’umile che riconoscendo la sua incapacità a fare la più piccola cosa, ad ogni passo ricorre al Signore suo Padre, getta in lì tutta la speranza, tutta la confidenza di riuscirvi e poi ridendo assume anche le imprese più difficili, come se non fossero cose sue, ma cose a cui ci deve pensare Dio. E Dio ci pensa veramente perché egli tiene sempre aperto il suo occhio sopra gli umili che confidano in Lui solo”.

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Treviso,  2 - 9 dicembre 2023

Spiritualità missionaria (11)



Silenziosamente, nascostamente come Gesù a Nazareth  

Charles de Foucauld scrive le sue meditazioni. Sono felice di essere e di fare quel che vuole Gesù. Felice della felicità infinita di Dio. Se non ci fosse questa sorgente inesauribile di felicità e di pace, il male che si vede attorno condurrebbe alla tristezza.

Silenziosamente, nascostamente come Gesù a Nazareth, oscuramente, come lui, «passare sconosciuto sulla terra, come un viaggiatore nella notte», poveramente, laboriosamente, umilmente, dolcemente, facendo il bene come lui disarmato e muto dinanzi all’ingiustizia come lui; lasciandomi, come l’agnello divino, tosare ed immolare senza far resistenza né parlare; imitando in tutto Gesù a Nazareth e Gesù sulla Croce, conformiamo sempre alla condotta di Gesù a Nazareth e di Gesù sulla Croce, imitare Gesù nella sua vita a Nazareth e, giunta l’ora, imitarlo nella sua Via Crucis e nella sua morte.

Rendersi estranei ai modi di pensare, di parlare, di agire delle persone del mondo; non occuparsi di quel che pensano, dicono, fanno; fare ciò che è più perfetto, imitare Gesù, non cercare di essere eccentrico, originale – Gesù non lo era – ma nemmeno aver paura di sembrarlo, se le persone del mondo giudicano tale quel che facciamo perché è il più perfetto, perché Gesù l’avrebbe fatto… Se il mondo ci giudica male e ci trova pazzi, tanto meglio, saremo più simili a Gesù!

Si può sempre far molto con l’esempio, la bontà, la preghiera, stringendo più strette relazioni con anime tiepide o lontane dalla fede, per ricondurle, a poco a poco, a forza di pazienza, di dolcezza, di bontà, per effetto della virtù più che dei consigli ad una vita cristiana oppure, ancora, entrando in relazioni d’amicizia con persone del tutto contrarie alla religione, per far cadere, con bontà e virtù, le prevenzioni che nutrono e per ricondurle a Dio…

Bisogna estendere le nostre relazioni con i buoni cristiani per sostenerci nell’ardente amore di Dio e con i non praticanti, cercando di avere con loro, non solo rapporti mondani, ma legami di affetto cordiale, conducendoli ad aver per noi stima e confidenza e, per questo tramite, a riconciliarsi con la nostra fede. Bisogna essere missionari in Francia come nei paesi infedeli, e questo è compito di tutti i cristiani: sacerdoti e laici, uomini e donne.

Ciò che va a fare la Santa Vergine nella Visitazione non è una visita a una cugina per consolarsi ed edificarsi a vicenda col racconto delle meraviglie di Dio in loro; è ancora meno una visita di carità materiale per aiutare sua cugina negli ultimi mesi della sua gravidanza e nel parto; è assai più di tutto questo. Essa parte per santificare san Giovanni, per annunciare la buona novella, per evangelizzarlo e santificarlo, non con le sue parole, ma portando in silenzio Gesù presso di lui, nella sua casa.

Così fanno i religiosi e le religiose votate alla contemplazione nei paesi di missione. Essi vi vengono per evangelizzare e santificare i popoli infedeli, senza parole, portando Gesù in mezzo a loro nella santa Eucaristia, e portandolo nella loro vita, la vita evangelica di cui danno l’esempio e di cui sono le immagini viventi. 



Un prossimo soffre…sono il suo servitore 

Giuseppe Ambrosoli (1923-1987) missionario comboniano proclamato Beato Il 20 novembre 2022 a Kalongo, tra la sua gente.

Nato il 25 luglio 1923 a Ronago, un piccolo paese della provincia di Como, padre Giuseppe lascia la famiglia e una brillante carriera di medico per dedicarsi agli ultimi.

"Dio è amore, c'è un prossimo che soffre ed io sono il suo servitore". Con queste semplici ma profonde parole annuncia alla mamma e ai familiari la sua vocazione missionaria. Conseguita la laurea in medicina e chirurgia, si reca a Londra per specializzarsi in malattie tropicali, entra poi a far parte della Congregazione dei Missionari Comboniani e il 17 dicembre 1955 è ordinato sacerdote. Nel febbraio 1956 s’imbarca per l’Africa. È destinato a Kalongo, un villaggio sperduto nella savana, nel nord Uganda, per gestire un piccolo dispensario medico. Vi rimane fino al giorno della sua morte, nel 1987.

Padre Giuseppe è ricordato ancora oggi in Uganda come “il medico della carità”.

Grazie alla sua grande professionalità, l’instancabile dedizione, la sua incrollabile fede e lo spirito imprenditoriale, padre Giuseppe, durante i suoi trentadue anni di opera missionaria, è riuscito a trasformare il piccolo dispensario medico di Kalongo in un ospedale efficiente e moderno e ha fondato, accanto all'ospedale, la St. Mary’s Midwifery Training School, oggi ufficialmente riconosciuta come una delle migliori scuole di ostetricia del Paese.

Il 13 febbraio 1987, nel momento più drammatico della guerra civile che flagella il nord Uganda, Padre Giuseppe è costretto per ordine militare a evacuare l’ospedale. Con eroica determinazione, dopo aver messo in salvo il personale medico e i malati, riesce a salvare la scuola di ostetricia consentendo alle allieve di concludere l’anno scolastico. La sua salute già precaria ne risente irreparabilmente e il 27 marzo nel 1987, 44 giorni dopo l’evacuazione dell’ospedale, muore a Lira provato dalla malattia e dalla sofferenza, senza la possibilità di essere curato. Poco prima di morire chiede di poter restare in Uganda tra la sua gente, a cui aveva dedicato la propria esistenza. Riposa a Kalongo accanto all'ospedale che porta il suo nome.

Fedele all'ideale comboniano, ha lasciato alle generazioni future la migliore testimonianza di come sia possibile “salvare l’Africa con gli africani”. E a tutti noi di Fondazione Ambrosoli l’eredità della sua opera e del suo impegno a favore degli ultimi.

Un'eredità di vita, di forza e di gioia

Fondazione dr. Ambrosoli



Partire per annunciare la Buona Notizia
Il Concilio Vat. II ha detto: Benché l'impegno di diffondere la fede ricada su qualsiasi discepolo di Cristo in proporzione alle sue possibilità, Cristo Signore chiama sempre dalla moltitudine dei suoi discepoli quelli che egli vuole, per averli con sé e per inviarli a predicare alle genti. Perciò egli, per mezzo dello Spirito Santo, che distribuisce come vuole i suoi carismi per il bene delle anime, accende nel cuore dei singoli la vocazione missionaria e nello stesso tempo suscita in seno alla Chiesa quelle istituzioni che si assumono come dovere specifico il compito della evangelizzazione che appartiene a tutta quanta la Chiesa. Ad Gentes n. 23
  

Presentando San Francesco Saverio, il Papa ha detto: “Nonostante i viaggi dei missionari in Oriente fossero all’epoca “un invio verso mondi sconosciuti”, “lui va, perché era pieno di zelo apostolico”. “Parte così il primo di una numerosa schiera di missionari appassionati dei tempi moderni, pronti a sopportare fatiche e pericoli immensi, a raggiungere terre e incontrare popoli di culture e lingue del tutto sconosciute, spinti solo dal fortissimo desiderio di far conoscere Gesù Cristo e il suo Vangelo”. (…) Un missionario è grande quando va. E ci sono … sacerdoti, laici, suore, che vanno nelle missioni, … questo è grande: uscire dalla patria per predicare il Vangelo. È lo zelo apostolico”.

A volte mi lascio andare coi pensieri sui cambiamenti dell’Istituto e mi domando: “Il P.I.M.E. è ancora il P.I.M.E. che parte e fa partire?” Quando i primi seminaristi milanesi (1848-50) andavano alla Certosa di Pavia per sentire il missionario Supriés proveniente dall’India e informarsi sulle missioni, nel loro cuore c’era una sola cosa: partire. E divennero i nostri primi missionari del Seminario per le Missioni Estere.
Il P.I.M.E. forma e prepara a partire. Diventato internazionale, l’Istituto accanto a missionari italiani, oggi prepara a partire anche i giovani entrati nel PIME da dove i missionari hanno lavorato.

Alla partenza per la missione solitamente viene consegnato il crocifisso che poi il missionario custodisce con sé per tutta la vita. Gli vien detto “Ecco il compagno indivisibile delle tue fatiche apostoliche, il tuo sostegno nei pericoli e nelle difficoltà, il tuo conforto nella vita e nella morte.”
In risposta, il partente recita questa preghiera composta da Padre Giovanni Mazzucconi, primo martire del PIME, nel 1852: “Santissima Trinità, (…) ho deciso, col tuo aiuto, di adoperarmi a costo di qualunque sacrificio, di qualunque fatica o disagio, anche della vita, per la salvezza di quelle anime, che costano esse pure tutto il sangue della redenzione. Beato quel giorno in cui mi sarà dato di soffrire molto per una causa così santa e così pietosa; ma più beato quello in cui fossi trovato degno di spargere per esso il mio sangue e di incontrare fra i tormenti la morte! … Maria Santissima immacolata … ottienici la grazia di portare fino agli ultimi confini della terra il nome adorato del tuo divin Figlio, assieme al tuo.” 



Preghiera e adorazione eucaristica
Se la tua celebrazione e la tua adorazione eucaristica saranno vere e sincere, sarai preso dal profondo desiderio che tutta la tua vita diventi una Eucaristia. Quel pane spezzato per amore, che accogli e contempli non può non darti la voglia e la forza di continuare a donarti e a spezzarti per i tuoi fratelli. Charles de Foucauld racconta come quando si trovava in adorazione davanti all’Eucaristia e sentiva un povero bussare alla porta, si dirigesse immediatamente e con gioia verso di lui per continuare a contemplare nel volto del fratello il medesimo volto del Cristo contemplato nell’Eucaristia. Eucaristia sarà quindi anche il tuo studio adempiuto con amore e il desiderio di essere domani più preparato a servire i tuoi fratelli. Eucaristia il tuo lavoro attraverso il quale procuri il pane quotidiano per te e la tua famiglia, contribuendo ad un progresso armonico della società. Eucaristia il tuo impegno quotidiano per la pace, la giustizia e il tuo impegno politico portato avanti con integrità a costo di pagare di persona. Eucaristia il tuo fare piccole e coerenti scelte alternative di condivisione con gli ultimi che, come capitò a Gesù, potranno anche causarti incomprensioni e opposizioni. Se rimarrai fedele ad una celebrazione e adorazione quotidiana dell’Eucaristia, ti renderai anche conto come il donarsi del Cristo si attui nella discrezione, nel nascondimento, nell’umiltà, nella semplicità, nella gratuità. Lui infatti nell’Eucaristia ti accoglie facendosi accogliere. Ti convincerai allora che celebrare in modo autentico l’Eucaristia non sarà solo dare, ma anche forse e soprattutto accogliere, ascoltare, lasciarsi perdonare, lasciarsi amare, farsi piccolo, umile. Servire l’altro quasi senza darlo a vedere, accogliere l’altro dando l’impressione che sia lui ad accoglierti. E questo tuo celebrare concretamente con tutta la tua vita l’Eucaristia ti farà sperimentare un bisogno estremo di nutrirti quotidianamente di Lui per continuare a donarti e ad accogliere come Lui, in Lui e per mezzo di Lui. 

(Piccoli Fratelli del Vangelo, Insegnaci a pregare).

 

 

Perdere del tempo per Lui
La nostra preghiera deve anche essere una adorazione. Il contatto troppo continuo con gli uomini rischia di farci dimenticare questo aspetto. Non lasciamoci trascinare, sotto il peso delle sofferenze dell’umanità, a cedere alla tentazione, provata dagli apostoli quando furono testimoni dell’atto di inutile sciupio di Maddalena, che spargeva un profumo prezioso sul corpo del Cristo. Gesù merita per sé stesso di essere adorato, amato, che si perda del tempo per lui, anche quando vi sono al mondo esseri che piangono e soffrono. Vi è in questo aspetto di perdita di tempo per amore, sotto cui ci si presenta talvolta l’atto della preghiera pura, un mezzo per verificare il valore della nostra fede nella trascendenza divina e per purificare i nostri rapporti con gli uomini. Raramente questo aspetto della nostra vita che non serve a niente e non è utile a nessuno sarà capito, e questo costituirà una tentazione di più, soprattutto in un ambiente in cui l’efficacia acquista un criterio di valore assoluto. Mi pare, tuttavia, che, anche allora, la nostra preghiera non potrà tendere alla contemplazione nel mistero di Dio allo stesso modo di quella di un solitario: anche qui non potremo separarci dal peso delle anime e dalle loro miserie, che sentiremo sempre gravare su di noi. La nostra preghiera sarà più vicina a ciò che avveniva quando Gesù, stanco per la fatica, saliva sulla montagna a pregare in segreto. Come non avrebbe portato con sé, nella sua anima di redentore, tutto quel cumulo di sofferenze morali e fisiche che gli erano sfilate davanti durante la giornata? Ritroveremo, forse, attraverso ciò, un’adorazione più pura. L’adorazione è l’ammirazione del mistero supremo e nascosto della divinità. Sappiamo, da Gesù, che questo è un mistero di amore e di misericordia, poiché si è espresso interamente nei gesti divini della incarnazione e della redenzione. Una adorazione che sgorga da un cuore totalmente disponibile al prossimo è la vera e pura adorazione. 

(René Voillaume, “Pregare per vivere”).

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Treviso,  25 novembre - 1 dicembre 2023

Spiritualità missionaria (10)


Il Regno di Dio è un seme nel campo
La vita del missionario diventa seme nascosto da Dio nel campo della vita. Ogni esistenza cristiana ha un suo sapore di salvezza. Tanti sono i missionari che hanno lavorato nel silenzio e nella fede attendendo i frutti che tardavano a venire. Ma Dio è fedele verso i suoi figli che ha inviato tra le genti.
Partito nel marzo 1852, Giovanni Mazzucconi giunse in Oceania nell'ottobre di quell'anno e là morì nella prima quindicina del settembre 1855, dopo neppure tre anni di vita missionaria. Si è tentati di dire che la sua vita sia stata stroncata proprio quando stava per incominciare... Ma nell'economia della vita, ciò che conta è la forza del seme, che perdura lungo tutta l'esistenza. Giovanni ebbe questa percezione allo sbocciare del primo fiore di una pianticina di arancio ch'egli stesso aveva portato da Sydney e aveva piantato accanto alla sua capanna.
Meditativo com'era, la visione del fiore lo porta a riflettere sul senso della sua vita e a comporre una poesia:
     

Quel seme divino
In un suolo selvaggio ed incolto
piccol seme deposi sperando,
e quel seme già crebbe in virgulto,
già va ricco di fronde e di fior.
     

Si, coi fiori più vivi e leggiadri,
già quel seme il mio sguardo ricrea,
e rallegra il pensiero all’idea
d'un immenso di frutti tesor.
   
Ma, gran Padre! Quel seme divino
che deposi dell’uomo nel cuore,
quando, oh quando! una fronda ed un fiore,
quando un frutto sperato darà?
     
Deh pietà de' tuoi figli.
Ci invia quella pioggia che tutto feconda,
deh! ch’io veda spuntare una fronda!
ed in pace il tuo servo morra!
 
Beato Giovanni Mazzucconi
PIME

 

 

Testimonianza. Il sacramento dell'incontro
Nella sua Esortazione apostolica alle Chiese del Medio Oriente, all'indomani del Sinodo delle Chiese della regione, Papa Benedetto XVI propone due parole chiave che si collegano a due realtà fondamentali della vita delle Chiese e di tutte le tradizioni religiose: "comunione e testimonianza". Scrive: " La Chiesa in Medio Oriente, che fin dagli albori della fede cristiana è stata pellegrina in questa terra benedetta, oggi continua coraggiosamente la sua 'testimonianza', frutto di una vita di comunione con Dio e con il prossimo. Questa, infatti, è stata la convinzione che ha animato l'Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi del Medio Oriente... dal 10 al 24 ottobre 2010, sul tema: La Chiesa cattolica in Medio Oriente, "Comunione e testimonianza". (Ecclesia in Medio Oriente, 1).

      
Queste due realtà spirituali, associate dal papa in questo documento, "comunione e testimonianza", sono state al centro della missione della Chiesa d'Algeria fin dall'indipendenza del Paese. A meno che non si noti che in Algeria la comunione a cui si fa riferimento riguarda anzitutto la comunione tra cristiani e musulmani, poiché nella nostra regione non c'è quella pluralità di tradizioni cristiane che esistono in Medio Oriente e che devono vivere la comunione tra di loro. Trent'anni fa, un gruppo di cristiani algerini che vivevano nell'est del Paese, i Costantini, scrisse un testo che esprime magnificamente questa sintesi tra "comunione e testimonianza". È qui che risiede il cuore della nostra esistenza di cristiani in dialogo con i nostri partner musulmani in Algeria. "Gli anni trascorsi dall'indipendenza ci hanno fatto scoprire un'altra via attraverso la quale, nel quadro limitato e modesto delle nostre relazioni, può essere significato e messo in pratica il Regno di Dio, che crediamo ci trabocchi da tutte le parti: l'amicizia fraterna. Amicizia purificata, umile, disinteressata. Non comunione nel sacramento ritualizzato, ma comunque segno e realtà della grazia di Dio, un sacramento che non appartiene né ai cristiani né ai musulmani, ma ad entrambi, percepito da ciascuno secondo il proprio modo, un cammino percorso insieme, portando i pesi gli uni degli altri, aiutandosi a vicenda a capire, a trasformarsi, servire, essere fedeli" (Henri Teissier, Eglise en Islam, Centurion, 1984, p.124).
      

Ciò che è stato appena espresso da questo gruppo è in linea con un'altra espressione che esprime la nostra vita come Chiesa in Algeria: vivere "il sacramento dell'incontro". Con ciò intendiamo dire che stiamo parlando, con questa espressione propria del vocabolario cristiano, di quell'incontro profondo tra cristiani e musulmani che dà ad entrambe le parti la presenza di Dio.



La Chiesa è segno di pace di amore ai più poveri       

Perché i cattolici vivono meglio? A questa domanda di p. Piero Gheddo, PIME, risponde p. Clemente Vismara, veterano dell'opera di evangelizzazione e impareggiabile conoscitore delle tradizioni e degli usi delle popolazioni lo¬ cali della Birmania. 

"La mia esperienza mi dice che i villaggi che diventano cattolici si sviluppano più rapidamente e meglio degli altri che rimangono animisti. Il motivo è semplice: si liberano da tutte le superstizioni, da tutti gli incubi, i terrori del paganesimo. Acquistano la fiducia nel Padre, diventano più sereni, più ottimisti e più impegnati nel lavoro. incominciano a capire la dignità della donna e dei figli, che mandano a scuola, curano di più la famiglia e via dicendo. Visitando i villaggi, si vede subito la differenza fra un villaggio cattolico e uno pagano: nel primo, pur nella povertà, trovi gente pulita, educata, campagne coltivate, ragazzi che vanno a scuola, orti per avere un po' di verdura, ecc. 

I villaggi totalmente pagani sono un disastro: disordinati, senza utensili domestici, senza orti, senza animali, senza futuro insomma. Con la conversione la mentalità cambia, si fa attenta all'uomo e supera gli ostacoli più banali allo sviluppo. Ad esempio le superstizioni. Nei villaggi iko debbono ammazzare novanta maiali all’anno per gli spiriti. In una festa degli spiriti va persa tutta la ricchezza che il villaggio ha accumulato nel corso dell'annata. Poi magari fanno la fame. 

Una volta mi arrivano tre ragazzi, tre fratellini orfani scappati dal loro villaggio alla morte dei genitori, per non finire a fare gli schiavi. Il più piccolo aveva l'indice della mano destra amputato: 'Gliel'ho tagliato io’ - dice il più grandicello, che aveva circa 12 anni. - Non mi ubbidiva mai. Adesso fa tutto quel che gli dico. Erano cose normalissime, così come le vendette di famiglie e di villaggi, le punizioni crudeli date a chi trasgrediva le leggi tribali, ecc. La persona umana non contava nulla. 

Ecco, il cristianesimo ha addolcito i costumi, ha creato il senso della dignità della persona umana, ha mostrato la pietà per i poveri, i deboli, gli infermi, i bambini ed i vecchi; ha insegnato che siamo tutti fratelli e non ci sono più divisioni di tribù, di razza, di lingua... Oggi, anche su queste frontiere, la Chiesa è segno di pace, di amore ai più poveri". 

 

 

Il santo è il Vangelo vissuto oggi

Piero Gheddo ( 1929-2017), missionario giornalista del PIME, scrive: «Chi è per te Gesù Cristo?». La fede non è solo un fatto intellettuale staccato dall'esistenza quotidiana, ma amore e passione per Cristo che trasforma tutta la vita. Il Papa lo dice con chiarezza: la missione è comunicazione di un'esperienza , per cui «il vero missionario è il santo» (Redemptoris Missio, n. 90). Chi vive veramente il vangelo vale di più, per la missione e la nuova evangelizzazione, di tutti i piani pastorali e i documenti e i comitati, perché «il Santo è il Vangelo vissuto oggi», come ha detto il Card. Carlo Maria Martini.

Studiando bene le lettere di due Servi di Dio, Marcello Candia e Beato Clemente Vismara, mi sono convinto di questo: la mediocrità della nostra vita, che a volte ci rende tristi e scontenti, scoraggiati e pessimisti, non viene da difficili condizioni esterne, da scarsa cultura o salute o successo; viene dalla nostra poca comunione con Dio, dal fatto che la nostra fede è debole e limitata al piano intellettuale: non ci riscalda, non ci dà forza né gioia nelle avversità. Candia e Vismara, pur avendo avuto vite difficili con molte sofferenze, incomprensioni, difficoltà malattie, erano sempre pieni di gioia perché conoscevano bene e amavano profondamente il Signore.

Dobbiamo essere innamorati di Gesù! San Paolo diceva di essere stato «afferrato da Cristo Gesù» (Filippesi, 3, 12): «Mihi vivere Christus est», per me vivere è Cristo. E aggiungeva: «Quello che per me era un vantaggio, per amore di Cristo l'ho ritenuto una perdita. Considero ogni cosa come un nulla in confronto alla suprema conoscenza di Cristo Gesù mio Signore, per il quale mi sono privato di tutto e tutto ritengo come spazzatura, pur di guadagnare Cristo» (Filippesi 3, 7-8). Gli esegeti hanno contato nelle lettere di San Paolo 164 volte l'espressione: "in Christo", cioè la vita in Cristo. «Chi è il missionario?» hanno chiesto una volta a Madre Teresa, che ha risposto: «È quel cristiano talmente innamorato di Gesù Cristo, da non desiderare altro che di farlo conoscere e amare».

Giovanni Paolo II, dalla Omelia per la Beatificazione di P. Paolo Manna, 4 novembre 2001: 

“P. Paolo Manna ha scritto: "Il missionario di fatto non è niente se non impersona Gesù Cristo... Solo il missionario che copia fedelmente Gesù Cristo in se stesso... può riprodurne l'immagine nelle anime degli altri" (Lettera 6). In realtà, non c'è missione senza santità, come ho ribadito nell'Enciclica Redemptoris Missio: "La spiritualità missionaria della Chiesa è un cammino verso la santità. Occorre suscitare un nuovo ardore di santità fra i missionari e in tutta la comunità cristiana" (n. 90).


Le Beatitudini delle Missionarie dell’Immacolata (PIME)

Beate siamo noi, perché scelte da Dio, noi strumenti deboli e poveri per compiere i suoi disegni.

Beate siamo noi, contente di servire con umiltà, di essere povere, di non contare agli occhi del mondo.

Beate siamo noi, perché in Gesù Eucaristia, forza potente e silenziosa, troviamo il sostegno e il coraggio necessari per vivere la nostra vocazione missionaria.

Beate siamo noi, perché, certe dell’amore di Cristo, troviamo il coraggio di ripetere: Beato quel giorno in cui mi sarà dato di soffrire e di morire per il Vangelo.

Beate siamo noi, perché per amore di Cristo abbracciamo i consigli evangelici come una modalità radicale, bella e pienamente umana di vivere il Vangelo.

Beate siamo noi, perché siamo chiamate a vivere la diversità delle nostre culture in una grande disponibilità al confronto e alla reciproca trasformazione.

Beate siamo noi, perché chiamate ad essere segno profetico di una fraternità sempre possibile.

Beate siamo noi, perché siamo tutte e solo missionarie.

Beate siamo noi, perché, radicate in Dio, diveniamo sorelle e madri, facendo della nostra esistenza una casa ospitale che accoglie ogni povertà e solitudine.

Beate siamo noi, quando accogliamo la logica pasquale del piccolo seme, che porta frutto solo se muore.  

   

  

Atto di offerta della propria vita a Dio per la missione

Il beato Giovanni Battista Mazzucconi, primo martire del PIME, in occasione della sua partenza nel primo gruppo di missionari per l’Oceania nel 1852, compose un atto di offerta e pronunciò : “Beato quel giorno in cui mi sarà chiesto di soffrire molto per il tuo Vangelo, ma più beato ancora quello in cui fossi trovato degno di versare per esso il mio sangue e di incontrare fra i tormenti la morte”. Oggi il Pime ha 19 martiri.

Nel seminario missionario del PIME di Treviso hanno vissuto gli anni di formazione, poi sono partiti per la missione e furono uccisi i pp. Zanella Bruno, Ferronato Eliodoro, Fraccaro Valentino, Teruzzi Emilio. Oggi l’esperienza del martirio è ancora attuale per noi. Dopo la prima del beato Giovanni Mazzucconi in Oceania, recente è l’uccisione nelle Filippine dei padri Tullio Favali, Salvatore Carzedda, Fausto Tentorio. Questo ci stimola a considerare i nostri martiri non tanto e solo come «glorie» o «meriti» dell’Istituto o da usare per attirare vocazioni, ma come esempi di dono della vita da tenere presenti nel nostro vivere quotidiano.

Alla radice della scelta del martirio sta la scelta totale ed esclusiva di Dio. Appare in modo evidente nella preghiera del Mazzucconi che ancora oggi i membri del PIME recitano a mezzogiorno: «Per Voi solo voglio vivere, per Voi morire».

Mazzucconi diceva che prima degli «infedeli», è proprio questa scelta di Dio che rende vero tutto il resto. La missione non è altro che la scelta di Dio, che diventa l’esigenza di farlo conoscere a tutti. Per cui la missione non è vista anzitutto come «un fare l’apostolato», o un «andare incontro agli ultimi», ma come l’espressione di una passione, di una sofferenza per coloro che non hanno la possibilità di conoscere Dio. Mazzucconi, ancora, non dice che quella missionaria è la vocazione più bella, più attraente; afferma solo che la realtà più importante con e per cui vivere è Dio. 

 

 

Non si ama abbastanza  

Il 1 dicembre 1916, giorno della sua morte, Charles de Foucauld aveva scritto a sua cugina Maria de Bondy: «Come è vero, non ameremo mai abbastanza; ma il buon Dio che sa con che fango ci ha impastati, e che ci ama più di quanto una mamma può amare suo figlio, il buon Dio che non può morire, ci ha detto che non respingerà chi andrà da Lui…»

Lo stesso giorno scrive anche all’amico Luigi Massignon che è al fronte:

“Non bisogna mai esitare a domandare i posti dove maggiori siano pericolo, sacrificio, possibilità di dedizione: lasciamo l’onore a chi lo vuole, ma rischio e pena reclamiamoli sempre.

Come cristiani siamo tenuti a dare l’esempio del sacrificio e della dedizione. È un principio al quale bisogna essere fedeli sempre, con semplicità, senza domandarci se in una simile condotta s’insinui l’orgoglio. È il nostro dovere; quindi compiamolo e preghiamo il nostro Diletto, lo Sposo della nostra anima, che ci conceda di compierlo in totale umiltà e con pienezza d’amore per Dio e per il prossimo. 

Cancellarci, annullarci, ecco il mezzo più potente che possediamo per unirci a Gesù e far del bene alle anime; san Giovanni della Croce lo ripete ad ogni riga. Quando si vuol soffrire e amare, si può molto, si può molto, si può il massimo che si possa al mondo. Si sente che si soffre; non sempre si sente che si ama ed è una grande sofferenza in più; ma si sa che si vorrebbe amare e voler amare significa amare. (testo simile allo scritto alla cugina Maria, ndr.) Si trova che non si ama abbastanza ed è verissimo: mai si amerà abbastanza; ma il Signore, che sa con che fango ci ha impastati e che ci ama più di quanto una madre possa amare il suo figliuolo, ci ha detto, Lui che non mente, che non avrebbe respinto chi a Lui venisse".

Aveva già scritto qualche tempo prima: “Solo guardando al di là di questo mondo in cui tutto passa e muore, si trova la vera gioia nella speranza di un’altra vita di cui questa è solo il preludio; vita in cui il bene fatto, l’amore di cui sono assetati i nostri spiriti e i nostri cuori, saranno pienamente ed eternamente soddisfatti”. 

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Treviso,  16 - 24 novembre 2023

Spiritualità missionaria (9)


Il missionario è una persona di frontiera

Sr. Rosanna Marchetti, missionaria dell’Immacolata – Pime in Brasile scrive: “Il missionario è una persona di frontiera, che si pone negli spazi geografici e esistenziali che lo provocano ad andare oltre. Anche Gesù molte volte nei Vangeli ha varcato frontiere territoriali per incontrare popoli e culture che erano poste ai margini o addirittura non accettate dal suo proprio popolo.

La frontiera è una sfida perché chi la varca non conosce ciò che lo/la attende. Un popolo, una cultura, una lingua che non è la propria e che esige un uscire dalla propria zona di conforto per aprirsi al nuovo. Questa attitudine esige flessibilità e uno sguardo capace di cogliere il positivo che esiste attorno a noi. Varcando una frontiera, non si incontra solo una cultura ma anche un modo di vivere la fede che a volte ci mette a disagio e allora è necessario comprendere in profondità la storia e la vita di un popolo per entrare nel mondo del sacro, che si costruisce nel tempo.

La frontiera è geografica e la passiamo con il corpo e con la mente ma esistono frontiere esistenziali che il missionario è chiamato a varcare con il cuore perché disposto ad entrare nelle ferite dell’umanità, nel cuore di coloro che incontra ai margini della strada, come lo straniero di cui si parla nella parabola del Buon Samaritano. È la frontiera più difficile da superare perché è necessario andare al di là dei pregiudizi e dei preconcetti che vivono in noi e farsi concretamente “prossimo”.

Queste frontiere sono attorno a noi ma anche dentro di noi!

“Vivendo in Amazzonia, sto facendo un’esperienza straordinaria di superamento delle frontiere culturali, incontrando popoli nativi (indigeni, meticci, Afro discendenti) e immergendomi nella loro saggezza, nonché in un mondo di riti e culture così diversi dai miei. Questa diversità mi affascina profondamente, non tanto per l’aspetto folclorico, piuttosto per la sua profondità. È una fede semplice, in sintonia con il creato, che sa contemplare e vedere la vita come dono in tutti i suoi aspetti. Che ringrazia e loda il Signore per tutto ciò che offre come opportunità di vita. Una fede e una vita diversa dalla mia ma nella quale sento risuonare la voce di Dio e della creazione”.

 

 

La Messa 

Celebrare la messa a Touggourt (Algeria) con le piccole sorelle di Gesù, era il momento più bello della mia giornata. Il mio confratello Beato Giovanni Mazzucconi, primo martire dell’Istituto, a un amico che gli chiedeva che cosa facesse tutto il giorno, rispondeva : “Celebro la Messa”. E in una lettera a un amico: “Un sacerdote che dice Messa, non deve, non può assolutamente provare tristezza”. Si tratta di rendere attuali ogni giorno le parole e il dono totale da condividere con Gesù.

Vorrei che provaste anche voi a sentire la gioia di celebrare con le Piccole Sorelle, coi tecnici del petrolio di tutte le nazionalità nelle basi del petrolio. Una italiana disse: “In Italia non mi vien voglia di pregare, qui si”.

Celebrare poi con le piccole sorelle è per me un privilegio immeritato. Qui la piccola sorella Maddalena ha condiviso coi nomadi, continuamente respinti dai cittadini, momenti belli di amicizia e ne ha fatto un luogo di formazione e di ispirazione per la sua famiglia religiosa. La celebrazione ben preparata, mi richiede studio meditazione, condivisione. Anche per loro è il momento dove ritrovano l’inizio, il perché, il come della loro vocazione e vita. Spesso seguo commosso la loro offerta dopo la comunione: “Ricevi l’offerta della mia vita ad immolazione per la redenzione dei miei fratelli d’Islam e del mondo intero…

I primi missionari del mio Istituto dicevano: “.... per Voi solo voglio vivere, per Voi morire. Ecco la Vostra vittima, fatela pura, santa, degna di essere sacrificata per Voi”.

 

 

Marius GARAU, la rosa dell’imam.

L’incontro spirituale fra un cristiano e un musulmano, EMI, Bologna 

  

Marius Garau, prete di origine sarda, ma nato in Tunisia Infermiere, forgiato dalle radici mediterranee di una povera e semplice famiglia italiana. Parlava perfettamente la lingua del paese che gli ha permesso di essere di "questo" popolo, uomo di ascolto, in umiltà.  Ha saputo vivere una grande storia di fratellanza con l'Imam della grande moschea di Gafsa che lo considerava un vero fratello.

Si Alì Mehrez, imam della grande moschea di Gafsa: sono questi, stavolta, i protagonisti delle nostre pagine, sui quali ci soffermiamo prendendo lo spunto dal piccolo testo cui è stato affidato il loro vibrante incontro spirituale, avvenuto nel sud della Tunisia. Marius, nato in terra musulmana, si trovò subito immerso in un contesto pluralista con la specificità della propria fede, già a partire  dalla frequentazione delle scuole elementari ; Si Alì, invece , «tanto modesto quanto profondo», nel 1961 fu scelto a diventare imam a Gafsa fino al giorno della sua morte (avvenuta il 25 maggio 1978) per la competenza teologica, la rettitudine morale e il rispetto di cui era circondato. Per entrambi la frequentazione reciproca portò a constatare che «non è solamente alla tolleranza che noi siamo invitati, ma a riconoscere nell’ altro i tratti di un fratello in umanità, un fratello amato da Dio, avviato ad un destino meraviglioso nella gioia di Dio che non conosce declino»

Alcuni tratti

“Si possono scambiare parole che non avranno mai un seguito, ma può anche essere il preludio di una bella sinfonia, quella dell’Amicizia e dell’amore» (19). «Durante gli anni abbiamo condiviso ciò che ci stava maggiormente a cuore: cose della vita o che erano oggetto dei nostri sermoni alla comunità musulmana o alla comunità cristiana. Ci sentivamo entrambi investiti di una missione analoga che ci sovrastava e ci animava: testimoniare il Dio Vivente e la sua passione per l’uomo» (2 0). «Nelle sue parole scoprivo la gioia del servitore della Parola che presta la sua voce a Dio per la gioia di tutto il popolo» (42). E Si Alì aggiungeva che: «il prete e l’imam debbono avere amore per la verità, per la giustizia e il coraggio di proclamarle» (38).

La rosa

A proposito: il titolo del libro rimanda ad una rosa bianca presentata a Marius dalla figlia di Si Alì, la diciassettenne Najjia, mentre il padre spiegava: «Questa rosa donala al nostro amico, perché ha un grande valore, è più bella del diamante, vale più di un cumulo d’oro ... è il segno della nostra amicizia spirituale, poiché la carne, la materia non sono niente, è lo spirito che conta e che vivifica tutte le cose» (23). Comprendiamo allora anche le parole di Marius, che bene si prestano a concludere queste pagine: «Lode a te, Signore, che mi hai fatto incontrare questo figlio di Abramo al margine del deserto» (26). 

Giuliano Zatti  

   

   

Lieti nelle privazioni

Qualche missionario ha imparato ad accettare con spirito di sacrificio le condizioni di estrema povertà in cui si è trovato a vivere, e addirittura a sorridervi sopra. Nel libro «Sangue Fecon­do» di p. Antonio Lozza, PIME, così si legge a proposito di un primo impatto con la Birmania: «Gli inizi sono sempre penosi. Ma a Tarudda mancava tutto: non un buco ove abitare, non una stuoia su cui stendersi ...

P. Mario Dall’Agnol adatta alla meglio un tugurio abbandonato e, per consolarsi di tanto squallore, ammirava il panorama veramente splendido. intanto scriveva: "Abito in una capanna di bambù, posta su un cucuzzolo di monte sovrastante il villaggio di Tarudda. Vento e sole entrano liberamente; se piove ho il bagno a domicilio, proprio come i grandi signori... Eh, quando uno nasce fortunato! Per mobilio due sedie e un tavolino fatto col coltellaccio del mio catechista; per cibo un po’ di riso con erbe di Bhyrapatnam. Ci rimasi per tre mesi. Il giovane padre Iginio Chinellato, da vero cavaliere, mi cede la stanza più bella. Che reggia, quella casa! Una capanna con muri di fango e tetto di foglie, circondata dagli acquitrini delle risaie. Lucertole, formiche, scorpioni, rane, zanzare, topi, cani, gatti, uccelli: insomma, tutti gli animali creati dal buon Dio convivono con me, in perfetto comunismo, nella mia capanna. Le zanzare! che il Cielo le benedica! Di notte specialmente, vengono a cantarmi attorno alle orecchie le loro canzoni più belle e a darmi i.… più affettuosi baci. Pianto una zanzariera, e così evito di rendermi irriconoscente verso di Ioro, col prenderle a schiaffi, quando non si posano sulla faccia, sul collo, sulle braccia, sulle gambe. I topi devono essersi accorti di tanta mia mansuetudine e sono così audaci che, di notte, vengono a saltarmi sulla branda. Uno di loro, una notte, me lo trovo sul muso, e un'altra notte, un altro comincia a graffiarmi un piede. Ma questo ci lascia la pelle sotto una terribile bastonata». «Sangue Fecondo» di p. Antonio Lozza.

 

 

Se Iddio mi troverà degno, anche del martirio

P. BRUNO ZANELLA, PIME.   Nato nel 1909 a Piovene (Padova), iniziò la formazione 1923. Fu ammesso al Giuramento e ordinato Presbitero nel 1935. Partì per la Cina (Kaifeng) nel 1936.  Veniva ucciso il 19/11/19 41 a Dingkun (Cina).  È sepolto a Zhoukou (Cina).

P. Bruno fu un vero martire di Cristo e della fede. perché seppe amare tanto.  Come aveva sempre detto «di sì alla mamma», così seppe dire prontamente di sì a Gesù che gli faceva sentire il «lascia tutto e tutti, vieni, seguimi... ti voglio fare un pescatore delle anime... un apostolo perché porti il mio nome fra le genti. E il 1° ottobre 1933 entrava nella scuola apostolica di Treviso, offerta all’Istituto dal tanto venerato, santo pastore di quella Diocesi, Monsignor Longhin.

Nel settembre del 1935, nella bella Chiesa di Povegliano, dove aveva sentito la chiamata del Signore, fra un’immensa folla di popolo devoto e commosso, canta la sua Prima Santa Messa. È sacerdote; ora non attende che ricevere il Crocifisso, Colui che lo deve accompagnare nelle Sue peregrinazioni apostoliche, il Suo conforto in vita ed in morte. e salpare alla conquista del mondo pagano a Cristo.

Scrive alla mamma: “Oh Mamma - così annunciava la sua destinazione alla missione di Kaifeng, nella provincia del Honan, Cina: Kaifeng - ecco la mia missione! Ecco l’altare su cui immolerò la mia vita per l’avvento del regno di Cristo! Mamma, dite con me al Signore: Fiat! Diciamolo come lo disse la Madonna che con la gioia e l’onore di diventare corredentrice accettò anche i sacrifici annessi a tanta missione. Che il Signore mi conceda d’imitare il Beato Teofano Venard nella santità e nello zelo, e, se Iddio mi troverà degno, anche del martirio”.

Scrive di lui P. Antonio Cattaneo: “P. Bruno non si risparmia per i suoi cristiani. non conosce fatica o disagio. L’amore è una potenza attiva, non conosce l’isolamento suicida o la perpetuità statica: l’amore crea l’azione. vince l’ostacolo. è propulsore di vita e di progresso. P. Bruno non può star fermo: un po’ in barca, un po’ a piedi ed in bicicletta visita i suoi cristiani- apre nuove scuole, immette un fermento nuovo nei suoi figli spirituali. i quali pertanto entusiasti attendono già la visita promessa e ardentemente attesa del Pastore della Diocesi.

E così P. Bruno. a sua insaputa. affrettava per lui e per il Pastore e proprio là a Tingtsuen la sublime realtà del suo grande sogno: il martirio. Come Gesù fondò la Chiesa e redense il mondo col suo sangue, così nel sudore e nel sangue dei missionari, la stessa fede «la bella, immortal, benefica fede» viene propagata nelle terre pagane. “a quella luce cotal si diventa, che volgersi da Lei per altro aspetto, è impossibile che mai si contenta” (PARADISO XXXIII) “.   

     

    

Carità fino alla follia

Siamo alla fine del secolo scorso, in un villaggio della diocesi indiana di Hyderabad. Fra i cristiani di p. Ciccolungo, PIME, vi erano due famiglie di lebbrosi. Egli le assisteva ed aiutava con grande carità. Un giovane pagano, nello stadio ultimo della malattia, venne un giorno a chiedere l'elemosina al Padre. Il suo stato era veramente compassionevole; aveva piaghe alle mani e ai piedi e la faccia era così sformata da sembrare un mostro. Faceva ribrezzo a tutti; anche i poveri lo rifuggivano. Il buon Padre lo accolse con grande carità, lo fece pulire e gli preparò acqua per un bagno. Commosso a tanta carità, ii povero lebbroso chiese di farsi cristiano ed il Padre se lo adottò come figlio. Gli procurò una piccola capanna in un villaggio cristiano ad un miglio dalla nostra casa e vi andava ogni giorno a lavarlo, a portargli cibo e ad istruirlo nella Dottrina Cristiana.

Una volta, appunto per vincere la naturale riluttanza, egli volle indossare per una notte la veste del lebbroso... Fu appunto il suo amore per i lebbrosi e la santa follia di volerli servire e salvare che aveva messo nel suo cuore la brama di andare a Molokay. Il Signore accettò ii suo desiderio e lo rimeritò chiamandolo in Cielo.

Molti altri sono gli esempi di povertà dei nostri missionari, probabilmente rimasti anche sconosciuti.  Quella che è certo e che la povertà vissuta e stata sempre e dovunque testimonianza significativa e indimenticabile del Vangelo predicato dal missionario.

  

  

Il più sano qui sono ancora io!

Chi lavora tra i malati, come spesso accade in missione, si rende conto di quanto prezioso sia il dono della salute e di quanto sia doveroso metterlo a servizio di chi soffre, anche se non si è più nel fior fiore della giovinezza. Così p. Frascogna, PIME, ultrasessantenne e acciaccato, scriveva dall'lndia, consumandosi fino all'ultimo per i suoi lebbrosi. "Sono due anni che lasciai l'Italia l'ultima volta e, benché tuttora acciaccato e 'sottile', campo ancora, pacifico e sereno, lieto di continuare il mio lavoro in mezzo ai neofiti e catecumeni e nei due villaggi dei miei cari lebbrosi, anche se si tratta di un lavoro a scartamento ridotto, come si conviene alle forze di un ultrasessantenne. Certo, vent'anni fa ero più attivo!... Ma guardandomi attorno, posso dirmi fortunato, perché sono ancora io il più sano tra tanti ricoverati lebbrosi, molti dei quali sono anche ciechi. Per questi poveri amici ho dato tutto me stesso e tutto quanto ho ricevuto dalla carità dei benefattori, che ringrazio di cuore. "  

    

     

Andrea Dung Lac e compagni. I 117 martiri che fecero fiorire e crescere il Vangelo nel loro Paese, il Vietnam
Il Vangelo è dirompente, non si abbassa a cercare mediazioni ma si offre in tutta la sua forza, ecco perché oggi, epoca di compromessi e di estremo pragmatismo, esso conserva tutta la sua profezia. Ed ecco perché è sempre più difficile per il nostro tempo comprendere la scelta di chi ha rinunciato alla propria vita per testimoniare il messaggio di Cristo Risorto. Una scelta controcorrente anche nel contesto in cui visse sant’Andrea Dung Lac, sacerdote vietnamita, che affrontò il martirio nel 1839. Nel suo Paese tra il 1625 e il 1886 furono 53 gli editti contro i testimoni del Vangelo. In 261 anni più di 130 mila cristiani furono uccisi perché testimoni della profezia del Vangelo. Oggi la Chiesa ricorda 117 martiri vietnamiti: 50 preti, 59 laici e 8 vescovi; tra loro anche 11 spagnoli e 10 francesi. Capofila di questo elenco è proprio Andrea Dung Lac nato nel 1795 e diventato prete nel 1823, dopo essere stato catechista. Durante il suo ministero fu imprigionato più volte: per due volte venne catturato e poi liberato dietro pagamento di un riscatto. La terza volta, però, fu lui stesso a chiedere di non essere liberato, convinto di dover affrontare a viso aperto i persecutori. Nel 1839 fu portato ad Hanoi, dove gli venne chiesto di abiurare: il rifiuto gli costò la vita. Dal 1990 per volere di Giovanni Paolo II questi 117 martiri sono anche patroni del Vietnam. 

Matteo Liut 

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Treviso,  8 - 14 novembre 2023

Spiritualità missionaria (8)

 

Felice l’uomo pietoso che dona ai poveri

P. Valeriano Fraccaro. Nato il 15/03/1913 a Castelfranco Veneto (Treviso). Venne ucciso il 28/09/1974 a Say Kung, Hong Kong.

La mamma ha allevato una nidiata di 14 figli. Ogni mattina passava dal letto all’altare, per trovare la forza e la bontà nell’Eucaristia.

A scoprire il corpo di Padre Valeriano è un giovanissimo missionario di ventisei anni, Francesco Frontini. Per lui è un colpo terribile… Anche quella sera il missionario ha avuto visite, fin quasi le undici. Ma chi può averlo ucciso? Chi poteva voler male a P. Valeriano? La sua veste bianca, la cartellona sformata che si portava sempre dietro, il grande ombrello da contadino con cui si riparava dai caldi raggi del sole, sono popolari in tutti e trentasette i villaggi del distretto. I bambini lo riconoscono da lontano per quel suo incedere un po' goffo e gli corrono incontro gridando sulle stradine polverose, che lui stesso percorre sempre a piedi. 

Nel novembre del 1939 scriveva a suo fratello, P. Vittorino: «Sono sempre lieto e la salute non mi manca, le gambe ancora forti per fare lunghi viaggi, la stanza senza disturbi e il sonno profondo senza sogni. C'è da lavorare da spolmonarsi...».

Era giunto a Hanzhong nel 1937, all'età di ventiquattro anni, senza nulla. Infatti, i bagagli, spediti dall'Italia via mare, erano rimasti fermi in un magazzino allo scoppio della guerra. Glieli consegnarono soltanto nel 1945 quando "ormai non ne avevo più bisogno". Era un duro periodo: «La guerra continua e non si sa quando finirà. In questi giorni - scriveva alla fine del 1939 - gli aeroplani giapponesi hanno cominciato a bombardare Hanzhong: tante bombe, tanti disastri e morti. L'ultima volta trenta bombe e più sono cadute sui fabbricati del Vicariato. Gennaio 1951: «Siamo sotto dei veri padroni, proclamata la libertà di religione, di stampa, di propaganda, però vogliono sapere tutte le nostre cose, pretendono che si avvisi la polizia su tutto, proibiscono ai cristiani di andare in chiesa e ai preti di compiere il ministero. Temiamo di essere cacciati via dalla Cina …”

Così, dopo molte dolorose vicende, anche lui nel 1951 fu espulso dalla Cina per sempre, come nemico del popolo. Lasciata la Cina continentale, riuscì a rimanere a Hong Kong dove mise radici.

È da poco a Cairn quando scoppia un violentissimo tifone che devasta ogni cosa. Padre Valeriano, allora, organizza i soccorsi… Ama talmente le persone anziane, che ha persino organizzato il "Festival della riconoscenza per i vecchi". In coincidenza con le feste del Capodanno cinese - quando tutti corrono in città a divertirsi, lasciano in casa, soli, i "nonni" - Inventa una gran festa riservata agli anziani. Fa tutto lui: serve in tavola, canta, racconta storie allegre e mesce del buon vino, un vero lusso per i pescatori di Cairn (c'è sempre qualche vecchietto che se ne torna a casa mezzo brillo!). «Che male c'è? Se fosse male - sostiene P. Valeriano - nostro Signore non avrebbe cambiato l'acqua in vino, alle nozze di Cana».

In tutte le case è amato il suo "faccione sorridente, grondante sudore, che egli si asciuga con un gran fazzoletto da contadino" e che gli è valso un altro soprannome: "Papa Giovanni". Per lui evangelizzazione significa rapporto personale con la gente, mantenere i contatti con tutte le famiglie dei villaggi. È capace di prendere la barca e partire alle sette del mattino e tornare la sera alle dieci, undici: fa il giro dei piccoli gruppi dispersi, entra nelle baracche a visitare i malati, a scherzare con le vecchiette che non si possono muovere, va a trovare i pescatori sul luogo del loro lavoro e poi celebra messa dove capita, spesso nelle barche dove i pescatori vivono e dormono. Questo, dice, per creare una comunità di fede e di vita. 

Un piccolo "Papa Giovanni", dunque, con quel sorriso che nasce dalla semplicità evangelica, da un cuore dilatato, da una fede più forte delle amarezze quotidiane… E lui è il primo a coltivare questo intenso rapporto con Dio, nonostante i mille impegni e preoccupazioni: «Pur essendo occupati in tante faccende materiali, cerchiamo di trovare un po' di tempo per raccoglierci tra noi e Dio e pensare alla nostra anima»

   

  

Una Chiesa al Presepe. Visitazione 

Mons Desfarges, vescovo di Constantine ( Algeria), nel 2012 scriveva la sua prima lettera pastorale col titolo Une Eglise dans la mangeoire, Una Chiesa nella mangiatoia.

Il vescovo vede nell’incarnazione di Gesù il senso pieno della natura e della missione della Chiesa. Prima… Gesù presente e attivo in Maria e poi… quando incontra e accoglie nel Presepio: Chiesa in visita e che incontra e dialoga. 

I vescovi del Maghreb hanno continuato questa riflessione nella lettera Servi della Speranza pubblicata il 1° dicembre 2014. “Fuori da ogni conquista, la missione è una Visitazione: Come Maria, portando Colui che ci porta, noi andiamo a visitare i nostri fratelli e sorelle per aiutarli e ogni incontro è effusione dello Spirito Santo, una Pentecoste… La storia delle nostre Chiese è la storia di questi incontri di umanità…. La grazia di ‘andare verso’ ci fa sperimentare una gioia simile a quella nata nell’incontro tra Maria e Elisabetta. I bimbi sussultano. Maria esclama il Magnificat! 

Le nostre Chiese vivono l’apostolato dell’incontro. Condotti dallo Spirito, i nostri cuori si aprono al mistero dell’altro… sperimentiamo una comunione veramente spirituale…in un cammino di verità. La speranza ci spinge in fretta al servizio della vita che vuol nascere in ogni persona. Con Maria, le nostre Chiese vogliono vivere il “fiat” che permette l’accoglienza con rispetto del cammino dell’altro, della sua luce, della sua speranza. Ogni persona è un mistero sacro… Maria ci precede a meditare “gli avvenimenti” circa la storia dei popoli ai quali siamo mandati. Un cammino di incarnazione, chiamati ad accompagnare ogni giorno il cammino di Dio verso i popoli del mondo… e vivere una crescita in umanità la cui ultima tappa è l’incontro con Dio”. 

Seguendo Maria i vescovi del Maghreb nel documento Servi della Speranza citano dal libro M. La rose de l’Iman di Garau : “La missione non nasce da un di più che avremmo da comunicare agli altri, ma nasce da un vuoto, dalla mancanza dell’altro, senza l’incontro del quale non potrei mai liberare il mio Magnificat”. Queste parole mi ricordano la novità del Concilio quando il comando di andare ad annunciare nasceva dall’urgenza esistente nella Trinità di raggiungere l’umanità, di visitare… come canta Zaccaria : Dio ha visitato e redento il suo popolo

  

  

Gioia di vivere immensa  

Luciano Bottan (1965-2000), missionario laico morto in Ciad. Ci racconta di lui sua nipote Martina Fanti, 32 anni, fisioterapista all’ospedale San Camillo di Treviso. Era una bambina nel giorno di quel tragico incidente, ma lo zio Luciano se lo ricorda bene. E lo ha seguito, nel suo esempio, partendo anche lei in missione. Rimanendo estasiata, ci racconta al telefono, di come anno dopo anno quel giovane «laico missionario», ha continuato a trasformare la vita di chi lo ha conosciuto. Estasiata… perché, anche dopo 21 anni da quel 20 ottobre in Ciad, Luciano non ha mai smesso di portare avanti la sua missione.  

Fermiamoci a quel 20 ottobre. «Luciano aveva già fatto un viaggio di un mese in Benin, usando le ferie del lavoro. Poi ha voluto partire per il Ciad. E per andarci, avendo esaurito le ferie di quell’anno, aveva chiesto già quelle dell’anno successivo. Purtroppo nella sede della missione non c’è mai arrivato… L’incidente è avvenuto in macchina, sulla strada che collega la capitale N’Djamena e Fianga. Con lui è morto anche Jean, un diacono locale. In quei luoghi la strada è un disastro, ci sono buchi dappertutto. E, paradossalmente, nell’unico tratto fatto bene e messo a posto, hanno accelerato ed è scoppiata una gomma. Sono andati fuori strada e si sono schiantati contro un albero: mio zio è morto sul colpo. E, nel giro di qualche ora, è arrivata anche a noi la notizia».   

Ricordi la tua reazione? «Ho pianto tantissimo… Poi ho deciso di scrivere una letterina per il funerale e l’ho data a don Saverio, prete che era con lui durante l’incidente. Gli ho scritto: “Voglio venire in Africa, per vedere dove è morto lo zio”. Ci ho messo 20 anni, ma ce l’ho fatta (sorride)».

Non è stato facile da accettare, poi abbiamo fatto un passo grande, un passo di fede, e tutto è diventato più chiaro. In tutte le persone che lo hanno conosciuto vedo degli arricchimenti enormi. Luciano ha davvero trasformato la nostra vita».

Siete tornati in Ciad, con un viaggio speciale… «Nel giugno 2019, siamo partiti per concludere quel viaggio che Luciano non aveva portato a termine, e festeggiare i 20 anni dalla costruzione della chiesa a Fianga, il cui coro è stato intitolato proprio allo zio. Con me c’erano mia mamma e l’altro mio zio, e altre persone che hanno conosciuto Luciano, direttamente o indirettamente. Ci siamo anche fermati nel luogo dell’incidente e abbiamo lasciato un ricordo. Ci hanno chiesto di lasciare un simbolo e, grazie alla raccolta fondi con la parrocchia Santa Maria del Sile di Treviso, abbiamo costruito un pozzo. Perché, in quei luoghi, portare acqua vuol dire portare vita… E, se penso a Luciano, immagino un seme che porta frutto».

Poi nel 2020 sei tornata per sei mesi di volontariato. Che realtà hai trovato? È davvero difficile vivere, nessuno ha la sicurezza di arrivare al giorno dopo… Se stai male ti curi solo se hai soldi, e anche se paghi gli ospedali sono quelli che sono. La voglia è di scappare, lontano. Ma scappa solo chi può, perché in Africa chi è povero non va da nessuna parte. Nonostante tutto, pur non avendo nulla, hanno una gioia di vivere immensa. Che ti riempie il cuore».

Torniamo alla figura di tuo zio. Quando è morto, l’ho sognato, due settimane dopo. Gli direi grazie perché senza il suo esempio non potrei vivere questa vita così meravigliosa. 

Alessandro Venticinque

  

  

Un prossimo soffre…sono il suo servitore 

Giuseppe Ambrosoli (1923-1987) missionario comboniano proclamato Beato Il 20 novembre 2022 a Kalongo, tra la sua gente.

Nato il 25 luglio 1923 a Ronago, un piccolo paese della provincia di Como, padre Giuseppe lascia la famiglia e una brillante carriera di medico per dedicarsi agli ultimi.

"Dio è amore, c'è un prossimo che soffre ed io sono il suo servitore". Con queste semplici ma profonde parole annuncia alla mamma e ai familiari la sua vocazione missionaria. Conseguita la laurea in medicina e chirurgia, si reca a Londra per specializzarsi in malattie tropicali, entra poi a far parte della Congregazione dei Missionari Comboniani e il 17 dicembre 1955 è ordinato sacerdote. Nel febbraio 1956 s’imbarca per l’Africa. È destinato a Kalongo, un villaggio sperduto nella savana, nel nord Uganda, per gestire un piccolo dispensario medico. Vi rimane fino al giorno della sua morte, nel 1987.

Padre Giuseppe è ricordato ancora oggi in Uganda come “il medico della carità”.

Grazie alla sua grande professionalità, l’instancabile dedizione, la sua incrollabile fede e lo spirito imprenditoriale, padre Giuseppe, durante i suoi trentadue anni di opera missionaria, è riuscito a trasformare il piccolo dispensario medico di Kalongo in un ospedale efficiente e moderno e ha fondato, accanto all'ospedale, la St. Mary’s Midwifery Training School, oggi ufficialmente riconosciuta come una delle migliori scuole di ostetricia del Paese.

Il 13 febbraio 1987, nel momento più drammatico della guerra civile che flagella il nord Uganda, Padre Giuseppe è costretto per ordine militare a evacuare l’ospedale. Con eroica determinazione, dopo aver messo in salvo il personale medico e i malati, riesce a salvare la scuola di ostetricia consentendo alle allieve di concludere l’anno scolastico. La sua salute già precaria ne risente irreparabilmente e il 27 marzo nel 1987, 44 giorni dopo l’evacuazione dell’ospedale, muore a Lira provato dalla malattia e dalla sofferenza, senza la possibilità di essere curato. Poco prima di morire chiede di poter restare in Uganda tra la sua gente, a cui aveva dedicato la propria esistenza. Riposa a Kalongo accanto all'ospedale che porta il suo nome.

Fedele all'ideale comboniano, ha lasciato alle generazioni future la migliore testimonianza di come sia possibile “salvare l’Africa con gli africani”. E a tutti noi di Fondazione Ambrosoli l’eredità della sua opera e del suo impegno a favore degli ultimi.

Un'eredità di vita, di forza e di gioia. 

Fondazione dr. Ambrosoli 

  

  

La scienza della croce secondo P. Paolo Manna
«Per patire insieme con Lui (Cristo) io sopporto tutto, perché me ne dà la forza interiore Lui, che è diventato l'uomo perfetto”. 

Ignazio di Antiochia
       

Il Beato padre Paolo Manna (1872-1952), Superiore Generale del PIME, è maestro di spiritualità missionaria per il suo Istituto e per la Chiesa. Dal suo libro Virtù Apostoliche ricaviamo alcune espressioni che ci aiuteranno alla vera assimilazione al mistero di Cristo.
     

"Il missionario non è niente se non impersona Gesù Cristo. Solo il missionario che lo copia fedelmente in se stesso può dire ai popoli con l'apostolo Paolo: - Siate miei imitatori come io lo sono di Cristo. Il missionario deve avere una vera passione per le anime. Ma come avrà questo amore se non è un uomo di orazione? - Ogni zelo che non zampilla dal mistero della croce è effimero. (pagg. 16-18 )
Il crocifisso ci fece missionari, ed è il crocifisso ancora che deve nutrire in noi l'amore per i fratelli... Innamorati di Gesù Cristo, saremo grandi missionari. (pagg. 177-178 )
Non capisce la sua vocazione di missionario chi, accettando la parte attiva del suo ministero di insegnare, predicare, battezzare, non accetta anche la parte passiva di vittima per Gesù... Se vogliamo quindi essere cooperatori della redenzione, studiamoci, come tutti i grandi uomini apostolici, di vivere e offrirci crocifissi con nostro Signore Gesù Cristo. (pagg. 176-177)
Tra le privazioni e le fatiche di cui è intessuta la vita di missione, ci sono difficoltà ed angosce che conobbero anche gli apostoli, pene e angosce capaci di abbattere anche gli animi più forti e generosi, se non sono sostenuti dalla potente Grazia di Dio: la poca corrispondenza, l'ingratitudine, la solitudine e l'abbandono, i malintesi, la pochezza dei mezzi, le tentazioni... tutte difficoltà capaci di produrre tristezza e sfiducia. Chi potrà sostenerci in tali frangenti? Dio, solo Dio, se pregato con spirito di umiltà e di filiale, fiducioso abbandono. (pag. 22 )
Se tanti missionari hanno sofferto assai e soffrono tuttora, se alcuni hanno patito prigionia, fame, sete...se ci vediamo perseguitati, .... allora abbiamo buon diritto di sperare bene per l'avvenire delle nostre missioni.... è la filosofia dell'apostolato, questa è la politica di Dio". (pagg. 142-143 )

   

   

Proclamare al mondo intero la presenza viva di Cristo

Benedetto XVI. La mattina del 20 aprile 2005, al termine della prima Concelebrazione Eucaristica da Pontefice, ai Cardinali riuniti in Conclave ha letto un Messaggio in lingua latina dove ha illustrato il programma del pontificato, sottolineando tra l’altro l’importanza dell’unità del Collegio apostolico, che “è a servizio della Chiesa e dell’unità nella fede, dalla quale dipende in notevole misura l’efficacia dell’azione evangelizzatrice nel mondo contemporaneo. Su questo sentiero, pertanto, sul quale hanno avanzato i miei venerati Predecessori, intendo proseguire anch’io, unicamente preoccupato di proclamare al mondo intero la presenza viva di Cristo Nell’intraprendere il suo ministero, il nuovo Papa sa che suo compito è di far risplendere davanti agli uomini e alle donne di oggi la luce di Cristo: non la propria luce, ma quella di Cristo”.

      

Nella Messa per l’inizio del suo Ministero Petrino, celebrata in piazza San Pietro il 24 aprile 2005, Benedetto XVI ricordò che “Anche oggi viene detto alla Chiesa e ai successori degli apostoli di prendere il largo nel mare della storia e di gettare le reti, per conquistare gli uomini al Vangelo – a Dio, a Cristo, alla vera vita”. “Noi esistiamo per mostrare Dio agli uomini. E solo laddove si vede Dio, comincia veramente la vita. Solo quando incontriamo in Cristo il Dio vivente, noi conosciamo che cosa è la vita… Non vi è niente di più bello che essere raggiunti, sorpresi dal Vangelo, da Cristo. Non vi è niente di più bello che conoscere Lui e comunicare agli altri l’amicizia con lui”. 

Il giorno seguente, 25 aprile 2005, Benedetto XVI si è recato nella Basilica di San Paolo sulla via Ostiense, al sepolcro dell’Apostolo Paolo, “alle radici della missione”

       

Benedetto XVI ha ricordato l’esempio del suo “amato e venerato predecessore Giovanni Paolo II, un Papa missionario, la cui attività così intensa, testimoniata da oltre cento viaggi apostolici oltre i confini d’Italia, è davvero inimitabile”, ed ha chiesto al Signore di alimentare anche in Lui un simile amore, “perché non mi dia pace di fronte alle urgenze dell’annuncio evangelico nel mondo di oggi”. Dopo aver citato il Decreto “Ad gentes” che il Concilio Ecumenico Vaticano II ha dedicato all’attività missionaria, il Papa ha ribadito: “All’inizio del terzo millennio, la Chiesa sente con rinnovata vivezza che il mandato missionario di Cristo è più che mai attuale. Il Grande Giubileo del Duemila l’ha condotta a ‘ripartire da Cristo’, contemplato nella preghiera, perché la luce della sua verità sia irradiata a tutti gli uomini, anzitutto con la testimonianza della santità”.

(Tratti del magistero missionario del Santo Padre Benedetto XVI, a cura di Stefano Lodigiani)       

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Treviso,  2 - 7 novembre 2023

Spiritualità missionaria (7)


Missionario contemplativo 

Leopoldo Pastori (1939-1996), cresciuto per undici anni in un orfanotrofio, incomincia a lavorare a 14 e a 18 decide di farsi missionario nel PIME. Diventa sacerdote nel 1969, e dopo un periodo di servizio al seminario di Sotto il Monte, nel 1974 parte per la sua prima missione in Guinea-Bissau. Nel 1978 è costretto a rientrare in Italia per problemi di salute, e diventa direttore spirituale in seminario a Monza (1982-1990). Nel 1990, dopo quaranta giorni di deserto, matura la volontà di ritornare in missione: resterà in Guinea fino alla primavera del 1996. Il suo fisico, già duramente provato dalla malattia, non può reggere oltre la fatica della missione e, nonostante l'affrettato rientro in Italia, padre Leopoldo muore nel maggio 1996.

Nell’enciclica Redemptoris Missio leggiamo: “Il missionario, se non è un contemplativo, non può annunziare il Cristo in modo credibile. Egli è un testimone dell'esperienza di Dio e deve poter dire come gli apostoli: «Ciò che noi abbiamo contemplato, ossia il Verbo della vita. . ., noi lo annunziamo a voi»". (1Gv1,1). RM 91 


Padre Leopoldo ha lasciato scritto: "Cerco di vivere il mio ideale: essere un missionario contemplativo per annunciare Cristo in modo credibile (cfr RM 91). Dedico molto tempo alla preghiera prima dell'Eucaristia, almeno cinque ore al giorno, come facevano i primi missionari del Pime. E sento, visto che Gesù vuole crescere e io... diminuire, che la preghiera diventa continua, durante il giorno e, quando mi sveglio, di notte! La base della nostra presenza è la preghiera. Non può essere altrimenti per noi, che restiamo qui sostenuti dalla fede nel Signore. Passiamo un'ora al mattino e un'ora alla sera meditando insieme la Parola di Dio, conoscendo ogni giorno la volontà di Dio e praticandola con attenzione ad ogni fratello che incontriamo". Lettera agli amici 1991      


Con la malattia... Via Crucis 

“Così soffro volentieri, perché il dolore mi converte a Dio e mi fa capire meglio l'umanità sofferente. Capisco meglio quando vedo un ragazzo, tremante per la febbre della malaria, muto prima di morire. E mi sembra che condividere il dolore sia uno dei modi più intensi di testimoniare l'amore: il Signore ha scelto per sé questa strada, e anche il missionario deve seguirlo. Per questo ringrazio Dio per avermi insegnato la via della croce con la mia malattia, mantenendo viva in me, con il suo Spirito, la preghiera di conversione, perché " nella mia debolezza si manifesti la potenza del Signore". Grazie, Signore mio Dio, per il dono di 45 anni! Mio Dio, ti amo, ti ringrazio, ti chiedo perdono per tutto quello che ho fatto di sbagliato e che ha offeso il tuo amore per me”. (9 febbraio 1984)        



Tempo della Chiesa tempo della missione 

Il profeta Isaia ha detto: “Lo spirito del Signore Dio è su di me perché il Signore mi ha consacrato con l'unzione; mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai miseri”. (61, 2).

É il tempo della Nuova Alleanza, l’Anno di grazia del Signore annunciato dal profeta Isaia. L’inizio di questo brano ha dettato una bella pagina a Sant’Ireneo: il tempo che trascorre tra le due Parusie, le due venute del Signore, è il tempo di cui Dio si serve per far maturare i frutti della storia, cioè i santi. E’ il tempo della pazienza di Dio (cf. 2 Pt. 3, 9) della misericordia di Dio, il termine accordato agli uomini affinché possano approfittare della salvezza loro offerta, salvezza di cui Dio si è fatto garante, ma che gli uomini devono fare propria. É il tempo in cui Dio attira a sé un popolo da lui scelto, è il tempo della «convocazione» ... il tempo della chiamata ...     


La prima osservazione da farsi sul tempo della Chiesa, è che esso é il tempo della missione. Sì, il tempo della Chiesa è il tempo necessario a tutti i figli di Dio per riunirsi insieme, o, per riprendere l’immagine che ha così bene sviluppata San Giovanni Crisostomo in uno dei suoi sermoni, il tempo necessario perché la famiglia dei figli di Dio venga a sedersi al completo alla tavola splendida e sontuosa del Padre. Facile è rendersi conto quale ne sia il risultato pratico per noi. In definitiva, Dio, che può tutto e non ha bisogno di nessuno, ci chiede tuttavia di essere suoi cooperatori (1 Tess. 3, 2), di operare con lui e per lui. Il tempo della Chiesa appare dunque per noi in prima istanza come il tempo del «kerigma», della proclamazione della Buona Novella. Chi può quindi, avendo ricevuta questa Buona Novella, restare fermo, senza sentire il bisogno di urlarla ai quattro venti subito, di proclamarla in faccia agli uomini affinché questo bene diventi pure il bene dei nostri fratelli?   


É dunque il tempo dell’evangelizzazione, della missione nel senso più immediato del termine; non è forse con questo comando solenne che il Signore ci lascia, negli ultimi versetti del Vangelo di Matteo: Andate dunque e fate miei discepoli tutti i popoli (28, 19)? Ci sarebbe molto da dire sulla buona coscienza del cristiano medio che, per mettere in pratica questo precetto, fa affidamento esclusivamente sugli organismi specializzati e sui tecnici professionisti della «missione», come se «da propagazione della fede» non fosse per ciascuno di noi un dovere immediato, quotidiano, universale, la cui responsabilità, perciò, non può essere trasferita ad altri. Non è proprio così che i nostri padri nella fede intendevano la Chiesa come essenzialmente missionaria. Se vogliamo una testimonianza, citerò quella di Eusebio di Cesarea che nella sua Storia Ecclesiastica scrive, a proposito dell’inizio del 2° secolo: «In quel tempo molti cristiani sentivano che la loro anima era sospinta dal Verbo divino verso un intensissimo amore per la perfezione. Cominciarono col mettere in pratica il consiglio del Salvatore, distribuendo i loro beni ai poveri; poi, abbandonata la patria, andarono ad assolvere alla loro missione di evangelizzatori, con l’ambizione di predicare la parola della fede a coloro che non l’avevano ancora ascoltata, e di trasmettere loro i libri dei divini Vangeli. Si limitavano a porre le fondamenta della fede presso i popoli stranieri che visitavano; dopo di che si facevano sostituire da altri pastori cui affidavano il compito di coltivare coloro che avevano appena avviato alla fede. Indi si incamminavano per nuove direzioni, verso altri paesi ed altri popoli, sostenuti dalla grazia e dall’aiuto di Dio». Henri-Irénée Marrou da Théologie de l’histoire.     


   

Salerio, tra i primi missionari del Pime 

Carlo Salerio (1827-1870). Nato a Milano nel 1827. Quando il capoluogo lombardo nel 1848 si ritrovò a vivere le sue Cinque giornate, uno dei momenti chiave del Risorgimento italiano, Salerio era già un seminarista e scelse di non restare a guardare: inizialmente fu tra coloro che prestarono opera di carità curando i feriti e ospitando gli sfollati; poi aiutò i compagni a erigere una barricata e insieme ad alcuni di loro partecipò all’assedio di Mantova in qualità di portabandiera del Battaglione degli studenti, composto anche da seminaristi di Lodi, Bergamo, Como e Cremona.

Nel 1850 mons. Angelo Ramazzotti annunciò l’intenzione di fondare il Seminario Lombardo per le Missioni Estere – l’istituto che nel 1929 sarebbe divenuto il Pime – Salerio fu tra i primi ad aderire. E nel 1852 fece parte della prima spedizione missionaria dell’istituto in Oceania, sull’isola di Woodlark, oggi in Papua Nuova Guinea. Fu un’esperienza breve – durò solo fino al 1855 – segnata da tante difficoltà e dalla morte di padre Giovanni Battista Mazzucconi, primo martire del Pime, già proclamato beato da Giovanni Paolo II nel 1984.

In quei brevi anni padre Carlo Salerio studiò comunque a fondo gli usi e i costumi delle popolazioni di Woodlark; nelle sue relazioni offriva informazioni che spaziavano dalle piante agli animali presenti sull’isola, dal vestiario agli ornamenti, dalla passione per la musica alle danze.

Quando i missionari nel 1855 dovettero ritirarsi da Woodlark la loro salute era profondamente minata. E per padre Salerio non bastò neppure il periodo di riposo a Sidney, in attesa di una nuova missione: nel 1857 dovette tornare definitivamente a Milano. Con sé portò però una collezione di oggetti indigeni che aveva raccolto a Woodlark che furono l’inizio di quella che sarebbe diventata la collezione museale del Seminario Lombardo, oggi Museo Popoli e Culture del Pime. Anche se nel frattempo – nel 1862, raccogliendo l’invito che veniva dal mondo dell’accademia – l’allora superiore del Seminario Lombardo mons. Giuseppe Marinoni aveva donato la collezione di Salerio alla municipalità di Milano, favorendo così la nascita delle raccolte etnografriche del Museo Civico di Storia Naturale.

Anche a Milano comunque padre Carlo Salerio non aveva smesso di spendersi per gli altri. E decisivo fu l’incontro nella parrocchia di San Marco con un gruppo di donne guidate da Maria Carolina Orsenigo che in modo del tutto informale dedicavano la vita al servizio del prossimo. Nel 1859 nacque così l’Istituto femminile delle Suore della Riparazione a servizio delle «anime più bisognose e derelitte», istituto del quale padre Salerio – oltre che fondatore – rimase il punto di riferimento spirituale fino alla sua morte nel 1870. Papa Francesco ha approvato la promulgazione del decreto sulle virtù eroiche.

Oggi le suore della Riparazione sono circa 600. E pur essendo un istituto ancora fortemente radicato a Milano, sono cresciute pure in diversi altri Paesi tra cui anche la Papua Nuova Guinea, proprio la terra dove padre Salerio aveva vissuto la sua sfortunata esperienza missionaria. Significativa inoltre è la loro presenza in Myanmar. Giorgio Bernardelli       



Anima missionaria

Santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo ha scritto: «È la fiducia e null’altro che la fiducia che deve condurci all’Amore!». 

Papa Francesco scrive: “Queste parole così incisive dicono tutto, sintetizzano il genio della sua spiritualità e sarebbero sufficienti per giustificare il fatto che sia stata dichiarata Dottore della Chiesa. Soltanto la fiducia, “null’altro”, non c’è un’altra via da percorrere per essere condotti all’Amore che tutto dona. Con la fiducia, la sorgente della grazia trabocca nella nostra vita, il Vangelo si fa carne in noi e ci trasforma in canali di misericordia per i fratelli.

Come succede in ogni incontro autentico con Cristo, questa esperienza di fede la chiamava alla missione. Teresa ha potuto definire la sua missione con queste parole: «In Cielo desidererò la stessa cosa che in terra: amare Gesù e farlo amare». Ha scritto che era entrata nel Carmelo «per salvare le anime». Vale a dire che non concepiva la sua consacrazione a Dio senza la ricerca del bene dei fratelli. Lei condivideva l’amore misericordioso del Padre per il figlio peccatore e quello del Buon Pastore per le pecore perdute, lontane, ferite. Per questo è patrona delle missioni, maestra di evangelizzazione.

Le ultime pagine della Storia di un’anima sono un testamento missionario, esprimono il suo modo di intendere l’evangelizzazione per attrazione, non per pressione o proselitismo. Vale la pena leggere come lo sintetizza lei stessa: «“Attirami, noi correremo all’effluvio dei tuoi profumi”. O Gesù, dunque non è nemmeno necessario dire: Attirando me, attira le anime che amo. Questa semplice parola: “Attirami” basta. Signore, lo capisco, quando un’anima si è lasciata avvincere dall’odore inebriante dei tuoi profumi, non potrebbe correre da sola, tutte le anime che ama vengono trascinate dietro di lei: questo avviene senza costrizione, senza sforzo, è una conseguenza naturale della sua attrazione verso di te. Come un torrente che si getta impetuoso nell’oceano trascina dietro di sé tutto ciò che ha incontrato al suo passaggio, così, o mio Gesù, l’anima che si immerge nell’oceano senza sponde del tuo amore attira con sé tutti i tesori che possiede… Signore, tu lo sai, io non ho altri tesori se non le anime che ti è piaciuto unire alla mia». Ciò che colpisce è come Teresina, consapevole di essere vicina alla morte, non viva questo mistero rinchiusa in sé stessa, solo in senso consolatorio, ma con un fervente spirito apostolico.


La grazia che ci libera dall’autoreferenzialità

Qualcosa di simile accade quando si riferisce all’azione dello Spirito Santo, che acquista immediatamente un senso missionario: «Ecco la mia preghiera: chiedo a Gesù di attirarmi nelle fiamme del suo amore, di unirmi così strettamente a Lui, che Egli viva ed agisca in me. Sento che quanto più il fuoco dell’amore infiammerà il mio cuore, quanto più dirò: Attirami, tanto più le anime che si avvicineranno a me (povero piccolo rottame di ferro inutile, se mi allontanassi dal braciere divino) correranno rapidamente all’effluvio dei profumi del loro Amato, perché un’anima infiammata di amore non può restare inattiva». 

Nel cuore di Teresina, la grazia del battesimo è diventata un torrente impetuoso che sfocia nell’oceano dell’amore di Cristo, trascinando con sé una moltitudine di sorelle e fratelli, ciò che è avvenuto specialmente dopo la sua morte. È stata la sua promessa «pioggia di rose».          



Attorno al padre della loro fede

Spartaco Marmugi (1916-1973), missionario del PIME. Ha fondato la missione di Suzana (Guinea Bissau). E’ tra i missionari che hanno lavorato nel silenzio e nella fede, attendendo i frutti che tardavano a venire, ma certi che tutto quello che vivevano nella fede, un giorno avrebbe maturato abbondantemente. Dovette attendere 17 anni prima di dare il battesimo a un Felupe. Oggi la sua è una missione fiorentissima e con gente matura nella fede, soprattutto con famiglie ben formate. Sentiamo la testimonianza di padre Faccioli, suo compagno di missione:

"Se dovessimo dire in sintesi quanto padre Marmugi ha fatto in oltre 20 anni di presenza missionaria tra i suoi Felupes, dovremmo dire solo che li ha amati, e non Ii ha voluti lasciare neppure dopa morto. Ha vivamente desiderata rimanere in mezzo a loro, e quel 'Voglio morire tra i miei Felupes' era sempre stata l'idea fissa e l'espressione più forte di tutto il suo amore apostolico, fatto di condivisione e di non poche sofferenze con la gente cui il Signore l'aveva inviato. " Se dovessimo delineare il profilo della sua vita dovremmo definirlo l'uomo della fede. Il missionario non lo si può pensare se non come uomo della fede, ma in padre Sparta¬co questa dimensione era vissuta concretamente ed era diventata il tessuto della sua vita e dava chiaramente ragione del suo comportamento di fronte ad una situazione travagliata che sembra averlo stroncato anzitempo.

"Abbi sempre una grande fede" lasciava come testamento al confratello che rimaneva a continuare la sua opera; in questa fede aveva preparato i suoi cristiani e aveva fondato la piccola comunità di Suzana. Ora riposa nel piccolo cimitero costruito esso pure da lui. Una modesta tomba nel centro, attorniato da altri suoi cristiani che lo hanno preceduto o seguito nel sonno dei giusti, con una rude croce in ferro con il suo nome - p. Spartaco Marmugi - e la data di morte, o meglio la data di entrata nella Casa del Padre.

Attorno a quella tomba, i cristiani si ritrovano con frequenza come attorno al padre della loro fede, e lì attingono forza e nuove energie per continuare il cammino. Vogliono testimoniare a padre Spartaco. che quanto hanno ricevuto da Dio pronti e decisi a comunicarlo a tanti fratelli che attendono lo stesso dono.

I missionari sono portatori di fede, uomini che aprono il cammino. Anche dopo morte continuano a illuminare i fratelli per continuare la strada che li porta a Cristo.      



Una chiesa per i musulmani 

Padre Davide Carraro. Missionario del Pime trevigiano, verrà ordinato vescovo di Orano il 27 gennaio 2024. «La vivo come una chiamata a un ulteriore servizio, una cosa che mi lega in modo ancora più profondo a questo Paese e a questa Chiesa». Orano, diocesi che fu del domenicano Pierre Claverie, il vescovo-martire assassinato sulla porta di casa il 1° agosto del 1996, ultimo dei 19 religiosi e religiose che persero la vita negli anni bui del terrorismo.

Christian van Nispen, gesuita, nel suo libro Chrétiens et musulmans frères devant Dieu? scrive:

“Sono venuto in Algeria un anno dopo la morte del vescovo di Orano Claverie e dei monaci di Tiberine. Ho toccato con mano che cosa significa per la Chiesa volere e scegliere di essere veramente solidale del popolo algerino e come alcuni musulmani algerini sentono e considerano la Chiesa d’Algeria vera parte del loro paese. Si deve molto, tutto questo, al comportamento del Card. Duval il cui funerale fu celebrato assieme a quello dei monaci di Tibherine. La Chiesa è diventata “una chiesa per i musulmani” perché ha voluto esistere veramente con loro e per loro. Nel suo insieme essa fa l’esperienza della vocazione ricevuta dal Signore e non si sente frustrata per il fatto che il passare al Cristianesimo è quasi impossibile. Questa esperienza può essere una grazia per la Chiesa Universale perché la aiuta a riflettere e a discernere quello che il Signore le chiede nella sua relazione coi musulmani. In realtà la Chiesa vive la sua missione nella trasparenza e non si presenta con un doppio volto e senza un pensiero nascosto. Molti pensano che il dialogo della Chiesa sia come un ‘gancio’ per convertire. Ma essa invita a vivere la fede come un cammino personale e non come una semplice eredità sociale o un aspetto della appartenenza nazionale. La differenza religiosa, vissuta in un mutuo rispetto, diventa un invito a orientarsi “verso Dio e essere insieme davanti a Dio”

A prova di ciò leggiamo questa testimonianza: «P. Claverie, vescovo di Orano, mi ha insegnato ad amare l’islam, mi ha insegnato a essere musulmana, amica dei cristiani d’Algeria. Ho imparato che l’amicizia è anzitutto fede in Dio, amore dell’altro, solidarietà umana».(Oum el Kheair).Accompagnare padre Davide ad Orano, nostro nuovo impegno

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Treviso,  24 ottobre  - 1 novembre 2023

Spiritualità missionaria (6)


Il missionario e il samurai
Padre Luigi Soletta, Pime, (1929-2019), è un ometto curvo sotto il peso dei suoi anni, che si muove a fatica appoggiandosi a un bastone; la sua lucidità, inoltre, è minata dal Parkinson. Ma quello che mi sta davanti, a dispetto delle apparenze, è un gigante: un uomo che – formatosi presso i gesuiti di Sassari e scelta la vocazione missionaria grazie alla lettura di Mondo e Missione – ha dato un contributo originale, ancorché poco noto, alla missione del Pime in Giappone. Padre Soletta, inoltre, è stato fra i protagonisti della breve ma feconda avventura dell’Istituto Studi Asiatici, fondato dal Pime a Milano nel 1974. Ha dedicato una vita a tradurre classici della letteratura giapponese. Una via di evangelizzazione tanto originale quanto faticosa, ma anche ricca di sorprese…
           

Risponde in una intervista. “All’indomani del Vaticano II, noi missionari abbiamo capito più chiaramente che ci dovevamo “buttare” in modo nuovo e approfondito nel dialogo con i non cristiani. Io e i padri Celestino Cavagna (oggi del clero di Tokyo, ndr) e Allegrino Allegrini fummo demandati a interessarci di questo. Padre Cavagna si dedicò a studiare il buddhismo e realizzò uno studio ad hoc, padre Allegrini si iscrisse a una università scintoista, tessendo via via contatti con professori ed esperti e, a distanza di anni, pubblicò un libro dal titolo “La via della seta del cuore”. Io, a quell’epoca, ero impegnato nella gestione di una scuola materna, ma ho coltivato con passione studi personali, da autodidatta, valorizzando contemporaneamente tanti incontri che la vita missionaria ti permette di fare. Sento dire che i giovani missionari del Pime si stanno immergendo nel mondo culturale giapponese: non posso che incoraggiarli!
Oltre ad Hagakure, quali altri testi classici ha tradotto dal giapponese?
Nel 1994, volendo far conoscere in Italia la spiritualità dei monaci zen, ho pubblicato le “Poesie” di Ryokan, una sorta di “Buddha del Giappone”. In Italia è pressoché sconosciuto, ma in Giappone è un riferimento imprescindibile: basti dire che, nella cerimonia di consegna del Nobel per la letteratura del 1968, il vincitore, il giapponese, Kawabata Yasunari, citò ben cinque volte Ryokan. L’opera raccoglie 1550 poesie che hanno per tema la contemplazione della natura.
Nel 2000, in coincidenza col cinquantesimo della missione Pime in Giappone, ho pubblicato per la Emi “Pensieri nella quiete”, opera del monaco zen Yoshida Kenko (XIV secolo): una raccolta di riflessioni filosofiche sulla vita quotidiana, di usanze e cerimonie e della corte imperiale, di personaggi illustri… È un testo importante nella tradizione culturale giapponese: ancora oggi le case e i giardini giapponesi sono realizzati secondo le regole indicate da quel testo. Nel 2001 è uscita, sempre per l’editrice La Vita Felice, una raccolta di brevi componimenti (i celebri haiku) di Issa, monaco buddhista vissuto tra il XVIII e il XIX secolo. Issa, il cui vero nome è Kobayashi Yataro), è considerato uno dei massimi poeti giapponesi: ma ciò che lo rende speciale ai miei occhi è la sua ispirazione religiosa, dal momento che egli appartiene alla corrente buddhista cosiddetta “della Terra pura”, che presenta molte analogie con il cristianesimo.
Infine, nel 2008 ho realizzato la traduzione dei “Canti dell’eremo” (edizioni La vita felice), un’opera importante di Saygo, monaco-poeta del XII secolo: è uno degli autori più amati dai giapponesi e per me ha rappresentato una sorta di testamento spirituale”. (Articolo tratto da Missiononline)
   
   

L’Eucarestia tra le nazioni
L’Eucaristia di Charles de Foucauld… Novembre 1897 – “Voi siete il mio Signore Gesù nella Santa Eucaristia ! Voi siete lì, a un metro da me, in questo tabernacolo! Il vostro corpo, la vostra anima, la vostra umanità, la vostra divinità, il vostro essere tutto intero è lì… Quanto mi siete vicino, mio Dio! Mio salvatore! Mio Gesù, mio fratello, mio sposo, mio beneamato! Quanto sono felice… quanto sono felice”.
Marzo 1898 – Hai detto: “Sarò con voi fino alla fine dei tempi”. Sempre con noi, nella Santa Eucaristia, sempre con noi, con la tua Grazia. Sempre con noi, con l’immensa Essenza Divina che ci riempie. Sempre con noi, con la vostra Conoscenza che ci vede sempre, sempre con noi, con la vostra Provvidenza che ci protegge sempre. Sempre, sempre con noi, col vostro Amore, col vostro Cuore che ci ama, sempre… Sì, mio Dio, voi siete con noi e in mille modi e con quale amore e con quale cuore! Luglio 1904 – Oggi ho la gioia di mettere l’Eucaristia, per la prima volta in paese touareg, nel tabernacolo. S. Cuore di Gesù, grazie per questo primo tabernacolo tra i Tuareg. Che sia il preludio di molti altri e l’annuncio della salvezza per molti. Irraggiate dal fondo del tabernacolo sul popolo che vi circonda e che non vi conosce. Illuminate… santificate i Tuareg, il Marocco, il Sahara, tutti…! Mandate santi e tanti operai e operaie evangelici tra i Tuareg, il Marocco, il Sahara, ovunque è necessario!”.
   
L’Eucarestia di una Piccola Sorella di Gesù – L’Eucaristia per me è una presenza. Alla messa, Gesù è lì e lo ritrovo nell’adorazione soprattutto quando l’Ostia è esposta. Questo, vissuto qui nella fraternità è il mio tesoro, il mio sostegno, la mia forza… Quando sono priva della messa, vivo la contemplazione nella natura. Ma davanti all’Eucaristia… là, mi sento meglio. Lo vedo, mi guarda, mi ama. Fr. Carlo de Foucauld credeva all’irradiazione di un tabernacolo in un luogo preciso. Anch’io penso così… in una fraternità dove l’Eucaristia è esposta. Nei momenti terribili, pregavo coi salmi… e l’adorazione era grido…: “Perché Signore?”. Dopo tanti anni di professione, dico con Maddalena (Soeur Magdeleine, fondatrice delle Piccole Sorelle di Gesù, n.d.r.): “L’adorazione, per me, è la più bella cosa della vita!”.
   
L’eucaristia di mons Tessier, vescovo emerito di Algeri. Quando si celebra “l’Eucaristia tra le nazioni” non si può soltanto offrire la propria vita al seguito di Gesù per le nazioni, ma si può unire al sacrificio di Gesù e al nostro anche tutte le offerte degli appartenenti alle nazioni che le coscienze rette hanno suscitato. La maggior parte dei nostri fratelli e sorelle dell’Islam non sono visibilmente presenti nel luogo dove noi celebriamo l’Eucaristia. Noi li introduciamo spiritualmente nella nostra Eucaristia perché è con loro e tra loro che abbiamo vissuto le nostre giornate ed è per loro che domandiamo la comunione ( tra noi e con loro). E se come arriva spesso, degli amici musulmani ci hanno domandato di pregare per loro, allora la nostra celebrazione si fa ancora più aperta e sicura nella nostra offerta con loro e per loro del sacrificio di Gesù.
     

        

La vita è un dono anche in Cina  
Teresa Meng Weina, ha dato vita agli inizi degli anni Novanta ad un’organizzazione per la cura delle persone con disabilità mentale, divenuta oggi una delle più grandi Ong di tutta la Cina.
Se dobbiamo trovare un punto di inizio nella storia di Teresa Meng Weina dobbiamo partire una vecchia foto di Madre Teresa di Calcutta mentre riceve il premio Nobel per la pace. da lì. “Trovai un vecchio ritaglio di giornale con la foto di questa donna, ma non sapevo chi fosse, né cosa facessero le suore. Rimasi però colpita da quello che scrivevano di lei, dal fatto che fosse diventata così importante facendo qualcosa di così umile: aiutare i poveri. Avevo trent’anni, un’età secondo cui, nella tradizione cinese, bisogna prendere in mano la propria vita. All’improvviso mi ritrovai a desiderare di diventare come lei”.
L’inizio di un sogno. Meng Weina, figlia di un eroe del Partito comunista cinese e già Guardia Rossa della rivoluzione, inizierà il suo cammino che la porterà a fondare nella città di Canton l’associazione Zhiling, una piccola scuola per bambini con disabilità mentale. Un impegno sociale che è cresciuto di pari passo con quello spirituale fino alla decisione di abbracciare la fede cattolica scegliendo per il battesimo il nome della Santa di Calcutta.
“La vita è un dono”. Al suo fianco, da oltre vent’anni, c’è un missionario italiano del Pime, Fernando Cagnin. È stato lui ad accompagnare in queste ultime settimane Teresa Meng Weina e il gruppo teatrale dell’organizzazione Huiling in una piccola tourné italiana in cui la compagnia – formata da alcuni giovani con disabilità mentale e dai loro educatori – ha messo in scena in diverse città italiane lo spettacolo “Life is a gift” (la vita è un dono). Un modo per far rivivere sul palcoscenico, con parole e musiche, la quotidianità di un’organizzazione che accoglie nelle sue trecento case-comunità, sparse in quasi tutte le grandi città della Cina, circa 1400 giovani.
Un missionario “tecnico di computer”. Nel 1995 padre Cagnin riesce ad ottenere il permesso di entrare nella Cina continentale, “ovviamente non come missionario, ma come tecnico di computer” e si stabilisce a Canton dove inizia a insegnare in una scuola governativa e a fare il volontario nell’associazione della donna. “Vivevo in un grande stanza insieme ad alcuni di questi giovani – racconta padre Fernando – senza alcun tipo di servizio, condividendo totalmente con loro la vita. Ovviamente non potevo annunciare il Vangelo, almeno a parole, ma potevo trasmetterlo con la mia testimonianza di vita.
Verso un cambio di mentalità. Da allora di strada l’associazione ne ha fatta davvero tanta e la sua fondatrice è divenuta una persona conosciuta in tutto il Paese. “Quello che stiamo provando a fare – spiega il missionario – è restituire dignità a questi ragazzi. Cerchiamo di promuovere l’autonomia, sviluppando piccole comunità, di circa 20 o 30 persone, che possano autofinanziarsi con il lavoro. Il nostro obiettivo ultimo – conclude padre Cagnin – è quello di non servire più: questo sarà possibile quando la disabilità mentale in Cina non sarà più tabù e i nostri giovani potranno vivere normalmente nelle loro famiglie, contando anche sul sostegno dello stato. Rispetto al passato qualcosa è cambiato, ma la strada da fare è ancora lunga”.
Il viaggio di Teresa Meng Weina in Italia si è concluso il 25 maggio in Piazza S. Pietro con la partecipazione all’udienza di Papa Francesco. “Il mio sogno – confida la donna – è di poterlo vedere un giorno in Cina”. Michele Luppi 27/05/2016
          

    
La missione è ‘visitazione’
Maria va a visitare Elisabetta e porta in se un segreto vivo. Anche Elisabetta porta in se un bambino. Le donne non conoscono quale rapporto ci sia tra i bambini. Il saluto di Maria portatore di pace e la lode e la gioia di Elisabetta si trasformano in Magnificat, lode, annuncio di Dio. (Lc 1, 39-56)
       

Christian de Chergé, priore di Tibhirine (Algeria), scrive: “La nostra chiesa non ci dice quale sia il legame esatto tra la Buona Novella che noi portiamo e il messaggio che fa vivere l’altro (i fedeli dell’Islam e altri)… Nonostante ciò, se siamo attenti e ci situiamo allo stesso livello, il nostro incontro con l’altro con l’attenzione e la volontà di raggiungerlo, e col bisogno di lui per quello che è e per quello che ha da dirci, allora veramente, egli ci dirà qualcosa che raggiungerà ciò che noi portiamo, mostrando che c’è connivenza…”
 
Anche Gesù ha visitato e si è lasciato visitare ogni volta che proclamò con commozione: “La tua fede è grande”. (Mt 15, 21-28).
         
Pietro con sorpresa dice di Cornelio: “ Ora capisco veramente che Dio non fa differenza tra le persone: ogni uomo, di qualsiasi nazionalità, che lo rispetta e fa ciò che è giusto, gli è gradito!” (At 10,34).
Pietro si fa portatore di due rivelazioni, la prima: “Dio mi ha mostrato che non si deve chiamare profano o impuro nessun uomo. Per questo, quando mi avete mandato a chiamare sono venuto senza esitare” (vv. 28-29). E la seconda: “In verità mi sto rendendo conto che Dio non fa preferenze di persone” (v. 34). A questo punto, rivela il motivo della sua presenza: l’annuncio del Vangelo a coloro che non l’hanno ancora ricevuto (v. 34). Qui la Pentecoste precede il Battesimo (vv. 44-48): “Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola” (v. 44). Anche i pagani sono ora riconosciuti come discepoli di Cristo.
La missione, cosciente dei valori presenti e vissuti nelle popolazioni che raggiunge, sta cambiando. Non è solo, ed è sempre meno, convertire, insegnare… ma incontrare, cercare insieme, condividere, dialogare, cooperare. Certo, arriva anche la conversione, ma di entrambi. Tutti, scambiandosi i doni di se stessi, crescono verso una nuova umanità, immagine del Risorto.
La missione continua la visita di Dio come canta Zaccaria: “Benedetto Dio d’Israele perché ha visitato il suo popolo e compiuto la sua liberazione”. Lc 1, 68-79
              

          
Il più grande missionario della cristianità antica
San Paolo, al secolo Saulo, è tra le figure più studiate del cristianesimo delle origini. Originario di Tarso, città dell’attuale Turchia, San Paolo è l’autore di uno degli epistolari più importanti della storia dell’umanità, anch’esso oggetto di studi di carattere storico e filologico-letterario.
Grande epistolarista, grande teologo, San Paolo fu però, un “uomo di azione”. Questo termine, coniato per il Santo dal noto teologo e biblista Giuseppe Barbaglio è particolarmente interessante, perché chiarisce come la sua vita sia stata caratterizzata, dopo le vicende di Damasco, dalla “missione”. È lo stesso teologo, infatti, a definire Saulo “il più grande missionario delle origini cristiane”.
           

Dove evangelizzava San Paolo?
I luoghi dell’annuncio paolino furono le Sinagoghe delle varie città visitate. Barbaglio, nella sua prefazione alle lettere paoline, fa riferimento alle Sinagoghe nelle quali l’apostolo predicò la parola di Gesù. All’interno di esse, il Santo si incontrava con giudei, ma non solo: lo stavano ad ascoltare anche pagani simpatizzanti e proseliti del giudaismo. Gli Atti ci danno ancora un’altra informazione. Il libro attesta infatti che il Santo affittò anche una sala pubblica, che prendeva il nome da un tale “Tiranno”, all’interno della quale, ogni giorno, San Paolo insegnava ed evangelizzava.
   

I viaggi di San Paolo
Chi ci parla della grande missione paolina sono gli Atti degli Apostoli, che, come ricorda Barbaglio, presentano, in maniera quasi schematica, la missione paolina in “tre viaggi”. Il primo di questi si svolse a Cipro e nelle regioni sud-orientali dell’Anatolia. Il secondo viaggio, attraverso la Galizia, fino all’Europa. Durante questo viaggio, il Santo apostolo delle genti fece tappa a Filippi, Tessalonica, Berea e Corinto. Il terzo viaggio lo vide recarsi a Efeso. Questi viaggi, presentati dagli Atti degli Apostoli, potrebbero far pensare, come conferma lo storico, a delle brevi tappe, simili a quelle di un “cavaliere errante”. Ma la storia ci dice che così non fu.
 

La missione evangelizzatrice
I viaggi dell’apostolo, furono in realtà dei veri e propri trasferimenti, dove il Santo si fermava anche per lungo tempo. La sua missione evangelizzatrice lo portò alla costituzione di “vivaci comunità cristiane”, costituite, in prevalenza, da pagani convertiti (fonte: San Paolo, Lettere). A ricordarci tutto ciò sono, ancora una volta, gli Atti degli Apostoli, che al capitolo 8 ci ricordano come il Santo entrò nella Sinagoga, e qui parlò per tre mesi, durante i quali espose “con discorsi persuasivi le cose relative al Regno di Dio”.

     
Stile missionario
Il biblista e teologo Barbaglio parla anche dello “stile missionario” di San Paolo. L’Apostolo delle genti, doveva infatti guadagnarsi da mangiare, in terra di missione. Il Santo era solito guadagnarsi da mangiare con le proprie mani “rifiutando di farsi mantenere, per non creare sospetti di interesse privato che avrebbero ostacolato l’accettazione dell’annuncio”. Inoltre altre problematiche che il Santo dovette affrontare erano spesso legate ai diversi chilometri percorsi (si stima che solo da Antiochia di Siria a Corinto, Paolo percorse 3.500 km). Fabio Amicosante
        

        
Comune vocazione missionaria
Venita Fernandes, 55 anni, nei mesi scorsi è stata eletta superiora delle suore di Maria Bambina. E’ la prima non italiana alla guida di questa congregazione che oggi conta 3.240 suore in tutto il mondo: «Sono originaria di Goa, dove è forte la presenza di cattolici, l’antica colonia portoghese dove è sepolto san Francesco Saverio, patrono delle missioni. Quando sono entrata in istituto per diventare suora, mi sono subito trovata insieme a delle italiane e poi sono venuta a Roma per studiare. Poi sono tornata in India e ora, da 6 anni, sono in Italia. Quel primo periodo mi ha aiutato molto per stabilire un contatto con lingua e cultura diverse”.
«Quando sento dire “voi suore straniere” non mi piace, perché nei nostri Paesi di origine le suore che vengono da fuori le consideriamo “missionarie”, non straniere. E comunque sempre parte di una sola famiglia. E in una stessa famiglia non ci sono stranieri, ma solo fratelli e sorelle». Madre Venita Fernandes ci tiene a mettere subito i puntini sulle i della presenza di tante suore che arrivano da quelle terre di missione dove invece erano una volta proprio le religiose italiane ad andare, trend interrotto – e invertitosi – a causa della crisi delle vocazioni.
Madre Venita trasmette un messaggio importante: «Quando le suore italiane arrivavano da noi in India, venivano accolte con un sentimento di grande stima anche perché arrivavano per restare per sempre, allora era infatti più difficile spostarsi, viaggiare. Invece adesso ci si sposta più facilmente. Quando andiamo all’estero, prima facciamo un periodo adeguato di preparazione, così come chi è già sul posto si prepara ad accogliere le suore che arrivano da altri Paesi. Il difficile arriva quando ci sono preconcetti, quando abbiamo idee sbagliate dell’altro, magari anche del posto da cui proviene. Accogliere è sempre difficile e spesso la mentalità che le suore di altri Paesi trovano in Italia e in Europa è assai diversa, ma da questo punto di vista si può sempre migliorare, essere più aperte, anche nelle piccole cose, come ad esempio nel cibo. Nel mio cammino non ho avuto problemi particolari, ma incomprensioni sì, soprattutto quando mi hanno fatto sentire una suora straniera».

Il termine “multiculturalità”, alla madre generale delle suore di Maria Bambina, piace molto. Papa Francesco ama ripetere che la diversità è una ricchezza ».
Igor Traboni - Avvenire  - 10 ottobre 2023 

     
Futuro del Pime. Gianni Criveller preside del seminario teologico internazionale di Monza scrive: “Studi interrotti per la guerra: cinque giovani di Taungngu accolti al Seminario del Pime. Il Myanmar è precipitato nella violenza a causa del cruento colpo di stato del primo febbraio 2021”. Con i suoi sessanta studenti di tre continenti e dieci nazioni, il Seminario teologico di Monza è una comunità autenticamente missionaria, in cui si vivono le dinamiche della Chiesa e della società di domani. C’è un luogo in cui è possibile immaginare il futuro del Pime. E in fondo anche della Chiesa. Ma poi, a ben vedere, pure delle nostre società. È il Seminario teologico del Pime di Monza, che attualmente accoglie sessanta studenti di tre continenti e dieci nazionalità. Il mondo in miniatura: un concentrato di popoli, culture, lingue, tradizioni e anche modi differenti di vivere il cristianesimo che provano a trovare una sintesi, celebrando le diversità dentro la comune vocazione missionaria e l’appartenenza all’Istituto. Anna Pozzi
                

         
« Lascia il tuo paese, la tua famiglia e la casa di tuo padre e va nel paese che io ti mostrerò »

Fidei Ddnum, Dono di Fede, è l’enciclica che il 21 aprile del 1957 Pio XII inviava ai Vescovi per invitarli a ‘donare’ missionari all’Africa. Leggiamo qualche tratto.
“Ci è sembrato opportuno orientare oggi i vostri sguardi verso l’Africa, nell’ora in cui essa si apre alla vita del mondo moderno ed attraversa gli anni forse più gravi del suo destino millenario.
La missione, che « deve abbracciare tutte le nazioni e tutti i tempi » [19], non è cessata alla morte degli Apostoli; essa dura nella persona di tutti i Vescovi in comunione con il Vicario di Gesù Cristo. In essi, che sono per eccellenza gli inviati, i missionari del Signore, risiede nella sua pienezza « la dignità dell’Apostolato, che è la prima nella Chiesa », come attesta San Tommaso d’Aquino [20].Dal loro cuore questo fuoco apostolico, portato da Gesù sulla terra, deve comunicarsi al cuore di tutti i Nostri figli e suscitarvi un nuovo ardore per l’azione missionaria della Chiesa nel mondo. (…)
Ma sarebbe sincera una preghiera per la Chiesa Missionaria, se non fosse accompagnata, nella misura delle proprie possibilità, da un gesto di generosità?
La Chiesa in Africa, come negli altri territori di Missione, manca di apostoli. Pertanto Ci rivolgiamo di nuovo a voi, Venerabili Fratelli, per chiedervi di favorire in tutti i modi la cura delle vocazioni missionarie: sacerdoti, religiosi, religiose. Spetta a voi, in primo luogo, come testé dicevamo, rinvigorire i sentimenti dei fedeli e accendere in essi un tale zelo da renderli partecipi delle sollecitudini della Chiesa e atti a dare più volentieri ascolto al comando di Dio, già risonato e poi ripetuto di età in età: « Lascia il tuo paese, la tua famiglia e la casa di tuo padre e va nel paese che io ti mostrerò » [26].
Una generazione formata a questi ideali veramente cattolici, sia nella famiglia, sia a scuola, nella parrocchia, nell’Azione Cattolica e nelle opere di pietà, darà alla Chiesa gli apostoli di cui essa ha bisogno per annunciare il Vangelo a tutti i popoli. Questo soffio missionario, inoltre, animando le vostre diocesi, sarà per esse un pegno di rinnovamento spirituale. Una comunità cristiana che dona i suoi figli e le sue figlie alla Chiesa non può morire. E se è vero che la vita soprannaturale viene dalla carità e si accresce con il dono di sé, si può affermare che la vitalità cattolica di una nazione si misura con i sacrifici di cui è capace per la causa missionaria. Non basta tuttavia formare un’atmosfera favorevole a questa causa; bisogna fare di più. Esistono, grazie a Dio, numerose diocesi così largamente provviste di sacerdoti da consentire senza loro danno il sacrificio di alcune vocazioni. Ad esse soprattutto Ci rivolgiamo con paterna insistenza con le parole del Vangelo: « Date ai poveri quello che vi avanza » [27]. (Sono i Fidei Donum… ndr)
Ma noi pensiamo altresì a coloro, tra i Nostri Fratelli nell’Episcopato, che sono angosciati da un doloroso diradarsi delle vocazioni sacerdotali e religiose e che non possono ormai far fronte alle necessità spirituali nelle loro pecorelle. Facciamo Nostre le loro ansietà e ad essi diciamo come San Paolo ai Corinti: « Non si tratta, per soccorrere gli altri, di ridurvi alla penuria, ma di applicare il principio di uguaglianza » [28]. Tuttavia, anche queste diocesi così provate non siano sorde all’appello delle missioni lontane. L’obolo della vedova fu citato in esempio da Nostro Signore, e la generosità di una diocesi povera verso altre più povere non potrebbe impoverirla, perché Dio non si lascia vincere in generosità”.
        

   
Missionario profugo tra i profughi
Bernardo Sartori, nato il 20 maggio 1897 a Falzé di Trevignano (Italia) e morto il 3 aprile 1983 a Ombaci (Uganda). Frequentò il Seminario di Treviso fino alla Seconda Teologia e poi entrò tra i missionari Comboniani. Visse oltre 50 anni in Uganda.
Un religioso che è sempre rimasto legato alla sua comunità, alla diocesi e al Seminario di Treviso dove si era formato fino ai primi anni della Teologia". Ora riconosciuto venerabile.
Lo scoppio della prima guerra mondiale lo vide con altri seminaristi sul fronte del Piave. Infatti l’11 marzo 1917 fu chiamato alle armi. Assegnato a 113° reggimento di Fanteria, 7ª compagnia, zona di guerra, alcuni mesi dopo fu trasferito alla 5ª Compagnia di Sanità dell'ospedale militare principale di Padova. Fu durante questo tempo di grandi sofferenze che avvertì la vocazione missionaria. Il 26 agosto 1919 fu congedato definitivamente e lo stesso anno rientrò in Seminario. Il 21 gennaio 1922, dopo aver lasciato il seminario con la benedizione del suo vescovo, Sartori vestì l’abito religioso a Venegono Superiore e il 21 gennaio 1923 emise i primi voti. Il 31 marzo 1923 viene ordinato sacerdote dal beato mons. Giacinto Longhin, vescovo di Treviso. Dal 1923 al 1927 è animatore propagandista a Venegono, Padova, Verona e Brescia. Nel 1927 si trasferisce a Troia (FG) come fondatore e superiore del seminario missionario. Era passato per quasi tutte le città e i paesi delle Puglie, destando ovunque entusiasmo con la sua predicazione. Il 30 maggio 1933 la chiesa di Troia viene consacrata da mons. Giovanni Antonio Farina col titolo di S. Maria Mediatrice di tutte le Grazie. Alla Madonna, mediatrice di tutte le grazie, padre Bernardo affida tutta la sua opera, che produrrà frutti straordinari lungo il suo ministero.
Padre Bernardo partì per l’Uganda il 5 novembre 1934 con destinazione Arua. Qui vivrà quasi 50 anni di infaticabile e zelante ministero, condividendo la vita e le sofferenze del popolo: la seconda guerra mondiale con la fine del colonialismo e le tensioni per l’indipendenza; le sofferenze di tutti con la dittatura militare di Idi Amin Dada; negli ultimi anni la terribile esperienza della guerra civile con la caduta della dittatura, la "liberazione" dei tanzaniani e la successiva situazione d’insicurezza e di lotte intestine.
P. Sartori fu partecipe fino alla fine delle vicende del suo popolo, vivendo da "profugo tra i profughi" quando nel 1979 seguì la sua gente in Zaire. Innumerevoli le opere di bene da lui compiute, in particolare nella missione dove edificò diverse chiese dedicate alla Madonna e contribuì allo sviluppo sociale della popolazione. Fino alla fine, rimase un punto di riferimento per tutti, una certezza per la popolazione sconvolta dagli avvenimenti e per i confratelli, tutti affascinati dalla sua fede e dal suo amore a Maria. Padre Bernardo passò alla vita eterna mentre adorava Cristo risorto, davanti al tabernacolo, il mattino di Pasqua del 1983.
La Chiesa di Treviso ha l’onore e la gioia di annoverare da oggi, tra i suoi santi e testimoni, padre Bernardo Sartori, vivo richiamo alla missione di coraggioso annuncio del Vangelo anche ai nostri giorni.
       

          

Il santo è il Vangelo vissuto oggi
Piero Gheddo ( 1929-2017), missionario giornalista del PIME, scrive: «Chi è per te Gesù Cristo?». La fede non è solo un fatto intellettuale staccato dall'esistenza quotidiana, ma amore e passione per Cristo che trasforma tutta la vita. Il Papa lo dice con chiarezza: la missione è comunicazione di un'esperienza , per cui «il vero missionario è il santo» (Redemptoris Missio, n. 90). Chi vive veramente il vangelo vale di più, per la missione e la nuova evangelizzazione, di tutti i piani pastorali e i documenti e i comitati, perché «il Santo è il Vangelo vissuto oggi», come ha detto il Card. Carlo Maria Martini.
Studiando bene le lettere di due Servi di Dio, Marcello Candia e Beato Clemente Vismara, mi sono convinto di questo: la mediocrità della nostra vita, che a volte ci rende tristi e scontenti, scoraggiati e pessimisti, non viene da difficili condizioni esterne, da scarsa cultura o salute o successo; viene dalla nostra poca comunione con Dio, dal fatto che la nostra fede è debole e limitata al piano intellettuale: non ci riscalda, non ci dà forza né gioia nelle avversità. Candia e Vismara, pur avendo avuto vite difficili con molte sofferenze, incomprensioni, difficoltà malattie, erano sempre pieni di gioia perché conoscevano bene e amavano profondamente il Signore.
Dobbiamo essere innamorati di Gesù! San Paolo diceva di essere stato «afferrato da Cristo Gesù» (Filippesi, 3, 12): «Mihi vivere Christus est», per me vivere è Cristo. E aggiungeva: «Quello che per me era un vantaggio, per amore di Cristo l'ho ritenuto una perdita. Considero ogni cosa come un nulla in confronto alla suprema conoscenza di Cristo Gesù mio Signore, per il quale mi sono privato di tutto e tutto ritengo come spazzatura, pur di guadagnare Cristo» (Filippesi 3, 7-8). Gli esegeti hanno contato nelle lettere di San Paolo 164 volte l'espressione: "in Christo", cioè la vita in Cristo. «Chi è il missionario?» hanno chiesto una volta a Madre Teresa, che ha risposto: «È quel cristiano talmente innamorato di Gesù Cristo, da non desiderare altro che di farlo conoscere e amare».

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Treviso,  18  - 23 ottobre 2023

Spiritualità missionaria (5)

  

Luca Evangelista Missionario
Leggiamo tratti di una lettera di Giovanni Paolo II : “Luca ministro della parola di Dio (cfr Lc 1, 2). Il tema della parola di Dio, è il filo d'oro che attraversa i due scritti dell'opera lucana, unifica anche le due epoche da lui contemplate, il tempo di Gesù e quello della Chiesa. (cfr Lc 8,4-15).
Luca evidenzia che la parola di Dio misteriosamente cresce e si afferma anche attraverso la sofferenza e in un contesto di opposizioni e di persecuzioni (cfr At 4,1-31; 5,17-42; passim). Si tratta in definitiva di diventare discepoli disposti ad ascoltare con sincerità e disponibilità il Signore, sull'esempio di Maria di Betania, la quale "ha scelto la parte migliore", perché "sedutasi ai piedi di Gesù ascoltava la sua parola" (cfr Lc 10,38-42).
"Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua" (Lc 9,23). Per Luca esser cristiani significa seguire Gesù sulla via che Egli percorre (Lc 19,57; 10, 38; 13, 22; 14, 25). E' Gesù stesso che prende l'iniziativa e chiama a seguirlo, e lo fa in modo deciso, inconfondibile, mostrando così la sua identità…il suo mistero di Figlio, che conosce il Padre e lo rivela (cfr Lc 10,22). Gesù non ama compromessi e richiede l'impegno di tutta la persona, un deciso distacco da nostalgia del passato, condizionamenti familiari, possesso dei beni materiali (cfr Lc 9,57-62; 14,26-33). Luca è anche l'Evangelista che descrive la gioia di coloro che diventano discepoli di Cristo (cfr Lc 10,20; 13,17; 19,6.37; At 5,41; 8,39; 13,48).
Importante è la presenza e l'azione dello Spirito, a partire dall'Annunciazione, quando il Paraclito discende su Maria (cfr Lc 1,35), fino alla Pentecoste (cfr At 1,8; 2,1-4). E' lo Spirito Santo a plasmare la Chiesa. La Chiesa di tutti i tempi deve rispecchiarsi: è una comunità unita in "un cuor solo e un'anima sola", assidua nell'ascolto della parola di Dio; una comunità che vive di preghiera, spezza con letizia il Pane eucaristico, apre il cuore alle necessità dei bisognosi fino a condividere con loro i beni materiali (At 2,42-47; 4,32-37).
A partire dalla Chiesa madre di Gerusalemme, lo Spirito allarga gli orizzonti e sospinge gli Apostoli e i Testimoni fino a raggiungere Roma. Sullo sfondo di queste due città si svolge la storia della Chiesa primitiva, una Chiesa che cresce e si dilata.
Luca dipinge l'immagine di Maria, la Vergine Madre. Il vero ritratto è in scene divenute familiari al Popolo di Dio: l'Annunciazione, la Visitazione, la Natività, la Presentazione al Tempio, la vita nella casa di Nazareth, la disputa con i dottori e lo smarrimento di Gesù, la Pentecoste che hanno fornito ampia materia, lungo i secoli, all'incessante rielaborazione di pittori, scultori, poeti e musicisti.
Luca racconta l’ Interiorità di Maria che pronuncia il «fiat», un sì personale e pieno alla proposta di Dio, definendosi "Serva del Signore" (Lc 1,38). Questo atteggiamento di totale adesione a Dio e disponibilità incondizionata alla sua Parola costituisce il modello più alto della fede, l'anticipazione della Chiesa come comunità dei credenti.
Nella meditazione sapienziale delle parole e degli eventi della vita di Cristo (cfr Lc 2,19.51), ella comprendere il senso profondo delle parole e dei fatti, assimila e poi comunica agli altri col Canto del Magnificat (cfr Lc 1,46-55). Ella incarna la figura del povero, capace di riporre pienamente la sua fiducia in Dio, che abbatte i troni dei potenti ed esalta gli umili.
Presente nel Cenacolo in attesa dello Spirito Santo: "Tutti questi (gli undici Apostoli) erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù, e con i fratelli di Lui" (At 1,14).
Altra dimensione essenziale della vita cristiana e della Chiesa, è la missione evangelizzatrice. Di questa missione Luca indica il fondamento perenne, e cioè l'unicità e l'universalità della salvezza operata da Cristo (cfr At 4,12). "Allora aprì loro la mente all'intelligenza delle Scritture e disse: Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto" (Lc 24,45-48).
La missione della Chiesa comincia a Pentecoste "da Gerusalemme" per estendersi "sino ai confini della terra". La Chiesa non parte da Gerusalemme per abbandonarla, ma per innestare sull'ulivo d'Israele le nazioni pagane (cfr Rm 11,17). Compito della Chiesa è immettere nella storia il lievito del Regno di Dio (cfr Lc 13,20-21)”.
Dal Vaticano, 15 Ottobre 2000. Lettera al vescovo di Padova
     


Preghiera dal respiro missionario
Santa Giuseppina Bakita. Nacque nel 1869 nel Sudan. Raccontare di lei vuol dire richiamare migliaia di uomini, donne, bambini che in ogni parte dell’Africa sono stati schiavizzati, torturati, uccisi… Una deportazione mai finita che continua ancora oggi in maniera diversa e si espande alle frontiere o lungo le coste della penisola. Bakita non è il suo vero nome; all’età di otto anni viene rapita e per lo spavento provato dimentica tutto il suo breve passato, anche la sua identità. I suoi rapitori per una sorta di ironia la chiamano Bakita, che significa fortunata e con questo nome l’abbiamo conosciuta.
In piena guerra mondiale l’8 dicembre del 1943 madre Giuseppina compie cinquant’anni di vita religiosa fra le Figlie della Carità con grande festa da parte di tutti che la considerano già una santa. Con l’anzianità sopraggiungono ancora sofferenze lunghe e dolorose che Bakita accetta e offre. Durante la sua agonia rivive i terribili giorni della sua schiavitù e più volte implora l’infermiera che l’assiste: “Mi allarghi le catene… pesano!” E prima di morire l’8 febbraio 1947 ha il coraggio di dire ancora: “Me ne vado, adagio adagio, verso l’eternità… Me ne vado con due valigie: una contiene i miei peccati, l’altra, ben più pesante, i meriti infiniti di Gesù Cristo. Quando comparirò davanti al tribunale di Dio, coprirò la mia brutta valigia con i meriti della Madonna, poi aprirò l’altra, presenterò i meriti di Gesù e dirò all’Eterno padre: ‘Ora giudicate quello che vedete!’ Oh sono sicura che non sarò rimandata! Allora mi volterò verso S. Pietro e gli dirò: Chiudi pure la porta, perché resto!” Cosa dire di questa donna? Si dovrebbe pensandola cantare il Magnificat: ... Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente è santo è il suo nome. Grandi cose ha fatto davvero Il Signore nel suo animo, prima di tutto le ha fatto sperimentare la misericordia persino verso i suoi persecutori; le ha donato la grazia di riconciliarsi con la sua storia travagliata, di guarire nella memoria.
L’amore per la sua terra non l’ha mai abbandonata, questo vasto Continente così ricco di umanità e afflitto da gravi ingiustizie. Una preghiera composta da lei in occasione della sua professione religiosa esprime questa nostalgia struggente: “O Signore, potessi volare laggiù presso la mia gente predicare a tutti a gran voce la tua bontà: oh, quante anime potrei conquistare fra i primi, la mia mamma, il mio papà, i miei fratelli, la sorella mia, ancora schiava…tutti, tutti i poveri negri dell’Africa, fa’ o Gesù che anche loro ti conoscano e ti amino”. Alla sua morte una folle numerosa si è riversata nella casa di Schio per vedere e piangere la santa madre Moretta. Giovanni Paolo II l’ha proclamata santa il 1 ottobre dell’anno giubilare del 2000 e la sua memoria si celebra l’8 febbraio. Il papa ha detto:
“La vita di Giuseppina Bakita si consumò in una incessante preghiera dal respiro missionario, in una fedeltà umile ed eroica alla carità, che le consentì di vivere la libertà dei figli di Dio e di promuoverla attorno a sé. Nel nostro tempo, in cui la corsa sfrenata al potere, al denaro, al godimento causa tanta sfiducia, violenza e solitudine, Suor Bakhita ci viene ridonata dal Signore come sorella universale, perché ci riveli il segreto della felicità più vera: le Beatitudini. Il suo è un messaggio di bontà eroica ad immagine della bontà del Padre celeste. Ella ci ha lasciato una testimonianza di riconciliazione e di perdono evangelici, che recherà sicuramente conforto ai cristiani della sua patria, il Sudan, così duramente provato da un conflitto che dura da molti anni e che ha provocato tante vittime”.
   


O prendi i poveri, o non prendi nessuno
Beato Vismara Clemente, (1897-2011) Pime, descriveva le misere condizioni della gente che andava a visitare, e p. Gheddo lo interruppe: "In termini moderni quello che lei fa è la scelta preferenziale dei poveri”. Sì, padre Clemente usava termini vecchi: O prendi… o non prendi, poco simpatici anche a Papa Francesco che si distanzia oggi dalla missione nel proselitismo. Non ‘prendere’ ma ‘servire’.

"Non era una scelta, continua p. Vismara, perché non avevo scelta. All'inizio, o prendi i poveri o non prendi nessuno. Non ho quasi mai convertito la gente importante e ricca, ma i rifiuti del mondo paga¬no: relitti umani, orfani, ammalati gobbi, storpi, vedove, miserabili e chi più ne ha più ne metta. Oggi la situazione è del tutto diversa, per¬ché ormai la Chiesa si è fatta conoscere e ci sono cristiani in tutti gli uffici, nei posti importanti. Ma non pochi di quelli sono i nostri orfani, raccolti in mezzo alla strada o comperati per poche rupie, che poi si sono fatti una posizione. La mia preferenza fu sempre per gli orfani, dato che su questi monti, un po' per la guerriglia, un po' per la miseria, la fame, le malattie, ce ne sono in abbondanza. Uccellini sen¬za nido, ai quali io ne offrivo e ne offro uno. Sono il mio sole, la mia speranza, il mio futuro. A loro, più che ad altri, ho donato tutto me stesso. Molti mi hanno reso «non¬no» e nel loro nido rifatto conoscono l'amore e Colui che è la fonte del vero Amore. Che mi serbino più o meno riconoscenza, poco m'importa; se stanno bene loro, sto bene pure io”.

      


Poveri, ma con il cuore grande
La soddisfazione più grande per il missionario sta nel vedere che proprio la povera gente a cui ha scelto di donare la sua vita diventa capace di gesti di generosità commoventi. Lo esprime bene questa testimonianza su p. Aldo Bollini (1914-1983), Pime, missionario in Brasile che ancora oggi la gente piange e prega nella chiesa di Bragança Paulista in cui è sepolto.
"La cosa più bella e più evidente di quel vulcano era l'attenzione rivolta alla povera gente. Ed anche a costo¬ro sapeva impartire l'insegnamento di preoccuparsi di chi sta ancor peggio. Aveva istituito in proposito "la giornata della sporta “: una domenica al mese - durante la S. Messa - ognuno doveva offrire qualcosa di suo, un pacchettino di alimenti, una manciata di riso per i più poveri.
Assistere ad una cerimonia del genere, con la chiesa gremita di gente povera, proprio vestita di nudo, che all'offertorio, ordinatamente e in silenzio, si avvia all'altare per deporre nei grandi ce¬sti predisposti il proprio dono avvolto in carta da giornale, come aiuto a chi ha ancora meno... e qualcosa di meraviglioso che ti mozza il fiato, ti strappa le lacrime e ti fa pensare con amarezza a tutte le meschinità che spesso caratterizzano il comportamento di noi, fortunati, abituati ormai all'abbondanza, al superfluo e allo spreco ".
   


Padre Fausto Tentorio, martire al fianco delle popolazioni di Mindanao
È la mattina del 17 ottobre del 2011, nell’isola di Mindanao, nelle Filippine, padre Fausto Tentorio, missionario del Pime, viene assassinato all’uscita della parrocchia di Arakan, dove risiede. È il terzo sacerdote del Pime ad essere ucciso in questo territorio, dopo aver speso la sua vita per i popoli indigeni. Lavora con loro e ne difende le terre, soprattutto da quelli che cercano di disboscare le foreste, come racconta a Vatican News Giorgio Bernardelli, autore del libro 


Fausto Tentorio, martire per la giustizia”.
Padre Fausto è un martire per la giustizia, che si è impegnato per il regno di Dio, costruendo rapporti tra gli uomini prima di tutto il resto. Era una persona che voleva creare relazione. Svolgeva la sua missione tra non cristiani, che si sentivano da lui accolti e compresi. Incarnava alla perfezione l’idea di martirio che Francesco ha proposto nella recente lettera con la quale ha istituito la Commissione incaricata di elaborare, in vista del Giubileo del 2025, un catalogo di quanti hanno versato il loro sangue per confessare Cristo e testimoniare il Vangelo.
     
Una vita donata
Per i “manobo”, la gente di Arakan tra la quale vive, padre Tentorio si spende instancabilmente, anticipando quello che Papa Francesco scrive nell’enciclica Laudato si' quando spiega che la creazione è un segno del Creatore, un luogo di rivelazione di Dio: "Tutto l’universo materiale è un linguaggio dell’amore di Dio, del suo affetto smisurato per noi... nessuna creatura resta fuori da questa manifestazione di Dio". Il sacerdote del Pime vive profondamente tutto questo, dimostrando che la difesa del creato è inseparabile da quella dei poveri, che lui stesso cerca di tutelare e aiutare. Sa di essere una minaccia per le bande criminali del luogo, ed è cosciente di mettere a rischio la propria vita, ma dal suo testamento si evince la fedeltà al Vangelo e ai poveri e soprattutto la voglia di andare avanti aiutando le popolazioni locali.
 
La motivazione ed il coraggio
Motivazione e coraggio sono le caratteristiche principali del sacerdote e missionario, come racconta il nipote Andrea Tentorio, ricordando le parole dello zio in una lettera scritta alla famiglia negli anni '90: “Credo che nella vita ci voglia soprattutto coraggio, coraggio che deriva dalla fede, dall’amore e dalla speranza”. Padre Fausto è stato dunque un motivatore, che ha spinto i popoli ad avere fiducia e speranza, a credere che è possibile costruire un mondo migliore. Ciò che ha cominciato nelle Filippine, oggi viene proseguito dai missionari del Pime e dall’Associazione “Non dimentichiamo Padre Fausto” che si occupa di fornire assistenza ed aiuto alle popolazioni indigene.
       

 
L’industriale per i poveri
Marcello Candia (1916-1983), figlio di un industriale milanese, nato a Portici (Napoli), tre lauree in chimica, biologia e farmacologia. Fonda la scuola di medicina per missionari (all”Università di Milano) e sostiene i primi organismi di laicato missionario in Italia. Nel 1949 incontra mons. Aristide Pirovano, missionario del Pime, che lo invita ad andare con lui per fondare un ospedale per i poveri. Marcello va a Macapà con i missionari del Pime, donandosi totalmente a quella missione. La sua vita, nei 19 anni di Amazzonia: fonda l’ospedale di Macapà, allora il più grande e moderno dell’Amazzonia brasiliana, il rifacimento del lebbrosario di Marituba (con 2000 lebbrosi), nella foresta presso Belem, centri sociali e casette per i poveri, scuola per infermiere, aiuti a tutte le missioni del Brasile povero che ricorrevano a lui.
Dove sta la grandezza di questo “santo” del nostro tempo, modello per i laici missionari? Nella sua profonda vita di fede e di pietà e nella sua carità. Si definiva “un semplice battezzato”: non apparteneva ad alcuna associazione o movimento ecclesiale; un uomo libero, con una spiritualità profonda ma elementare, che s’è santificato con le preghiere del “Manuale del buon cristiano”. Era il santo della carità, il santo della Croce e il santo della gioia. In quel tempo di dittatura in Brasile, i militari sospettavano di questo riccone. (…) Il governatore militare di Macapà dice al vescovo mons. Giuseppe Maritano: “”Mi spieghi lei questo mistero. Vedo che il dottor Candia s’interessa solo dell’ospedale e spende tutto quel che ha per i poveri. Però, quando gli parlo mi sembra una persona normale”.
Il mistero della sua vita sta tutto nella sua preghiera. Pregava molto, una preghiera semplice e continua, aveva sempre il pensiero rivolto a Dio e ha portato in Brasile le Carmelitane di Firenze, costruendo due loro conventi, perché diceva: “La preghiera è il carburante delle opere di bene”. Ho accompagnato Marcello nella visita a diversi lebbrosi. Si inginocchiava vicino al letto, baciava quei malati e mi diceva: “In ogni malato c’è Gesù”.
Nel 1975 il presidente del Brasile dà a Marcello Candia l’onorificenza più importante del paese “Cruzeiro do Sul”. Il settimaale “Manchete” di Rio de Janeiro, gli dedicò un articolo intitolato: “L’uomo più buono del Brasile”. Piero Gheddo


          

Duc in altum, “Andiamo al largo”
Padre Davide Carraro (missionario del Pime), 46 anni, originario di Sambughè (TV), il 22 ottobre ’23 è stato nominato vescovo di Orano, in Algeria. Nato il 26 gennaio 1977, ha studiato Filosofia in Italia e Teologia nelle Filippine, ed è stato ordinato sacerdote il 27 maggio 2006. Ha ricoperto i seguenti incarichi e svolto ulteriori studi: Inviato in Algeria (2006); Missionario nella Diocesi di Laghouat (2007-2008 e 2017-2019); Studi di arabo classico in Egitto (2008-2011); Missionario in Costa d’Avorio (2012-2017); Missionario nell’Arcidiocesi di Algeri (dal 2019); dal 2022, Vicario Generale di Algeri e Referente locale del P.I.M.E. in Algeria e in Tunisia.
             
I primi passi del Pime in Algeria
Rileggo dal mio libro Charles de Foucauld, Il mio santo in cammino, scritto per raccontare i 10 anni (2006-2007) vissuti in Algeria a Touggourt accanto alle Piccole Sorelle di Gesù e i Piccoli Fratelli, seguaci del Santo Charles.
Era l’alba del terzo millennio e ai superiori del PIME arrivò una lettera dall’Algeria; era il ”vescovo del deserto” monsignor Michel Gagnon, il responsabile della diocesi di Laghouat-Gardaya - una delle più vaste del mondo per superficie, che chiedeva una comunità di un missionario di 70 anni, uno di 50, uno di trenta per iniziare una piccola presenza nel Sahara. Quando la lessi, avevo 70 anni e, leggendo che si cercava anzitutto uno di una certa esperienza, sentii forte l’invito e mi resi subito disponibile.
Erano anche gli anni dell’esortazione di Giovanni Paolo II, che invitava: “Carissimi missionari, nella Chiesa per grazia di Dio si aprono ogni giorno nuovi cantieri di evangelizzazjone e di impegno. Sappiate ascoltare lo Spirito che vi interpella e rispondergli con generosità, accogliendo le sfide dell’ora attuale…”. Duc in altum, “Andiamo al largo” (Lc 5,4) : così esortò Gesù i discepoli”.
Il PIME – che è un istituto esclusivamente missionario, ma fino allora in senso “classico”: ovvero dedicato all’evangelizzazione dei non credenti – non aveva opere in contesti culturali così particolari, ma accettò la sfida con tutte le sue novità… non come l’aprire una nuova missione, ma come dar vita a uno stile diverso di fare missione…. Testimonianza silenziosa in un momento difficile”.
Padre Davide (30 anni) e don Emanuele Cardani, Fidei donum di Novara e associato al PIME, mi raggiunsero nel settembre 2007. Don Emanuele andò ad Hassi Messaud a vivere coi tecnici del petrolio e del gas. Padre Davide, dopo un anno partì a studiare arabo al Cairo per poi andare 5 anni in Costa d’Avorio non potendo ritornare in Algeria. Vi ritornò finalmente nel ’17.
Accogliendo la nomina di vescovo di padre Davide, il Pime fa dono di un suo missionario alla Chiesa in Algeria. Mons. Davide Carraro, ora missionario donato.
Sentiamo ravvivare in noi lo spirito missionario e restare uniti in preghiera. 

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Treviso,  12  - 17 ottobre 2023

Spiritualità missionaria (4)


Annalena di Dio e dei poveri
Gerolamo Fazzini riporta in AVVENIRE il suo pensiero: «Volevo seguire solo Gesù Cristo. Null’altro mi interessava così fortemente: Lui e i poveri in Lui. Per Lui feci una scelta di povertà radicale». Credo di non esagerare nel definire una delle più alte pagine spirituali del nostro tempo il "testamento" di Annalena Tonelli, volontaria laica di Forlì uccisa in Somalia all’età di 60 anni, il 3 ottobre 2003. Ora, a dieci esatti anni dalla morte, le Edizioni Dehoniane di Bologna ci mettono in mano un’altra preziosa raccolta di scritti di questo straordinario personaggio, un’autentica «santa anonima» di oggi. Si tratta di Lettere dal Kenya 1969-1985 (pp. 368, euro 15), relative, dunque, alla lunga stagione missionaria di questa donna che diceva di sé: «Vivo a servizio senza un nome, senza la sicurezza di un ordine religioso, senza appartenere a nessuna organizzazione, senza uno stipendio». Leggendole è possibile ricostruire, passo dopo passo, l’immersione di Annalena Tonelli nella realtà africana, affascinante e contraddittoria. Nel marzo 1969, da Chinga, scrive al fratello Bruno: «Mi dispiace che dalle mie lettere tu ricavi l’impressione che qui l’ambiente sia poetico, quasi di sogno: capanne di fango, stelle basse, silenzi profondissimi, spazi sconfinati, fiori coloratissimi, verdi intensissimi, terra infuocata…. Sì, tutto questo è vero, ma qui non c’è nessuna poesia, nessunissima, se tu ti vuoi impegnate fino in fondo a calarti in mezzo a questa gente, a diventare il lievito dentro la pasta, a sforzati di vivere "come loro"». E più oltre: «Tutto vero e anche molto bello quello che tu mi dici sulla natura: Dio lì è sicuramente presente (…). Ma che dire del dolore in cui tutti siamo immersi, molti di noi fino ad averne le carni o l’anima lacerate?». Di lì a soli due anni, nel 1971, scriverà: «Il problema è che qui in Africa si può venire anche solo per gli uomini, ma qui in Africa si rimane solo per Dio. Se non c’è Dio, di qui si scappa a gambe levate finché si è ancora in tempo o qui si muore nel senso più vero della parola». A distanza di trent’anni, lei che si firmava «Annalena di Dio» confermerà nel "testamento" quanto professato da giovane: «La mia vita ha conosciuto tanti pericoli, ho rischiato la morte tante volte. Sono stata per anni nel mezzo della guerra. Ho esperimentato nella mia carne la cattiveria dell’uomo, la sua crudeltà, la sua iniquità. E ne sono uscita con una convinzione incrollabile che ciò che conta è solo amare». Quando Annalena parte per l’Africa ha 26 anni e una laurea in Giurisprudenza, conseguita per accontentare la famiglia (lei aveva già fatto altri progetti, in quel momento sognava l’India). Arrivata in Kenya, passa 17 anni tra la popolazione nomade del Nord-est del Paese, impegnata prima nel lavoro con i disabili (fisici e psichici) e poi incaricata al governo locale di guidare un progetto pilota per la prevenzione e cura della tubercolosi a Wajir: nel 1978 presenterà i risultati della sua esperienza al Congresso mondiale sulla Tbc a Nairobi. Il 5 agosto 1985 la sua esperienza in Kenya si deve necessariamente concludere. Dopo aver subito vari attentati, viene espulsa come indesiderata dalle autorità per aver denunciato i massacri di Wagalla, dove vennero uccise un migliaio di persone. Una tragedia di cui c’è una traccia evidentissima nelle missive di Annalena (vedi lettera in questa pagina). Ma le pagine inviate dal Kenya sono molto più che un diario personale: l’afflato spirituale che vi si respira è sempre intenso, anche quando affiora da piccoli aneddoti di vita quotidiana. Talora Annalena espone riflessioni amare (mai pessimistiche), ma soprattutto condivide con gli amici i sentimenti più profondi di una donna che di sé ha detto: «Sono non sposata perché così scelsi nella gioia quando ero giovane. Volevo essere tutta per Dio».
       

     
Seminando scintille…
Magdeleine Hutin (piccola sorella Magdeleine di Gesù). 

Chi era quella donna, che si definiva uno strumento contorto e arrugginito’ tra le mani del Signore? Non amava parlare di sé, schivando le interviste e i mass-media, preferiva andare dai Pigmei della foresta del Camerun, dai Tapirapé e i Caiapos del Brasile, dai Montanari del Vietnam come dai profughi a Macao, dagli aborigeni dell’Australia e dai malati di lebbra, dai nomadi del Sahara o dai lavoratori dei circhi, dagli zingari o dai carcerati o dalle vittime della prostituzione. Di loro, i suoi amici, sì amava parlare, non di sé. Di loro voleva far conoscere la loro bellezza, a volta nascosta dalle ferite della vita. A loro, spesso ignorati e disprezzati, voleva dire tutta la tenerezza di un Dio che si fa Bimbo, che viene a condividere le nostre miserie e le nostre ricchezze. In loro sapeva ritrovare quell’immagine di Dio, talora ricoperta da tanta ‘polvere’, ma sempre immagine divina!
Ora, approfondendo i suoi scritti, la sento ancora più vicina del nostro ultimo abbraccio nel 1989. Scopro perché è stata capace di vivere un amore divino e umano nello stesso tempo, mi accosto al suo segreto, quello che lasciava appena trapelare, senza mai parlarne esplicitamente: la profondità del suo rapporto con Dio! Quel Dio che aveva ‘invaso’ il suo cuore al punto da renderla ‘una piccolissima scintilla del suo amore’. Una vita vissuta nell’amicizia intima con la persona di Gesù e quanto più l’intimità era profonda, tanto più Lo voleva comunicare, far trasparire, irradiare a tutti.
Una scintilla provoca incendi nei boschi, perché non dovrebbe accendere fuochi nel mondo intero?’, soleva dire. E così ha seminato scintille al di là delle frontiere di età, nazionalità, carattere… al di là delle barriere delle differenze di ambiente, cultura, etnia, al di là delle differenze di credo, in una ricerca incessante di unità, di amore capace di accogliere l’altro nella sua realtà concreta. Appassionata di Dio e dell’uomo, sapeva cogliere la scintilla divina presente in ognuno. Allergica a tutto ciò che separa, che crea muri… ha inventato la ‘stella filante’ (furgoncino) per filare al di là delle frontiere più chiuse, andare a visitare la Chiesa … per attraversare fiumi o foreste e raggiungere quelle piccole etnie spesso decimate dalla violenza o dalla malattia, ‘quella più incompresa, quella più disprezzata, l’uomo più povero’ per dirgli ‘il Signore Gesù è tuo fratello e ti ha innalzato fino a lui… ed io vengo perché tu accetti di essere mio fratello e amico.’ La sua esperienza unica della fondazione della Fraternità nel deserto algerino (Touggourt), sola tra i suoi primi amici i nomadi del Sahara, nella fiducia reciproca, le ha fatto sperimentare che è possibile vivere ‘una vera amicizia, un affetto profondo tra persone che non appartengono né alla stessa religione, né allo stesso ambiente, né alla stessa razza, né allo stesso ambiente’. Non si è lasciata bloccare dalle sue lacune, dalle sue povertà, ma cosciente di non essere altro che uno strumento si è lasciata prender per mano dal Signore e ‘ciecamente ha seguito.’ Ha voluto ‘farsi una di loro’, come Gesù a Nazareth, lievito mischiato alla pasta, entrando senza paura in tutti gli ambienti, facendo cadere anche le barriere che la vita religiosa di allora poneva con il mondo laico. ‘Nomade in mezzo ai nomadi, operaia in mezzo a gli operai… ma prima di tutto umana in mezzo agli esseri umani’, lasciandosi evangelizzare dai piccoli e dai poveri, senza l’illusione di avere sempre qualcosa da portare.
In un mondo dove le culture sempre più si intrecciano ed il dialogo si fa più profondo e vero, ma dove si creano anche sempre più barriere a causa di ideologie e violenza spesso nascoste dietro il nome di Dio, in un mondo dove i ‘piccoli’ sono sempre più lo scarto della società, questa donna fragile e malata fin dall’infanzia, può proporci una via semplice per essere anche noi ‘scintille di amore’ e portare un ‘raggio di luce’ che riscalda anche la stanza più fredda e buia della solitudine

ps Paola Francesca

        

          
Oranti che testimoniano. Legame tra preghiera e presenza evangelica
Claude Rault, vescovo del deserto del Sud dell’Algeria, e mio vescovo per 10 anni, ha scritto e vissuto il libro Il deserto è la mia cattedrale, e parla della preghiera in terra islamica.
“La vera preghiera testimonia dell’assoluto di Dio. E lo testimonia ancor più in terra d’Islam, dove l’adorazione del Dio Unico e Misericordioso ci mette immediatamente all’unisono con quelli e quelle con cui viviamo. La preghiera, qualunque essa sia, costituisce un patrimonio comune, al di là delle forme che possa assumere. E’ un atto gratuito d’adorazione e d’Amore “in vista di Dio solo”, ma l’orante e la comunità orante divengono allo steso tempo una testimonianza viva che Dio è il centro di tutta la vita. “Là dove è il tuo tesoro, là sarà pure il tuo cuore”. La preghiera non è uno “strumento apostolico”, è gratuita, testimonia per se stessa la grandezza di Dio. La preghiera la più nascosta ha un valore tutto suo: “Ma tu, quando vuoi pregare, entra nella tua camera, serra l’uscio e prega il Padre tuo che sta nel segreto, e il Padre tuo che vede nel segreto te ne darà la ricompensa”, ci dice Gesù (Mt 6,6). Nei paesi in cui il richiamo del “muezzin” risuona cinque volte al giorno per convocare i credenti alla preghiera e all’adorazione, saremo noi gli ultimi ad ascoltare quest’invito? Molto spesso ho letto sul volto di amici mussulmani la sorpresa di sapere che i cristiani sono anche uomini e donne di preghiera, dei “mousallîn”. Nelle nostre comunità e fraternità, i tempi della nostra preghiera sono rispettati dai nostri amici mussulmani: evitano di venire a trovarci se ne conoscono l’orario.
Più che a qualsiasi altra forma di presenza, i mussulmani sono sensibili alla nostra vita di preghiera. Sempre più sovente ci domandano di pregare per loro. E noi pure ci possiamo affidare alle loro preghiere! La preghiera è un terreno d’incontro perché si tratta di un’esperienza comune che possiamo condividere. E’ un’occasione normale per dialogare tra credenti sul fondo stesso della nostra fede, sulla vocazione “verticale” della persona umana. Il dialogo può essere intavolato alla maniera in cui Cristo ha incontrato la Samaritana: l’essenziale non è di pregare in questa o quella maniera, qui oppure là, ma di essere degli adoratori in spirito e verità. E questa condivisione è frutto dello Spirito. Dopo l’incontro contestato d’Assisi del 1986, Giovanni Paolo II pronunziò queste riflessioni all’indirizzo della Curia Romana.
Possiamo in effetti ricordare che qualsiasi preghiera autentica è suscitata dallo Spirito Santo, che è misteriosamente presente nel cuore dell’uomo. E’ ciò che si è visto anche ad Assisi: l’unità che proviene dal fatto che ogni persona è capace di pregare, cioè di sottomettersi totalmente a Dio e di riconoscersi povera davanti a lui. La preghiera è uno dei mezzi per realizzare il disegno di Dio tra gli uomini”(cf.Ad Gentes, 3) (Giovanni Paolo II, “Discorsi alla Curia”, 22 dicembre 86)
           

  
Uomo autenticamente sinodale
Charles de Foucauld può essere, per noi, immagine di un "uomo autenticamente sinodale". È la riflessione che fa don Maurizio Tarantino. Non solo perché di strada ne ha fatta materialmente tanta, non solo perché è stato un "camminatore – esploratore": uno cioè capace di vedere con sguardo profondo quanto accadeva intorno a lui; ma soprattutto è un "uomo sinodale" perché nella sua ricerca di Dio si è affidato ad un altro uomo, il padre Huveline e, attraverso di lui, alla Chiesa».
Il cammino ecclesiale che fratel Charles percorre, inoltre, ha come bagaglio l’Essenziale, cioè il Vangelo. Tarantino cita la lettera di fratel Charles a monsignor Caron, superiore del seminario minore di Versailles: «Torniamo al Vangelo: se non viviamo il Vangelo, Gesù non vive in noi. Torniamo alla povertà, alla semplicità cristiana. Nei 19 anni passati fuori dalla Francia, un progresso spaventoso ha provocato in tutte le classi della società, (...)anche nelle famiglie molto cristiane, il gusto e l’abitudine alle cose inutili e molto costose, insieme ad una grande leggerezza e al vezzo per le distrazioni mondane e frivole, tanto fuori posto in tempi così gravi (...).Torniamo al Vangelo è il rimedio: è ciò di cui tutti abbiamo bisogno”». Infine, terza caratteristica sinodale del futuro santo, l’invito «a non scaricare le colpe dei mali della Chiesa a coloro che riteniamo nemici o semplicemente lontani; ma piuttosto a considerare con onestà le nostre infedeltà al Vangelo… Fratel Charles, anche in un contesto di colonialismo in terre poverissime e non cristiane, si è ben guardato dalla tentazione di fare proseliti, ha piuttosto scelto la via della fraternità per gridare il Vangelo con la sua vita. Tanto che Papa Paolo VI ha consacrato Charles de Foucauld "Fratello Universale" citandolo nell’Enciclica Populorum progressio come esempio di dedizione e carità missionaria».
Alla Chiesa Charles De Foucald insegna a offrire la vita per chi è ai margini. Lo scrive l’arcivescovo di Napoli, Domenico Battaglia, ricordando la lettera che il primo dicembre del 1916 fratel Charles scrive a Louis Massignon: «“Non bisogna mai esitare a chiedere posti in cui il pericolo, il sacrificio, l’abnegazione sono maggiori: l’onore, lasciamolo a chi lo vorrà, ma il pericolo e la sofferenza richiediamoli sempre. Cristiani, dobbiamo dare l’esempio del sacrificio”. Forse anche a noi è dato di sentire profondamente la responsabilità delle persone che ci sono messe accanto, è dato il desiderio di donare la vita per loro senza cedere a compromessi, senza cercare vanagloria o onore», scrive Battaglia. «Una Chiesa capace di “chiedere posti in cui pericolo, il sacrificio sono maggiori”.
Dei sacerdoti che fanno la scelta prioritaria delle periferie, che sanno sostenersi a vicenda per cercare cammini comuni davanti alle situazioni di disagio e di pericolo, sapendo donare, per amore e per amare, la propria vita fino in fondo. Sacerdoti che sanno vegliare insieme per non cadere nel rischio dell’imborghesimento e del girarsi dall’altra parte preferendo scelte più facili». 

Vittoria Prisciandaro (Famiglia Cristiana)

         


Rosario missionario
Al termine di una memorabile udienza concessa alla vigilia dell'Epifania del 1959 alla comunità dell'allora «Propaganda Fide», il beato Giovanni XXIII, rievocando i suoi primi passi come Presidente delle Pontificie Opere Missionarie in Italia, confidò quale fosse il metodo da lui usato nella recita del Santo Rosario.
«Quando ero Delegato Apostolico in Bulgaria, Turchia e Grecia — disse — pregavo molto per quelle nazioni. Quando fui nominato Nunzio in Francia, dovevo ricordare naturalmente la “figlia primogenita” della Chiesa. Eletto Patriarca di Venezia, era obbligo ricordare tutta la diocesi, senza però dimenticare le precedenti nazioni. Ora che sono Papa... debbo pregare per tutte le nazioni del mondo, ma le preghiere sono sempre le stesse: il Breviario e il santo Rosario. Non posso moltiplicare le preghiere col moltiplicarsi delle responsabilità, quindi ora faccio così: recito il Rosario missionario, ricordando nelle varie decine l'Europa, l'Asia, l'Africa, l'America e l'Oceania».
Un Rosario del genere non era una realtà nuova, dato che il Cardinale Fumasoni Biondi, Prefetto di «Propaganda Fide», aveva benedetto e approvato il Rosario missionario qualche tempo prima, dicendo di ammirare «l'ingegnosa maniera di dare alle persone una coscienza missionaria attraverso la crociata mondiale del Santo Rosario missionario», usato anche da lui.
Com'è noto, il Rosario missionario, nato da un'idea del noto Vescovo americano Fulton Sheen, che inizialmente lo pensò come una preghiera per i vari continenti, si compone di una corona che ha le cinque decine di colore diverso, legato a situazioni antropologiche o geografiche: bianco per l'Europa, dove risiede il Papa; giallo per l'Asia, Paese abitato dalla razza di questo colore; verde per l'Africa, a motivo delle sue foreste; rosso per l'America, in ricordo dei pellirosse; azzurro per l'Oceania, dispersa nell'immenso Oceano Pacifico. Così visto e così recitato, il Rosario è uno splendido arcobaleno di pace che avvolge il mondo e gli garantisce la protezione della Madonna. Anche perché, visto che nel mondo «civilizzato» la sua recita sembra in crisi — non per nulla Giovanni Paolo II ha invitato alla riscoperta del Rosario — nel mondo in via di sviluppo esso è da sempre il famoso Breviario del popolo, recitato con frequenza e devozione.
Le decine dedicate ai cinque Continenti: un suggestivo «arcobaleno di pace» che abbraccia il mondo. Egidio Picucci
        

       
Tutta la Chiesa per tutto il mondo!
Padre Paolo Manna, missionario del PIME, è fondatore nel 1916 della Pontificia Unione Missionaria del Clero (UMC) e beatificato da Giovanni Paolo II il 4 novembre 2001. Fu un sacerdote missionario “il cui nome merita di essere scolpito a caratteri d’oro negli annali delle missioni” (Paolo VI). Al di là dei risultati ottenuti, ha dato con la sua vita e la sua opera una espressione specifica della missionarietà della Chiesa universale infondendo nel popolo cristiano un’autentica coscienza missionaria, attraverso il coinvolgimento di vescovi e clero nella evangelizzazione dei non cristiani. (…)
Padre Manna era convinto che un clero missionario avrebbe animato missionariamente tutto il popolo cristiano. Anticipò alcuni dei grandi temi missiologici e della metodologia missionaria del Concilio Vaticano II. Tutta la Chiesa – sicuramente quella italiana – è in qualche modo debitrice a questo grande missionario. Furono decisivi l’amicizia e l’aiuto di Mons. Guido M. Conforti, fondatore dei Missionari Saveriani che durò fino al consolidamento della UMC e fino alla morte di Conforti.
      

Due considerazioni
1- Nel commemorare il Beato Paolo Manna, ringraziamo Dio per il dono di un missionario che ancora oggi illustra a tutta la Chiesa in cosa consiste l’autentico spirito missionario: la strada della santità come fecondità della missione. Nel Padre Paolo Manna noi scorgiamo uno speciale riflesso della gloria di Dio. Egli spese l’intera esistenza per la causa missionaria. In tutte le pagine dei suoi scritti emerge viva la persona di Gesù, centro della vita e ragion d’essere della missione. In una delle sue lettere ai missionari egli afferma: «Il missionario di fatto non è niente se non impersona Gesù Cristo… Solo il missionario che copia fedelmente Gesù Cristo in sé stesso può riprodurne l’immagine nelle anime degli altri». In realtà non c’è missione senza santità, come Giovanni Paolo II ha ribadito nell’enciclica Redemptoris Missio 90: “La spiritualità missionaria della Chiesa è un cammino verso la santità. Occorre suscitare un nuovo ardore di santità fra i missionari e in tutta la comunità cristiana”.
            

2- Uno dei principali motti di P. Manna, sintesi del suo progetto, era: «tutta la Chiesa per tutto il mondo!». O, con una espressione forse più efficace ma tipica del suo tempo, «tutti i fedeli per tutti gli infedeli». Qui possiamo apprezzare la sua “rivoluzione profetica”: il problema missionario riguarda non solo i missionari ma tutta la Chiesa e, come tale, esige una soluzione globale. Tutti i battezzati, laici, sacerdoti, vescovi; diocesi e parrocchie, congregazioni religiose, associazioni laicali e movimenti ecclesiali. La missione è affidata non solo ai missionari ma è opera di tutto il Popolo di Dio, di tutta la Chiesa. Non per niente, papa Giovanni XXIII, che lo conosceva bene, definiva P. Manna «il Cristoforo Colombo della nuova cooperazione missionaria». L’enciclica Redemptoris Missio n.84 lo cita: «La parola d’ordine deve essere questa: tutte le Chiese per la conversione di tutto il mondo».
La vita del Beato P. Manna ci sia di esempio per comprendere meglio anche la nostra: con la sua intercessione, una vita interamente animata da una totale passione missionaria.

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Treviso,  8  - 11 ottobre 2023

Spiritualità missionaria (3)
           

Abbondanza della gioia
«La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù»: con queste parole si apre l’esortazione apostolica sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale di papa Francesco, più comunemente designata, secondo l’uso, con l’incipit latino Evangelii gaudium (EG).
Il 17 maggio 2023, Papa Francesco parlando di San Francesco Saverio ha detto: «Quali siano i suoi sentimenti lo capiamo dalle sue lettere: “I pericoli e le sofferenze, accolti volontariamente e unicamente per amore e servizio di Dio nostro Signore, sono tesori ricchi di grandi consolazioni spirituali. Qui in pochi anni si potrebbero perdere gli occhi per le troppe lacrime di gioia!”» (20 gennaio 1548). Anche Il Concilio Vaticano Il parlando della spiritualità del missionario, non tralascia un ingrediente tutt’altro che secondario, rappresentato dalla gioia. Dice infatti che «attraverso la virtù e la fortezza chieste a Dio, il missionario potrà conoscere come sia proprio nella lunga prova della tribolazione e della povertà profonda che risiede l’abbondanza della gioia». (Ad Gentes n.125)
Pare che in questo, i precursori del Concilio siano stati i nostri primi missionari, che agli albori dell’Istituto coniarono una frase divenuta celebre: «Qui si studia, si prega, si ride”.”
Non che si ridesse soltanto, ma insieme allo studio e alla preghiera, l’allegria era davvero un piatto essenziale della vita di comunità. Il Beato Giovanni Mazzucconi, nostro primo martire, lo sottolineò in una delle sue puntigliose annotazioni: «In casa non vi era la fame, ma il piatto principale era l’allegria e la contentezza, la quale in realtà è il dono più grande e più ricco che il Signore possa fare agli uomini sulla terra».
Il dono più grande di Dio, che riassume tutti gli altri, è quello della gioia, non solo gioia umana ma quella di Gesù: «La mia gioia è in voi e gioia piena» (Gv 12,44-50). Il missionario vero, questa gioia l’ha sempre avuta, perfino da donare, trasmettere.
       

  

Ricordiamo alcuni missionari del Pime
Padre Frascognia. Così scriveva dall’India: «Sono sempre contento, e più vado avanti più lo sono. Sento che il Cuor di Gesù mi vuol bene; non solo, ma alle volte m’inonda con le sue tenerezze. Potrei narrarti una lunga fila di fatti per dimostrarti come Gesù mi è sempre vicino e mi colma di continui favori». L’ideale missionario è quindi una continua rivelazione del Signore Gesù alla mente e al cuore e che diventa il tutto della vita.
Padre Pietro Manghisi, ucciso in Birmania nel 1953: «Nella sua residenza c’era sempre vita e allegria: essa rigurgitava di ragazzetti orfani, o abbandonati o indesiderati dai genitori. Li aveva raccolti, li allevava, li assisteva maternamente, li educava e istruiva. Sarebbero riusciti maestri o catechisti o comunque avrebbero imparato un mestiere e formato la loro famiglia cristiana». Egli ce li presenta: «Se sono paffutelli e allegri, godo della loro felicità. Ma se li vedo intirizziti dal freddo o stesi sulla stuoia consumati dalla malaria, allora anch’io sto male!».
Beato Clemente Vismara. «Tutto è bello nella vita del missionario, se c’è la fede e l’amore di Dio. Io ne ho passate tante, ma posso dire di non essere mai stato triste».
Padre Antonio Farronato, fratello di padre Eliodoro ucciso in Birmania nel 1955: «Qui a Monglin io vivo senza casa, mi alzo senza sveglia, prego senza chiesa, vado a caccia senza licenza, sto allegro senza teatro, studio lingue senza fine, non ho giorno senza fastidi, invecchio senza accorgermi, e di certo morrò senza rimorsi, “ché cuor contento il Ciel l’aiuta!”. E voi? e voi? Voi non mai, se non verrete presto a farmi compagnia!».
        

 
Che siano tutti una cosa sola
Negli Scritti spirituali di frère Charles troviamo il tema riguardante la salvezza di tutte le genti in Gesù Cristo per mezzo della Chiesa.
«Che siano tutti una cosa sola, come Tu, o Padre, sei in me e io in Te; che siano anch’essi una cosa sola in noi (Gv 17,22). Noi, commenta Charles, dobbiamo amare tutti gli uomini in vista di Dio sino a non formare che una cosa sola con loro, anzitutto perché Dio ce lo comanda e ci dà l’esempio di un amore ardente verso di essi, e poi per diversi importanti motivi tratti ancora dall’amore dovuto a Dio, ma soprattutto, soprattutto, e quest’ultimo motivo ci rende assai facile e assai dolce quest’amore appassionato, quest’amore che giunge sino all’unificazione di tutti gli uomini in vista di Dio, soprattutto, soprattutto perché tutti gli uomini sono, per un titolo o per l’altro, membra di Gesù, materia prossima o remota del suo corpo Mistico e perché, di conseguenza, amandoli, formando una cosa sola con essi, vivendo in essi col nostro amore, noi amiamo qualcosa di Gesù, noi formiamo una cosa sola con una porzione di Gesù, noi viviamo col nostro amore nelle membra di Gesù, nel corpo di Gesù, in Gesù».
Dopo alcuni anni di insediamento in mezzo ai Tuareg, frère Charles si convince della quasi impossibilità della conversione dei suoi amici; tuttavia non rinuncia a pensare alla loro salvezza.
«Non sono qui per convertirli in un solo colpo – disse nel 1908 al medico militare Dautheville –, ma per cercare di capirli e di migliorarli. Imparo la loro lingua, li studio perché dopo di me altri sacerdoti continuino il mio lavoro. Io appartengo alla Chiesa, e la Chiesa ha tempo, essa dura, io invece passo e non conto niente. E poi, io desidero che i Tuareg abbiano il loro posto in Paradiso». Circa i tempi della Chiesa, Charles non aveva dubbi: «Io sono certo che il buon Dio accoglierà nel cielo coloro che sono stati buoni e onesti, senza bisogno che siano cattolici romani. Voi siete protestante, Tessère è incredulo, i Tuareg sono musulmani: io sono persuaso che Dio ci riceverà tutti, se lo meritiamo, e cerco di migliorare i Tuareg perché meritino il Paradiso».
     

 
Nutrire lo spirito di povertà
Il santo Giovanni Paolo Il nella Redemptoris Missio scrive: “Il missionario è l'uomo delle beatitudini. Gesù istruisce i Dodici prima di mandarli a evangelizzare, indicando loro le vie della missione: povertà, mitezza, accettazione delle sofferenze e persecuzioni, desiderio di giustizia e di pace, carità, cioè proprio le beatitudini, attuate nella vita apostolica”. (Mt 5,1)
     
Quando p. Carlo Salerio, uno dei primissimi e dei più giovani dell'lstituto delle Missioni Estere di Milano, ormai giunto a Sidney si preparava a raggiungere il posto di missione assegnatogli, non voleva portarsi dietro tante cose perché diceva: « Questa è contro il nostro sentimento...; la moltitudine degli oggetti dona sollecitudine ed eccita la cupidigia degli indigeni ..., E aggiungeva: « Le missioni de centro e quelle della Nuova Zelanda iniziate nella miseria e lasciate sprovviste di tutto per cinque anni, fioriscono; questa della Melanesia, condotta con tutte le viste di umana prudenza, in nove anni non ha ancora data nessuna cristianità... E concludeva: «Per noi sarà fervore giovanile, ma preferiamo la povertà».
E queste erano le prime regole del nostro lstituto circa la povertà: «Nutriamo lo spirito di povertà, spogliandoci delle abitudini inutili o nocive e degli oggetti superflui, vivendo parcamente, facendo economia del tempo e delle case..., riflettendo con qual delicato riguardo si debba impiegare l'obolo del povero e l 'elemosina raccolta dalla Propagazione della Fede e dalla Santa lnfanzia che mantengono l'lstituto e le Missioni».
     
Tra i nostri missionari, alcuni sono rimasti proverbiali per la loro povertà. Così scriveva p. Carlo Merlo nel 1955 dall'lndia: «Dopo tanti anni di lontananza, sarebbe ora di rivederci; io però, a dirti la verità, non mi sento; se venissi, dovrei prima pensarci su sei mesi!... Stando tra questa gente, ho imparato a vivere come loro, che si trovano all'ultimo o al penultimo gradino delle caste indiane. Sono già tre o quattro anni che non uso più scarpe, ed una decina di anni che non uso le calze. Figurati a Busto Arsizio un prete senza calze, ne scarpe!»
E nell'ultima lettera ai familiari, un anno dopo, si leggono queste parole: «Cerco di ridurre i miei bisogni al minimo. Tengo una copertina leggera che uso 5-6 volte l'anno. Anche le lenzuola sono 15 anni che non mi servono.
Mons. Macchi, passato alla storia come ii «Patriarca del Bengala», negli anni '40 parlava della povertà in questi termini: «Se noi missionari siamo i "messi di Gesù ", dobbiamo presentarci ai pagani non soltanto come sapientoni, e neppure come i grandi "sahib ", quali sembrano davanti alla povera gente, ma dobbiamo presentarci poveri come essi sono, tanto meglio se con ii potere di fare miracoli sui loro corpi spesso piagati».
       

 
La fiammella che ha acceso il fuoco
Pauline-Marie Jaricot (1799-1862), fondatrice della Pontificia Opera di Propagazione della Fede, venne dichiarata Venerabile esattamente il 25 febbraio 1963, da San Giovanni XXIII. Beatificata il 22 maggio 2022 da Papa Francesco.
      

Pauline-Marie, proveniente da una ricca famiglia di Lione, a 17 anni ebbe un’improvvisa conversione decidendo così di consacrare la sua vita a Dio con voto solenne nella cappella della Vergine di Fourvière a Lione. Innamorata dell’Eucaristia, propone a giovani lavoratrici della sua età di partecipare al suo ideale di adorazione del Santissimo Sacramento, e pronte ad impegnarsi con lei in una vita di pietà e di servizio totalizzanti. Ella, con la forza del suo esempio e l’autorevolezza della sua profonda vita spirituale, trova molte di esse totalmente disposte “ad andare sempre dovunque il Signore avesse bisogno di loro”.
      

Sotto il nome di “Riparatrici”, costituisce un’Associazione che è l’espressione iniziale di un movimento che anima la devozione al Santissimo Sacramento, al culto del Sacro Cuore, alla pratica del Rosario Vivente. Queste giovani iniziano la loro rivoluzione spirituale dando alla Chiesa l’opera missionaria più grande mai immaginata: l'Opera della Propagazione della Fede, fondata ufficialmente il 3 maggio 1822.
      

Nella sua umiltà, Paolina affermava che non era stata che “la fiammella che ha acceso il fuoco”, ma un fuoco incendiario che si è propagato su tutta la faccia della terra, (cf. Georges Naïdenoff Pauline Jaricot - Media S. Paul 1999, pp. 19-20).
Da questa forte spinta spirituale, Paolina, in coerenza totalizzante al suo ideale, dispose di tutto il suo patrimonio famigliare e le sue officine, e propose insieme alle sue Riparatrici e altre persone amiche, di riunirsi in “decine” e queste in “centinaia”, contribuendo con 5 sou (10 centesimi di Franco) ogni mese, che veniva raccolto al fine di raggiungere cifre ragguardevoli che permisero di costituire il primo Fondo per l’aiuto alle Missioni di tutto il mondo.
      

Sull’attualità della spiritualità della Venerabile Jaricot, così scrive Chantal Paisant: «Della spiritualità apostolica e missionaria di Pauline ricordiamo tre punti fondamentali per il nostro tempo: Dio è amore e si incarna nella qualità delle relazioni e nello spirito di giustizia che gli uomini mettono in atto, gli uni con gli altri e per gli altri, all'interno delle società umane; l’umanità è una, unico popolo di Dio, al di là della diversità di nazioni e culture; l'iniziativa di una donna laica impegnata nel cuore del mondo nelle opere della Chiesa dove la preghiera e l’azione sociale furono inscindibili. Pauline è stata il fiammifero che ha acceso innumerevoli opere missionarie cattoliche che continuano a diffondersi ancora oggi. Le sue convinzioni anticiparono la dottrina sociale della Chiesa e, con un secolo d’anticipo, più di un tema del Concilio Vaticano II». 

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Treviso5  - 7 ottobre 2023

       

Spiritualità missionaria (2)

       

Solcare i mari
A noi uomini e donne a volte disorientati, il Vangelo prova a ricordare che siamo chiamati a solcare il mare aperto con coraggio, a stare nelle burrasche della società che abitiamo raccontando con il sorriso la bellezza della vita vissuta da Dio. Per attrezzarci per solcare strade nuove dobbiamo partire dal rinnovare il nostro pensiero, il nostro sguardo, il nostro cuore: alzare gli occhi da noi stessi per incontrare quelli di chi ci passa accanto, permeare le nostre comunicazioni con l’orizzonte di una speranza che supera le difficoltà attuali». 

Clara Pomoni, condirettrice di Ricerca e responsabile della comunicazione della Fuci.       



Francesco Saverio
Papa Francesco afferma: “Il grande sognatore, Saverio, in Giappone capisce che il Paese decisivo per la missione nell’Asia era un altro: la Cina. con la sua cultura, la sua storia, la sua grandezza, esercitava di fatto un predominio su quella parte del mondo. Anche oggi la Cina è proprio un polo culturale, con una storia grande, una storia bellissima. Perciò egli torna a Goa e poco dopo s’imbarca di nuovo sperando di poter entrare in Cina. Ma il suo disegno fallisce: egli muore alle porte della Cina, su un’isola, la piccola isola di Sancian, davanti alle coste cinesi aspettando invano di poter sbarcare sulla terraferma vicino a Canton. Il 3 dicembre 1552, muore in totale abbandono, solo un cinese è accanto a lui a vegliarlo”.


       

Beato Giovanni Mazzucconi. PIME

“Domani mi metterò a bordo e sabato, dopodomani, sarò già in alto mare alla volta di Woodlark. Quest’anno, quando mi trovavo in mare per venire a Sidney, il mercoledì della Settimana Santa, ci sorprese un uragano che ci ruppe le vele, le corde e la metà superiore di un albero; poi ci spinse ad errare per il mare senza direzione e con poca speranza, per quattro giorni, finché il sole di Pasqua risplendette come una cosa nuova sopra di noi, e noi eravamo veramente come risuscitati. Ebbene quel Dio che mi salvò allora, sarà con me anche in questo viaggio, e se io non l’abbandono, Egli vuole essere con me sempre, e finché Egli è con me tutto ciò che mi può accadere sarà sempre una grazia, una benedizione di cui lo dovrò ringraziare. Se nel pericolo Egli vorrà ritirarsi, o farà mostra di dormire sulla punta della nave io, come gli Apostoli, andrò a svegliarlo e a fargli vedere il mio pericolo. Che, se poi non volesse ascoltare, gli direi: Signore comanda che io venga a te, e la mia anima camminerà sulle acque, andrà ai suoi piedi e sarà contenta per sempre. Non so cosa Egli mi prepari di nuovo nel viaggio che incomincia domani; so una cosa sola, se Egli è buono e mi ama immensamente, tutto il resto: la calma e la tempesta, il pericolo e la sicurezza, la vita e la morte, non sono che espressioni mutevoli e momentanee del caro Amore immutabile, eterno. Sì, miei cari, abbiamo un altro paese, un’altra patria, un regno dove ci dobbiamo ritrovare tutti, dove non vi saranno più separazioni né partenze, dove i dolori ed i pericoli passati non serviranno che ad aumentare la consolazione la gloria.”

  

         
Tutti chiamati alla missione

Riascoltiamo le parole pronunciate da Gesù quando invia i settantadue discepoli: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe» (Luca 10,2).
L’invito è chiarissimo: sono necessari operai per il Vangelo. È rivolto a tutti, nessuno escluso. Che il Signore ci doni di sentirlo rivolto personalmente a ciascuno di noi, perché renda i nostri cuori sensibili e pronti al suo appello. La voce che ha fulminato e atterrato Paolo quel giorno su quella strada, è la stessa voce del Maestro che chiede a ciascuno di noi di prendere sul serio la sua parola, di preoccuparsi del Vangelo. Il cammino di chi vuole seguire Gesù ha per orizzonte il mondo intero: non si limita a raggiungere qualcuno, ma idealmente è indirizzato a tutti. È Gesù a segnare i confini della sua presenza tramite noi: tutto il mondo, ogni creatura, dappertutto, fino agli estremi della terra. È questo uno stile che siamo chiamati a coltivare: quello evangelico, che ci porta sempre a preoccuparci non solo dei vicini, della famiglia, del gruppo, della parrocchia, della comunità pastorale, ma ad avere una prospettiva universale… Gesù invia i suoi discepoli dicendo loro di non prendere borsa, bisaccia o sandali. La missione è fatta in povertà, per far trasparire con chiarezza e immediatezza il dono che si porta dentro di sé e si comunica agli altri. La missione non ha paura di affrontare l’incomprensione, la contraddizione, l’emarginazione e il rifiuto: non ha paura perché è consapevole di essere chiamata a seguire la stessa via percorsa da Gesù, il missionario del Padre.
Nel congedarsi dagli anziani della Chiesa di Efeso e pensando alle sofferenze che avrebbe incontrato a Gerusalemme, Paolo confessa: «Non ritengo … la mia vita meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio» (Atti 20,24).



Papa Francesco il 17 maggio 2023 ha detto che San Francesco Saverio «Ebbe grande cura per i malati, i poveri e i bambini, in quanto non era un missionario “aristocratico”. ma “andava sempre con i più bisognosi”, “andava proprio alle frontiere dell’assistenza dove è cresciuto in grandezza».Il Concilio Vaticano II ha detto: “La presenza dei cristiani nei gruppi umani deve essere animata da quella carità con la quale Dio ci ha amato: egli vuole appunto che anche noi reciprocamente ci amiamo con la stessa carità. Ed effettivamente la carità cristiana si estende a tutti, senza discriminazioni razziali, sociali o religiose, senza prospettive di guadagno o di gratitudine. Come Dio ci ha amato con amore disinteressato, così anche i fedeli con la loro carità debbono preoccuparsi dell’uomo, amandolo con lo stesso moto con cui Dio ha cercato l’uomo. Come, quindi, Cristo percorreva tutte le città e i villaggi, sanando ogni malattia ed infermità come segno dell’avvento del regno di Dio, così anche la Chiesa attraverso i suoi figli si unisce a tutti gli uomini di qualsiasi condizione, ma soprattutto ai poveri ed ai sofferenti, prodigandosi volentieri per loro. Essa, infatti, condivide le loro gioie ed i loro dolori, conosce le aspirazioni e i problemi della vita, soffre con essi nell’angoscia della morte. A quanti cercano la pace, essa desidera rispondere con il dialogo fraterno, portando loro la pace e la luce che vengono dal Vangelo”. (Ad Gentes n. 12)Il Pime fin dagli inizi volle mandare i suoi uomini proprio nelle zone nuove e difficili. Lo leggiamo nella Regola n. 74 di padre Giuseppe Marinoni: «L’ Istituto, fin dal principio (1850), mira ad avere missioni proprie, e tra le popolazioni più derelitte e più bar­bare: perciò richiese come grazia dalla S. Sede le Missioni di Oceania».Don Cagliaroli, segretario del fondatore del Pime Angelo Ramazzotti, vescovo di Pavia e Patriarca di Venezia, conclude così la sua biografia: «Sulla sua bara si videro lagrime, e s’udirono sospiri, massime di poveri che si accoravano su di lui, il quale, come visibile provvidenza, li aveva sovvenuti in tante volte non che di roba e danari, sì anche di parole buone e paterni conforti». Siamo alla fine del secolo scorso (1900), in un villaggio della diocesi indiana di Hyderabad. Fra i cristiani di p. Ciccolungo vi erano due famiglie di lebbrosi. Egli le assisteva ed aiutava con grande carità. Un giovane pagano, nello stadio ultimo della malattia, venne un giorno a chiedere l’elemosina al Padre. Il suo stato era veramente compassionevole; aveva piaghe alle mani e ai piedi e la faccia era così sformata da sembrare un mostro. Faceva ribrezzo a tutti; anche i poveri lo rifuggivano. Il buon Padre lo accolse con grande carità, lo fece pulire e gli preparò acqua per un bagno. Commosso a tanta carità, il povero lebbroso chiese di farsi cristiano ed il Padre se lo adottò come figlio. Gli procurò una piccola capanna in un villaggio cristiano ad un miglio dalla nostra casa e vi andava ogni giorno a lavarlo, a portargli cibo e ad istruirlo nella Dottrina Cristiana. Una volta, appunto per vincere la naturale riluttanza, egli volle indossare per una notte la veste del lebbroso… Fu appunto il suo amore per i lebbrosi e la santa follia di volerli servire e salvare che aveva messo nel suo cuore la brama di andare a Molokay, isola dei lebbrosi. Il Signore gradì il suo desiderio e lo rimeritò chiamandolo in Cielo.Molti sono gli esempi di servizio dei missionari ai poveri, probabilmente rimasti anche sconosciuti. Certo è che la povertà servita e vissuta è stata sempre e dovunque testimonianza significativa e indimenticabile del Vangelo predicato e vissuto dal missionario.

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Treviso,  11 - 22 settembre 2023

Sinodo in preghiera 

          

L’Assemblea del Sinodo dei Vescovi inizierà la mattina del 4 ottobre 2023 dopo un ritiro spirituale di 3 giorni per sottolineare la centralità della preghiera nel processo sinodale, che è un processo spirituale. 

Nel pomeriggio del 30 settembre, all’assemblea precederà la Veglia ecumenica di preghiera in Piazza San Pietro presieduta dal Papa. 

Questo tempo di preghiera nasce da un sogno espresso da frère Alois, priore di Taizé, all'apertura del Sinodo, il 9 ottobre 2021. Il progetto è stato poi proposto a Papa Francesco, che ha deciso di programmarlo e presiederlo alla veglia di Sinodo. Aperta a tutto il Popolo di Dio, questa veglia ecumenica di preghiera metterà in luce due aspetti fondamentali del Popolo di Dio: la centralità della preghiera e l'importanza del dialogo con gli altri per avanzare insieme sulle vie della fratellanza in Cristo e dell'unità, A questa Veglia ecumenica di preghiera, oltre ai membri dell'Assemblea del Sinodo dei Vescovi, parteciperanno numerosi leader delle diverse Chiese e comunioni cristiane: 

• delle Chiese ortodosse 

• delle chiese ortodosse orientali  

• delle comunioni protestanti storiche

• delle comunioni evangeliche-pentecostali. 

In modo particolare, dodici Capi di Chiesa e Leader cristiani sono stati invitati a guidare la preghiera insieme a Papa Francesco. Interverranno inoltre alcuni Delegati fraterni mandati dalle loro Chiese all’Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi.

Il programma è previsto in due parti. Dopo un tempo di accoglienza sulla piazza con cori diversi seguirà una processione dalle 17:00 alle 18:00 con quattro interventi di ringraziamento, intervallati da canti, sui doni che Dio ci fa e sulla responsabilità che ne consegue. Dopo ogni intervento sono presentate alcune testimonianze.

Alla preghiera conclusiva seguirà la benedizione insieme da parte di Papa Francesco e di tutti i dodici Capi delle Chiese/leader cristiani, rivolti ai partecipanti al Sinodo e a tutti gli altri.

Per permettere ai giovani di partecipare a questo importante momento di preghiera per affidare a Dio i lavori del Sinodo, la Comunità di Taizé e molti altri hanno preso l'iniziativa di organizzare un fine settimana di incontro a Roma. Questo incontro per i giovani dai 18 ai 35 anni, porta anche il nome di Together. Questa veglia di preghiera e il Raduno Together sono il frutto di una meravigliosa collaborazione in uno stile molto sinodale. 

Per dirla con Papa Francesco, “il cammino si fa camminando”, questo evento unico e profetico, aperto a tutto il Popolo di Dio nella sua diversità, può dimostrare come la missione della Chiesa è di essere una comunione che si irradia verso l'esterno per mostrare al mondo qual è la posta in gioco nel progredire insieme lavorando per l'unità del genere umano”.

Siamo comunione con la nostra preghiera. 

      

Come il Corano racconta la sublime figura di Maria 

          

In settembre, Maria ritorna presente nel nostro cuore.

Nel libro sacro dell’islam, la Vergine è descritta come un faro e un modello di fede autentico ed esemplare. Maria è una figura in cui sia cristiani che musulmani vedono un faro e un modello di fede autentico ed esemplare, possibile grande via di dialogo, incontro e fratellanza spirituale. Nel Corano, la sua straordinarietà è dimostrata anche dal fatto che il suo nome appare ben trentaquattro volte (più che nel Vangelo) e che lei è l’unica donna a essere menzionata col proprio nome.

Maria è sublime, fiore mistico, vergine, santa, libera, in dialogo con gli angeli, devota, sapiente, modello per tutti gli uomini di tutte le fedi, recipiente del Verbo di Dio, l’eletta unica del Signore, esempio eccellente: «O Maria, in verità Dio ti ha prescelta e t’ha purificata e t’ha eletta su tutte le donne dei mondi» (Corano 3, 42). Su L’Osservatore Romano, Shahrzad Houshmand Zadeh elenca in dodici punti i riferimenti a Maria nel libro sacro dell’islam:


1) Ancora prima della sua nascita, Maria viene affidata a Dio attraverso il voto della propria madre, ed è l’unica persona che ha il titolo di moharrar, libera e liberata.

 

2) Maria viene messa sotto la protezione di Dio, contro il male, contro Satana: «E quando la partorì, disse: “Signore! Ecco che io ho partorito una femmina!”. Ma Dio sapeva meglio di lei Chi essa aveva partorito. […] “La metto sotto la Tua protezione, lei e la sua progenie, contro Satana, il reietto”. E il Signore l’accettò di accettazione buona» (Corano 3, 36). È in questa occasione che viene presentata l’Immacolata Concezione, dogma che la Chiesa cattolica ha elaborato centocinquant’anni orsono, mentre il Corano quattordici secoli fa.

 

3) Maria è il fiore mistico del Corano, cresciuto sotto la diretta attenzione del suo Signore. È nabat, nabatan hasana, il fiore bellissimo, unico: «È Dio che la fa germogliare, di germoglio buono» (Corano 3, 37).

         

4) Maria, giovanissima, viene affidata al santo profeta Zaccaria, che rimane stupito per i doni miracolosi che lei riceve. «E ogni volta che Zaccaria entrava da lei nel santuario, vi trovava del cibo misterioso, e le diceva: “O Maria, da dove ti viene questo?” E lei rispondeva: “Mi viene da Dio, perché Dio dà della sua provvidenza a chi vuole, senza conto”» (Corano 3, 37). Con la sua fede saldissima, diventa la maestra di fede dello stesso profeta.


5) Maria è la vergine del Corano e suo figlio è Isa ibn Mariam, Gesù figlio di Maria. L’annunciazione viene descritta in modo straordinario: «“O Maria, Dio ti annuncia la buona novella di un Verbo che viene da Lui e il cui nome sarà il Cristo, Gesù, figlio di Maria, eminente in questo mondo e nell’altro e uno dei più vicini a Dio. Ed egli parlerà agli uomini dalla culla come un adulto”. “O mio Signore”, rispose Maria, “come avrò mai un figlio se non mi ha toccata alcun uomo?”. Rispose l’angelo: “Eppure Dio crea ciò che Egli vuole”» (Corano 3, 46 e 47).

  

6) Maria è santa, devota, pura.

     

7) Maria sceglie sempre la luce, quella di Dio. Quando si allontana dalla sua famiglia andando in un luogo a oriente, simbolo del sorgere del sole e origine della luce (Corano 19, 17), Maria entra in un periodo di meditazione profonda e crea il suo castello interiore.

     

8) Maria è in dialogo con gli angeli: «Quando gli angeli dissero: “O Maria, ecco che Dio ti annuncia un Verbo da parte sua: il suo nome è l’unto, Messia, Gesù figlio di Maria, illustre nella vita presente e nella futura, in culla parlerà alle genti, e nell’età matura”. Essa disse: “Come potrò avere un figlio quando nessun uomo mi ha toccata. Disse: “Così sia, Dio crea ciò che Egli vuole e gli insegnerà il Libro e la sapienza e la Torah e il Vangelo”» (Corano 3, 44-47).

 

9) Maria è esempio sublime, se non unico, tale da poter ricevere, incontrare, accogliere in sé, nell’anima e nel corpo, lo Spirito di Dio e vedere faccia a faccia lo Spirito Santo, trasformato per lei in una forma umana perfetta: «Abbiamo mandato verso di lei il Nostro Spirito, apparso a lei sotto forma di uomo perfetto» (Corano 19, 17).

 

10) Il Corano non parla mai di Giuseppe. Racconta il momento della prova del parto, in una società che non accetta in nessun modo una ragazza che partorisce senza marito: lei si rifugia presso un albero secco e morto. Il testo sacro narra la solitudine e il dolore enorme che Maria incontra e accetta, ricordando il suo grido unico: «Ebbe le doglie accanto al piede di una palma morta e disse: fossi morta prima di questo e fossi dimenticata!» (Corano 19, 23). Ma questo dolore non rimane tale. Anzi, si trasforma radicalmente in gioia: «Allora la chiamò da sotto di lei: non affliggerti. Il Signore ha posto sotto di te sariyyan, scuoti verso di te il tronco della palma, rinverdisce e farà cadere su di te datteri freschi e maturi, mangia e bevi e il tuo occhio si rallegri» (Corano 19, 26). Sariyyan è una fontana d’acqua pura che scorre in silenzio e nella notte. Maria è l’esempio perfetto del fedele: cerca la luce, la accoglie sempre, non in un modo passivo, ma sempre attivo.

  

11) Maria è la madre di Gesù Cristo, il messia, colui che nel Corano è Verbo di Dio, un Suo Spirito, benedetto dovunque sia, il prossimo a Dio, servo di Dio, il profeta di Dio, Colui che fa miracoli, dà la vista ai ciechi, risuscita i morti. È Colui che dopo la misteriosa morte viene innalzato presso Dio. Nel Corano, Gesù viene quasi sempre presentato come il frutto del seno di Maria, frutto del fiore mistico, dell’amata di Dio. Isa ibni Maryam: Gesù figlio di Maria.


12) Maria è un modello da seguire per tutti coloro che cercano un esempio perfetto di fede e di verità (Corano 66, 12). Non solo perché Dio ha mandato verso di lei il Suo Spirito, perché ha incontrato la potenza di Dio, perché Dio ha soffiato e insufflato in lei il suo stesso spirito, ma anche perché lei è l’esempio sublime e maestra di sapienza e unità. Maria ha confermato le parole di Dio e tutti i suoi Libri. L’anima di Maria abbraccia tutti, come una meravigliosa madre. (Associazione Rete Sicomoro)

      

Mese di ottobre. Spiritualità missionaria (1)

  

Cura della salvezza degli altri

«Chi è il missionario?» hanno chiesto una volta a Madre Teresa, che ha risposto: «È quel cristiano talmente innamorato di Gesù Cristo, da non desiderare altro che di farlo conoscere e amare».

    

San Giovanni Crisostomo ha scritto: “Il cristiano è un uomo a cui Dio ha affidato tutti gli uomini. Niente è più freddo del cristiano che non si cura della salvezza degli altri… Se dici che il sole non può splendere gli fai torto; se dici che il cristiano non può far del bene, offendi Dio e lo rendi bugiardo. È più facile, infatti, che il sole non scaldi e non brilli, che un cristiano non risplenda; è più facile che la luce sia tenebra, che accada questo… Non dire che è impossibile; è invece il contrario impossibile. Non offendere Dio. Se noi facciamo bene la nostra parte, questa avverrà sicuramente e si svolgerà come un fatto naturale. Non può la luce d’un cristiano restare nascosta; non può restare nascosta una fiaccola così splendente”.

     

Papa Francesco definisce San Francesco SaverioUn gigante dell’evangelizzazione. Un faro per i nostri tempi di secolarizzazione, apostasia e di evidente tradimento da parte di tanti cristiani che hanno paura di testimoniare Cristo, Via, Verità e Vita. San Francesco Saverio insegna che ogni sacrificio deve essere fatto per testimoniare la verità di Cristo, e che, senza questa Verità, la vita di ogni uomo rimane impietosamente povera”.

      

Il missionario del PIME, partente, recita questa preghiera composta da Padre Giovanni Mazzucconi, primo martire del PIME, nel 1852: “Santissima Trinità, … io miserabile peccatore compreso dai più vivi sentimenti di adorazione, di gratitudine e di amore verso la tua bontà infinita, che per grazia inestimabile ho avuto la sorte di conoscere, e commosso insieme nel più intimo del cuore, dell’indicibile disgrazia di tanti miei fratelli che giacciono ancora sepolti nelle tenebre e nelle ombre di morte, specialmente di quelli che sono stati finora inaccessibili alla bella luce del santo vangeli, ho deciso, col tuo aiuto, di adoperarmi a costo di qualunque sacrificio, di qualunque fatica o disagio, anche della vita, per la salvezza di quelle anime, che costano esse pure tutto il sangue della redenzione. Beato quel giorno in cui mi sarà dato di soffrire molto per una causa così santa e così pietosa; ma più beato quello in cui fossi trovato degno di spargere per esso il mio sangue e di incontrare fra i tormenti la morte! … Maria Santissima immacolata … ottienici la grazia di portare fino agli ultimi confini della terra il nome adorato del tuo divin Figlio, assieme al tuo.” 

     

Teresa di Lisieux, monaca carmelitana non è mai andata in missione, ma è stata proclamata Patrona universale delle missioni insieme al gesuita Francesco Saverio. 

«Vorrei essere missionaria, non soltanto per qualche anno, vorrei esserlo stata fin dalla creazione del mondo, e esserlo fino alla consumazione dei secoli».

    

Charles de Foucauld.Preparare il terreno che sintetizza poi con l’andare “a portare il seme della divina dottrina, non predicando ma conversando, stabilendomi da loro, imparando la loro lingua, traducendo il Santo Vangelo, mettendomi in rapporti d’amicizia fin dove è possibile con essi…”.

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Treviso,  2 - 7 aprile 2023

Il Papa alla Chiesa di Mongolia: siete piccoli, ma Dio ama la piccolezza

“Vengo qui come un pellegrino di amicizia” che “giunge in punta di piedi”

Con l'offerta di una coppa di yogurt secco, pietanza tradizionale del luogo dal sapore acidulo prodotta con il latte di yak, è stato inaugurato l'arrivo di Papa Francesco in Mongolia.
Papa Francesco alle autorità della Mongolia in occasione del suo quarantatreesimo viaggio apostolico, il primo che vede un Pontefice mettere piede nel Paese Asiatico: "Voglia il Cielo che sulla Terra, devastata da troppi conflitti, si ricreino anche oggi, nel rispetto delle leggi internazionali, le condizioni di quella che un tempo fu la 'pax mongolica', cioè l'assenza di conflitti", ha detto
"Passino le nuvole oscure della guerra, vengano spazzate via dalla volontà ferma di una fraternità universale in cui le tensioni siano risolte sulla base dell'incontro e del dialogo, e a tutti vengano garantiti i diritti fondamentali! - è stato il suo appello - Qui, nel vostro Paese ricco di storia e di cielo, imploriamo questo dono dall'Alto e diamoci da fare insieme per costruire un avvenire di pace".
Il Papa ha parlato loro della piccolezza come risorsa. «Non abbiate paura dei numeri esigui, dei successi che tardano, della rilevanza che non appare – ha detto nel suo discorso –. Non è questa la strada di Dio». «Dio – sottolinea Francesco – ama la piccolezza».
Prima dell’incontro con la Chiesa locale nella cattedrale dei Santi Pietro e Paolo, accompagnato dal cardinale-prefetto apostolico Marengo, Francesco entra nella ger dove ha incontrato brevemente la signora Tsetsege, la donna che, una decina di anni fa, aveva raccolto dalla spazzatura una statuetta in legno della Madonna, poi intronizzata nella Cattedrale. Qui la chiamano “Madre del Cielo”. Davanti a questa statua, che il Papa ha benedetto, l’8 dicembre dello scorso anno il cardinale Marengo ha consacrato la Mongolia a Maria.
Il vescovo Eva Fernandez ha detto nel suo saluto – «Qui in Mongolia quasi tutti i missionari sono venuti da altri paesi e continenti, ma come in tutte le nostre comunità dell'Asia centrale, nessuno è straniero perché in seno alla Chiesa cattolica nessuno è straniero. La Chiesa crea fraternità perché la Chiesa è fraternità».



Il Papa in Mongolia: "Diamoci da fare, costruiamo insieme un futuro di pace"      

Nel secondo giorno di Papa Francesco in Mongolia, arriva dal Pontefice l'esortazione alla collaborazione per un futuro di pace. “Vengo qui come un pellegrino di amicizia” che “giunge in punta di piedi”, ha detto alle autorità e al corpo diplomatico, portando con sé in dono il facsimile della lettera che il Gran Khan inviò a Papa Innocenzo IV quasi 800 anni fa.
      

Le parole di Papa Francesco e la “pax mongolica”
“Sono onorato di essere qui, felice di aver viaggiato verso questa terra affascinante e vasta, verso questo popolo che ben conosce il significato e il valore del cammino. Lo rivelano le sue dimore tradizionali, le 'ger', bellissime case itineranti. Immagino di entrare per la prima volta, con rispetto ed emozione, in una di queste tende circolari che punteggiano la maestosa terra mongola, per incontrarvi e conoscervi meglio”. Queste le prime parole pronunciate all'interno della Sala 'Ikh Mongol' del Palazzo di Stato.

     
“Diamoci da fare insieme per costruire un avvenire di pace”
“Se le moderne relazioni diplomatiche tra la Mongolia e la Santa Sede sono recenti - quest'anno ricorre il trentesimo anniversario della firma di una lettera per rafforzare i rapporti bilaterali - ben più indietro nel tempo, esattamente 777 anni fa, proprio tra la fine di agosto e l'inizio di settembre del 1246, Fra Giovanni di Pian del Carpine, inviato papale, visitò Guyug, il terzo imperatore mongolo, e presentò al Gran Khan la lettera ufficiale di Papa Innocenzo IV, ha ricordato Francesco. “Poco dopo fu redatta e tradotta in varie lingue la lettera di risposta, timbrata con il sigillo del Gran Khan in caratteri mongoli tradizionali - ha sottolineato il Pontefice -. Essa è conservata nella Biblioteca Vaticana e oggi ho l'onore di porgervene una copia autenticata, eseguita con le tecniche più avanzate per garantirne la migliore qualità possibile. Possa essere segno di un'amicizia antica, che cresce e si rinnova”.

    
Quindi l'esortazione alla pace: “Voglia il Cielo che sulla Terra, devastata da troppi conflitti, si ricreino anche oggi, nel rispetto delle leggi internazionali, le condizioni di quella che un tempo fu la ‘pax mongolica’, cioè l'assenza di conflitti”.
Passino le nuvole oscure della guerra - ha continuato il Pontefice - vengano spazzate via dalla volontà ferma di una fraternità universale, in cui le tensioni siano risolte sulla base dell'incontro e del dialogo, e a tutti vengano garantiti i diritti fondamentali! - è stato il suo appello - Qui, nel vostro Paese ricco di storia e di cielo, imploriamo questo dono dall'Alto e diamoci da fare insieme per costruire un avvenire di pace”.
  

 
“I cattolici lieti di contribuire alla crescita della Mongolia”          

Le religioni “quando si rifanno al loro originale patrimonio spirituale e non sono corrotte da devianze settarie, sono a tutti gli effetti sostegni affidabili nella costruzione di società sane e prospere, dove i credenti si spendono affinché la convivenza civile e la progettualità politica siano sempre più al servizio del bene comune, rappresentando anche un argine al pericoloso tarlo della corruzione” ha continuato il Papa dinanzi alle autorità della Mongolia.
La comunità cattolica mongola “è lieta di continuare ad apportare il proprio contributo” al progresso morale e spirituale del Paese: “Essa - ha ricordato - ha cominciato, poco più di trent'anni fa, a celebrare la sua fede proprio all'interno di una 'ger' e pure la cattedrale attuale, che si trova in questa grande città, ne ricorda la forma”.
Secondo il Pontefice, “sono segni del desiderio di condividere la propria opera, in spirito di servizio responsabile e fraterno, con il popolo mongolo, che è il suo popolo. Sono perciò contento - ha proseguito Bergoglio - che la comunità cattolica, per quanto piccola e discreta, partecipi con entusiasmo e impegno al cammino di crescita del Paese, diffondendo la cultura della solidarietà, del rispetto per tutti e del dialogo interreligioso, e spendendosi per la giustizia, la pace e l'armonia sociale”.
“Auspico - ha infine aggiunto Francesco - che, grazie a una legislazione lungimirante e attenta alle esigenze concrete, i cattolici locali, aiutati da uomini e donne consacrati necessariamente provenienti per lo più da altri Paesi, possano sempre offrire senza difficoltà alla Mongolia il loro contributo umano e spirituale, a vantaggio di questo popolo”. A tale riguardo, “il negoziato in corso per la stipula di un accordo bilaterale tra Mongolia e Santa Sede rappresenta un canale importante per il raggiungimento di quelle condizioni essenziali per lo svolgimento delle ordinarie attività in cui la Chiesa cattolica è impegnata”.
      

Il motto “Sperare insieme”

“Il motto scelto per questo viaggio, ‘Sperare insieme’, esprime proprio la potenzialità insita nel camminare con l'altro, nel rispetto reciproco e nella sinergia per il bene comune” ha sottolineato il Papa. “La Chiesa cattolica, istituzione antica e diffusa in quasi tutti i Paesi, è testimone di una tradizione spirituale nobile e feconda, che ha contribuito allo sviluppo di intere nazioni in molti campi del vivere umano, dalla scienza alla letteratura, dall'arte alla politica - ha concluso -. Sono certo che anche i cattolici mongoli sono e saranno pronti a dare il proprio apporto alla costruzione di una società prospera e sicura, in dialogo e collaborazione con tutte le componenti che abitano questa grande terra baciata dal cielo”.   

     

La Terra, bene comune da tutelare 

Il Papa ha rinnovato quindi l’appello ad un “impegno urgente e non più rimandabile per la tutela del pianeta Terra”. Questa tutela riguarda pure le “grandi sfide globali dello sviluppo e della democrazia. La Mongolia di oggi, infatti, con la sua ampia rete di relazioni diplomatiche, la sua attiva adesione alle Nazioni Unite, il suo impegno per i diritti umani e per la pace, riveste un ruolo significativo nel cuore del grande continente asiatico e nello scenario internazionale”, ha rimarcato Francesco, menzionando in proposito la determinazione del Paese centroasiatico “a fermare la proliferazione nucleare e a presentarsi al mondo come Paese senza armi nucleari”. Un provvido elemento, insieme al fatto che la pena capitale non compare più nell’ordinamento giudiziale.


      

Il Papa alla Chiesa mongola: essere piccoli è una risorsa, conta una fede genuina 

"L’azione evangelizzatrice della Chiesa non ha un’agenda politica da portare avanti, ma conosce solo la disarmata e disarmante potenza del Risorto"

  

“Fratelli, sorelle, non abbiate paura dei numeri esigui, dei successi che tardano, della rilevanza che non appare. Non è questa la strada di Dio. La piccolezza non è un problema. Dio ama la piccolezza” 

  

“Perché spendere la vita per il Vangelo? Proprio perché, come ricorda il Salmo 34, si è gustato, si è sentito il buon sapore, si è sperimentata nella propria vita la tenerezza dell’amore di Dio. Quel Dio che si è reso visibile, toccabile, incontrabile in Gesù”.

  

“Vi incoraggio a proseguire su questa strada feconda e vantaggiosa per l’amato popolo mongolo. Al tempo stesso vi invito a gustare e vedere il Signore, a tornare sempre e di nuovo a quello sguardo originario da cui tutto è nato. Senza di esso, infatti, le forze vengono meno e l’impegno pastorale rischia di diventare sterile erogazione di servizi, in un susseguirsi di azioni dovute, che finiscono per non trasmettere più nulla se non stanchezza e frustrazione”.

  

 Abbiamo perso la capacità di adorare

 “Il popolo mongolo attende questo tipo di testimonianza, avendo peraltro uno spiccato senso del sacro e la capacità di distinguere la reale genuinità della testimonianza stessa. Il cristiano è capace di adorare in silenzio. Da questa adorazione derivano poi le altre l’attività. Non dimenticate di adorare. Noi abbiamo perso l’adorazione. Di questo c’è bisogno, non di persone indaffarate e distratte che portano avanti progetti, col rischio talvolta di apparire amareggiate per una vita certamente non facile. Occorre tornare alla fonte, al volto di Gesù, alla sua presenza da gustare”.

  

 I governi non temano l'evangelizzazione

 “La Chiesa… è una Chiesa povera, che poggia solo su una fede genuina, sulla disarmata e disarmante potenza del Risorto, in grado di alleviare le sofferenze dell’umanità ferita. Da qui una rassicurazione per le autorità: Ecco perché i governi e le istituzioni secolari non hanno nulla da temere dall’azione evangelizzatrice della Chiesa, perché essa non ha un’agenda politica da portare avanti, ma conosce solo la forza umile della grazia di Dio e di una Parola di misericordia e di verità, capace di promuovere il bene di tutti”.

  

 Il vescovo non un manager

 “Il Vescovo…è l’immagine viva di Cristo buon Pastore che raduna e guida il suo popolo; un discepolo colmato del carisma apostolico per edificare la vostra fraternità in Cristo e radicarla sempre più in questa nazione dalla nobile identità culturale. i fratelli e le sorelle sparsi nel mondo verso la Mongolia, in una grande comunione ecclesiale. È questione di fede e di amore al Signore, è fedeltà a Lui. Perciò è importante che tutte le componenti ecclesiali si compattino intorno al Vescovo, che rappresenta Cristo vivo in mezzo al suo Popolo, costruendo quella comunione sinodale che è già annuncio e che tanto aiuta a inculturare la fede. Dio è compassionevole, vicino e tenero”.

     

 Gustate e vedete il dono che siete, tutta la Chiesa vicina a voi

 “Il fatto che il vostro Vescovo sia Cardinale vuol essere un’ulteriore espressione di vicinanza: voi tutti, lontani solo fisicamente, siete vicinissimi al cuore di Pietro; e tutta la Chiesa è vicina a voi, alla vostra comunità, che è veramente cattolica, cioè universale, e che attira la simpatia di tutti”.

       

 Affidarsi alla 'piccolezza' di Maria, nostra Madre

 “Se, nella narrazione della Storia segreta dei Mongoli, una luce discesa attraverso l’apertura superiore della ger feconda la mitica regina Alungoo, voi potete contemplare nella maternità della Vergine Maria l’azione della luce divina che dall’alto accompagna ogni giorno i passi della vostra Chiesa.

     

 Andate avanti coraggiosi, non stancatevi di andare avanti: Dio vi ama, Lui vi ha scelti e crede in voi”.

       

     

Quali risultati?  

In aereo Jargalsaikhan Dambadarjaa: “Grazie molte, Santità, per aver visitato la Mongolia. La mia domanda è: quale era il suo principale obiettivo con questa visita e se è soddisfatto del risultato raggiunto”.
Papa Francesco ha risposto: «L’idea di visitare la Mongolia mi è venuta pensando alla piccola comunità cattolica. Io faccio questi viaggi per visitare le comunità cattoliche e anche per entrare in dialogo con la storia e la cultura dei popoli, con quella che è la mistica propria di un popolo. È importante che l’evangelizzazione non vada concepita come proselitismo. Il proselitismo restringe sempre. Papa Benedetto ha detto che la fede non cresce per proselitismo ma per attrazione. L’annuncio evangelico entra in dialogo con la cultura. C’è una evangelizzazione della cultura e anche una inculturazione del Vangelo.
Perché i cristiani esprimono i loro valori cristiani anche con la cultura del proprio popolo. Questo è tutto il contrario di quella che sarebbe una colonizzazione religiosa.
Per me il viaggio era conoscere questo popolo, entrare in dialogo con questo popolo, ricevere la cultura di questo popolo e accompagnare la Chiesa nel suo cammino con molto rispetto della cultura di questo popolo. E sono soddisfatto del risultato».
   
Un giornalista dopo la visita ha chiesto al Card Marengo: “Che cosa si attende da questa visita del Papa?”
Spero in una crescita e in un approfondimento della fede. È fondamentale riscoprire e rendere sempre nuova la fede nella sua bellezza, nella sua trasformazione in capacità di condivisione e di espressione, vivendo la propria fede come cittadini del proprio paese assecondandone le proprie caratteristiche. Si tratta di vivere come dono e responsabilità.
   
Anche ai cristiani cinesi il Papa ha chiesto di essere buoni cristiani e buoni cittadini.
Papa Francesco e il card Giorgio Marengo auspicano che nella Ger mongolina, dolce casa e piccolo paradiso, l’annuncio evangelico entri e viva in dialogo con la cultura. Sia evangelizzazione della cultura e inculturazione del Vangelo.
“Mi ha fatto bene” ha concluso Papa Francesco “entrare in dialogo con quel grande continente, coglierne i messaggi, conoscerne la sapienza, il modo di guardare le cose, di abbracciare il tempo e lo spazio. Mi ha fatto bene incontrare il popolo mongolo, che custodisce le radici e le tradizioni, rispetta gli anziani e vive in armonia con l’ambiente: è un popolo che scruta il cielo e sente il respiro del creato”.
E a noi ha fatto bene?

   

     

In Mongolia, missionari, libri viventi di catechesi   

     
Suor Salvia Mary Vandanakara dice: “Le opere delle Missionarie della Carità sono la cura dei bambini con disabilità fisiche e mentali, l’assistenza ai malati e agli anziani abbandonati dalle loro famiglie, l’accoglienza dei senzatetto, il sostentamento di chi non ha da sfamarsi e l’aiuto alle famiglie povere e agli emarginati. Si cerca di far capire alle persone quanto esse «siano preziose agli occhi di Dio, con il profondo desiderio di restituire loro dignità e valore umano».
     
Al servizio dei più poveri
Giunte in Mongolia nel 1998, quando la Chiesa aveva appena iniziato a radicarsi, sentivamo che anche noi dovevamo vivere in mezzo a loro e sperimentare alcune delle difficoltà che affrontavano, come la mancanza di acqua e di altri beni di prima necessità». Il clima, «era estremamente freddo», allora non c’erano «strutture adeguate a permettere ai bambini di fare i compiti», così è stato organizzato un programma di doposcuola «con l’aiuto di alcuni insegnanti mongoli e in seguito siamo riusciti ad inserirli nelle scuole regolari per permettergli di completare gli studi».
Il «terreno» su cui spargere i semi della fede in Mongolia «è molto “roccioso” e a volte sembra che non permetta alcuna infiltrazione», e «non dà facilmente frutti». Per questo, si è «inclini ad abbatterci e a farci prendere dalla delusione»; ma «con l’aiuto e la grazia di Dio e la protezione della nostra Madre Celeste, andiamo avanti senza paura e senza esitazioni».
     
Per la salvezza del popolo
Peter Sanjaajav, uno dei primi due sacerdoti locali, rivolgendosi al Papa dopo suor Salvia: “Questo incontro «ci fa capire che Dio ama il suo popolo, sta accanto alle persone, accanto a noi mongoli». Dio, «mi ha dato numerose opportunità di crescere come mongolo in terra mongola, e mi ha anche scelto per contribuire alla salvezza del mio popolo». Perché il frutto «dell’amore di Dio è iniziato da tempo, sta maturando in questo momento e sono certo che la sua visita produrrà un ricco raccolto».
     
Imparare la “lingua” cattolica
Rufina Chamingerel, operatrice pastorale, ha raccontato la sua testimonianza al Papa, confidandogli di non essere cresciuta in una famiglia cattolica, ma di essere diventata credente quando era studentessa. «Imparando a conoscere il cattolicesimo — ha aggiunto — mi è sembrato di imparare una nuova lingua che si chiama lingua cattolica. Sto studiando questa lingua da 14 anni e continuerò ad impararla».
«Secondo me — ha assicurato la donna — siamo molto fortunati in quanto non abbiamo molti libri di catechesi nella nostra lingua, ma abbiamo molti missionari che sono libri viventi». 

356

Treviso,  9 - 21 agosto 2023

Ci lascia padre Bianchin Mario, missionario per 50 anni in Giappone. 

Nasce a Fontane di Villorba, TV, il 18 aprile 1941. Entra nel PIME di Piazza Rinaldi a Treviso il 13 ottobre 1952 come seminarista. L’aveva portato in bicicletta il suo cappellano.
Compie gli studi di teologia negli Stati Uniti, emette il giuramento il 4 giugno 1964 ed è ordinato sacerdote il 12 giugno 1965. Dopo alcuni anni di servizio negli USA come animatore vocazionale ed aver conseguito un M.A. (laurea) sui media alla Loyola University di Los Angeles nel giugno del 1972, parte per il Giappone il 4 ottobre seguente.
Produce una video-cassetta sulla preghiera (Inori) in Giappone.
Lo scorso 14 febbraio il nunzio mons. Leo Boccardi gli aveva conferito la “Croce pro Ecclesia et Pontifice” per il trentennale servizio missionario presso la Nunziatura Apostolica locale.
La cerimonia, svoltasi nella parrocchia di Yurigaoka (dove p. Mario era appunto impegnato), ha rappresentato un grande onore per tutta la comunità missionaria giapponese.
Nel 2013, in occasione del Santo Natale, p. Mario ricordava con queste parole ciò che per lui rappresentava il tratto distintivo della dimensione sacerdotale e missionaria: “Essere dei ‘chiamati’ è la parola che ci costituisce, la parola che ci permette di vivere quella vita nuova che è il ‘suo’ dono: sempre in ascolto e sempre assenzienti a Lui che ogni giorno ci chiama ad essere ‘con Lui’.”
Padre Lembo ci scrive: P. Mario è deceduto presso l’Ospedale Cattolico delle Suore di San Giovanni Evangelista, SakuraMachi, Tokyo, alle ore 4:21 del giorno 8 agosto. p. Mario era stato innanzitutto ricoverato dal 17 marzo presso un altro Ospedale Cattolico, il San Marianna di Kawasaki, in seguito ad una Polmonite Interstiziale. La gravità della cosa lo ha portato ad un lungo ricovero. p. Mario è morto sereno. Io sono andato quasi ogni giorno a trovarlo, per parlare e pregare assieme. Ogni domenica celebravo la S. Messa con lui nella sua camera.
L’8 agosto 2023 il Signore lo ha chiamato a sé per ricevere il premio eterno al suo servizio alla Chiesa e al Regno di Dio.


San Pio X e gli indios dell'America del Sud

Il 7 giugno 1912 il santo Pio X scrisse la LETTERA ENCICLICA LACRIMABILI STATU per deplorare che in molti luoghi gli indios vivono ancora in stato lagrimevole. Papa Pio X riprende “profondamente commosso” quello che il suo predecessore Benedetto XVI, aveva “preso seriamente a cuore per la loro causa” con la lettera Immensa pastorum, in data 22 dicembre 1741.

Rileggiamo: 

     
“Ci affrettiamo perciò a richiamare al vostro pensiero la memoria di quella lettera. Ivi infatti, insieme ad altre cose, di questo pure Benedetto si duole, che, cioè, sebbene da lungo tempo la sede apostolica molto si fosse adoperata per sollevare la loro misera sorte, vi fossero tuttavia anche allora «uomini professanti la vera fede, i quali, quasi del tutto dimentichi dei sensi di carità infusi nei nostri cuori dallo Spirito santo, si credono lecito verso i miseri indios, non solamente se privi della luce della fede, ma anche se bagnati del santo lavacro della rigenerazione, o di ridurli in schiavitù o di venderli ad altri come schiavi, o di privarli dei loro beni, e di comportarsi con essi con tale inumanità da distoglierli soprattutto dall'abbracciare la fede di Cristo, e raffermarli sempre più nell'odio contro di essa. (…)

 
Ci soffermiamo a considerare le sevizie e i delitti che si sogliono ora commettere contro di essi, abbiamo davvero di che inorridire e sentiamo nell'animo una profonda commiserazione per quella razza infelice. Che cosa può esservi, infatti, di più barbaro e più crudele dell'uccidere, spesso per cause lievissime, e non di rado per mera libidine di torturare, degli uomini a colpi di sferza o con ferri roventi, o con improvvisa violenza farne strage, uccidendoli insieme a centinaia e a migliaia; o saccheggiare borghi e villaggi, massacrando gli indigeni, dei quali talune tribù abbiamo appreso essere state in questi pochi anni quasi distrutte? A rendere gli animi tanto feroci certo grandemente influisce la cupidigia del lucro, ma non poco altresì vi contribuisce la natura stessa del clima e la posizione di quelle regioni. Infatti essendo quei luoghi soggetti ad un'atmosfera torrida, che inoculando nelle vene un certo languore, viene quasi ad affievolire la forza degli animi, e, trovandosi essi lontani da ogni pratica della religione, dalla vigilanza dello stato, e quasi dallo stesso consorzio civile, facilmente accade che se taluni, di costumi non pervertiti, si rechino colà, in breve tratto di tempo comincino a depravarsi e man mano, rotti tutti i ritegni del dovere e delle leggi, precipitino in tutti gli eccessi del vizio. Né da costoro si perdona la debolezza del sesso e dell'età, che anzi fa vergogna il riferire le loro scelleratezze e malvagità, nel fare incetta e mercato di donne e fanciulli, talché si direbbero per essi, con tutta verità, sorpassati gli esempi più estremi della turpitudine pagana. (…)

Noi, invero, per qualche tempo, quando Ci venivano riportate siffatte voci, dubitavamo di prestare fede a simili atrocità, tanto Ci sembravano incredibili. Ma dopo che da amplissime testimonianze, cioè dalla maggior parte di voi, venerabili fratelli, dai delegati della sede apostolica, dai missionari e da altre persone del tutto degne di fede, ne siamo stati informati, non Ci è più lecito avere alcun dubbio sulla verità delle cose. (…)
    

Intanto, affinché a quello che voi di vostra spontanea iniziativa o per esortazione Nostra, sarete per fare a vantaggio degli indios si aggiunga la maggiore efficacia possibile, Noi, seguendo l'esempio ricordato dal Nostro predecessore, condanniamo e dichiariamo rei d'immane delitto tutti coloro, com'esso dice, che «osino o presumano di ridurre i predetti indios in schiavitù, di venderli, comprarli, commutarli o donarli, di separarli dalle mogli e dai figli, di spogliarli delle loro cose e dei loro beni, di condurli o trasportarli altrove o in qualunque modo privarli della libertà e tenerli schiavi, nonché di prestare, a coloro che ciò fanno, consiglio, aiuto, favore, sotto qualunque pretesto e nome, o di insegnare e proclamare essere tutto ciò lecito, in qualsiasi altra maniera cooperare a quanto detto sopra». Vogliamo pertanto riservata agli ordinari dei luoghi la potestà di assolvere da siffatti delitti i penitenti, nel sacro tribunale della confessione”. (…)
       

Cento anni fa il santo Pio X. Oggi papa Francesco vede nel mondo ancora tante atrocità.

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Treviso,  7 luglio 2023 

Nuovi Martiri

In vista del prossimo Giubileo del 2025 Papa Francesco ha costituito presso il Dicastero delle Cause dei Santi la “Commissione dei Nuovi Martiri –Testimoni della Fede”, «per elaborare un Catalogo di tutti coloro che hanno versato il loro sangue per confessare Cristo e testimoniare il suo Vangelo».
    

Mi ha interessato la parola ‘Nuovi’ perché nella mia vita di missionario in Camerun, alcune persone mi sembrano ‘Martiri Nuovi’. Pierre Malina, uno dei primi cristiani battezzati a Guidiguis nella diocesi di Yagoua me lo sento sempre vicino e vivo per la testimonianza che ha lasciato e fuori dagli schemi tradizionali del martirio. Tutta la sua famiglia è stata battezzata e il suo primo figlio era nel centro di formazione dei catechisti quando fu morso mortalmente da un serpente. Era tra i responsabili e generoso sostenitore nella crescita della missione. Chi è stato missionario può capire l’aiuto iniziale, importante, continuo, di un cristiano che unisce vita di famiglia e vita di missione.
      

Ad un certo momento fu accusato di stregoneria, cioè, considerato possessore di spirito nocivo alla società, diffusore di malattie e di morte e finì in prigione. Tutto il contrario di come viveva. Andavo a visitarlo e lo vedevo col suo libro liturgico, a volte anche insieme a pregare e ad insegnare a colleghi carcerati. Poté far arrivare anche qualche sacco di miglio.
      

In tribunale mi trovai accanto a lui, ma a nulla valsero le mie parole di testimonianza della sua vita di cittadino onesto, sociale e positivo. In realtà, resta un mistero l’inizio di accusa di stregoneria, forse vecchie invidie e gelosie. Uscito di prigione non poté vivere a lungo. Fu massacrato. Mi interessai che il luogo della sua sepoltura fosse ben custodito.
     

La santità che sentivo in lui è che ha vissuto il suo martirio testimoniando la sua fede in Gesù soffrendo con pazienza e continuando a donarsi. In Paradiso continua ad amare la sua famiglia, la sua gente e la missione.
      

Lo possiamo considerare nella lista dei nuovi martiri? Martiri innocenti accusati di stregoneria. Ne parlai a missionari, al vescovo… e sarei contento di sentire il parere di chi mi sta leggendo, se ha conoscenza di casi del genere. Per me, Pierre Malina è tra i miei santi preferiti, accanto alla ex-schiava Bakita.

    
Si tratta di superare il non raro scoglio della stregoneria, cioè di liberare la mentalità da un’idea culturale di paura di processi nocivi interpersonali. La Chiesa parlando di culture tradizionali e riconoscendole, ha sempre aggiunto che vanno purificate. Ma sono processi profondi, lunghi.
Papa Francesco può darmi la gioia di chiamarlo ‘Martire Nuovo’.

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Treviso,  16 giugno / 4 luglio 2023 

Don Giuseppe Geremia. Prete in tormento
Domenica 11 giugno ha concluso, serenamente, la sua giornata terrena presso la Casa del Clero di Treviso Don Giuseppe Geremia di anni 89, 64 di sacerdozio, arciprete di Salgareda per 31 anni.
     
Ne danno l’annuncio il Vescovo Michele, i fratelli Mario, Anna Maria, Angelo, p. Pietro, Rita e Camillo, i nipoti, i pronipoti e familiari tutti, uniti alla parrocchia di Salgareda, alle parrocchie della Collaborazione di Ponte di Piave, alla comunità sacerdotale della Casa del Clero e al presbiterio diocesano, si raccolgono in preghiera con tutti coloro che hanno incontrato, conosciuto e stimato don Giuseppe nel suo lungo ministero sacerdotale e nell’impegno caritativo e sociale.
Gesù Buon Pastore lo accolga ora nella pace eterna e gli doni il premio riservato ai suoi servi fedeli.
      

Ricordo che nel ’47, eravamo compagni di scuola nel seminario diocesano di Treviso. Per motivi di salute dovetti lasciare il seminario e dopo alcuni anni passai al PIME. Fummo ordinati sacerdoti nel 1959. Suo fratello Pietro era entrato nel PIME e nel 1972 partì nelle Filippine dove si trova tuttora. Ha passato dei momenti di opposizione violenta e minacce di morte. Sempre vicino ai poveri, agli oppressi, alle persone trattate senza rispetto e giustizia.
Veramente, mi sembra, i due fratelli si trasmettevano una passione di fedeltà alle istanze del Vangelo.
     

Di don Giuseppe leggo: “A Salgareda è sempre stato molto vicino ai più sfortunati, collaborando attivamente col Comitato dei diritti dei malati di cui è stato presidente. È stato impegnato anche con altri sodalizi, come ad esempio l’Associazione dei familiari dei malati mentali, gli Alcolisti Anonimi e si è attivato nell’accoglienza agli immigrati.
      

Ritrovai don Giuseppe qualche mese fa nella comunità sacerdotale della Casa del Clero di Treviso. Era un po’ inquieto e voleva continuamente parlarmi del fratello. A volte, di qualcuno, giunto a una certa età, senti dire che ha perso la conoscenza di sé. Tuttavia, fino ai suoi ultimi giorni, don Giuseppe è stato accanto al fratello… due preti in tormento. 

     
Sentiamoci vicini ai nostri preti anziani e ammalati della Casa del Clero.



Un summit fra le Chiese in conflitto
Giacomo Gambassi in AVVENIRE di giovedì 29 giugno scrive:
Il vescovo Heinrich Bedford-Strohm segue con attenzione alla missione del cardinale Matteo Zuppi che prima è stato a Kiev e ora è a Mosca. “Si tratta di riavvicinare le comunità cristiane che la guerra ha diviso. Ed è uno scandalo», avverte il pastore della Chiesa evangelica luterana in Baviera. Con il patriarca russo Kirill che ha benedetto l’invasione. E le due Chiese ortodosse in Ucraina ai ferri corti che si accusano di vicinanza al nemico o di accaparramento dei fedeli.
È una mediazione religiosa e umanitaria quella che propone Zuppi a nome del Papa. È, invece, tutta di stampo ecclesiale la missione di pace” voluta dell’organismo che riunisce oltre trecento denominazioni cristiane, per lo più ortodosse e protestanti, fra cui quelle dei due Paesi in conflitto. «Siamo convinti che un cammino di riconciliazione possa partire dalle Chiese e poi irradiarsi fuori delle nostre mure. «Guardiamo con fiducia a ciò che sta facendo il cardinale Zuppi e gli auguriamo ogni benedizione. L’impegno vaticano e quello nostro mostrano lo sforzo delle Chiese a costruire ponti». (…)

    
“Nel lungo colloquio abbiamo trovato disponibilità al dialogo. Ma il dialogo fra le Chiese ha fondamenta diverse rispetto a quello politico. Certo, come Consiglio ecumenico non abbiamo una posizione di neutralità rispetto alla guerra. Abbiamo detto chiaramente che è un’invasione russa, che è immorale e che la religione non va usata per giustificare il conflitto. Tuttavia, vogliamo anche gettare semi per trovare vie d’uscita: anche di questo abbiamo discusso.
 

In Ucraina le tensioni fra le due Chiese ortodosse si traducono in scontri davanti ai luoghi di culto, imputazioni di collaborazionismo, espulsioni di sacerdoti, invasione di templi e monasteri.
Abbiamo proposto al patriarcato di Mosca e alle due Chiese ortodosse in Ucraina una tavola rotonda. L’abbiamo illustrata anche a papa Francesco durante il nostro incontro e vorremmo che una rappresentanza vaticana possa prendere parte ai lavori. (…)
   

Tre sono le giornate in cui dovrebbe svolgersi l’appuntamento: la prima di confronto con il patriarcato di Mosca; la seconda con le Chiese dell’Ucraina; la terza di dialogo congiunto. Se andasse in porto, sarà necessario coinvolgere le reti diplomatiche dei diversi Stati e garantire la sicurezza di spostamento dei vari gruppi di partecipanti. Non possiamo non provarci. E mettiamo tutto nelle mani di Dio”.
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Cari amici, non possiamo restare lontani dal conflitto e dalla divisione tra cristiani. Non basta leggere giornali e vedere alla TV. Il Papa ci chiede di non restare indifferenti e di coinvolgerci, sostenendo le iniziative in atto con la preghiera.    

      


Gioia di vita missionaria.  
Danze e canti da una collina all’altra, da zone di savana insecchita… a banchi di alberi di fiori rosso acceso.
Luglio 2023. È festa in Camerun.

     
P. Vivier SIKOUA è stato ordinato sacerdote a Garoua, i PP. Jean Chrysostome ENGAMA ENGAMA e Hermann NGUEKENG TETOU sono stati ordinati sacerdoti a Ngousso, Yaoundé, P. (Pierre) Bouba BOUIADA è stato ordinato sacerdote a Zouzoui, Yagoua, Camerun.
Figli di quattro comunità cristiane iniziate con la semplice presenza di missionari del PIME che hanno voluto bene alla gente in nome di Gesù. Frutti di una vita donata all’annuncio del Vangelo. Altri, consacrati anni fa, ora già lontani dal loro paese in missione o con incarichi formativi. 

      
In questi giorni, ricevo foto, notizie, dai missionari Antonio Michielan, Rino Porcellato, Danilo Fenaroli, Fabio Bianchi, e mi sento unito a loro nella gioia, a quella dei quattro nuovi missionari del PIME, alla gioia delle comunità che li hanno donati.
     

Che senso dare a questa gioia? Oggi la Chiesa vivente in Camerun si rallegra della sua vitalità nel vedere i suoi figli sulla strada del primo missionario Gesù. Maturità e crescita della Chiesa camerunese che sente la sua popolazione aprirsi alla vita nuova del Vangelo e rendersi disponibile ad annunciarlo in altri paesi. 

      
Oggi, vedendo preti questi giovani, io missionario in età avanzata, sento una gioia carica di ricordi…essendo stato il primo ad arrivare in quelle zone, da quando i superiori mi chiesero di lasciare Ambam (Sud Camerun) per raggiungere le posizioni del Nord. Il primo incontrato in quei luoghi fu un seminarista che mi insegnò le prime parole della sua etnia Tupuri ed è ora arcivescovo di Douala, Mons. Samuel Kleda. Poi il primo Tupuri che ho battezzato e che era cieco sordo muto. Gli parlavano sulle mani. Dalla scuola di catechisti sono usciti i genitori di alcuni ordinati preti, di alcune religiose. È commovente constatare che si è strumenti dell’opera dell’amore di Dio.
 

Mi domando… perché migliaia di persone incontrate… perché alcuni diventati credenti in Gesù, alcuni consacrati preti, religiose, catechisti, operatori di comunione tra etnie…? Vita di condivisione animata dallo stesso Spirito.
Mi ripenso fanciullo nato nelle campagne di Padova. Potevo immaginare?
Un cammino vivo… gioia del Vangelo.



Suor Biancarosa Biondo
Quando vidi Suor Biancarosa Biondo, originaria della parrocchia di S. Giuseppe (TV), la prima volta, lei era in viaggio dal nord del Camerun verso il Ciad dove pensava di incominciare una nuova presenza. Qualche anno prima, Il 15 agosto 1989, superiora generale della sua congregazione della Divina Volontà, aveva accompagnato quattro sorelle destinate alla prima missione di Durum nella diocesi di Maroua nel Nord. Diventata poi semplice missionaria, me la trovai piena di progetti e desiderosa di avvicinare ragazze africane per trasmettere loro la sua passione missionaria. Incominciava così anche per me un nuovo impegno perché mi volle vicino in ogni progetto e programma. Per una decina d’anni vissi tanti momenti di dialogo, preghiera, accompagnamento della sua comunità e di formazione del gruppo di ragazze africane di varie etnie che non tardarono a unirsi a lei e alle sue consorelle.
  

Io vivevo a Guidiguis, dove da anni seguivo lo sviluppo di una nuova missione e dirigevo anche un centro di formazione di catechisti. Chi dal Nord andava in Ciad doveva passare per Guidiguis e mi trovai spesso in situazione di incontri con vari missionari che accoglievo. Era un momento missionario straordinario: vivere e annunciare il Vangelo tra popolazioni in situazione di povertà, di sottomissione al mondo musulmano e di vita libera dentro tradizioni secolari e naturali.
Incontrare Biancarosa e lavorare con lei, per me missionario, fu un dono straordinario. Lei veniva da una vita di religiosa vissuta con un senso di alta responsabilità e con esperienza maturata con spirito di fede e nella relazione con consorelle seriamente preparate ai loro compiti di servizio sociale ed ecclesiale. Come persona faceva sentire un senso affettuoso di accoglienza e di stima che ti sollevava e metteva a tuo agio. Sentivo in lei una sorella che manteneva vivo un senso di vicinanza e dignità. Tutti noi missionari abbiamo trovato in lei una persona vicina, sensibile, intelligente e di nobiltà. Attorno a lei sentivamo consorelle unite dallo stesso spirito, quello che in tarda età definì: “nostalgia del calore umano che respiravamo al Nord”.

Aveva il “desiderio di fare passi in avanti per la formazione”. Poter mettere insieme un bel gruppo di ragazze africane ed aiutarle a un discernimento per una donazione di vita, era già un bel progetto per assicurare continuità alla congregazione nel suo cammino nel mondo. Ma Biancarosa si sentiva chiamata a rendere l’Africa degna di offrirsi nella sua piena dignità cristiana. Non solo lo sviluppo della congregazione, ma il dono del carisma della congregazione quello cioè di filiale adesione alla volontà del Padre, mettiamo tutta la nostra vita a servizio del disegno che Dio ha su di noi e sulla storia. (Costituzione 9). Non solo il disegno di Dio su di noi ma dedicarsi al disegno di Dio sull’Africa. Erano i passi in avanti per la formazione che la tenevano sempre occupata con entusiasmo.
 
Le ragazze che dovevo incontrare per dei momenti formativi e di cui conoscevo la provenienza, cioè da zone e da famiglie di naturale semplicità, le vedevo acquisire presto un tono gioioso di compostezza e gentilezza che manifestava un cammino nuovo e impegnato. Si rendevano conto di essere chiamate a condividere tutta una vita di fraternità e di donazione secondo il Vangelo.
Dovetti partire per l’Algeria e l’opera delle sorelle della Divina Volontà continuò aprendosi anche a nuove chiamate. 

    
Trovandomi mercoledì 7 giugno a Bassano davanti a Biancarosa nella sua bara, con le sue consorelle italiane e camerunesi e alcuni missionari, le ho detto il mio grazie. Sentendola ancora viva e vicina, rivivo la gioia dei primi incontri con lei, certo che il mio ricordo di lei e del suo ricordo per me continuerà a farmi bene. 

     
E rileggo ora una delle sue ultime testimonianze: “I miei ricordi dell’inizio in Camerun sono tanti. Se tralascio tutti i giri per trovare casa, la prima cosa che mi par di rivivere con te è quella pasta cotta a metà, su un fornello da viaggio non so con cosa condita e con un sacerdote che non ricordo più il nome, ma felici perché finalmente avevamo una casa e…anche mezza ammobiliata. Sì, c’ero con il cuore e tutto il mio desiderio di fare passi in avanti per la formazione, ma anche con tanta nostalgia del calore umano che respiravamo al Nord”.

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Treviso,  8 giugno 2023 

"Lo chiamavano Baba Simon" 

1906 - 1975


È giunto il giorno di vedere Baba Simon riconosciuto come il primo santo missionario camerunese. 

Sabato 20 maggio 2023, il Santo Padre Francesco ha autorizzato a promulgare il Decreto riguardante le virtù eroiche del Servo di Dio Simon Mpeke (detto Baba Simon), Sacerdote diocesano; nato intorno al 1906 a Batombé (Camerun) e morto il 13 agosto 1975 a Édéa (Camerun).

 

L’avevo incontrato più volte a Tokombere vicino ai Piccoli Fratelli del Vangelo di Mayo Uldeme. L’ho visto sempre a piedi nudi e con la povera sottana, in dialogo con tutti. Vivendo la missione, poco lontano da lui, lo sentivo testimone di Gesù ed esempio di missionario povero tra i poveri. Ora per conoscere la sua persona e la sua vita consiglio di leggere "Baba Simon, le père des Kirdis" Editions du Cerf, Paris 1988 e "Lo chiamavano Baba Simon”, di Grégoire Cador.

La vita di Simon Mpeke è tutta donata alla gente di varie lingue, culture e religioni. Mi soffermo a ricordare i primi passi di una chiesa africana che diventa missionaria.

Simon, nato nella famiglia Adié, era entrato nel 1924 nel piccolo séminario di Mvolyé, a Yaoundé. Fa parte dei primi otto preti camerunesi ed è ordinato nel 1935. Prima vicario in diverse missioni cattoliche della regione della Sanaga Maritime, diventa parroco della parrocchia di New-Bell a Douala (Camerun), praticamente creata da lui. Lascia Douala per il Nord nel 1959 e si stabilisce a Tokombéré, fino alla sua morte. Primo prete africano ad arrivare in quella regione e a rispondere alla chiamata missionaria che lo spingeva tra popolazioni non evangelizzate del Nord che avevano sempre rifiutato la dominazione musulmana.

    

Nel febbraio 1951 suor Magdaleina Hutin, fondatrice delle Piccole Sorelle di Gesù, arriva a Duala  e su invito di mons. Bonneau, si reca a New-Bell, dove rimane colpita dal fervore che vi regna. Mons. Bonneau era molto aperto nei confronti della nuova forma di presenza al mondo proposta dai Piccoli Fratelli e dalle Piccole Sorelle di Gesù. Accoglie i Fratelli e li pone nel quartiere di New-Bell in mezzo ai malati di lebbra. Simon sarà il confessore di questa fraternità.

Nel 1953, durante un viaggio in Camerun, padre Voillaume, vero "fondatore" della corrente di spiritualità foucaultiana, viene a Duala. Così annota nel suo diario: "Ho visto a lungo don Simon, parroco di New-Bell, e ho pranzato con loro in parrocchia. Credo che l’istituto secolare vada seriamente inserito nel clero camerunese... Sono sicuro che quest’anno lascerà molto il segno nello sviluppo del postulato e nell’inizio dell’istituto secolare tra i camerunesi".

       

Nel frattempo, Guy Riobé, segretario dell’Unione sacerdotale dei Fratelli di Gesù, commentando l’enciclica Fidei Donum, da poco pubblicata, così dichiara: "Bisognerebbe che l’unione e ciascuno di noi, si mettesse in totale disponibilità e in generosa apertura a tutto ciò che Gesù ci chiederà per renderci sempre più presenti di spirito, di cuore e d’anima all’Africa intera". Mons. Plumey vescovo O.M.I. grande missionario nel Nord Camerun, sempre più ardentemente desidera l’installazione di un ramo attivo della fraternità dei Fratelli di Gesù a Mayo-Ouldeme, incalza mons. Mongo per ottenere dei preti camerunesi dell’Unione. Durante questo periodo, Simon ritorna da mons. Mongo che gli dichiara: "Tu mi domandi di andare nel Nord del Camerun? Non ti permetto di andare, amico mio: sono io che ti invio, perché penso che il cristianesimo in Camerun non sarà solido fin quando non poggerà su due piedi: il Sud e il Nord. Ti aiuterò come posso". 

Superata la soglia dei 50 anni, una nuova fase si apre per questo cercatore di Dio. È parroco influente della più grande parrocchia di Duala. Vedendolo partire i suoi amici lo prendono per pazzo. Mons. Mongo, commentando l’avvenimento, dirà: "Sarà la nostra risposta personale alla 'fidei donum', sperando che la Francia venga in nostro soccorso, rispondendo all’appello di Pio XII". 

Simon scrive ai fratelli dell’Unione: "Resterò membro dell’Unione in mezzo ai Kirdi". Meglio comunque chiamarli "pagani" o "non iniziati"… Su 1,5 milioni di abitanti del Nord-Camerun, un milione circa è Kirdi, cacciati dalle loro terre e dalle loro coltivazioni – in seguito al loro rifiuto di sottoporsi ai mussulmani - e costretti poi a stabilirsi su montagne dal suolo molto duro e poco adatto alla coltivazione. Nel 1958 p. Voillaume, di passaggio a Mayo-Ouldeme, si rallegra di una svolta imminente: il suo pensiero va, infatti, all’arrivo di don Simon Mpeke che si sarebbe affiancato ai Piccoli Fratelli del Vangelo. Aggiunge: "Spero che possa abituarsi e comprendere bene queste popolazioni talmente diverse da quelle del Sud".

    

Aveva capito i Kirdi

Appoggiato sulla certezza che l'uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio, Baba Simon pensò che fosse urgente dare ai Kirdi gli strumenti per liberarsi da ogni schiavitù. Liberare i Kirdi delle montagne voleva dire insegnare a uscire dalle loro proprie miserie e accedere alla vita cristiana. A lui competeva dare gli strumenti e chiamare. «Il resto - diceva - ciò che è principale, e cioè la conversione, appartiene a Dio. Il nostro ruolo si riduce a quello di seminatore. Dobbiamo lavorare senza preoccuparci del risultato; il battesimo dipende da una decisione personale per la quale ognuno si impegna sul cammino di una vita nuova. Il fine rimane Dio, il fine non siamo noi. E Dio si incontra nella libertà”.  Per lungo tempo il governo coloniale aveva provato a far scendere i Kirdi dalle montagne e a scolarizzare la popolazione, ma tutti gli sforzi incontrarono sempre una tenace opposizione. L'uomo delle montagne resistette a ogni tentativo che era visto come un'aggressione culturale che non teneva conto dell'identità del popolo. Anche Baba Simon insistette sull'importanza della scuola. Egli capì però, dopo i primi fallimenti, che si trattava di conquistare innanzitutto la fiducia dei Kirdi. Questa è possibile nella conoscenza reciproca, nella presenza continua in mezzo al popolo, laddove esso vive, soffre, ama, lavora, prega. Da qui nacque quella che fu chiamata «la scuola sotto l'albero». Una scuola sotto gli occhi di tutti, nel cuore della vita dei Kirdi. 

  

Lo Spirito non muore

Un giorno del 1976, mi sono fermata a casa del vecchio Digdan. Digdan è un pensatore… Insieme ci raccontiamo i ricordi. E arriviamo alla grande disgrazia di tutte le montagne: la morte di Baba Simon. Gli offro la foto-ricordo… Con mia sorpresa la prende con due mani e dice: «Oussé, ("grazie") Baba, Baba Simon, oussé, oussé!»; gli sorride, scuote la testa, parla rapidamente come in conversazione… Una delle sue donne si avvicina; do anche a lei la foto. La prende in mano e con fervore anche lei dice: «Oussé, Baba Simon» per una decina di volte. Mi azzardo a pensare ad alta voce: «Ed ora dov’è Baba Simon?». Il vecchio Digdan riflette silenzioso e poi: «Ci sono due cose: il corpo di Baba Simon è come il miglio che resta per terra, come l’erba non raccolta, come un albero che cade. Tutto questo diventa terra. Baba diventa terra. E poi c’è lo spirito e lo spirito se ne va a Jigla (Dio) e vive». «Com’è lassù, presso Dio? Jigla nessuno lo conosce, nessuno l’ha visto, nessuno può dire com’è la casa di Dio. Chi dice: "io so!", è un menzognero… Io ascoltavo in silenzio. «La vita continua: io, Digdan, quando morirò, ho dei figli che hanno dei figli, la mia vita continua». «E Baba che non ha figli?». «Baba è il padre del nostro spirito, e lo spirito non muore mai!». (Jeanne Michel)

    

Baba Simon prete camerunese 

Il 13 agosto 1975 si spegneva l'abbé Simon Mpecke. al termine di una vita interamente consacrata a Dio e agli uomini. 

Conosciuto con il nome di Baba Simon, egli può essere considerato come il primo sacerdote missionario camerunese. Il primo che, sulle orme di Abramo, lascia la sua terra, la sua famiglia, la sua cultura, la sua Chiesa locale per andare verso una terra lontana dove diventerà padre di un popolo.

Approfondiamo la sua figura attraverso uno studio di Emilio Grasso "BABA SIMON NUOVO VOLTO DELLA MISSIONE IN AFRICA". Nel capitolo conclusivo dell'Esortazione apostolica post-sinodale di Giovanni Paolo II Ecclesia in Africa è messa in luce la chiamata per tutta la Chiesa alla santità e alla missione. «I Padri sinodali - sottolinea Giovanni Paolo II - hanno riconosciuto la chiamata che Dio rivolge all'Africa perché svolga a pieno titolo, su scala mondiale, il suo ruolo nel piano di salvezza del genere umano». Riprendendo un suo precedente discorso, Giovanni Paolo II ricorda che «l'obbligo per la Chiesa in Africa di essere missionaria nel proprio seno e di evangelizzare il continente implica la collaborazione tra Chiese particolari nel contesto di ogni paese africano e in quello delle diverse nazioni del continente o anche di altri continenti». Sul tema in questione vanno richiamati altri due testi: «Ogni missionario è autenticamente tale solo se si impegna nella via della santità. Ogni fedele è chiamato alla santità e alla missione. La rinnovata spinta verso la missione ad gentes esige missionari santi. Non basta rinnovare i metodi pastorali, né organizzare e coordinare meglio le forze ecclesiali, né esplorare con maggiore acutezza le basi bibliche e teologiche della fede: occorre suscitare un nuovo "ardore di santità" fra i missionari e in tutta la comunità cristiana». «La Chiesa in Africa non cerca vantaggi per sé stessa. La solidarietà che essa esprime "tende a superare sé stessa, a rivestire le dimensioni specificamente cristiane della gratuità totale, del perdono e della riconciliazione". La Chiesa cerca di contribuire alla conversione dell'umanità, portandola ad aprirsi al piano salvifico di Dio mediante la testimonianza evangelica, accompagnata dall'attività caritativa a servizio dei poveri e degli ultimi. E quando compie questo, non perde mai di vista il primato del trascendente e di quelle realtà spirituali che costituiscono le primizie dell'eterna salvezza dell'uomo”.  

    

Il missionario dai piedi nudi 

Nel marzo del 1974, lasciata la missione di Ambam del Sud del Camerun, incominciai la missione di Guidiguis nella diocesi di Yagoua del Nord. Era un momento straordinario per lo sviluppo missionario di quelle zone di savana e di montagna. Era vivere e annunciare il Vangelo tra popolazioni in situazione di povertà, di sottomissione al mondo musulmano e di vita libera dentro tradizioni secolari e naturali. In quel momento tra noi missionari, frequente era il discorso su Baba Simon, primo prete fidei donum camerunese, di tutti amico esemplare.

Anni dopo, durante il viaggio in Camerun nel marzo 2009, Papa Benedetto XVI ha menzionato: “Simon Mpeke, che i fedeli camerunensi chiamano affettuosamente “Baba Simon”. È quindi necessario che il vostro stile di vita esprima con precisione ciò che vi fa vivere… Un esempio vi stimola particolarmente a ricercare questa santità di vita, quello del Padre Simon Mpeke, chiamato Baba Simon. Voi sapete come “il missionario dai piedi nudi” ha speso tutte le forze del suo essere in una umiltà disinteressata, avendo a cuore di aiutare le anime, senza risparmiarsi le preoccupazioni e la pena del servizio materiale dei suoi fratelli”.

In queste pagine, scrivo quanto ho visto e sentito da Baba Simon, da J.- B. BASKOUDA, uno dei suoi primi ragazzi e diventato ministro del Camerun, e presento qualche commento trovato nel libro di Emilio Grasso Baba Simon nuovo volto della missione in Africa e nel libro di Grégoire Cador Baba Simon, le père des Kirdis Editions du Cerf, Paris 1988.

Il Camerun può sentirsi fiero di aver donato un missionario così entusiasta.

   

L'abbé Mpecke diventa Baba Simon  

Giunto a Tokombéré dal Sud del Camerun, l'abbé Simon diventerà Baba Simon e fonderà nel 1961 la missione. Christian Aurenche, prete e medico francese che ha lavorato nell'ospedale di Tokombéré, racconta questo episodio: «Quando con l'équipe di TF 1 noi girammo il film Le Lieu du combat sui problemi della sanità a Tokombéré, il regista mi diceva: "Non si comprende la loro lingua, ma quando la gente sta per dire qualcosa di molto importante si sente sempre ripetere ‘Baba, Baba Simon'"». Baba significa papà, patriarca, saggio, guida, un nome inventato per indicare l'intimità del rapporto, uscito dalla cultura dei popoli del Sahara. E tutti, uomini e donne, adulti e bambini, Kirdi e musulmani, tutti lo chiamavano spontaneamente Baba. A Tokombéré l'abbé Simon divenne Baba Simon, poiché in lui si adempì la promessa di Dio ad Abramo e il suo esodo, la sua missione, permise la nascita di un popolo. Jean-Baptiste Baskouda, che diventerà in seguito Segretario di Stato nel governo camerunese, così sintetizzerà la paternità di Baba Simon: «Ci ha reso fieri d'essere Kirdi. Grazie a lui noi siamo riconosciuti così come siamo, con il nostro passato. Egli ci ha dato la possibilità d'avere un avvenire». “Per noi è anche FIGURA DELL’UNITÀ DEL CAMERUN. Al di là dell’aspetto strettamente religioso, Baba Simon, questo “cantore della kirditudine”, è anche una delle figure dell’unificazione del paese, in particolare tra Nord e Sud”.  

     

Conversione apostolica  

L'amore a Gesù Cristo e ai Kirdi sospinge l'abbé Simon sulla strada di una conversione apostolica. Egli scopre innanzitutto che deve diventare lui stesso un Kirdi, un Kirdi che vive il Vangelo. Questo lo porta, innanzitutto, a vivere una dimensione di povertà personale. Si racconta che un ladro, scovato nella camera di Baba Simon, nascosto sotto il letto, dichiarasse: «Se volete rubare, non andate nella camera di Baba Simon. Lì non v'è proprio niente. Non ho mai visto un "Bianco" così povero». Povertà, però, in Baba Simon non voleva dire miseria. E quando si confondeva la sua semplicità con la miseria si risentiva: «La miseria è nemica di Dio, affermava. Il Vangelo vuole il progresso dell'uomo…”

   

Il suo centro in Gesù Cristo  

«Per me - affermava Baba Simon - Gesù Cristo è tutto. Gesù Cristo è la vita, è l'incarnazione dell'umanità. L'incarnazione è Dio che sposa la natura umana. Gesù Cristo è il culmine della creazione... In lui è l'umanità intera che si è incarnata». Questa centralità di Gesù Cristo permette, quindi, di dire che Baba Simon non ha portato ai Kirdi una religione, una ideologia, un qualsiasi sistema di valori. Amava ripetere: «Sono venuto a portar loro un Amico. Al di qua e al di là della religione, vi è innanzitutto un messaggio di fedeltà: Emanuele, Dio con noi. Gesù Cristo, la manifestazione sublime della fedeltà di Dio per l'uomo». Così testimonia un operatore sanitario di un villaggio di Tokombéré: «Baba Simon vedeva in ciascuno di noi il volto di Dio. Per lui noi eravamo delle incarnazioni della divinità. Al di là delle nostre tribù, delle nostre lingue, delle nostre razze e delle nostre religioni, egli vedeva in noi dei figli di Dio e così ci rendeva responsabili di noi stessi e dell’ambiente. Sempre al centro del suo annuncio v'è Gesù Cristo. «Gesù Cristo - diceva Baba Simon - è l'acqua pulita. Dio non ha creato l'acqua sporca. È l'uomo che l'ha lasciata sporcare. Il lavoro per la salvezza dell'uomo consiste nel renderla pura. Quando essa sarà di nuovo pura, allora, l'uomo si ritroverà in migliori condizioni di salute e sarà così maggiormente a immagine di Dio».

  

Contemplativo in azione  

Le testimonianze su Baba Simon, uomo di preghiera, sono concordi. La preghiera era la sua vita e la vita era una preghiera. Fedele al breviario, alla recita del rosario, alla lettura spirituale, alla Messa quotidiana. La sua spiritualità, legata al Padre de Foucauld (Baba Simon era membro della fraternità sacerdotale Jesus Caritas), si manifestava particolarmente nella fedeltà all'adorazione notturna del Santissimo Sacramento. Quando partiva per le sue lunghe tournée in foresta e sui massicci rocciosi, sempre a piedi nudi e con la sottana bianca, Baba Simon portava con sé unicamente il breviario, la corona del rosario, l'altare portatile. L'intensa e profonda relazione con Dio vissuta da Baba Simon era in lui inseparabile dall'amore al popolo. Una sola passione animava Baba Simon: dare Gesù Cristo ai Kirdi. In una intervista televisiva così si esprime Baba Simon: «Io vorrei che tutti siano come Gesù Cristo, che tutti vedano Dio come Gesù li vedeva. E che tutti vedano tutti gli uomini come Gesù li vedeva». Baba Simon fu un vero «contemplativo in azione». Pochi mesi prima di morire scriveva queste note: «Tutto ciò che mi circonda respira Dio. Tutto l'universo è un focolare di vita. Per mettersi in presenza di Dio, non bisogna immaginarselo in altro luogo se non in noi dove Egli è, nella nostra azione dove Egli agisce, nel nostro prossimo ove Egli vive. Una volta morto il nostro corpo sarà sepolto nella terra di Dio dove si decomporrà in Dio e si sveglierà nell'Oceano della Vita eterna... Credere è prendere coscienza della Vita... in Dio!».

    

Liberare i Kirdi  

Per lungo tempo il governo coloniale aveva provato a far scendere i Kirdi dalle montagne e a scolarizzare la popolazione, ma tutti gli sforzi incontrarono sempre una tenace opposizione. L'uomo delle montagne resistette a ogni tentativo che era visto come un'aggressione culturale che non teneva conto dell'identità del popolo. Anche Baba Simon insistette sull'importanza della scuola. Egli capì però, dopo i primi fallimenti, che si trattava di conquistare innanzitutto la fiducia dei Kirdi. Questa è possibile nella conoscenza reciproca, nella presenza continua in mezzo al popolo, laddove esso vive, soffre, ama, lavora, prega. Da qui nacque quella che fu chiamata «la scuola sotto l'albero».

Una scuola sotto gli occhi di tutti, nel cuore della vita dei Kirdi. Anni dopo, Jean-Marc Ela, prete Bulu che sulle orme di Baba Simon era partito dal Sud per andare a lavorare accanto a lui, parlerà di «teologia sotto l'albero» e scriverà: «Bisognava che attraverso delle forme di alfabetizzazione mirante a dare coscienza, noi mettessimo la gente in condizione di difendersi. Per me, v'è teologia della liberazione ogni qual volta un braccio si leva in alto, una voce cerca di dire ciò che non va, quando ci si sottrae alla paura, quando si affrontano situazioni d'oppressione. Questa teologia ha fatto nascere nella gente una nuova coscienza, una certa fierezza d'essere sé stessi. I Kirdi, questi uomini delle montagne rocciose, si sono sentiti come riabilitati a partire dal Vangelo che ricevevano come un messaggio di speranza». La lotta contro le condizioni che producono malattia e morte si salda con la lotta contro il peccato che impedisce all'uomo d'essere responsabile di sé e del suo ambiente.

  

Inculturazione del Vangelo  

Questo non sarà possibile, constateranno Baba Simon e l'équipe pastorale che lavorerà con lui, senza la conoscenza e il saper entrare dentro la cultura e la religione del popolo. Senza dubbio Baba Simon nel contatto con i Kirdi scopre per intuizione d'amore, la necessità di un processo d'inculturazione del Vangelo e come esso non possa essere ridotto a ideologia o religione. Il Vangelo è Gesù Cristo che può parlare a tutti gli uomini, anche ai Kirdi delle montagne, perché il suo è il linguaggio dell'uomo, linguaggio di un amore che nella persona di Baba Simon si fa comprensibile. L'affermazione di Giovanni Paolo II che «Cristo stesso, nelle membra del suo corpo, è africano» trova in Baba Simon un testimone vivo che voleva così anche per i suoi Kirdi. 

  

Lento passaggio di non cristiani alla conoscenza di Gesù 

In un documentario della TV francese, Baba Simon racconta la storia del bambino che aveva mandato al collegio e che è morto in un incidente d’auto. Gli uomini del villaggio avevano simulato un attacco lanciando una freccia contro il soffitto della chiesa, i notabili li rimproverarono. Per il loro perdono, Baba Simon disse loro di chiedere il perdono a Dio secondo la loro religione: “Non siete cristiani, sistematevi tra di voi”. 

L'uomo degli spiriti della zona chiese loro di fare un sacrificio di una pecora bianca accanto alla chiesa. Il film si conclude con la celebrazione della messa alla missione, tra letture e canti.

Fedele al Vangelo e vedendo in Cristo il compimento delle speranze presenti anche in altre Confessioni religiose, favorì il lento passaggio di non cristiani alla conoscenza di Gesù. 

S’impegnò per la promozione umana attraverso la scuola e l’ospedale, superando molti pregiudizi, come quello che considerava la malattia una punizione divina. Esercitò la fede e la carità in modo straordinario. Significativo fu l’incontro con un capo Kirdi al quale Baba Simon parlò di fratellanza secondo l’accezione cristiana.

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Treviso,  8 giugno 2023 

Antonio Marangon missionario con Nazareth nel cuore  

Il giorno dell’80° anniversario del trevisano Mons. Antonio Marangon, l’amico don Franco Marton racconta la sua vita di Biblista. Così descrive la sua passione per il Gesù di Nazareth e per gli amici stretti di Gesù di Nazareth: “Diventato discepolo del Regno, si fa, restando scriba, contemplativo. Ricordiamo tutti con emozione le ‘lectio’ di quella che chiamava la ‘Bibbia di Nazaret’: la Bibbia dell’Annunciazione o la Bibbia del Nazareno o la Bibbia dei trent’anni oppure quando ci venivano lette le parabole del regno in gran parte pensate e vissute a Nazaret, anche se raccontate a Cafarnao. Le parabole come autobiografia spirituale di Gesù, come storia personale di Gesù intrecciata col Regno presente del Padre suo.

E sarà difficile dimenticare quel nome, Nazareno, che Gesù si è portato fin sulla croce. Nazareno per sempre. Un nome ‘collettivo’ che quasi copriva il suo nome personale, per dire la sua esistenza umanissima “senza singolarità, per non mettere a disagio l’ultimo di noi uomini: è questo il cristianesimo! La Chiesa è chiamata a mantenere questa eredità nella storia: non mettere a disagio i poveri, gli ultimi, quelli che non parleranno mai, ma si commuoveranno se qualcuno si fa come loro”.

‘Come loro’ ci richiama un celebre testo di Padre Voillaume sul quale molti di noi si sono formati, e che raccoglie le sue lettere ai Piccoli Fratelli di Gesù. 

Ma allora viene subito alla mente Fratel Carlo De Foucauld che proprio a Nazaret è vissuto e ha intensamente imitato la vita del suo Beneamato Fratello e Signore. Anche lui, fratel Carlo, ‘nazareno’ per sempre: da contemplativo in missione tra i fratelli Tuareg. Ma evocare Voillaume e Fratel Carlo ci porta a evocare le Piccole sorelle di Gesù e del Vangelo. Uno degli amori segreti di don Antonio. Quanti incontri in Terra Santa e nel mondo, quanti ritiri alle Tre Fontane e quanti articoli su ‘Jesus Caritas’. Le Piccole Sorelle con la loro trasparente vita nazarena sono sempre state per lui fonte di luce, pur remota, per illuminare molte pagine de Vangelo.

E così possiamo far nostro l’invito che dalla Basilica di Nazaret don Antonio rivolgeva a chi pellegrinava con lui: “Dobbiamo chiedere per noi e per tutta la Chiesa la grazia di tornare ‘nazareni’, come ci chiamano ancor oggi gli Ebrei e gli Arabi. Tornare cioè più semplici, perdendo quelle strutture che rischiano di tenerci lontani dall’uomo semplice”.

Ha vissuto anche sulle nostre piste missionarie, non solo dedicando del tempo con noi, ma soprattutto condividendo settimane di studio del Vangelo. Parecchi missionari sono stati accompagnati, sostenuti e aiutati. 

         

Biblista trevigiano, ha seguite anche le Piccole Sorelle di Gesù e del Vangelo nel loro cammino spirituale in varie parti del mondo. In occasione dei 70 anni vissuti dalle Piccole Sorelle di Gesù e del Vangelo in Algeria e a Touggourt, gli chiesi un saluto e scrisse: «Sono debitore di tanta luce per l’eredità evangelica che si vive presso di voi… Voi assicurate al “Vangelo di Nazareth” il valore di segno. Prego il Signore… perché abbiate il coraggio (eroico) di essere fedeli alla gratuità del “segno di Nazareth…Vi ringrazio pure di un’altra nota tipica della vostra identità vocazionale: quella di pregare e di offrire ogni giorno la vostra giornata al Signore per i fratelli (anzitutto) dell’Islam e (poi anche) del mondo intero!».

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Treviso,  20 maggio - 1 giugno 2023 

Spiritualità Missionaria


"Abbondanza della gioia”
Il 17 maggio ’23, Papa Francesco parlando di San Francesco Saverio ha detto: Quali siano i suoi sentimenti lo capiamo dalle sue lettere: “I pericoli e le sofferenze, accolti volontariamente e unicamente per amore e servizio di Dio nostro Signore, sono tesori ricchi di grandi consolazioni spirituali. Qui in pochi anni si potrebbero perdere gli occhi per le troppe lacrime di gioia!" (20 gennaio 1548). Anche Il Concilio Vaticano Il parlando della spiritualità del missionario, non tralascia un ingrediente tutt'altro che secondario, rappresentato dalla gioia. Dice infatti che, ” … attraverso la virtù e la fortezza chieste a Dio, il missionario potrà conoscere come sia proprio nella lunga prova della tribolazione e della povertà profonda che risiede l'abbondanza della gioia”. (Ad Gentes n.125)
Pare che in questo, i precursori del Concilio siano stati i nostri primi missionari, che agli albori dell'Istituto coniarono una frase divenuta celebre: «Qui si studia, si prega, si ride”.”
Non che si ridesse soltanto, ma insieme allo studio e alla preghiera, l'allegria era davvero un piatto essenziale della vita di comunità. Il Beato Giovanni Mazzucconi, nostro primo martire, lo sottolineò in una delle sue puntigliose annotazioni: “In casa non vi era la fame, ma il piatto principale era l'allegria e la contentezza, la quale in realtà è il dono più grande e più ricco che il Signore possa fare agli uomini sulla terra».
Il dono più grande di Dio, che riassume tutti gli altri, è quello della gioia, non solo gioia umana ma quella di Gesù: “La mia gioia è in voi, e gioia piena» (Gv 12,44-50). Il missionario vero, questa gioia l'ha sempre avuta, perfino da donare, trasmettere.

 
Ricordiamo alcuni missionari del PIME
P. Frascognia:. Così scriveva dall'India: «Sono sempre contento, e più vado avanti più lo sono. Sento che il Cuor di Gesù mi vuol bene; non solo, ma alle volte m'inonda con le sue tenerezze. Potrei narrarti una lunga fila di fatti per dimostrarti come Gesù mi è sempre vicino e mi colma di continui favori”. L'ideale missionario è quindi una continua rivelazione del Signore Gesù alla mente e al cuore e che diventa il tutto della vita.
P. Pietro Manghisi, ucciso in Birmania nel 1953: «Nella sua residenza c'era sempre vita e allegria: essa rigurgitava di ragazzetti orfani, o abbandonati o indesiderati dai genitori. Li aveva raccolti, li allevava, li assisteva maternamente, li educava e istruiva. Sarebbero riusciti maestri o catechisti o comunque avrebbero imparato un mestiere e formato la loro famiglia cristiana.
Egli ce li presenta: "Se sono paffutelli e allegri, godo della loro felicità. Ma se li vedo intirizziti dal freddo o stesi sulla stuoia consumati dalla malaria, allora anch'io sto male!».
Beato Clemente Vismara.” Tutto è bello nella vita del missionario, se c'è la fede e l'amore di Dio. Io ne ho passate tante, ma posso dire di non essere mai stato triste".
P. Antonio Farronato, fratello di padre Eliodoro ucciso in Birmania nel 1955: “Qui a Monglin io vivo senza casa, mi alzo senza sveglia, prego senza chiesa, vado a caccia senza licenza, sto allegro senza teatro, studio lingue senza fine, non ho giorno senza fastidi, invecchio senza accorgermi, e di certo morrò senza rimorsi,” ché cuor contento il Ciel l'aiuta! E voi? e voi? Voi non mai, se non verrete presto a farmi compagnia!
P. Cesare Mencattini, martire in Cina nell'anno 1941: ” lo sono felice di fare il prete zingaro, senza chiesa, senza canonica, senza beneficio, ma... ricco di anime, cariche di stracci, ma rigenerate alla grazia! I miei cristiani sono poveri... ma veramente buoni! Come mi stanno attenti quando parlo loro della bontà di Dio e della vita eterna


Cura per i poveri 

Papa Francesco il 17 maggio ’23 ha detto che San Francesco Saverio “Ebbe grande cura per i malati, i poveri e i bambini, in quanto non era un missionario “aristocratico”. ma “andava sempre con i più bisognosi”, “andava proprio alle frontiere dell’assistenza dove è cresciuto in grandezza”. 

Il Concilio Vat. II ha detto: La presenza dei cristiani nei gruppi umani deve essere animata da quella carità con la quale Dio ci ha amato: egli vuole appunto che anche noi reciprocamente ci amiamo con la stessa carità. Ed effettivamente la carità cristiana si estende a tutti, senza discriminazioni razziali, sociali o religiose, senza prospettive di guadagno o di gratitudine. Come Dio ci ha amato con amore disinteressato, così anche i fedeli con la loro carità debbono preoccuparsi dell'uomo, amandolo con lo stesso moto con cui Dio ha cercato l'uomo. Come, quindi, Cristo percorreva tutte le città e i villaggi, sanando ogni malattia ed infermità come segno dell'avvento del regno di Dio, così anche la Chiesa attraverso i suoi figli si unisce a tutti gli uomini di qualsiasi condizione, ma soprattutto ai poveri ed ai sofferenti, prodigandosi volentieri per loro. Essa, infatti, condivide le loro gioie ed i loro dolori, conosce le aspirazioni e i problemi della vita, soffre con essi nell'angoscia della morte. A quanti cercano la pace, essa desidera rispondere con il dialogo fraterno, portando loro la pace e la luce che vengono dal Vangelo. (Ad Gentes n. 12)


Il PIME continua a mandare i suoi uomini proprio nelle zone nuove e difficili. Lo leggiamo nella Regola n. 74 di padre Giuseppe Marinoni: "L' lstituto, fin dal principio (1850), mira ad avere missioni proprie, e tra le popolazioni più derelitte e più bar¬bare: perciò richiese come grazia dalla S. Sede le Missioni di Oceania.


Don Cagliaroli, segretario del fondatore del PIME Angelo Ramazzotti, vescovo di Pavia e Patriarca di Venezia, conclude così la sua biografia: “Sulla sua bara si videro lagrime, e s’udirono sospiri, massime di poveri che si accoravano su di lui, il quale, come visibile provvidenza, li aveva sovvenuti in tante volte non che di roba e danari, sì anche di parole buone e paterni conforti”. 

Siamo alla fine del secolo scorso (1900), in un villaggio della diocesi indiana di Hyderabad. Fra i cristiani di p. Ciccolungo vi erano due famiglie di lebbrosi. Egli le assisteva ed aiutava con grande carità. Un giovane pagano, nello stadio ultimo della malattia, venne un giorno a chiedere l'elemosina al Padre. Il suo stato era veramente compassionevole; aveva piaghe alle mani e ai piedi e la faccia era così sformata da sembrare un mostro. Faceva ribrezzo a tutti; anche i poveri lo rifuggivano. Il buon Padre lo accolse con grande carità, lo fece pulire e gli preparò acqua per un bagno. Commosso a tanta carità, il povero lebbroso chiese di farsi cristiano ed il Padre se lo adottò come figlio. Gli procurò una piccola capanna in un villaggio cristiano ad un miglio dalla nostra casa e vi andava ogni giorno a lavarlo, a portargli cibo e ad istruirlo nella Dottrina Cristiana. Una volta, appunto per vincere la naturale riluttanza, egli volle indossare per una notte la veste del lebbroso... Fu appunto il suo amore per i lebbrosi e la santa follia di volerli servire e salvare che aveva messo nel suo cuore la brama di andare a Molokay, isola dei lebbrosi. Il Signore gradì il suo desiderio e lo rimeritò chiamandolo in Cielo.

Molti sono gli esempi di servizio ai poveri dei nostri missionari, probabilmente rimasti anche sconosciuti. Certo è che la povertà servita e vissuta è stata sempre e dovunque testimonianza significativa e indimenticabile del Vangelo predicato dal missionario. 



Preghiera 

Papa Francesco nella sua catechesi del 17 maggio ’23 ha sottolineato che l’attività intensissima di Francesco Saverio “è stata sempre unita alla preghiera, all’unione con Dio, mistica e contemplativa. Non lasciò la preghiera mai, perché sapeva che lì c’era la forza”. 


Il Concilio Vat. II ha detto: Il missionario, animato da viva fede e da incrollabile speranza, sia uomo di preghiera; sia ardente per spirito di virtù, di amore e di sobrietà; impari ad essere contento delle condizioni in cui si trova; porti sempre la morte di Gesù nel suo cuore con spirito di sacrificio, affinché sia la vita di Gesù ad agire nel cuore di coloro a cui viene mandato; nel suo zelo per le anime spenda volentieri del suo e spenda anche tutto se stesso per la loro salvezza, sicché « nell'esercizio quotidiano del suo dovere cresca nell'amore di Dio e del prossimo ». Solo così, unito al Cristo nell'obbedienza alla volontà del Padre, potrà continuare la missione sotto l'autorità gerarchica della Chiesa e collaborare al mistero della salvezza. ( Ad Gentes n. 25 )  



Essere missionario contemplativo 

"Sto cercando di vivere il mio ideale: essere missionario contemplativo per annunziare Cristo in modo credibile ( RM 91). Do molto tempo alla preghiera davanti all'Eucarestia, almeno cinque ore al giorno, come facevano i primi missionari del Pime. E sto provando, dato che Gesù vuole crescere e io diminuire, che la preghiera sta diventando continua, di giorno e, quando mi sveglio, di notte! Base della nostra presenza è la preghiera. Non può essere diversamente per noi, che restiamo qui sorretti dalla fede nel Signore. Dedichiamo un’ora al mattino e un’ora alla sera per meditare assieme la Parola di Dio, per conoscere ogni giorno la volontà di Dio e praticarla con attenzione verso ogni fratello che incontriamo. (Padre Leopoldo Pastori, Lettera agli amici 1991)

Anche p. Manna, fondatore dell’Unione Missionaria del Clero, insiste sulla forza della preghiera che diventa fiducia nel lavoro apostolico: “Il missionario non deve mai essere sfiduciato: sarebbe offesa a quel Dio onnipotente che lo ha chiamato e per il quale egli lavora! Il vero missionario è sempre ottimista, sempre fervido di quell'entusiasmo che un giorno gli fece lasciar tutto e lo mise alla sequela di Nostro Signore nelle vie dell’apostolato. Non s’incontrano uomini di preghiera, i quali siano pessimisti sul lavoro delle missioni. E quando in missione o fuori, si sente dire da qualche missionario, che, dopo tutto, i risultati che si ottengono nel lavoro apostolico fra gli infedeli non corrispondono agli sforzi che si fanno, è certo che chi parla così non è uomo di preghiera. Solo i santi fanno le opere grandi e durature e solo i sacerdoti santi ripieni cioè dello Spirito di Dio; solo sacerdoti che predicano Gesù Crocifisso convertiranno il mondo, per¬ché per fare opere grandi che non muoiono, per convertire le anime non bastano le formule, i metodi e le forze dell'uomo; ci vuole la forza di Dio, e questa forza, Dio la comunica solo ai suoi intimi " (Esortazio¬ni, 1930, p. 74/M).



Pronti a sopportare fatiche e pericoli immensi. 

Con la partenza di San Francesco Saverio, parte così il primo di una numerosa schiera di missionari appassionati dei tempi moderni, pronti a sopportare fatiche e pericoli immensi, a raggiungere terre e incontrare popoli di culture e lingue del tutto sconosciute, spinti solo dal fortissimo desiderio di far conoscere Gesù Cristo e il suo Vangelo”.

Concilio Vat. II. La missione continua, sviluppando nel corso della storia la missione del Cristo, inviato appunto a portare la buona novella ai poveri; per questo è necessario che la Chiesa, sempre sotto l'influsso dello Spirito di Cristo, segua la stessa strada seguita da questi, la strada cioè della povertà, dell'obbedienza, del servizio e del sacrificio di sé stesso fino alla morte, da cui poi, risorgendo, egli uscì vincitore. Proprio con questa speranza procedettero tutti gli apostoli, che con le loro molteplici tribolazioni e sofferenze completarono quanto mancava ai patimenti di Cristo a vantaggio del suo corpo, la Chiesa. E spesso anche il sangue dei cristiani fu seme fecondo. (Ad Gentes n. 4)

Nell’atto di offerta della propria vita a Dio per la missione composto dal beato Giovanni Battista Mazzucconi, primo martire del PIME, in occasione della partenza del primo gruppo di missionari per l’Oceania nel 1852, si leggono le seguenti parole: “Beato quel giorno in cui mi sarà chiesto di soffrire molto per il tuo Vangelo, ma più beato ancora quello in cui fossi trovato degno di versare per esso il mio sangue e di incontrare fra i tormenti la morte”.
Il PIME ha 19 martiri. Oggi l’esperienza del martirio è ancora attuale. Padre Fausto Tentorio, missionario nelle Filippine ucciso il 17. 12. 2011.
Alla radice della scelta del martirio sta la scelta totale ed esclusiva di Dio. Appare in modo evidentissimo ancora dalla preghiera del Mazzucconi per il mezzogiorno: «Per Voi solo voglio vivere, per Voi morire». Ancora prima della vita per gli «infedeli», è proprio questa scelta di Dio che rende vero tutto il resto. La missione non è altro che la scelta di Dio, che diventa l’esigenza di farlo conoscere a tutti.



Lo zelo apostolico di Francesco Saverio 

Papa Francesco dice che San Francesco Saverio è considerato da alcuni il più grande missionario dei tempi moderni. “Ma non si può dire chi è il più grande, chi è il più piccolo – ha spiegato -, perché ci sono tanti missionari nascosti che anche oggi fanno tanto più di San Francesco Saverio… Un missionario è grande quando va. E ci sono tanti, tanti, sacerdoti, laici, suore, che vanno nelle missioni, anche dall’Italia e tanti di voi… questo è grande: uscire dalla patria per predicare il Vangelo. È lo zelo apostolico. E questo noi dobbiamo coltivare tanto. E guardando la figura di questi uomini, di queste donne, impariamo”.
Dal Concilio Vat. II: I discepoli di Cristo, mantenendosi in stretto contatto con gli uomini nella vita e nell'attività, si ripromettono così di offrir loro un'autentica testimonianza cristiana e di lavorare alla loro salvezza, anche là dove non possono annunciare pienamente il Cristo. Essi, infatti, non cercano il progresso e la prosperità puramente materiale degli uomini, ma intendono promuovere la loro dignità e la loro unione fraterna, insegnando le verità religiose e morali che Cristo ha illuminato con la sua luce, e così gradualmente aprire una via sempre più perfetta verso il Signore. In tal modo gli uomini vengono aiutati a raggiungere la salvezza attraverso la carità verso Dio e verso il prossimo; comincia allora a risplendere il mistero del Cristo, in cui appare l'uomo nuovo, creato ad immagine di Dio (63), ed in cui si rivela la carità di Dio. (Ad Gentes n. 12)

Anna Pozzi, giornalista del Pime, presenta il cammino e l’operato della rivista Mondo e Missione che oltre a «Registrare le notizie più minute di ogni giorno, i viaggi, le cose di storia naturale, etnologia, statistica, le necrologie, le bibliografie, gli scritti dei missionari», ripresenta racconti e testimonianze di vita. Non solo le grandi figure, però. Sfogliando la rivista, si trovano anche tante storie semplici… E conclude: “Ma al di là di queste particolarità, sono spesso le storie apparentemente “minori” che ancora oggi continuano a raccontare il senso di una presenza e di un impegno in tante zone del mondo: storie narrate quasi con discrezione specialmente quando i protagonisti sono gli stessi missionari… si trova un’umanità grande al servizio del Vangelo e dell’altro e un anelito alla conoscenza e all’incontro che rappresentano ancora oggi una grande testimonianza. Di vita, prima ancora che di giornalismo”.



L’amore di Cristo 

Papa Francesco dice: “In San Francesco Saverio l’amore di Cristo è stato la forza che lo ha spinto sino ai confini più lontani, con fatiche e pericoli continui, superando insuccessi, delusioni e scoraggiamenti, anzi, dandogli consolazione e gioia nel seguirlo e servirlo fino alla fine”.

Il Concilio Vat. II ha affermato: Il missionario, animato da viva fede e da incrollabile speranza, sia uomo di preghiera; sia ardente per spirito di virtù, di amore e di sobrietà; impari ad essere contento delle condizioni in cui si trova; porti sempre la morte di Gesù nel suo cuore con spirito di sacrificio, affinché sia la vita di Gesù ad agire nel cuore di coloro a cui viene mandato; nel suo zelo per le anime spenda volentieri del suo e spenda anche tutto se stesso per la loro salvezza, sicché « nell'esercizio quotidiano del suo dovere cresca nell'amore di Dio e del prossimo ». Solo così, unito al Cristo nell'obbedienza alla volontà del Padre, potrà continuare la missione sotto l'autorità gerarchica della Chiesa e collaborare al mistero della salvezza. Ad Gentes n.25



Fiorire dove Dio ci ha piantati

"La vita è bella, quando ci si vuole bene: è l'amore che fa vivere la vita. Ma io quando sono arrivato qui, ero solo, nessuno poteva amare me, straniero, il mondo che mi circondava era completamente pagano, non volevano, non potevano comprendere la mia dedizione. lo amavo senza essere amato. Chi acconsente a portare la Croce, presto o tardi sarà inchiodato.

Tra vittorie e sconfitte mi trovo sul campo da 55 anni e sempre battagliero. La vita è fatta per esplodere, per andare più lontano. Se essa rimane costretta entro i suoi limiti non può fiorire, se la conserviamo solo per noi stessi, la si soffoca. La vita è radiosa dal momento in cui si comincia a donarla. Vivere solo la propria vita e asfissiante. Coraggio, p. Clemente, lddio ti conceda di perseverare sino alla fine: rimani e fiorisci dove Dio ti ha piantato. " Beato Clemente Vismara).


Padre Manna scriveva: “La vocazione missionaria non può reggere se non è concepita come la nostra risposta all’amore infinito di Cristo. Senza il fuoco dell’amore di Gesù Cristo, la vita missionaria è una misera illusione e, presto o tardi, un grande fallimento. Cristo non lo serviamo mai bene abbastanza». Nel suo servizio «dobbiamo essere generosi fino all’eroismo. Di gente fiacca, Cristo non sa cosa farsene». 

E, in una lettera a tutti i formatori del PIME: «Gesù Cristo, ecco la realtà intorno alla quale deve formarsi, trasformarsi la vita dei nostri aspiranti; ecco la luce in cui debbono illuminarsi i loro ideali, il fuoco in cui debbono accendersi i loro cuori, il cibo di cui debbono fortificarsi le loro anime. Bisogna far sentire Gesù Cristo al cuore, all’anima dei nostri aspiranti, come all’intelletto.”  



Il grande sognatore 

Papa Francesco dice: “Saverio, in Giappone capisce che il Paese decisivo per la missione nell’Asia era un altro: la Cina. con la sua cultura, la sua storia, la sua grandezza, esercitava di fatto un predominio su quella parte del mondo. Anche oggi la Cina è proprio un polo culturale, con una storia grande, una storia bellissima”. Tornato a Goa, Francesco Saverio s’imbarca sperando di poter entrare in Cina, ma muore sulla piccola isola di Sancian, davanti alle coste cinesi aspettando invano di poter sbarcare sulla terraferma. Il 3 dicembre 1552, muore in totale abbandono, solo un cinese è accanto a lui a vegliarlo”.

Dal Concilio Vat. II: Come Cristo stesso penetrò nel cuore degli uomini per portarli attraverso un contatto veramente umano alla luce divina, così i suoi discepoli, animati intimamente dallo Spirito di Cristo, debbono conoscere gli uomini in mezzo ai quali vivono ed improntare le relazioni con essi ad un dialogo sincero e comprensivo, affinché questi apprendano quali ricchezze Dio nella sua munificenza ha dato ai popoli; ed insieme devono tentare di illuminare queste ricchezze alla luce del Vangelo, di liberarle e di ricondurle sotto l'autorità di Dio salvatore. Ma perché essi possano dare utilmente questa testimonianza, debbono stringere rapporti di stima e di amore con questi uomini, riconoscersi come membra di quel gruppo umano in mezzo a cui vivono, e prender parte, attraverso il complesso delle relazioni e degli affari dell'umana esistenza, alla vita culturale e sociale. Così debbono conoscere bene le tradizioni nazionali e religiose degli altri, lieti di scoprire e pronti a rispettare quei germi del Verbo che vi si trovano nascosti; debbono seguire attentamente la trasformazione profonda che si verifica in mezzo ai popoli, e sforzarsi perché gli uomini (…) si aprano ed intensamente anelino a quella verità e carità rivelata da Dio. (Ad Gentes n. 11). 


Padre Tullio Favali. 25 marzo 1985 "Mi sembra di aver superato ormai i momenti più critici dell'inserimento e ora sono più sciolto e nelle migliori condizioni per dare il mio contributo. Ho superato gli scogli iniziali del cibo, del clima e della lingua. Non mi resta che immergermi in questo mondo e camminare a fianco di questa gente, nella comunione fraterna e nella condivisione. Il lavoro è tanto, e il compito affidatoci è grande: però non siamo soli, un Altro ci sorregge e viene incontro alla nostra debo¬lezza. Coraggio, dunque. Diciamocelo reciprocamente". Da due settimane era stato nominato parroco di Tulunan. Meno di due settimane dopo la furia omicida l’avrebbe ucciso.



E andate, abbiate coraggio   

Papa Francesco ha invocato San Francesco Saverio perché ci doni un po’ del suo zelo “per vivere il Vangelo e annunciare il Vangelo”. Rivolgendosi ai tanti giovani di oggi che provano inquietudine, li ha invitati, come Francesco Saverio, a vedere “l’orizzonte del mondo”, i popoli in tanta necessità, tanta gente che soffre, tanta gente che ha bisogno di Gesù. E andate, abbiate coraggio. Anche oggi ci sono giovani coraggiosi”.

Dal Concilio Vat. II: Benché l'impegno di diffondere la fede ricada su qualsiasi discepolo di Cristo in proporzione alle sue possibilità Cristo Signore chiama sempre dalla moltitudine dei suoi discepoli quelli che egli vuole, per averli con sé e per inviarli a predicare alle genti. Perciò egli, per mezzo dello Spirito Santo, che distribuisce come vuole i suoi carismi per il bene delle anime, accende nel cuore dei singoli la vocazione missionaria e nello stesso tempo suscita in seno alla Chiesa quelle istituzioni che si assumono come dovere specifico il compito della evangelizzazione che appartiene a tutta quanta la Chiesa. (Ad Gentes n. 23) 



Non avevano paura 

I primi missionari del PIME non avevano paura e padre Carlo spiega: "Se ci pare di esagerare il riportarci al coraggio ed alla calma e tranquillità con cui gli Apostoli eleggevano le vaste regioni dell'universo, e non più imitabile, accusiamoci di debolezza e di poca fede… Non starebbe con la dignità dei suoi principi, non con l’abbandono che deve avere un Collegio di missionari nelle mani della. Divina Provvidenza, vederlo alle origini, quando gli animi sono pronti, cedere davanti a difficoltà annunciate e non ancora sperimentate". Le difficoltà di portare avanti il lavoro di evangelizzazione sono tantissime, i risultati nulli, le forze diminuiscono di giorno in giorno, e pensando agli amici di Milano, Salerio scrive: "...vorrei intimare al loro orecchio: Dio solo senza consolazioni! Dio solo; non consolazioni! Deve essere Il grido… la parola d'ordine per il missionario in Oceania. Non lo credano un grido che faccia perdere coraggio; è una parola calma che rinfranca potentemente il cuore quando le prove sono dure e il combattimento ostinato".

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Treviso,  16 - 18 maggio 2023 

Le vie sono diverse, la meta è unica 

Il card. Ravasi durante gli esercizi predicati in Vaticano nel febbraio 2013, presente il Papa, ha letto: “C’è una bellissima espressione di una mistica musulmana dell’VIII secolo – Rabia – la quale, sotto il cielo stellato di Bassora, la sua città in Iraq, dice: è sera. Sta scendendo la notte. Le stelle brillano in cielo. Ogni innamorato è con la sua amata e io sono qui, sola con Te, o Signore. Cioè, il linguaggio d’amore e il linguaggio della mistica”
In ogni religione ci sono dei mistici e dei cercatori di Dio. Ne ho incontrato anche in Camerun tra i fedeli della religione tradizionale africana. Ogni mistico ti crea un’emozione profonda, ti fa sentire che esiste qualcosa di grande, di bello.
Alessandra Garusi nella rivista "Missione oggi" dei padri saveriani in una intervista a GABRIEL MANDEL KHAN maestro Sufi ha raccolto questa perla:
“I mistici pensano Dio, vivono Dio, e Dio è uno per tutti, per tutta l'umanità e universo mondo. Quindi, quando un mistico si perde in Dio, non è più né bianco né nero, né cristiano né musulmano. Voi, ad esempio, avete s. Teresa d'Avila. Noi abbiamo Rabbi'a, la donna mistica più importante. Se lei interscambia i nomi, i loro testi sono molto simili. Tanto è vero che, nelle nostre riunioni, leggiamo anche mistici ebraici, cristiani, ecc. Come modello uno per tutti, Jalâl âlDîn Rûmî (il san Francesco dei Sufi, 1207-1273). Egli scrisse: “Le vie sono diverse, la meta è unica. Non sai che molte vie conducono a una sola meta? La meta non appartiene né alla miscredenza né alla fede; là non sussiste contraddizione alcuna. Quando la gente vi giunge, le dispute e le controversie che sorsero durante il cammino si appianano; e chi si diceva l'un l'altro durante la strada ‘tu sei un empio' dimentica allora il litigio, poiché la meta è unica”. È Dio…
Nel Corano sta scritto: “Dio dice: né i cieli né la terra mi contengono; mi contiene il cuore del mio fedele”. Di conseguenza è col cuore che io lo sento, non certamente con la mente. Per cui coltivo il mio cuore e, in un certo senso, questo mi fa vivere in un sogno. Quindi tutta la mia vita è dedicata a Dio. È il più bel sogno che possa sognare, dunque lo vivo. E non vado in cerca di altri desideri che questo”.


     
San Francesco Saverio, patrono delle missioni
Agenzia Fides - 17 maggio 2023


E’ stata dedicata a San Francesco Saverio, Patrono delle missioni, l’udienza generale di oggi. Proseguendo il ciclo di catechesi dedicate alla “passione per l’evangelizzazione”, Papa Francesco ha sottolineato anzitutto che San Francesco Saverio è considerato da alcuni il più grande missionario dei tempi moderni. “Ma non si può dire chi è il più grande, chi è il più piccolo – ha spiegato -, perché ci sono tanti missionari nascosti che anche oggi fanno tanto più di San Francesco Saverio… Un missionario è grande quando va. E ci sono tanti, tanti, sacerdoti, laici, suore, che vanno nelle missioni, anche dall’Italia e tanti di voi… questo è grande: uscire dalla patria per predicare il Vangelo. È lo zelo apostolico. E questo noi dobbiamo coltivare tanto. E guardando la figura di questi uomini, di queste donne, impariamo”.
Ripercorrendo la vita del missionario gesuita, il Santo Padre ha ricordato che l’incontro con Ignazio di Loyola fu decisivo per lui: lasciò tutto per diventare missionario. Dopo l’ordinazione sacerdotale venne inviato in Oriente. Nonostante i viaggi dei missionari in Oriente fossero all’epoca “un invio verso mondi sconosciuti”, “lui va, perché era pieno di zelo apostolico” ha detto il Papa. “Parte così il primo di una numerosa schiera di missionari appassionati dei tempi moderni, pronti a sopportare fatiche e pericoli immensi, a raggiungere terre e incontrare popoli di culture e lingue del tutto sconosciute, spinti solo dal fortissimo desiderio di far conoscere Gesù Cristo e il suo Vangelo”.
In circa undici anni di missione, di cui più di tre trascorsi sulle navi per andare in India, e da qui in Giappone, Francesco Saverio “compie un’opera straordinaria”. Facendo base a Goa, in India, “va ad evangelizzare i poveri pescatori della costa meridionale dell’India”. Ma non si ferma, sente di dover andare oltre l’India e salpa per le Molucche, le isole più lontane dell’arcipelago indonesiano. Qui “mette in versi il catechismo nella lingua locale e insegna a cantare il catechismo, perché con il canto lo si apprende meglio”. “Quali siano i suoi sentimenti lo capiamo dalle sue lettere” ha spiegato Papa Francesco, che ne ha citato un brano: “I pericoli e le sofferenze, accolti volontariamente e unicamente per amore e servizio di Dio nostro Signore, sono tesori ricchi di grandi consolazioni spirituali. Qui in pochi anni si potrebbero perdere gli occhi per le troppe lacrime di gioia!» (20 gennaio 1548). Piangeva di gioia vedendo l’opera del Signore”.
Dall’incontro in India con un giapponese, che gli parlò del suo paese dove non era mai arrivato nessun missionario europeo, Francesco Saverio decise di partire al più presto, e ci arrivò dopo un viaggio avventuroso sulla giunca di un cinese. “I tre anni in Giappone sono durissimi, per il clima, le opposizioni e l’ignoranza della lingua, ma anche qui i semi piantati daranno grandi frutti” ha ricordato il Pontefice, che ha proseguito: “Il grande sognatore, Saverio, in Giappone capisce che il Paese decisivo per la missione nell’Asia era un altro: la Cina. con la sua cultura, la sua storia, la sua grandezza, esercitava di fatto un predominio su quella parte del mondo. Anche oggi la Cina è proprio un polo culturale, con una storia grande, una storia bellissima”. Tornato a Goa, Francesco Saverio s’imbarca sperando di poter entrare in Cina, ma muore sulla piccola isola di Sancian, davanti alle coste cinesi aspettando invano di poter sbarcare sulla terraferma. “Il 3 dicembre 1552, muore in totale abbandono, solo un cinese è accanto a lui a vegliarlo. Così termina il viaggio terreno di Francesco Saverio”. “Aveva soltanto quarantasei anni, aveva speso la vita nella missione, con lo zelo. Parte dalla Spagna colta e arriva al Paese più colto del mondo in quel momento, la Cina, e muore davanti alla grande Cina, accompagnato da un cinese. Tutto un simbolo!”
Nella parte conclusiva della catechesi, Papa Francesco ha sottolineato che l’attività intensissima di Francesco Saverio “è stata sempre unita alla preghiera, all’unione con Dio, mistica e contemplativa. Non lasciò la preghiera mai, perché sapeva che lì c’era la forza”. Ebbe grande cura per i malati, i poveri e i bambini, in quanto non era un missionario “aristocratico”. ma “andava sempre con i più bisognosi”, “andava proprio alle frontiere dell’assistenza dove è cresciuto in grandezza”. Papa Francesco ha quindi invocato San Francesco Saverio perché ci doni un po’ del suo zelo “per vivere il Vangelo e annunciare il Vangelo”. Rivolgendosi ai tanti giovani di oggi che provano inquietudine, li ha invitati, come Francesco Saverio, “l’orizzonte del mondo, i popoli in tanta necessità, tanta gente che soffre, tanta gente che ha bisogno di Gesù. E andate, abbiate coraggio. Anche oggi ci sono giovani coraggiosi”. “Che il Signore dia a tutti noi la gioia di evangelizzare, la gioia di portare avanti questo messaggio tanto bello che fa felici noi, e tutti”. (SL)
         
Uscire dalla patria per predicare il Vangelo è la grandezza di ogni missionario
Papa Francesco nella catechesi del 17/5/2023 dedicata alla “passione per l’evangelizzazione” e descrivendo la vita e l’opera di San Francesco Saverio, Patrono delle missioni, ha detto: “San Francesco Saverio è considerato da alcuni il più grande missionario dei tempi moderni. Ma non si può dire chi è il più grande, chi è il più piccolo, perché ci sono tanti missionari nascosti che anche oggi fanno tanto più di San Francesco Saverio… Un missionario è grande quando va. E ci sono tanti, tanti, sacerdoti, laici, suore, che vanno nelle missioni, anche dall’Italia e tanti di voi… questo è grande: uscire dalla patria per predicare il Vangelo. È lo zelo apostolico. E questo noi dobbiamo coltivare tanto. E guardando la figura di questi uomini, di queste donne, impariamo”.
Concludendo, ha invocato San Francesco Saverio perché ci doni un po’ del suo zelo “per vivere il Vangelo e annunciare il Vangelo”. Rivolgendosi ai tanti giovani di oggi che provano inquietudine, li ha invitati, come Francesco Saverio, “l’orizzonte del mondo, i popoli in tanta necessità, tanta gente che soffre, tanta gente che ha bisogno di Gesù. E andate, abbiate coraggio. Anche oggi ci sono giovani coraggiosi”. “Che il Signore dia a tutti noi la gioia di evangelizzare, la gioia di portare avanti questo messaggio tanto bello che fa felici noi, e tutti”.
        
San Francesco Saverio
Ripercorrendo la vita del missionario gesuita, Patrono delle missioni, il Santo Padre nella catechesi del 17/5/2023 dedicata alla “passione per l’evangelizzazione”, ha ricordato che l’incontro con Ignazio di Loyola fu decisivo per lui: lasciò tutto per diventare missionario. Dopo l’ordinazione sacerdotale venne inviato in Oriente. Nonostante i viaggi dei missionari in Oriente fossero all’epoca “un invio verso mondi sconosciuti”, “lui va, perché era pieno di zelo apostolico” ha detto il Papa. “Parte così il primo di una numerosa schiera di missionari appassionati dei tempi moderni, pronti a sopportare fatiche e pericoli immensi, a raggiungere terre e incontrare popoli di culture e lingue del tutto sconosciute, spinti solo dal fortissimo desiderio di far conoscere Gesù Cristo e il suo Vangelo”. In circa undici anni di missione, di cui più di tre trascorsi sulle navi per andare in India, e da qui in Giappone, Francesco Saverio “compie un’opera straordinaria”. Facendo base a Goa, in India, “va ad evangelizzare i poveri pescatori della costa meridionale dell’India”. Ma non si ferma, sente di dover andare oltre l’India e salpa per le Molucche, le isole più lontane dell’arcipelago indonesiano. Qui “mette in versi il catechismo nella lingua locale e insegna a cantare il catechismo, perché con il canto lo si apprende meglio”. “Quali siano i suoi sentimenti lo capiamo dalle sue lettere” ha spiegato Papa Francesco, che ne ha citato un brano: “I pericoli e le sofferenze, accolti volontariamente e unicamente per amore e servizio di Dio nostro Signore, sono tesori ricchi di grandi consolazioni spirituali. Qui in pochi anni si potrebbero perdere gli occhi per le troppe lacrime di gioia!» (20 gennaio 1548). Piangeva di gioia vedendo l’opera del Signore”. Dall’incontro in India con un giapponese, che gli parlò del suo paese dove non era mai arrivato nessun missionario europeo, Francesco Saverio decise di partire al più presto, e ci arrivò dopo un viaggio avventuroso sulla giunca di un cinese. “I tre anni in Giappone sono durissimi, per il clima, le opposizioni e l’ignoranza della lingua, ma anche qui i semi piantati daranno grandi frutti” ha ricordato il Pontefice, che ha proseguito: “Il grande sognatore, Saverio, in Giappone capisce che il Paese decisivo per la missione nell’Asia era un altro: la Cina. con la sua cultura, la sua storia, la sua grandezza, esercitava di fatto un predominio su quella parte del mondo. Anche oggi la Cina è proprio un polo culturale, con una storia grande, una storia bellissima”. Tornato a Goa, Francesco Saverio s’imbarca sperando di poter entrare in Cina, ma muore sulla piccola isola di Sancian, davanti alle coste cinesi aspettando invano di poter sbarcare sulla terraferma. “Il 3 dicembre 1552, muore in totale abbandono, solo un cinese è accanto a lui a vegliarlo. Così termina il viaggio terreno di Francesco Saverio”. “Aveva soltanto quarantasei anni, aveva speso la vita nella missione, con lo zelo. Parte dalla Spagna colta e arriva al Paese più colto del mondo in quel momento, la Cina, e muore davanti alla grande Cina, accompagnato da un cinese.
Tutto un simbolo!”

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Treviso,  8 - 13 maggio 2023 

La parrocchia di Conscio prega col diacono PILLON ANGELO  

50 anni dopo la morte di Angelo, commovente è stata la celebrazione eucaristica a Conscio il 2 maggio scorso, presieduta da don Dionisio Salvadori, e concelebrata dal parroco, dai missionari del PIME, padri Livio Prete e Gianni Criveller e da sacerdoti locali e del PIME. Don Dionisio ha affermato che Angelo è stato il seme messo dal Signore nel terreno e ha prodotto frutto perché a Coscio nacquero alcune vocazioni sacerdotali e missionarie.

PILLON ANGELO, nato il 14/01/1945 a Conscio di Casale sul Sile (Treviso), passa nel 1964 dal seminario vescovile di Treviso al seminario del PIME.  Era stato ammesso al Giuramento presso il PIME e all'ordinazione diaconale.  Muore per incidente stradale il 03/05/1973 a Preganziol.

Il 30 gennaio 1973 aveva scritto al Superiore Generale del PIME: “Voglio dedicarmi per tutta la vita al servizio delle Missioni del PIME, sempre disposto a testimoniare là dove la Provvidenza e i miei superiori lo vorranno. Pur consapevole di tutti i miei limiti e deficienze, vorrei soltanto apparire come ‘segno tra le genti’ di quell’Amor che non disdegnò di annientarsi fino ad accettare la Croce”. 

Angelo aveva anche chiesto al superiore di essere ordinato sacerdote dal vescovo Mons. Antonio Mistrorigo, vescovo di Treviso, ed essere incardinato nella diocesi di Treviso. Scriveva così: “Credo importante questo legame col mio vescovo e il suo presbiterio per uno scambio più profondo nella carità e nel servizio ai fratelli. Già da tre anni frequento corsi di teologia presso il seminario vescovile dove ho trovato simpatia ed aiuto, instaurando dei legami coi sacerdoti e i chierici. Attendo fiducioso.”

La famiglia di Angelo era presente alla celebrazione e ha dato testimonianze di comunione di vita missionaria condivisa con Angelo. Anche la partecipazione in chiesa di numerosi fedeli di Conscio era segno visibile di profonda comunione.

Era stato destinato alle Filippine e lo pensiamo missionario anche in Paradiso. Possiamo sentirlo vicino quando preghiamo.

Sentiamoci vicini anche a missionari, parenti, sacerdoti, religiosi e amici delle missioni che condividono e mantengono vivo l’annuncio nel mondo del Vangelo.


Il saluto è una porta e una benedizione  

Ora in Italia saluto le persone del quartiere dove abito e che incontro per strada. Alcuni rispondono, soprattutto i bambini.

In Camerun, il saluto era la cosa che mi ha sempre interessato e che poi vivevo. All’inizio mi faceva ridere perché era una serie di domande: “Bene, la tua casa va bene? I tuoi figli stanno bene? Tua moglie va bene? Ecc., ecc.”. Finalmente dopo mesi, avevano cambiato. Al posto della moglie mi chiedevano: “La tua auto va bene?”

Ma ho presto capito che il saluto era un momento importante perché faceva sentire l’umore della persona che incontravo, preparava al dialogo e a stare bene insieme. 

Poi in Algeria, anche coi miei amici musulmani, il saluto mi ha aperto a una relazione ogni giorno più vasta e profonda. Fin dai primi giorni ho salutato tutti. Non però le donne, come mi era stato subito consigliato. Ma poi un po' alla volta c’è stato un progresso di conoscenza reciproca e per strada, anche qualche ragazza e qualche donna osava salutarmi. Erano le ragazze che venivano a fare i compiti da me e le mamme che le accompagnavano. Quando sei salutato, e con un bel sorriso, ti senti accolto, vicino.

Dal saluto cosiddetto laico: “Sbah kair” (mattino di luce), giunsi presto al vero saluto dei musulmani, religioso, “Salam aleikum” (pace a voi), perché loro stessi ormai conoscendomi mi volevano salutare così. Il saluto è anche accompagnato da qualche gesto, come quello di mettere la destra sul cuore per dire: “Ti porto nel cuore”.

Il significato della parola “Salam”, che alla lettera vuol dire “pace”, si spinge un po’ oltre, delineandosi come “salvaguardia” , “sicurezza” , e “protezione” dal male e dagli errori. Il nome di “Al-Salam” è anche uno dei Nomi di Allah. Pertanto, il saluto della “Salam”, suona come un “possa la Benedizione del Suo Nome scendere sopra di voi”. 

Alla domanda: “Quale categoria di azioni dell’Islam sono meritevoli?" Il Profeta rispose: “Dare sostentamento (cibo) agli altri e offrire il saluto della “Salam” a coloro che conosci e a coloro che non conosci. Se entrando in un negozio, saluti con un bel sorriso, fai una sadaka, un’elemosina, un dono”.

Il saggio Al-Qaadi ‘Ayaad ha detto: “Il saluto “Salam” è il primo livello di rettitudine e la prima qualità di fratellanza, ed esso è la chiave per generare l’amore. 

Attraverso la pratica del saluto “Salam”, l’amore dei Musulmani, l’un per l’altro, cresce più forte ed essi dimostrano i propri simboli distintivi e diffondono un sentimento di sicurezza tra loro stessi”.  Dire “Salam ‘aleykum” (sia la pace con te) è meritare dieci ricompense.  Dire: “Salam ‘aleikum wa rahmat-Allah (Sia la pace su di voi e la Misericordia di Allah) è meritare venti ricompense.  Dire: “Salam ‘aleykum wa rahmat-Allah wa barakatuhu (Sia la pace su di voi e la Misericordia di Allah e le Sue Benedizioni)” è meritare trenta ricompense. 

Mentre giorni fa ero a Treviso in autobus, mi capitò di sentire un giovane che telefonava in arabo, seduto vicino a me. Al termine della telefonata gli dissi: “Salam aleykum”. Quegli mi sorrise, un po’ sorpreso, e rispose: “Aleykum salam”. E continuammo a parlare, in italiano per fortuna.Il saluto è anche una porta che ci fa dire: “Marhaba bika”. “Benvenuto, la casa è aperta per te”.    

Ora… dico a voi: “Salam aleykum”.


La preghiera in terra dell’Islam tiene uniti

I musulmani mi dicevano che l’uomo non può vivere senza Dio, che la preghiera è la cosa più bella della vita. Il venerdì, alla voce del muezzin il quartiere si fermava all’improvviso, tutti si mettevano in ginocchio. «Cosa faccio qui?», mi chiedevo ed ero spinto ad approfondire il mio essere cristiano, a rendermi conto di ciò che ci unisce anche se resta velato, prudente, in attesa.

Certo ognuno fa la sua preghiera. E se ci fosse anche un’unica preghiera? Comunque, quando si prega l’uno accanto all’altro, significa che si è sulla stessa direzione: avvicinarsi a Dio e Dio ci avvicina. Si accetta di lasciarsi condurre… e Dio lo sa fare. 

Ecco due preghiere e per ciascuna un suggerimento di Christian de Chergé, monaco ucciso di Tibherine. 

La prima è quella recitata al Cairo da musulmani e cristiani della Fraternità religiosa al termine delle loro riunioni.


Dio, a te ci rivolgiamo, in te poniamo la nostra fiducia, a te chiediamo aiuto e supplichiamo di accordarci la forza della fede in te e la buona condotta attraverso la direzione dei tuoi Profeti e Inviati. Ti chiediamo di rendere ciascuno di noi fedele alla sua credenza e alla sua religione, senza chiusura che fa torto a noi stessi e senza fanatismo che fa torto ai nostri fratelli di fede.

Ti imploriamo di benedire la nostra fraternità religiosa e di fare che la sincerità sia la guida che ci conduce, la giustizia, fine della nostra ricerca e la pace, il bene che vi troviamo. O Vivente, O Eterno, O Tu, a chi sono la Gloria e l’Onore. Amen

 

Suggerimento di Christian: “E’ importante lasciarmi trasportare il più avanti possibile nella preghiera dell’altro se voglio essere un cristiano vicino a un musulmano. La mia vocazione è di unirmi a Cristo attraverso il quale monta ogni preghiera e che offre al Padre misteriosamente questa preghiera dell’Islam come quella di ogni cuore giusto”.

 

La seconda è la preghiera di Giovanni Paolo II pronunciata a Casablanca (Marocco, 1985) e in Senegal (1992) davanti ai musulmani.

 

O Dio, tu sei il nostro Creatore. Tu sei buono e la tua misericordia è senza limiti. A te la lode di ogni creatura. O Dio, tu hai dato a noi uomini una legge interiore con la quale noi dobbiamo vivere.

Fare la tua volontà è nostro dovere. Seguire le tue vie è conoscere la pace dell’anima. Guidaci in tutti i sentieri che percorriamo. Liberaci dalle cattive decisioni che allontanano il cuore dal tuo volere. Non permettere che invocando il tuo nome giungiamo a giustificare i disordini umani. O Dio, tu sei l’Unico, a Te la nostra adorazione. O Dio, giudice di tutti gli uomini, aiutaci a far parte dei tuoi eletti nell’ultimo giorno. O Dio autore della giustizia e della pace, accordaci la gioia vera e l’amore autentico e una fraternità durevole tra i popoli. Riempici dei tuoi doni infiniti. Amen.

 

Suggerimento di Christian: “Questa preghiera di Giovanni Paolo II rende concreto l’esercizio del suo servizio apostolico che è di convocare all’incontro con Dio tutti gli uomini e di confermare i suoi fratelli nella fede viva abbeverandoli alla sorgente dello Spirito che prega e geme nel cuore di ciascuno. Ministero di Eucaristia in atto, in cui il pastore riunisce i figli di Dio dispersi, suoi fratelli, per farne membri di un Corpo vivo entrando in sacrificio di lode… per la più grande gloria di Dio”. 

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Treviso,  3-5 maggio 2023 

Restituire fa bene a tutti 
In aereo dall’Ungheria Nicole Winfield – Associated Press dice a Papa Francesco: “Santo Padre, volevo chiederLe una cosa un po’ diversa. Recentemente Lei ha fatto un gesto ecumenico molto forte, ha donato alla Grecia i tre frammenti delle sculture del Partenone, da parte dei Musei Vaticani. Questo gesto ha avuto anche un’eco fuori dal mondo ortodosso, perché molti musei dell’occidente stanno discutendo proprio la restituzione degli oggetti acquisiti durante il periodo coloniale, come un atto di giustizia nei confronti di queste persone. Volevo chiederLe se Lei fosse disponibile ad altri gesti di restituzione. Penso per esempio ai popoli e ai gruppi indigeni del Canada che hanno fatto la richiesta del ritorno di oggetti delle collezioni vaticane come parte del processo di riparazione per i danni subiti nel periodo coloniale”.

       
Papa Francesco risponde: “Questo, prima di tutto, è il settimo comandamento: se tu hai rubato, devi restituire! Ma c’è tutta una storia. A volte le guerre e le colonizzazioni portano a prendere queste decisioni di prendere le cose buone dell’altro. Questo è stato un gesto giusto, si doveva fare: il Partenone, dare qualcosa. E se domani vengono gli egiziani a chiedere l’obelisco, cosa faremo? Lì si deve fare un discernimento, in ogni caso. E poi la restituzione delle cose indigene: è in corso questo, con il Canada, almeno eravamo d’accordo di farlo. Adesso domanderò come va. Ma l’esperienza avuta con gli aborigeni del Canada è stata molto fruttuosa. Anche negli Stati Uniti i gesuiti stanno facendo qualcosa, con quel gruppo di indigeni dentro gli Stati Uniti, il Padre Generale mi ha raccontato l’altro giorno… Ma torniamo alla restituzione. Nella misura in cui si può restituire, che è un gesto necessario, è meglio farlo. A volte non si può, non c’è possibilità politica o possibilità reale, concreta. Ma nella misura in cui si può restituire, si faccia, per favore, questo fa bene a tutti. Per non abituarsi a mettere la mano in tasca degli altri!”
     
Chi arriva con lingue e tradizioni diverse “adorna il paese”
Seguendo il viaggio di Papa Francesco, il 29 Aprile 2023, Vittoria Terenzi scrive in Città Nuova

     
In questo momento storico così difficile, spiega il papa, l’Europa è chiamata a «unire i distanti, accogliere al suo interno i popoli e non lasciare nessuno per sempre nemico». È dunque essenziale «ritrovare l’anima europea: l’entusiasmo e il sogno dei padri fondatori, statisti che hanno saputo guardare oltre il proprio tempo, oltre i confini nazionali e i bisogni immediati, generando diplomazie capaci di ricucire l’unità, non di allargare gli strappi».
Papa Francesco, esprime il sogno di un’Europa «che non sia ostaggio delle parti» o «preda di populismi autoreferenziali» (…) sia, invece, «centrata sulla persona e sui popoli (…).
Budapest è anche «città dei santi», ricorda Francesco e, citando l’esempio di Santo Stefano che diceva che chi arriva con lingue e tradizioni diverse che giunge «adorna il paese», introduce il tema dell’accoglienza. «È un tema», ammette, «che desta tanti dibattiti ai nostri giorni ed è sicuramente complesso». Ma per i cristiani «l’atteggiamento di fondo non può essere diverso da quello che santo Stefano ha trasmesso, dopo averlo appreso da Gesù, il quale si è identificato nello straniero da accogliere».
Proprio pensando a Cristo «presente in tanti fratelli e sorelle disperati che fuggono da conflitti, povertà e cambiamenti climatici, che occorre far fronte al problema senza scuse e indugi». È questo un tema che riguarda tutti, quindi occorre affrontarlo insieme, e ricorda che «è urgente, come Europa, lavorare a vie sicure e legali, a meccanismi condivisi di fronte a una sfida epocale che non si potrà arginare respingendo, ma va accolta per preparare un futuro che, se non sarà insieme, non sarà».      

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Treviso,  22-27 aprile 2023

Pensiero sui migranti
Cerco testimonianze di come ci comportiamo con i migranti. Una signora praticante in una parrocchia mi ha mandato la sua. 

       
“Ci sono tante storie di vita vissuta con tante sofferenze che non conosciamo e a volte neppure immaginiamo. Ci sono tante persone che hanno sofferto, che soffrono, ma che avrebbero tanto da donarci sia a livello umano che culturale e spirituale. Per questo sento di dovermi attivare, per quel che mi è possibile, per andare incontro alle persone in difficoltà. Penso che ognuno di noi sia un dono per l’altro, con le sue caratteristiche, i suoi doni, la sua cultura, compresi i cosiddetti migranti che dovremmo imparare ad accogliere e valorizzare, Perché questo può trasformarsi in una nuova occasione per ri-conoscerci e scambiarci reciprocamente il dono della propria cultura umana e spirituale. È nelle differenze ch’è possibile comprendere e apprezzare l' ‘altro', con la sua cultura e le sue ricchezze nella fiducia reciproca.
Proprio nello spirito dell’Universalità della Chiesa e come Cristiani, dovemmo avere un cuore più sensibile verso i migranti ed essere quotidianamente testimoni di questa universalità, cominciando proprio nelle nostre comunità, nelle parrocchie, città.
Certamente può sembrarci difficile perché gli immigrati ci appaiono diversi da noi e quindi a volte istintivamente e per paura, inconsciamente o no, ci chiudiamo. Altre volte invece possiamo sentirci infastiditi perché ci chiedono l’elemosina, ma sento che, come per ognuno di noi, dietro ad ognuno c’è una storia, di dolore o difficoltà, di famiglia, di distacco, di sacrifici, di sogni, di speranze, proprio come me. E quindi mi fermo un istante e mi domando: perché aver paura? Perché non fermarmi e interessarmi a lui o lei, come fare con qualsiasi persona in difficoltà? Non ho una risposta ma sento che forse, se ci fossero le condizioni di maggiore integrazione o coinvolgimento all’interno delle nostre comunità parrocchiali, tutto sarebbe più semplice e impareremmo ad aver meno paura, più rispetto e ad apprezzare una cultura diversa e nel confronto, riscoprire anche la nostra. Mi vengono in mente gli Africani; quanta gioia quando si riuniscono per la messa, dove si percepisce questo profondo senso di famiglia e gioia celebrate con suoni, canti e danze.
In questa conoscenza reciproca dovrebbero essere coinvolti i nostri giovani che con il loro spirito ’sconfinato’ con cui si spostano da uno stato all’altro senza alcuna preoccupazione, per studio, per lavoro e altro, non hanno ancora quelle ‘barriere mentali’ che spesso appartengono ai più adulti.
Questa riflessione mi porta a esprimere il mio sogno di un mondo senza nessuna barriera, dove tutti siamo uguali nella propria unicità, dove non esistono razze e colore della pelle, ma semplicemente una realtà di fiducia reciproca e speranza nella grande famiglia umana e nella fratellanza universale”.
E voi come pensate?
     
Quando è giorno
Ho ritrovato una ‘cartolina’ scritta dal deserto nei miei dieci anni d’Algeria. Me la ripulisco, aggiorno, rigusto… e accetto di ridarvela perché non devo ritenere solo per me l’esperienza vissuta.
       
Diceva un saggio africano: “Passerai dalla notte al giorno, non quando nella penombra riuscirai a distinguere un cane da una pecora o un tipo di palma da un altro tipo di palma, ma quando in ogni persona che incontrerai, vedrai un fratello. Allora non è più notte…è giorno!”.
La notte è solitudine, minaccia, paura. Il mondo è buio.
“La notte è tanto brutta”, diceva ogni mattina mio padre, venendo dal carcere dove prestava servizio come ‘agente di custodia’...
Il giorno è sole… colore, calore, luce, vita, gioia…
     
Dieci anni a Touggourt vivendo con musulmani.
È bello al mattino, andando a celebrare la messa con le Piccole Sorelle di Gesù, poter incontrare quelli che escono da casa per andare al lavoro e salutarci col saluto più bello: “Salam aleikum” (la pace sia con te). E mettendo sempre la mano sul cuore. Perché è lì che ci si sente uniti.
È bello parlare col poliziotto dei suoi bambini, vederlo sorridere e sentire che è contento di te…; incontrare il marito abbandonato e dargli del tuo tempo…;
parlare un po’ con l’Imam della moschea e dirci che ci si sente vicini nella preghiera…; ascoltare il medico musulmano che ti dice: “Sento nel cuore un invito a cercare… a trovare”; ringraziare il dentista che dice: “A persone come voi, non ho chiesto mai niente”; vedere la gioia del tecnico straniero del petrolio che dopo la messa in una base, sul deserto, decide di cambiare…di amare meglio sua moglie…
Cose semplici… che allargano il cuore. Allora ogni giorno è un giorno nuovo.
     
Il breviario francese mi dice qual è il vero giorno: “Il nuovo giorno si alza, il giorno conosciuto da te, Padre. Che tuo Figlio completi nell’uomo la vittoria della croce”.
E mi offre queste preghiere:
“Al mattino di questo nuovo giorno, tu Gesù, stella del mattino, risveglia in me il senso della bontà del tuo operato. Luce che si alza sul mondo, mostraci le tue volontà. Figlio amato dal Padre, ispiraci l’amore filiale e fraterno. Sorgente gorgogliante di vita, feconda il lavoro di questa giornata.
Amico dei poveri e dei piccoli, rendici attenti alla loro domanda”.

       

Stranieri… portatori di “Buona Novella “
Nella mia ricerca di come oggi ci comportiamo coi Migranti, ricevo la testimonianza di una giovane della Lega Missionari Studenti di Treviso degli anni ‘60’.

            
La nascita di Gesù nel mio cuore la favorì incredibilmente l’incontro con Roukija.
Mi era stato chiesto di avviare un progetto minimo di alfabetizzazione a una ragazzina del Burkina Faso, Roukija appunto, giunta dall’Africa da pochi mesi, che pur inserita in una classe inferiore a quella che avrebbe dovuto frequentare, non aveva ancora parlato, chiusa in un silenzio di bocca, di testa e di cuore. (…) Poco prima delle vacanze di Natale, al termine della lezione pomeridiana, la accompagnai in ascensore all’ingresso del condominio e sotto casa, all’improvviso, come per miracolo, senza pause, quasi gridando, articolò queste parole: - venerdì sera la mia classe si ritroverà a mangiare la pizza. La mamma non può venire, mi accompagni tu? - Rimasi paralizzata dall’emozione. Mi sentivo commossa e privilegiata e col capo, con gli occhi, con la voce, le risposi il mio sì.
Così entrai nella sua vita anche al di fuori delle lezioni, conobbi i suoi genitori, i fratelli, gli amici. Andammo insieme alla tombolata del Centro di Via Tolla, dove di pomeriggio convergevano quasi tutti i bambini stranieri della periferia e mi resi conto, a poco a poco con stupore, con gioia, con incanto, di quanto quelle persone mi stavano arricchendo in cultura e sentimenti. Attraverso loro stavo cambiando punto di vista rispetto ai luoghi comuni.
Scoprii in quella di Roukija una famiglia sana ed equilibrata, capace di comprendere con chiarezza le regole del vivere civile, capace di individuare il senso del bene e del male secondo una sorta di antica saggezza che nelle nostre fragili, smarrite, confuse, “bianche” famiglie si è perduta da tempo. Scoprii un rigore nell’osservanza delle regole religiose che mi permise di mettere in discussione le mie modalità di vivere la Fede, spesso un po’ aggiustate.
Approfondii la conoscenza di un paese dalle tradizioni antiche, misteriose, affascinanti. Attraverso Roukija conobbi bambini che sanno godere di piccole cose, che sanno ascoltare, felici di imparare. Allora mi chiesi che cosa fossimo in grado di dare noi, con la nostra presunzione, a questi stranieri che nell’assoluta mancanza di cose, nell’essenzialità di vivere, riuscivano a conservare una straordinaria purezza di cuore. Non capivo più che cosa potessero ricevere da noi che abbiamo perduto la fantasia, l’ironia, il desiderio, la gioia.
Alcuni vicini mi raccontarono che in casa di Roukija, in certi momenti della giornata, mamma Fatimata, dopo aver accudito alla famiglia, dopo aver lavorato a ore presso altre famiglie, a piedi nudi danzava sul freddo pavimento di pietra e cantava. Pensai allora con tristezza che in nessuna delle nostre case, ben riscaldate e piene di ogni cosa, si sentono le mamme cantare o si vedono muovere passi di danza con i loro bambini attorno. Così la notte di Natale, dopo aver pregato per tutti i miei cari, chiesi al Signore di proteggere Roukija e i suoi dalle insane seduzioni della nostra cosiddetta civiltà e Lo ringraziai per avermi fatto conoscere questi stranieri, in qualche modo portatori di “Buona Novella “. L. F.

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Treviso,  27 marzo / 11 aprile 2023

L’Italia sempre più “terra di missione”
«L’Italia è ancora una terra di missionari, ma è sempre più una terra di missione», afferma don Giuseppe Pizzoli. Direttore della Fondazione Missio e dell’Ufficio Nazionale per la cooperazione missionaria tra le Chiese, prima di essere chiamato a Roma dalla Cei, è stato missionario nello stato brasiliano di Paraiba e in Guinea Bissau.
        

«Oggi la missione non è più unidirezionale come in passato: dall’Europa, nel nostro caso dall’Italia, al resto del mondo. Oggi possiamo dire che anche la missione si è “globalizzata”: fino a quattro mesi fa vivevo in Guinea Bissau dove condividevo il lavoro missionario con religiosi e religiose provenienti dal Brasile, dal Messico, dal Kenya, dal Senegal, dall’Angola, dal Myanmar e dal Bangladesh. Io credo che la nostra Italia continua ad essere un terreno molto fertile di missionari. È pur vero che le vocazioni religiose, di consacrazione alla missione “ad vitam” soffrono di una profonda crisi, ma dobbiamo dire che la vocazione di laici missionari “ad tempus” ha avuto negli ultimi decenni uno sviluppo notevole e pensiamo che nel futuro prossimo possa avere un ulteriore crescita. Possiamo dunque dire che l’Italia è ancora una terra di missionari! Mi sembra comunque importante aggiungere una ulteriore riflessione: il Concilio Vaticano II ha riaffermato e il Papa Francesco ce lo ricorda continuamente - soprattutto con l’indizione del Mese Missionario Straordinario nell’ottobre prossimo - che la vocazione missionaria è radicata nel Battesimo ed ogni battezzato è per sua natura missionario. Dobbiamo dunque dire che in ogni luogo in cui ci sono delle comunità cristiane, anche se sono una strettissima minoranza, quella è una “terra di missionari”; e in ogni luogo in cui ci sono persone che non conoscono la fede o l’hanno in qualche modo messa da parte o abbandonata, quella è una “terra di missione”. Dobbiamo riconoscere che l’Italia, negli ultimi decenni, è diventata sempre più anche una terra di missione». LA STAMPA 23 marzo 2018
       
Cartolina agli amici del P.I.M.E 
BUONA PASQUA

           
Celebrazione
La grande famiglia Malvestio si riunisce in preghiera per ricordare il loro mons. Gino alla celebrazione della Santa Messa presieduta dal vescovo mons. Cesare Bonivento nella chiesa parrocchiale di Sambughè il 7 maggio 2023 alle ore 10.
      

Mons. GINO MALVESTIO
Nato il 14/01/1938 a Briana di Noale (Treviso), iniziò la formazione nell'Istituto nel 1948 e fu ammesso al Giuramento nel 1964. Fu ordinato Presbitero e partì per il Brasile (Parintins) nel 1965. Servì l'Istituto in Italia dal 1972 al 1982. Rientrato in Brasile viene ordinato Vescovo di Parintins nel 1994. Morì a Treviso il 07/09/1997 dopo una breve vacanza in Italia.
Nel suo programma di vescovo mons. Gino ha voluto ispirarsi al versetto di Isaia. "Il Signore mi ha unto e mi ha inviato per annunciare la buona notizia ai poveri" (Is 61, 1-2). Nella messa del 15 maggio 1994 Mons. Gino sottolineava l'importanza di lasciarsi evangelizzare, di lasciare a Dio il posto principale della nostra vita. Per lui non era sufficiente l'entusiasmo, occorreva l'ardore missionario che cresce nel rapporto personale con Cristo in un clima di famiglia, di comunità. L'ardore esige il Fuoco, Cristo era per lui questo Fuoco. Il Signore gli aveva imposto di andare e questo significava per lui avere il coraggio di uscire, di lasciare le comodità, le amicizie... le sue paure, persino i suoi peccati e debolezze per entrare nel cuore della gente. Annunciare il Vangelo inoltre implica anche il coraggio di parlare e se è necessario anche di denunciare rischiando così la persecuzione e la morte, ma per Mons. Gino l'importante era che l'annuncio fosse comunque basato sulla testimonianza e che nascesse da un cuore pieno di Spirito Santo. Il missionario deve portare una buona notizia e questa è Cristo, il Figlio di Dio che si è incarnato ha sofferto per noi morendo in croce ed è risorto. Mons. Gino sentiva questa presenza nei Sacramenti, nella Parola, nei fratelli e soprattutto nei poveri e negli ammalati.
(Ndr: maggiori dettagli sulla vita di mons. Gino nella Cartolina 322)

   

Cari amici, io padre Silvano Zoccarato, ho colto con gioia e come un dono l’invito di Stefano, nipote di Mons. Gino, a partecipare a questa celebrazione. Penso sarà un momento bello, per la grande famiglia dei Malvestio e per amici del PIME che volessero parteciparvi. Sono passati tanti anni da quando non ho rivisto persone con le quali avevo vissuto a Treviso, in piazza Rinaldi e nel seminario di Preganziol. Dopo una vita in Camerun e in Algeria, sarà gioioso per me celebrareinsieme con Mons. Bonivento, vescovo emerito in Papua Nuova Guinea e con tutti voi. Rivedendoci e pregando insieme con i nostri vescovi missionari, sarà un riaccendere tanti ricordi e un risentire la gioia dello spirito missionario che ci aveva uniti. Certo ci accorgeremo che alcuni non saranno presenti come il carissimo Mons. Gino, alcuni suoi cari e alcuni cari delle nostre famiglie. Sarà anche l’occasione per pregare per tutti i membri della nostra grande e bella famiglia del PIME, alcuni in missione, altri in Cielo.
 
Altre notizie
- Padre Pedro Facci, rientrato dal Brasile scrive:“Mamma Erminia ha terminato la sua corsa ed è partita per il cielo. Eravamo presenti io, mio fratello Dario, la cognata anna e la nipote Adele. Il funerale sarà martedì prossimo11 aprile alle 10.30 nella chiesa di Poleo di Schio”.
- 2 maggio 2023. Celebrazione a Conscio (TV) di 50 anni dalla morte del diacono del PIME Angelo Pillon, morto per incidente stradale. Santa Messa ore 18.30.
- Oggi il PIME è presente a Treviso in via S. Venier al n. 34 in una parte del ex convento dei padri francescani e accanto alla chiesa votiva di Maria Ausiliatrice. Maria Immacolata ed Ausiliatrice, continua ad accompagnarci in missione e là dove siamo.
     
Gesù Risorto ci mantiene uniti, parenti, amici, missionari in Italia e nel mondo

    

Papa Francesco ha donato ai preti di Roma un libro di René Voillaume, l’erede di De Foucauld
Leggo nell’OSSERVATORE ROMANO del 06/04/2023:
         
Stamane, Giovedì Santo, alla messa crismale nella basilica Vaticana hanno concelebrato con lui quasi duemila presbiteri, ai quali ha donato un libro di René Voillaume — un “classico” lo ha definito due volte invitando a leggerlo — intitolato La seconda chiamata. Tratta il tema, approfondito anche dal Pontefice nell’omelia, della «crisi, che ha varie forme» ma che «a tutti succede» dopo l’entusiasmo degli inizi, nella quale si sperimentano «delusioni, con l’ideale che sembra usurarsi fra le esigenze del reale». Ed è qui, ha chiarito il vescovo di Roma, che si «insinuano tre tentazioni pericolose: quella del compromesso, per cui ci si accontenta; quella dei surrogati, per cui si tenta di “ricaricarsi” con altro; quella dello scoraggiamento — la più comune —, per cui, scontenti, si va avanti per inerzia».
   
René Voillaume, l’erede spirituale di San Carlo de Foucauld, in nome del quale ha fondato quella congregazione, chiamata dei Piccoli fratelli di Gesù che l’eremita aveva invano sognato di fondare, indicandone anche il nome: Piccoli fratelli del Sacro Cuore di Gesù, dei quali Voillaume è stato superiore fino al 1965, cioè prima e dopo il Concilio Vaticano II. Il Papa lo ha ricordato donando ai sacerdoti della sua diocesi un volume “La seconda chiamata” che Voillaume ha firmato inserendovi tra l’altro anche contributi del card. Carlo Maria Martini e del vescovo di Novara Renato Corti.
     
Papa Francesco ha detto ai sacerdoti: “Profeti dell’unzione dello Spirito Santo e apostoli di armonia: «nel giorno nativo del sacerdozio». Così dovrebbero essere i preti nonostante le umane «debolezze, le fatiche, le povertà interiori». 

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Treviso,  2-10 marzo 2023

In ginocchio davanti alle bare  

Antonio Maria Mira giovedì 2 marzo 2023 scrive in Avvenire

I sindaci crotonesi si sono inginocchiati in preghiera accanto all’arcivescovo Raffaele Panzetta e all’imam Mustafa Achik davanti alle piccole bare bianche nella camera ardente nel palazzetto dello sport Palamilone che ospita le salme degli immigrati. Ringraziano il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella per la sua visita… che ha dato di nuovo dignità al nostro paese. 

Tralasciando altri articoli sull’assenza o sul mal comportamento di qualcuno, o che pongono la domanda se si poteva evitare il naufragio, nel giornale Avvenire ho trovato anche una pagina di Roberto Zanini che nel prezioso libro del gesuita spagnolo Javier Melloni " Il Cristo interiore", trova l’aiuto a capire il senso di mettersi in ginocchio davanti alle bare bianche.

        

«Adamo dove sei?» (Gen 2,9). La prima domanda di Dio all’uomo. Una domanda profonda, esistenziale, che paradossalmente rimane senza risposta (…) Ieri come oggi, però, per la maggior parte di noi sembra restare senza risposta: sappiamo davvero dove siamo? Qual è il nostro modo di stare nel mondo e quale il compito nel succedersi delle cose e degli eventi che sono nella nostra vita? Con Gesù, però, le cose cambiano. I discepoli chiedono: «Maestro dove abiti?» (Gv 1,39), dove stai? Qual è la tua vita, la tua verità nel mondo? (…) 

Melloni, attraverso le azioni concrete del Cristo dei Vangeli, prende per mano il lettore e lo aiuta a immergersi nella propria interiorità attraverso quella di Gesù e quindi aprirsi all’azione dello Spirito che illumina. «“La vostra vita è nascosta con Cristo in Dio” – sottolinea citando Col 3,3 –. Lui è noi in pienezza e noi siamo Lui in gestazione fino a che non raggiungiamo l’Essere totale, quando “Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,28)». Perché «il Cristo nascente dimora in ogni interiorità umana e ci sono semi di divinità ovunque. Gesù di Nazareth è venuto a svegliarci e da allora sta albeggiando, nonostante in nostro intorpidimento».

      

Dialogo, fratellanza e prospettive di pace in Iraq

L’Osservatore Romano, 10 marzo 2023

Nuova tappa nell'amicizia tra cattolici e sciiti. Il convegno — che si conclude presso il Patriarcato caldeo a Baghdad — si inserisce in un percorso avviato nel gennaio 2004, quando una delegazione di Sant'Egidio, invitata a Najaf da religiosi sciiti nello "spirito di Assisi", incontrò il Grande ayatollah al-Sistani. All'attuale appuntamento partecipano, tra gli altri, il presidente della Comunità, Marco Impagliazzo, il cardinale pakistano Joseph Coutts, religiosi dell'alto seminario sciita di Najaf e rappresentanti dell'islam di altri paesi mediorientali ed europei.

Il cardinale Miguel Angel Ayuso Guixot all'apertura del convegno dice: È «ineludibile il rapporto tra dialogo interreligioso, fratellanza umana e prospettive di pace»; talmente «stretto che non si riesce nemmeno a immaginare queste realtà come separate: credenti che si incontrano, si parlano, si conoscono, si riconoscono e partecipano a un cammino in comune».

Ayuso ha rilanciato l'importanza della collaborazione e dell'amicizia tra cristiani e musulmani, affinché, coltivando il rispetto reciproco e il dialogo, si possa contribuire alla costruzione di uno spirito fraterno per il bene dell'umanità. Il cardinale ha anche definito l'incontro di due anni fa tra il Papa e al-Sistani «un'altra pietra miliare nel cammino del dialogo» sulla scia del Documento sulla Fratellanza umana. Grazie a queste iniziative, ha chiarito, appare evidente che «il dialogo tra le religioni non è un segno di debolezza. È invece espressione del dialogo di Dio con l'umanità. Per noi, cattolici e sciiti, di fronte al futuro, la strada da percorrere è quella della fratellanza». 

Nella città santa per gli sciiti, dove è presente il santuario dell'imam Alì, il prefetto del Dicastero per il dialogo interreligioso ha consegnato oggi un messaggio personale del Pontefice al Grande ayatollah al-Sistani nel ricordo dello storico incontro del 6 marzo 2021. E in tal senso, ha rimarcato il cardinale, il magistero di Papa Bergoglio «indica una road map con tre punti di riferimento: il ruolo della religione nelle società, il criterio della religiosità autentica e il camminare insieme come fratelli e sorelle per costruire la pace. Per Francesco la risposta alle domande e alle sofferenze provocate da tensioni e conflitti è strettamente legata alla fratellanza». Infine, il presidente del Dicastero vaticano si è detto «convinto che il dialogo tra le due comunità» sciita e cattolica «sarà un passo avanti nella direzione della fratellanza, che darà molti frutti». Da parte sua il cardinale Louis Raphael I Sako, patriarca di Babilonia dei caldei, ha fatto notare che «un'anima credente non deve mai far soffrire gli altri. Bisogna rinnovare la mentalità per costruire un futuro in cui nessuno è emarginato per motivi di fede». 

Gli ha fatto eco, nella giornata dedicata al "dialogo sulla vita" e a "religioni e società", l'arcivescovo Vincenzo Paglia. «E' tempo di rilanciare una nuova visione per un umanesimo fraterno e solidale dei singoli e dei popoli… I credenti hanno un ruolo particolarmente importante, proprio perché partendo dalle tre religioni abramitiche propongono la centralità dell'uomo e della famiglia umana per ogni sviluppo che sia tale”. 

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Treviso,  15-20 febbraio 2023

Più responsabilità ai laici

Dal 16 al 18 febbraio, nell’aula nuova del Sinodo, in Vaticano, c’è la presenza di 210 tra presidenti e referenti delle Commissioni episcopali per i laici provenienti da tutto il mondo. È il convegno internazionale di tre giorni “Pastori e fedeli laici chiamati a camminare insieme”. Si chiuderà con l’intervento del Papa. Così il Card. Kevin Farrell pensa il convegno: “Tutti i membri del popolo di Dio, pastori e fedeli laici, condividono a pieno titolo la responsabilità per la vita, la missione, la cura, la gestione e la crescita di questo popolo che Cristo stesso ha suscitato”.  “Si sente il bisogno di superare la semplice logica di “sostituzione”, secondo cui per migliorare la situazione della Chiesa, basterebbe semplicemente “sostituire” i chierici con i laici in vari ambiti… e così ogni problema sarebbe risolto”. “Serve innanzitutto una “conversione pastorale” da parte dei laici e di coloro che sono ministri ordinati…. Non bisogna ridurre la missione dei laici nella Chiesa a un ruolo o a un coinvolgimento puramente funzionale, ma devono essere veramente parte della missione della Chiesa”.  

        

Pensando ai catechisti, sogno che sia conferito loro un “ordine minore” non per una “stelletta” in più, distintiva, ma per un senso di responsabilità, ricevuta come dono di Dio per loro e per la comunità a cui sono inviati. Ho avuto l’incarico e la gioia di formare catechisti nel sud e nel nord del Camerun e in Ciad. Era una scuola seria di famiglie che dedicavano tre anni di formazione alla vita familiare, formazione al lavoro e alla fede. Formazione attenta alla cultura e al contesto dal quale provenivano. Per diventare responsabili e punti di riferimento, animatori della catechesi e della liturgia anche quando il prete poteva arrivare qualche volta l’anno, educatori secondo il Vangelo nelle comunità di appartenenza e per le persone a loro affidate.

        

Per avere laici impegnati, bisogna dedicarci un po’ di più e tutti insieme ad aiutarli e a pregare per loro.



I Martiri del PIME 

Il 24 marzo 2023 ricorre la trentunesima Giornata dei Missionari Martiri.

Dal 1850 a oggi sono 19 i missionari del PIME che hanno conosciuto il martirio.

Nel 1855 in Oceania il beato Giovanni Battista Mazzucconi.

Nel 1900 in Cina durante la rivolta dei Boxer viene ucciso Sant’Alberico Crescitelli. A cavallo tra il 1941 e il 1942, in un contesto storico delicatissimo, sempre in Cina avviene il martirio di P. Cesare Mencattini, Mons. Antonio Barosi, P. Girolamo Lazzaroni, P. Mario Zanardi, P. Bruno Zanella, P. Carlo Osnaghi e P. Emilio Teruzzi.

Tra il 1950 e il 1955 hanno pagato con la vita la loro testimonianza di fede altri cinque missionari del PIME nella turbolenta Birmania (oggi Myanmar): oltre ai beati Mario Vergara e Alfredo Cremonesi, i PP. Pietro Galastri, Pietro Manghisi ed Eliodoro Farronato.

Nel 1972 in Bangladesh è stato ucciso P. Angelo Maggioni; nel 1974 a Hong Kong P. Valeriano Fraccaro.

Negli ultimi decenni sono stati uccisi nelle Filippine i PP. Tullio Favali (1985), Salvatore Carzedda (1992) e Fausto Tentorio (2011), a conferma che il martirio appartiene alla vicenda missionaria di sempre.

Queste tre ultime uccisioni rispecchiano lo stile di presenza del PIME nel Paese e le modalità di testimonianza missionaria adottata, ieri come oggi: la denuncia dei soprusi dei potenti, la volontà di stabilire un dialogo costante fra cristiani e musulmani e, infine, la lotta in favore dei tribali e dei loro diritti.

      

Alla morte dei cinque missionari uccisi in Cina nel 1941/42, Mons Balconi, superiore generale del PIME, scriveva ai membri dell’Istituto: “L’assassinio dei cinque confratelli non solo non ha disanimato nessuno, ma ha rinfrancato chi combatte sul campo, ha entusiasmato chi sospira di raggiungerli, ed ha sollevato un’ondata di fervida simpatia per l’Istituto e le sue missioni, per voi, confratelli carissimi, riguardati come i veri discepoli di Cristo, pronti a dargli anche la massima testimonianza d'amore: il sacrificio della vita. E già questo non sarebbe poco: rinnovarci tutti nel vero spirito missionario”.



Martiri Africani

Accanto ai missionari martiri, possiamo ricordare anche il cruento sacrificio di vittime innocenti che Papa Francesco ha visto nel suo viaggio nel Congo e nel Sudan e ha gridato: “Basta! Basta arricchirsi sulla pelle dei più deboli, basta arricchirsi con risorse e soldi sporchi di sangue…Troppi muoiono, sottoposti a lavori schiavizzanti nelle miniere. Quante ragazze sono emarginate e violate nella loro dignità!».

“Sono con voi, soffro per voi e con voi”.

Papa Francesco non lesina parole dure contro “tutte le entità, interne ed esterne, …che tirano i fili della guerra e che si arricchiscono attraverso lo sfruttamento illegale dei beni di questo Paese e il cruento sacrificio di vittime innocenti”. E chiede di ascoltare “il grido del loro sangue".

Sono storie durissime, dal bambino di 9 anni rapito che perdona i carnefici alla ragazza di appena 17 anni, rimasta 19 mesi nelle mani dei gruppi armati, violentata, rimasta incinta e ora madre di due gemelli che “non conosceranno mai il loro padre”, che è riuscita a fuggire fortunosamente. Dalla donna che a 15 anni era stata rapita, ridotta a schiava sessuale per tre mesi, cibata di carne umana con carne animale che non si poteva rifiutare di mangiare, pena essere fatti a pezzi, fino al giovane che racconta il dramma della distruzione e del saccheggio nel suo villaggio. Ci sono alcune donne mutilate. Tutti portano un segno e lo mettono sotto la croce, tutti chiedono e danno perdono, con un impegno letto insieme in un momento toccante. 

La Chiesa è il luogo di consolazione per loro, perché missionari, Caritas e parrocchie danno loro consolazione e aiuto.

Papa Francesco ringrazia i “seminatori di pace che operano nel Paese”, ricorda l’ambasciatore Luca Attanasio, ucciso insieme al carabiniere Vittorio Iacovacci e all’autista Mustapha Milambo nel febbraio 2021, e chiede a Dio “perdono per la violenza dell’uomo sull’uomo”, e di consolare “le vittime e coloro che soffrono, convertendo i cuori di “chi compie crudeli atrocità, che gettano infamia sull’umanità intera”, e aprendo “gli occhi a coloro che li chiudono o si girano dall’altra parte davanti a questi abomini”.

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Treviso,  4-7 febbraio 2023


Papa Francesco in Sud Sudan

   

I piccoli sfollati al Papa: vogliamo la pace per poter tornare a casa

Bambini e giovani di altrettanti campi interni hanno raccontato le loro storie a Francesco nel secondo giorno del suo viaggio apostolico in Sud Sudan. Parole di gratitudine e speranza, che non nascondono le numerose difficoltà che loro, come migliaia di altri coetanei, vivono quotidianamente: mancanza di spazio, carenza di istruzione, solitudine, sogni di un futuro migliore

Andrea De Angelis – Città del Vaticano - vaticannews.va 

    

Johnson non ha abbastanza spazio per giocare a calcio, ma neanche una scuola. Il suo indirizzo è B2, rispettivamente il blocco e il settore del sito per la protezione di civili in cui vive. Joseph ha 16 anni, otto dei quali trascorsi nel campo. “Se ci fosse stata la pace - dice a fatica, emozionato e commosso - mi sarei goduto l’infanzia”. Rebecca, come gli altri, è “molto felice” di avere davanti a sé il Papa, qui “nonostante il suo ginocchio dolorante”. Gratitudine, speranza, dolore, preghiera. Questo e molto altro esprimono le voci dei giovani che il Papa ha incontrato al campo sfollati interni di Giuba, le cui testimonianze hanno preceduto il suo intervento.

    

Siamo qui grazie agli aiuti umanitari

Sedici anni all’anagrafe, la metà dei quali trascorsi nel campo della città di Bentiu. La storia di Joseph è quella di un ragazzo chiamato a crescere troppo presto e oggi consapevole del dramma che sta vivendo. Il suo pensiero è per il futuro, personale sì, “ma anche degli altri bambini”, perché chi ha conosciuto la fame, la paura di morire desidera che simili pagine non si scrivano più. “Perché soffriamo nel campo per gli sfollati? A causa - dice - dei conflitti in corso nel nostro Paese”. La sua analisi è lucida, sa bene che la sopravvivenza non era scontata. “Io, i miei genitori, insieme ad altre famiglie, siamo qui grazie agli aiuti umanitari”, ma “se ci fosse stata la pace sarei rimasto nella mia casa d’origine”. Joseph chiede ai leader religiosi di continuare a pregare per “una pace definitiva”, infine lancia un accorato appello ai leader del suo Paese: “Portino amore, pace, unità e prosperità”. 

Andrea De Angelis – Città del Vaticano - vaticannews.va

   

Il saluto di Francesco al Sud Sudan: "Mettete sulle ferite il sale del perdono: brucia ma guarisce"

Il giovane Stato subsahariano decide di dedicare una strada al primo Pontefice che visita il Paese. Più di cento mila persone partecipano alla celebrazione eucaristica nel mausoleo "John Garang" di Juba

Papa Francesco ha celebrato oggi la messa al mausoleo “John Garang” di Juba, ultimo appuntamento pubblico in Sud Sudan. 

Si è concluso il viaggio apostolico nella Repubblica Democratica del Congo ed in Sud Sudan, Papa Francesco è rientrato a Roma. Il volo della compagnia Ita Airways, con a bordo il pontefice, è atterrato all'aeroporto di Fiumicino alle 16:49. 

Francesco ha fatto un giro in papamobile tra i fedeli, accorsi in migliaia. La preghiera dei fedeli è stata recitata in arabo, dinka, bari, nuer e zande. Da quando Bergoglio è arrivato, non è cessato l'afflusso di persone dirette nell'area: oltre al mausoleo, i fedeli si sono collocati anche in tutta la zona limitrofa, come riferiscono le autorità locali. Si stima che alla celebrazione abbiano partecipato oltre 100mila persone.

Vengo a voi a proclamarvi Lui, a confermarvi in Lui, perché l'annuncio di Cristo è annuncio di speranza: Egli, infatti, conosce le angosce e le attese che portate nel cuore, le gioie e le fatiche che segnano la vostra vita, le tenebre che vi opprimono e la fede che, come un canto nella notte, levate al Cielo” dice Papa Francesco nel corso della messa. “Gesù vi conosce e vi ama; se rimaniamo in Lui, non dobbiamo temere, perché anche per noi ogni croce si trasformerà in risurrezione, ogni tristezza in speranza, ogni lamento in danza” aggiunge il Pontefice, che poi invita a deporre “le armi dell'odio e della vendetta per imbracciare la preghiera e la carità”.

Poi il Papa invita a superare “quelle antipatie e avversioni che, nel tempo, sono diventate croniche e rischiano di contrapporre le tribù e le etnie; impariamo a mettere sulle ferite il sale del perdono, che brucia ma guarisce”. Bergoglio rivolge un pensiero speciale alle donne e dice: “La speranza, qui specialmente, è nel segno della donna e vorrei ringraziare e benedire tutte le donne del Paese”.

E, tra le donne, ce n'è una che il Papa cita con affetto e riconoscenza, la santa più venerata del Paese, una suora: “In Sud Sudan c'è una Chiesa coraggiosa, imparentata con quella del Sudan” sottolinea ricordando la figura della santa Giuseppina Bakhita, “una grande donna, che con la grazia di Dio ha trasformato in speranza la sofferenza patita”.

Un concetto, quello della speranza, associato al lascito della sua visita in terra africana: “Speranza è la parola che vorrei lasciare a ciascuno di voi, come un dono da condividere, come un seme che porti frutto”. Oltre alla speranza, il Papa dice di voler “associare un'altra parola, la parola di questi giorni: pace. Con i miei fratelli Justin e Iain - ha detto Bergoglio, riferendosi all'arcivescovo di Canterbury e al moderatore della Chiesa di Scozia -, che ringrazio di cuore, siamo venuti qui e continueremo ad accompagnare i vostri passi, noi tre insieme siamo venuti facendo tutto quello che possiamo perché siano passi di pace, passi verso la pace”. Il Pontefice ha quindi affidato “il cammino della riconciliazione e della pace” alla Madonna, “la Regina della pace”.

Infine, “anche se il cuore sanguina per i torti ricevuti, rinunciamo una volta per tutte a rispondere al male con il male, e staremo bene dentro; accogliamoci e amiamoci con sincerità e generosità, come fa Dio con noi. Custodiamo il bene che siamo, non lasciamoci corrompere dal male” ha concluso il Pontefice.

Intanto, tra i gesti di commiato più affettuosi, si registra anche la dedica di una strada a Bergoglio, primo Papa che giunge in questo “giovane” Paese (nato nel 2011): il governo sud-sudanese ha infatti deciso di intitolare una via in suo onore, d’ora in poi “Pope Francis Road”. Si tratta della principale strada asfaltata della capitale, una delle poche in uno Stato che ne conta solo duecento chilometri. L’arteria parte da piazza Kololo Junction e prosegue fino alla sede della Nunziatura apostolica (l'ambasciata del Vaticano) passando per le sedi diplomatiche dell'Unione europea e degli Stati Uniti. “La presenza del Papa rimarrà così per sempre nel Paese”, commentano dalla conferenza episcopale sud-sudanese, che ringrazia l’esecutivo per questo gesto.

A chiudere la visita del Papa in Sud Sudan, la messa domenicale in programma alle 8,45 (7,45 ora italiana). Il pontefice si sposterà poi all'aeroporto internazionale di Juba dove, insieme all'arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, e al moderatore della Chiesa di Scozia, Iain Greenshields, si congederà con il presidente del Paese, Salva Kiir. A bordo dell'aereo papale saranno ospiti anche i due leader cristiani, che hanno accompagnato Francesco in questa tappa della sua quinta visita apostolica africana.

Antonio Bonanata  - Rainews.it  

    

I leader ecumenici ai politici sud sudanesi: la pace è nelle vostre mani

L’arcivescovo di Canterbury Justin Welby ricorda l’incontro in Vaticano del 2019 e non nasconde la delusione per i mancati progressi verso la pace. Il moderatore dell’Assemblea generale della Chiesa di Scozia Greenshield chiede ai leader politici di mettere in pratica la propria fede al servizio dei più vulnerabili e emarginati

   

“Quasi cinque anni dopo, veniamo da voi allo stesso modo: in ginocchio per lavarvi i piedi. Per ascoltare servire e pregare con voi”. L’arcivescovo di Canterbury Justin Welby, intervenuto dopo le parole di Papa Francesco, si è rivolto ai politici del Sud Sudan, ricordando lo storico incontro del 2019, quando Francesco si inginocchiò davanti al presidente Salva Kiir e ai vicepresidenti del Paese africano per chiedere la pace.

    

Il Papa: il Sud Sudan non si riduca a cimitero, torni a essere giardino

    

Welby: "Ci aspettavamo di più"

“Pregammo perché ci fosse spazio per far operare lo Spirito Santo, e in quell’incontro vedemmo la possibilità della speranza”, ha affermato Welby, che si è detto tuttavia rattristato per quanto ha visto e ascoltato da allora. “Speravamo e pregavamo per qualcosa in più. Ci aspettavamo di più. Avevate promesso di più. Non si possono scegliere solo alcune parti dell’accordo di Pace. Ogni parte deve essere applicata da ogni persona e questo costa molto”.

     

La pace è alla portata con l'aiuto di Dio

La riposta alla pace e alla riconciliazione, ha continuato, “non è in visite come questa, ma è nelle vostre mani”. La pace è infatti “alla vostra portata, è vicina, potete raggiungerla con l’aiuto di Dio”. Un obiettivo da raggiungere per l’eroico e coraggioso popolo del Sud Sudan, che ha combattuto a lungo per la sua libertà e l’ha vinta” e che sicuramente ora “ha il coraggio di lottare per la pace e la riconciliazione”. Come Welby ha ascoltato da un gruppo di bambini delle scuole elementari “Basta corruzione. Vogliamo la pace in Sud Sudan!”

    

Greenshields: abbiamo bisogno di leader con valori e fede

“Oggi abbiamo bisogno di pace”, ha ribadito anche il reverendo Greenshields, moderatore dell’Assemblea generale della Chiesa di Scozia. “Abbiamo bisogno di leader che abbiano a cuore i valori per cui vivono i nostri Paesi”, ha affermato, “che si preoccupino delle condizioni in cui vivono le persone e che mettano in pratica la loro fede lavorando tra i più vulnerabili ed emarginati".

   

Lavorare per il futuro

L’auspicio è che tutti i leader politici, civili e internazionali “possano unirsi nella ricerca della promessa olistica di Dio di una vita in pienezza per tutto il popolo di Dio", perché questo è un “Paese giovane e ottimista, pieno di persone pronte a lavorare per un futuro vibrante e soddisfacente".

Michele Raviart - Città del Vaticano - vaticannews.va 

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Treviso,  1-4 febbraio 2023

Papa Francesco in Congo

     

Giù le mani dall’Africa!

Papa Bergoglio è arrivato a Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo, dove si assiste a migrazioni forzate e a terribili forme di sfruttamento. Durante il viaggio verso Kinshasa, sorvolando il Sahara, il Papa ha rivolto un pensiero ai tanti che hanno perso la vita e a quanti sono stati messi nei lager dopo aver attraversato il deserto e rivolgendosi ai giornalisti presenti ha ringraziato per averlo accompagnato in questo viaggio atteso da un anno – e che sarebbe voluto andare a Goma, nell’est del Congo, ma con la guerra in corso non è stato possibile. 

«Giù le mani dall’Africa! Basta soffocare l’Africa: non è una miniera da sfruttare o un suolo da saccheggiare». Parla di diamanti insanguinati, di ogni forma di sfruttamento, di colonialismo economico schiavizzante, di una storia tormentata dalla guerra, di migrazioni forzate e corruzione papa Francesco atterrando a Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo, che con i suoi 15 milioni di abitanti è uno dei più grandi agglomerati urbani del Continente. 

«Un pugno allo stomaco» per il Papa che viene, dichiara, «come pellegrino di riconciliazione e di pace». Dall’aeroporto verso il Palais de la Nation al nord di Kinshasa sulle rive del fiume Congo una folla interminabile si è assiepata sullo sfondo di bidonville per vedere il passaggio del Papa. Corrono lungo la strada di polvere e rifiuti. 

Dopo l’incontro con il presidente Felix Tshisekedi Tshilombo, che nel 2013 era stato privato del suo mandato parlamentare per aver denunciato frodi elettorali, le parole del successore di Pietro pronunciate nel giardino del Palais de la Nation davanti alle autorità diplomatiche e politiche e ai rappresentanti della società civile suonano come una dura denuncia: «Questo Paese immenso e pieno di vita, questo diaframma d’Africa, colpito dalla violenza come da un pugno nello stomaco, sembra da tempo senza respiro». (Stefania Falasca,  Avvenire 31 gennaio 2023)

      

Migrazioni forzate e terribili forme di sfruttamento

«La Repubblica Democratica del Congo continua a patire entro i suoi confini migrazioni forzate e a soffrire terribili forme di sfruttamento, indegne dell’uomo e del creato» ha affermato nel suo primo discorso nel Paese. I dati di questo sfruttamento per l’industria hi-tech e la cosiddetta transizione verde sono noti, basta pensare che l’estrazione nelle miniere del Congo di ogni kg di coltan – lega di minerali che serve a ottimizzare il consumo della corrente elettrica nei chip di nuovissima generazione – costa la vita di due persone.

Un frammento di questa lega di minerali è stato dato al Papa nel volo che lo portava a Kinshasa dalla giornalista della Cope, emittente della Conferenza episcopale spagnola, per sottolineare la gravità della schiavitù minorile nelle miniere del Paese, dove confluisce una galassia di interessi globali da parte di potentati occulti che mirano alla massimizzazione del profitto attraverso azioni predatorie.

E a proposito di sviluppo sfrenato Francesco afferma che «così questo Paese, ampiamente depredato, non riesce a beneficiare a sufficienza delle sue immense risorse: si è giunti al paradosso che i frutti della sua terra lo rendono straniero ai suoi abitanti. Il veleno dell’avidità ha reso i suoi diamanti insanguinati». «Non possiamo abituarci al sangue che in questo Paese scorre ormai da decenni, mietendo milioni di morti all’insaputa di tanti – ha affermato – Si conosca quanto qui accade».

«È un dramma davanti al quale il mondo economicamente più progredito chiude spesso gli occhi, le orecchie e la bocca. Ma questo Paese e questo Continente – sottolinea il Papa – meritano di essere rispettati e ascoltati, meritano spazio e attenzione». (Stefania Falasca,  Avvenire 31 gennaio 2023)

  

Il mondo faccia memoria dei disastri compiuti

«L’Africa sia protagonista del suo destino! Il mondo faccia memoria dei disastri compiuti lungo i secoli a danno delle popolazioni locali e non dimentichi questo Paese e questo Continente. L’Africa, sorriso e speranza del mondo, conti di più: se ne parli maggiormente, abbia più peso e rappresentanza tra le Nazioni!»

Papa Francesco ha chiesto che si faccia largo «una diplomazia dell’uomo per l’uomo, dei popoli per i popoli», dove al centro non vi siano il controllo delle aree e delle risorse, le mire di espansione e l’aumento dei profitti, ma le opportunità di crescita della gente. Mentre cominciava a imbrunire Papa Francesco ha continuato a parlare con molta chiarezza: «Guardando a questo popolo, si ha l’impressione che la Comunità internazionale si sia quasi rassegnata alla violenza che lo divora»

E ha poi incoraggiato a sostenere i processi di pace in corso insieme a chi non manca di contribuisce al bene della popolazione locale e a un reale sviluppo attraverso progetti efficaci esprimendo «gratitudine ai Paesi e alle organizzazioni che forniscono aiuti sostanziali in tal senso», favorendo la lotta alla povertà e alle malattie, sostenendo lo stato di diritto, promuovendo il rispetto dei diritti umani. 

Ha messo quindi il dito nella piaga dello sfruttamento minorile: «Troppi muoiono, sottoposti a lavori schiavizzanti nelle miniere. Non si risparmino sforzi per denunciare la piaga del lavoro minorile e porvi fine. Quante ragazze sono emarginate e violate nella loro dignità!». Ed ha ancora ribadito: «Non ci si lasci manipolare né tantomeno comprare da chi vuole mantenere il Paese nella violenza, per sfruttarlo e fare affari vergognosi: ciò porta solo discredito e vergogna, insieme a morte e miseria». 

Ha poi stigmatizzato il tribalismo, il parteggiare ostinatamente per la propria etnia o per interessi particolari, alimentando spirali di odio e di violenza, la corruzione e favorire invece elezioni libere, trasparenti e credibili, estendendo la partecipazione ai processi di pace alle donne. 

«Non bisogna stancarsi di promuovere, in ogni settore, il diritto e l’equità, contrastando l’impunità e la manipolazione delle leggi e dell’informazione» ha detto citando il De Civitate Dei di Sant’Agostino, che nacque in questo Continente: «Se non è rispettata la giustizia, che cosa sono gli Stati se non delle grandi bande di ladri?». (Vatican News - 1  febbraio 2023)

            

Il Papa ai vescovi

Vicini alla gente, l'episcopato non è per fare affari

Nel lungo discorso ai vescovi del Congo, incontrati prima di partire per il Sud Sudan, Francesco raccomanda ai presuli di camminare al fianco della popolazione che soffre, di sradicare odio, egoismo, violenza, di demolire gli altari consacrati al denaro e alla corruzione e di edificare una pacifica convivenza. E cita l’esempio di monsignor Christophe Munzihirwa, il Romero del Congo

La Chiesa ha bisogno “di respirare l’aria pura del Vangelo”, di scacciare quella inquinata della mondanità e di “custodire il cuore giovane della fede”. Il Papa lo sottolinea ai vescovi delle 48 circoscrizioni ecclesiastiche della Repubblica Democratica del Congo che incontra nella sede della Conferenza episcopale a Kinshasa, prima di lasciare il Paese e raggiungere il Sud Sudan. Ringrazia i presuli “per la calorosa accoglienza” ricevuta, grato per il loro ministero in mezzo alla gente, tra fatiche e speranze, e per quella Chiesa “giovane, dinamica, gioiosa, animata dall’anelito missionario” vista in questi giorni. “Una Chiesa presente nella storia” del Paese, “protagonista di carità; una comunità capace di attrarre e contagiare con il suo entusiasmo”, ma il cui volto è “solcato dal dolore e dalla fatica, segnato a volte dalla paura e dallo scoraggiamento”, perché “Chiesa che soffre per il suo popolo” e “segno visibile del Cristo che, ancora oggi, viene rifiutato, condannato e disprezzato nei tanti crocifissi del mondo, e piange” le stesse lacrime degli uomini; lacrime che la Chiesa vuole asciugare “impegnandosi a prendere su di sé le ferite materiali e spirituali della gente”. (Ascolta il servizio con la voce del Papa)

Vedo Gesù sofferente nella storia di questo popolo crocifisso, popolo oppresso, sconvolto da una violenza che non risparmia, segnato dal dolore innocente, costretto a convivere con le acque torbide della corruzione e dell’ingiustizia che inquinano la società, e a patire in tanti suoi figli la povertà.

Ma nel Paese che definisce “‘cuore verde’ dell’Africa”, Francesco vede pure “un popolo che non ha perso la speranza, che abbraccia con entusiasmo la fede e guarda ai suoi Pastori”, che sa affidarsi al Signore per ottenere il dono della pace, “soffocata dallo sfruttamento, da egoismi di parte, dai veleni dei conflitti e delle verità manipolate”. (Tiziana Campisi – Vatican News - 3  febbraio 2023)

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Treviso,  13 gennaio 2023

Annunciare Cristo secondo Joseph Ratzinger        

«La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana». Fu questo il titolo della XIII Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi, l’ultima a cui Benedetto XVI prese parte come Pontefice. Dai lavori di quella assise ecclesiale uscirono anche riflessioni e spunti poi disseminati nella Esortazione apostolica Evangelii Gaudium, il documento magisteriale più importante di Papa Francesco.

  

Quello della missione e della sollecitudine apostolica nell’annuncio del Vangelo è il filo rosso di contuità più intenso e appassionante che attraversa il pontificato di Papa Francesco e quello del suo predecessore.

  

Nel 2011, la “nuova evangelizzazione” era stata al centro dell’annuale incontro dello Schülerkreis ratzingerino, il cenacolo di ex allievi che in quegli anni si ritrovavano ogni anno a Castel Gandolfo per riflettere insieme in un seminario a porte chiuse su un tema specifico, e rincontrare con l’occasione il loro ex professore.

Il futuro Pontefice aveva espresso lungo tutto il suo cammino spirituale e ecclesiale il suo sguardo sul nuovo dinamismo missionario che la Chiesa è chiamata a vivere nel tempo presente, segnato da profondi processi di scristianizzazione in terre di antica tradizione cristiana. Lo aveva fatto anche quando, da Cardinale Prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede, aveva pronunciato una lunga e articolata relazione il 10 dicembre dell’anno Duemila, intervenendo al Convegno dei catechisti e dei docenti di religione promosso a Roma dalla Congregazione per il Clero. Quel documento contiene spunti di impressionante e feconda attualità per riconoscere anche nel tempo presente la sorgente di ogni missione e opera apostolica, e i tratti imparagonabili che connotano il suo fiorire nel mondo, nel tempo presente.

  

LA TENTAZIONE DELL’IMPAZIENZA

Quela volta, il cardinale Ratzinger prese le mosse dalla parabola evangelica del Regno di Dio, paragonato da Gesù al granello di senape, che «è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami». Quando si parla di “nuova evangelizzazione” nei contesti in cui si è spenta la memoria cristiana – sottolineò il futuro Papa Benedetto XVI - occorre evitare innanzitutto «la tentazione dell'impazienza, la tentazione di cercare subito il grande successo, di cercare i grandi numeri». Questo secondo Ratzinger «non è il metodo di Dio», per il quale «vale sempre la parabola del grano di senape». Anche la nuova evangelizzazione «non può voler dire: attirare subito con nuovi metodi più raffinati le grandi masse allontanatesi dalla Chiesa». La storia stessa della Chiesa insegna che «le grandi cose cominciano sempre dal granello piccolo ed i movimenti di massa sono sempre effimeri».

  

SEGUIRE IL “METODO” DI DIO

La dinamica della testimonianza cristiana – suggeriva allora il Prefetto-teologo bavarese si riconosce perché ha come termine di confronto solo l'agire di Dio nella storia della Salvezza: «"Non perché sei grande ti ho eletto, al contrario - sei il più piccolo dei popoli; ti ho eletto, perché ti amo...” dice Dio al popolo di Israele nell'Antico Testamento, ed esprime così il paradosso fondamentale della storia della salvezza». Dio «non conta con i grandi numeri; il potere esteriore non è il segno della sua presenza. Gran parte delle parabole di Gesù indicano questa struttura dell'agire divino e rispondono così alle preoccupazioni dei discepoli, i quali si aspettavano ben altri successi e segni dal Messia - successi del tipo offerto da Satana al Signore».

  

Anche la diffusione del cristianesimo in epoca apostolica veniva allora ricondotta da Ratzinger alle parabole evangeliche dell’umiltà: «Certo, Paolo alla fine della sua vita ha avuto l'impressione di aver portato il Vangelo ai confini della terra, ma i cristiani erano piccole comunità disperse nel mondo, insignificanti secondo i criteri mondani. In realtà furono il germe che penetra dall'interno la pasta e portarono in sé il futuro del mondo».

  

Non si tratta di “allargare gli spazi” della Chiesa nel mondo. Notava Ratzinger nella sua relazione davanti ai catechisti: «Non cerchiamo ascolto per noi, non vogliamo aumentare il potere e l'estensione delle nostre istituzioni, ma vogliamo servire al bene delle persone e dell'umanità dando spazio a Colui che è la Vita. Questa espropriazione del proprio io offrendolo a Cristo per la salvezza degli uomini, è la condizione fondamentale del vero impegno per il Vangelo».

  

IL “CONTRASSEGNO” DELL’ANTICRISTO

I richiami proposti allora da Ratzinger riguardo alla natura propria della missione apostolica non erano ispirati da opportunismi tattici, ma alla necessaria conformazione di ogni attività apostolica alla dinamica e al mistero dell’incarnazione di Cristo. Una Chiesa autoreferenziale, che rimandasse solo a se stessa – suggeriva il futuro Successore di Pietro - sarebbe strumento di confusione e di contro-testimonianza, perché «Il contrassegno dell'Anticristo è il suo parlare nel proprio nome», mentre «il segno del Figlio è la sua comunione col Padre». Ratzinger diceva parole già allora illuminanti riguardo alla presunzione di confidare in maniera “trionfalista” nelle nuove strategie di comunicazione e marketing: «Tutti i metodi ragionevoli e moralmente accettabili – disse allora - sono da studiare. È un dovere far uso di queste possibilità di comunicazione. Ma le parole e tutta l'arte della comunicazione non possono guadagnare la persona umana in quella profondità, alla quale deve arrivare il Vangelo. (…). Non possiamo guadagnare noi gli uomini. Dobbiamo ottenerli da Dio per Dio».

     

MISSIONE E MARTIRIO

La conversione dei cuori è opera della grazia operante di Cristo. E attinge misteriosamente al mistero della Sua Passione. In un altro passaggio straordinario, il futuro Pontefice accennava con parole definitive al vincolo che unisce il tratto martiriale e quello missionario del cammino della Chiesa nella Storia. «Gesù» disse allora Joseph Ratzinger «non ha redento il mondo tramite parole belle, ma con la sua sofferenza e la sua morte. Questa sua passione è la fonte inesauribile di vita per il mondo; la passione dà forza alla sua parola». In maniera analoga, anche per San Paolo, primo grande “missionario”, «il successo della sua missione non fu frutto di una grande arte retorica o di prudenza pastorale; la fecondità fu legata alla sofferenza, alla comunione nella passione con Cristo». I testimoni sono quelli «che completano "quello che manca ai patimenti di Cristo" (Col 1, 24). In tutti i periodi della storia si è sempre di nuovo verificata la parola di Tertulliano: È un seme il sangue dei martiri. Sant'Agostino dice lo stesso in modo molto bello, interpretando il Vangelo di Giovanni, nel passaggio dove la profezia del martirio di Pietro e il mandato di pascere, cioè l'istituzione del suo primato sono intimamente connessi». Per tutto questo, «Non possiamo dare vita ad altri, senza dare la nostra vita. Il processo di espropriazione sopra indicato è la forma concreta (espressa in tante forme diverse) di dare la propria vita. E pensiamo alla parola del Salvatore: "...chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà...».

  

DI ESPERIENZA IN ESPERIENZA

In un’altra occasione, predicando nel 1986 gli esercizi spirituali ai sacerdoti di Comunione e Liberazione, l’allora cardinale Joseph Ratzinger aveva già riproposto come sorgente di ogni autentica dinamica evangelizzatrice l’attrattiva della grazia, operata da Cristo stesso.

In quell’occasione, Ratzinger ricordò che «la Chiesa antica, dopo la fine del tempo apostolico, sviluppò come Chiesa un’attività missionaria relativamente ridotta, non aveva nessuna strategia propria per l’annuncio della fede ai pagani, e ciononostante il suo tempo divenne il periodo del più grande successo missionario. La conversione del mondo antico» sottolineò Ratzinger «non fu il risultato di un’attività ecclesiale pianificata, bensì il frutto della verifica della fede, verifica divenuta visibile nella vita dei cristiani e nella comunità della Chiesa. L’invito concreto da esperienza ad esperienza e nient’altro fu, umanamente parlando, la forza missionaria della Chiesa antica. Viceversa l’apostasia dell’età moderna si fonda sulla caduta di verifica della fede nella vita dei cristiani. (…) la nuova evangelizzazione, di cui abbiamo tanto bisogno, non la realizziamo con teorie astutamente escogitate: l’insuccesso catastrofico della catechesi moderna è fin troppo evidente. Soltanto l’intreccio tra una verità in sé conseguente e la garanzia nella vita di questa verità può far brillare quell’evidenza della fede attesa dal cuore umano; solo attraverso questa porta lo Spirito Santo entra nel mondo». 

Gianni Valente - Agenzia Fides 3/1/2023

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Treviso, 9-10 gennaio 2023

Benedetto XVI missionario (2)


Messaggio per la 80° Giornata Missionaria Mondiale


L'amore è il movente della missione


...

« 3. Alla vigilia della sua passione Gesù lasciò come testamento ai discepoli, raccolti nel Cenacolo per celebrare la Pasqua, il "comandamento nuovo dell'amore - mandatum novum": "Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri" (Gv 15,17). L'amore fraterno che il Signore chiede ai suoi "amici" ha la sua sorgente nell'amore paterno di Dio. Osserva l'apostolo Giovanni: "Chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio" (1 Gv 4,7).

Dunque, per amare secondo Dio occorre vivere in Lui e di Lui: è Dio la prima "casa" dell'uomo e solo chi in Lui dimora arde di un fuoco di divina carità in grado di "incendiare" il mondo. Non è forse questa la missione della Chiesa in ogni tempo? Non è allora difficile comprendere che l'autentica sollecitudine missionaria, primario impegno della Comunità ecclesiale, è legata alla fedeltà all'amore divino, e questo vale per ogni singolo cristiano, per ogni comunità locale, per le Chiese particolari e per l'intero Popolo di Dio. Proprio dalla consapevolezza di questa comune missione prende vigore la generosa disponibilità dei discepoli di Cristo a realizzare opere di promozione umana e spirituale che testimoniano, come scriveva l'amato Giovanni Paolo II nell'Enciclica Redemptoris missio, "l'anima di tutta l'attività missionaria: l'amore che è e resta il movente della missione, ed è anche l'unico criterio secondo cui tutto deve essere fatto o non fatto, cambiato o non cambiato. È il principio che deve dirigere ogni azione e il fine a cui essa deve tendere. Quando si agisce con riguardo alla carità o ispirati dalla carità, nulla è disdicevole e tutto è buono" (n. 60). Essere missionari significa allora amare Dio con tutto se stessi sino a dare, se necessario, anche la vita per Lui. Quanti sacerdoti, religiosi, religiose e laici, pure in questi nostri tempi, Gli hanno reso la suprema testimonianza di amore con il martirio! Essere missionari è chinarsi, come il buon Samaritano, sulle necessità di tutti, specialmente dei più poveri e bisognosi, perché chi ama con il cuore di Cristo non cerca il proprio interesse, ma unicamente la gloria del Padre e il bene del prossimo. Sta qui il segreto della fecondità apostolica dell'azione missionaria, che travalica le frontiere e le culture, raggiunge i popoli e si diffonde fino agli estremi confini del mondo. »


Sostegno dell'azione di quanti sono in prima linea alle frontiere missionarie


« 4. Cari fratelli e sorelle, la Giornata Missionaria Mondiale sia utile occasione per comprendere sempre meglio che la testimonianza dell'amore, anima della missione,

concerne tutti. Servire il Vangelo non va infatti considerata un'avventura solitaria, ma impegno condiviso di ogni comunità. Accanto a coloro che sono in prima linea sulle frontiere dell'evangelizzazione - e penso qui con riconoscenza ai missionari e alle missionarie - molti altri, bambini, giovani e adulti con la preghiera e la loro cooperazione in diversi modi contribuiscono alla diffusione del Regno di Dio sulla terra.

L'auspicio è che questa compartecipazione cresca sempre più grazie all'apporto di tutti. Colgo volentieri questa circostanza per manifestare la mia gratitudine alla Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli ed alle Pontificie Opere Missionarie [PP.OO.MM.], che con dedizione coordinano gli sforzi dispiegati in ogni parte del mondo a sostegno dell'azione di quanti sono in prima linea alle frontiere missionarie. La Vergine Maria, che con la sua presenza presso la Croce e la sua preghiera nel Cenacolo ha collaborato attivamente agli inizi della missione ecclesiale, sostenga la loro azione ed aiuti i credenti in Cristo ad essere sempre più capaci di vero amore, perché in un mondo spiritualmente assetato diventino sorgente di acqua viva. Questo auspicio formulo di cuore, mentre invio a tutti la mia Benedizione. »

 

Dal Vaticano, 29 Aprile 2006  

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Treviso, 3-6 gennaio 2023

Benedetto XVI missionario (1)


Proclamare al mondo intero la presenza viva di Cristo

La mattina del 20 aprile 2005, al termine della prima Concelebrazione Eucaristica da Pontefice, Benedetto XVI ai Cardinali riuniti in Conclave ha letto un Messaggio in lingua latina dove ha illustrato il programma del pontificato, sottolineando tra l’altro l’importanza dell’unità del Collegio apostolico, che “è a servizio della Chiesa e dell’unità nella fede, dalla quale dipende in notevole misura l’efficacia dell’azione evangelizzatrice nel mondo contemporaneo. Su questo sentiero, pertanto, sul quale hanno avanzato i miei venerati Predecessori, intendo proseguire anch’io, unicamente preoccupato di proclamare al mondo intero la presenza viva di CristoNell’intraprendere il suo ministero, il nuovo Papa sa che suo compito è di far risplendere davanti agli uomini e alle donne di oggi la luce di Cristo: non la propria luce, ma quella di Cristo”.

Nella Messa per l’inizio del suo Ministero Petrino, celebrata in piazza San Pietro il 24 aprile 2005, Benedetto XVI ricordò che “Anche oggi viene detto alla Chiesa e ai successori degli apostoli di prendere il largo nel mare della storia e di gettare le reti, per conquistare gli uomini al Vangelo – a Dio, a Cristo, alla vera vita”. “Noi esistiamo per mostrare Dio agli uomini. E solo laddove si vede Dio, comincia veramente la vita. Solo quando incontriamo in Cristo il Dio vivente, noi conosciamo che cosa è la vita… Non vi è niente di più bello che essere raggiunti, sorpresi dal Vangelo, da Cristo. Non vi è niente di più bello che conoscere Lui e comunicare agli altri l’amicizia con lui”. 

Il giorno seguente, 25 aprile 2005, Benedetto XVI si è recato nella Basilica di San Paolo sulla via Ostiense, al sepolcro dell’Apostolo Paolo, “alle radici della missione”. Benedetto XVI ha ricordato l’esempio del suo “amato e venerato predecessore Giovanni Paolo II, un Papa missionario, la cui attività così intensa, testimoniata da oltre cento viaggi apostolici oltre i confini d’Italia, è davvero inimitabile”, ed ha chiesto al Signore di alimentare anche in Lui un simile amore, “perché non mi dia pace di fronte alle urgenze dell’annuncio evangelico nel mondo di oggi”. Dopo aver citato il Decreto “Ad gentes” che il Concilio Ecumenico Vaticano II ha dedicato all’attività missionaria, il Papa ha ribadito: “All’inizio del terzo millennio, la Chiesa sente con rinnovata vivezza che il mandato missionario di Cristo è più che mai attuale. Il Grande Giubileo del Duemila l’ha condotta a ‘ripartire da Cristo’, contemplato nella preghiera, perché la luce della sua verità sia irradiata a tutti gli uomini, anzitutto con la testimonianza della santità”.

(TRATTI DEL MAGISTERO MISSIONARIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI A CURA DI STEFANO LODIGIANI)


Chiesa in Africa, famiglia di Dio, molteplicità delle culture e dei linguaggi 

Omelia di domenica 25 ottobre 2009 come conclusione della VIII ASSEMBLEA SPECIALE PER L’AFRICA 

“Coraggio, alzati!”. Così quest’oggi il Signore della vita e della speranza si rivolge alla Chiesa e alle popolazioni africane, al termine di queste settimane di riflessione sinodale. Alzati, Chiesa in Africa, famiglia di Dio, perché ti chiama il Padre celeste che i tuoi antenati invocavano come Creatore, prima di conoscerne la vicinanza misericordiosa, rivelatasi nel suo Figlio unigenito, Gesù Cristo. Intraprendi il cammino di una nuova evangelizzazione con il coraggio che proviene dallo Spirito Santo. L’urgente azione evangelizzatrice, di cui molto si è parlato in questi giorni, comporta anche un appello pressante alla riconciliazione, condizione indispensabile per instaurare in Africa rapporti di giustizia tra gli uomini e per costruire una pace equa e duratura nel rispetto di ogni individuo e di ogni popolo; una pace che ha bisogno e si apre all’apporto di tutte le persone di buona volontà al di là delle rispettive appartenenze religiose, etniche, linguistiche, culturali e sociali. In tale impegnativa missione tu, Chiesa pellegrina nell’Africa del terzo millennio, non sei sola. Ti è vicina con la preghiera e la solidarietà fattiva tutta la Chiesa cattolica, e dal Cielo ti accompagnano i santi e le sante africani, che, con la vita talora sino al martirio, hanno testimoniato piena fedeltà a Cristo.

        

Coraggio! Alzati, Continente africano, terra che ha accolto il Salvatore del mondo quando da bambino dovette rifugiarsi con Giuseppe e Maria in Egitto per aver salva la vita dalla persecuzione del re Erode. Accogli con rinnovato entusiasmo l’annuncio del Vangelo perché il volto di Cristo possa illuminare con il suo splendore la molteplicità delle culture e dei linguaggi delle tue popolazioni. Mentre offre il pane della Parola e dell’Eucaristia, la Chiesa si impegna anche ad operare, con ogni mezzo disponibile, perché a nessun africano manchi il pane quotidiano. Per questo, insieme all’opera di primaria urgenza dell’evangelizzazione, i cristiani sono attivi negli interventi di promozione umana. 

La Vergine Maria… ottenga alla Chiesa in Africa di crescere in ogni parte di quel grande Continente, diffondendo dappertutto il “sale” e la “luce” del Vangelo.


L’Africa e la gioia di vivere

"Nonostante le sofferenze e la povertà, in Africa c'è una gioia di vivere. È la gioia di essere una creatura umana: essere uomo è essere amato da Dio": così, Benedetto XVI, tornato dalla visita apostolica in Benin, nel novembre 2011, aveva raccontato ciò che aveva visto in quel viaggio. Oggi, nel giorno della nascita al Cielo di Papa Ratzinger, desideriamo ricordarlo con queste sue parole.

"Sono stato molto felice per l'accoglienza da parte degli africani - aveva detto ancora Papa Benedetto - hanno mostrato una cordialità che in Europa è un po' oscurata: abbiamo tante cose che rendono un po' duro il cuore".

Tra i tanti momenti della visita in Benin, c’era stato anche un breve incontro, davanti alla nunziatura apostolica di Cotonou, con Alpidio Balbo ed una delegazione del GMM “Un pozzo per la vita”. Quella visita, ricorda oggi il fondatore del GMM, è stata “un grande dono per la Chiesa del Benin e per una popolazione provata dalle privazioni, ma, come aveva colto Papa Benedetto, piena di vita e ricca di potenzialità. Era stato un grande dono anche per noi del GMM, che avevamo avuto la gioia di incontrarlo così come il suo pontificato è stato un grande dono per l’intera Chiesa”.


Messaggio del Papa Benedetto XVI per la 80° Giornata Missionaria Mondiale

« Cari fratelli e sorelle!

1. La Giornata Missionaria Mondiale, che celebreremo domenica 22 ottobre 2006 offre l'opportunità di riflettere quest'anno sul tema: "La carità, anima della missione". La missione se non è orientata dalla carità, se non scaturisce cioè da un profondo atto di amore divino, rischia di ridursi a mera attività filantropica" e sociale. L'amore che Dio nutre per ogni persona costituisce, infatti, il cuore dell'esperienza e dell'annunzio del Vangelo, e quanti l'accolgono ne diventano a loro volta testimoni. L'amore di Dio che dà vita al mondo è l'amore che ci è stato donato in Gesù, Parola di salvezza, icona perfetta della misericordia del Padre celeste. Il messaggio salvifico si potrebbe ben sintetizzare allora nelle parole dell'evangelista Giovanni: "In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimola vita per lui" (1 Gv 4,9). Il mandato di diffondere l'annunzio di questo amore fu affidato da Gesù agli Apostoli dopo la sua risurrezione, e gli Apostoli, interiormente trasformati il giorno della Pentecoste dalla potenza dello Spirito Santo, iniziarono a rendere testimonianza al Signore morto e risorto. Da allora, la Chiesa continua questa stessa missione, che costituisce per tutti i credenti un impegno irrinunciabile e permanente. »

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