Bangladesh: terra di disperazione o di speranza?

p. Silvano Garello

Bangladesh: terra di disperazione o di speranza?

Tratto dal volume "Fascino di terre lontane" di Folco Quilici


Sommario



Prefazione

Il Bangladesh è una giovane nazione indipendente del sud est asiatico attraversata dalla linea del Tropico del Cancro. Il suo segno di riconoscimento è costituito dal delta del Gange.

"La polvere delle strade del mio paese è più pura dell'oro": questo antico detto bengalese mette bene in luce una nota dominante del popolo bengalese: l'amore sviscerato per la propria terra.

A dispetto di calamità naturali tremende, come alluvioni, cicloni, siccità e carestie, il Bengalese non rinnegherà mai le proprie radici ed i propri sogni di grandezza.

Nella bandiera del Bangladesh campeggia un sole rosso su uno sfondo verde-cupo, a rappresentare le verdi distese delle sue pianure ed il sole color sangue dell'alba, inizio di un nuovo giorno.

Il Padre della patria, Sheik Muilbur Rahman, rimettendo piede sul suolo del Bangladesh libero, dopo dieci mesi di prigionia in Pakistan, il 17 gennaio 1972 annunciava solennemente: "Ora dobbiamo realizzare quei sogno del Bengala dorato che abbiamo per lungo tempo coltivato".

Senza questo forte idealismo il Bangladesh resta incomprensibile.

Sonar Bangla, Bengala dorato

Fino al 1947 la sua storia fa parte della storia della grande madre India, culla di una possente civiltà e delle religioni indù e buddista. Dal 1947 ai 1971 è chiamato Pakistan orientale.

Bisogna però dire subito che il Bengala aveva sviluppato delle Caratteristiche che lo hanno sempre differenziato nell'ambito del sub-continente indiano. Il fertilissimo delta del Gange, abitato dapprima dagli Austro-Asiatici e dai Dravidi, fu invaso successivamente dagli Ariani dell'Asia centrale, poi dai Mongoli, Arabi, Armeni, Persiani, Turchi, Afgani e Portoghesi, senza parlare del 200 anni di dominazione inglese. Si tratta di 5.000 anni di mescolanze razziali.

Lungo la storia qui si sono alternate la predominanza dell'induismo, del buddismo e dell'islam: le grandi religioni che ora convivono con la minoranza cristiana.

Forse tutto questo è riuscito a plasmare un carattere ricco di sfumature, capace di contemplazione idillica della natura, di cordiale accoglienza del diverso ed assetato di indipendenza. Il Bengalese ha un cuore pacifico ed indomabile: un contrasto evidenziato anche dai colori rosso e verde della sua bandiera.

Per uno straniero l'incontro con un Bengalese sarà sempre all'insegna della simpatia più accattivante e dell'imprevedibilità più sconcertante. Nella mia piccola esperienza molte volte mi sono trovato di fronte ad una sintesi tra il calore canoro dei nostri napoletani e l'ardore generoso dei nostri romagnoli.

Non deve destare meraviglia che, alla sua nascita, il Bangladesh abbia scelto come inno nazionale un canto musicato dal grande Bengalese, Robindronath Tagore (1861-1941) detto il "poeta universale", il quale ricevette nel 1913 il Premio Nobel per la letteratura.

Il canto dice:

O mio Bengala dorato, per te è il mio amore!

Incessantemente il tuo cielo, la tua brezza

fanno vibrare il mio flauto interiore.

O Madre, a primavera la fragranza dei tuoi boschetti di mango

mi fa delirare come un pazzo:

ah, mi sento morire!

O Madre, in autunno nei tuoi campi gonfi di messi

quali dolci sorrisi ho mai visto.

Quali luci ed ombre, quali tenerezze e melanconie,

quali coltri hai steso sotto i banian

e lungo le rive dei fiumi.

O Madre mia, ogni parola che esce dalla tua bocca

è come ambrosia al mio orecchio:

ah, mi sento morire!

o Madre, se il tuo volto si copre d'un velo di tristezza

allora, o Madre, i miei occhi si riempiono di pianto.


La scelta di questo inno nazionale può rivelare un ripiegamento nostalgico verso il passato pur glorioso ed una trepidazione verso il difficile cammino che il paese deve affrontare. Ma non è così.

Il Bengalese ci tiene a dire: "Abbiamo sofferto molto in passato. Siamo stati derubati e traditi... ma la nostra terra non ci ha mai tradito".

Questa fedeltà della terra è sentita come un bene impagabile ed inalienabile su cui è possibile costruire, come sulla sponda lasciata intatta dal fiume in piena.

Il Bangladesh porta ancora le ferite di due grandi erosioni storiche: la colonizzazione inglese e l'esperimento pakistano.

Il grande Bengala del secolo XVIII prosperava grazie ad un'economia differenziata: riso, pesce, canna da zucchero, cotone. I suoi 15 milioni di abitanti dicevano: "La terra, l'acqua, i frutti ed i fiori di questo paese saziano la nostra fame e la nostra sete e ci nutrono come se prendessimo latte".

La soffocazione dell'industria tessile locale da parte degli inglesi e l'imposizione di altre colture come l'indaco e la juta provocarono scompensi irreparabili.

Il prezzo dell'indipendenza

Con il contributo decisivo del Mahatma Gandhi, nel 1947 fu posta la parola fine alla dominazione inglese in India. Il grande Bengala venne diviso. Ci fu un grande spostamento di masse: gli indù guardavano a Calcutta ed i musulmani a Dacca. Il Bengala orientale venne aggiogato ai sogno di Ali Jinnah che aveva voluto, con tutte le sue forze, creare una madre patria per i musulmani, e cioè il Pakistan, la terra dei puri.

Un altro poeta bengalese, il musulmano Nazrul Islam (1899-1975), detto "il poeta ribelle", prestò la sua lira per cantare la nascita della nuova nazione e per ispirarne il cammino di rinnovamento sociale.

Il Pakistan nasceva però come un assurdo geografico, diviso in due blocchi: il Pakistan occidentale con capitale Karachi era separato del Pakistan orientale da quasi 2.000 chilometri.

Fin dai primi giorni il bengalese Maulana Abui Kalam Azad faceva queste fosche previsioni: "Sembra che il signor Ali Jinnah ed i suoi seguaci non si rendano per nulla conto che la geografia è contro di loro. Queste due regioni non hanno punti di contatto. La gente di queste due zone sono diverse tra loro sotto tutti i punti di vista, eccetto che per la grande frode perpetrata a danno di due popoli per la quale si è fatto loro credere che l'affinità religiosa possa unirli, a dispetto delle diversità geografiche, economiche, linguistiche e culturali.

Nessuno può ragionevolmente sperare che il Pakistan orientale ed occidentale arrivino a ricomporre le loro differenze e formino un'unica nazione".

Ben presto lo stesso legame della religione divenne strumento per gravare il giogo. I Bengalesi venivano considerati dai Pakistani come "musulmani di seconda classe".

Quasi non bastasse la dominazione economica così marcata da far preferire la dominazione inglese, il Pakistan occidentale tentò di imporre ai Bengalesi la lingua urdu come lingua nazionale. Il 21febbraio 1952 gli studenti dell'università di medicina di Dacca scesero in piazza per protestare contro questo insulto perpetrato contro la loro madre lingua. Sotto le pallottole dei soldati pakistani caddero i primi martiri: ShafiQur Rahman, Abdul Jabbar, Abui Barkat, Rafikuddin ed altri.

Dopo appena tre giorni, sul luogo veniva eretto il primo Shaheed Minar il monumento dei martiri della lingua bengalese, che oggi si vede un po' ovunque nelle piazze principali e davanti alle scuole del Bangladesh.

Questo monumento è diventato il simbolo della capacità di sacrificio per l'ideale del popolo bengalese. A piedi scalzi, ho partecipato anch'io con i seminaristi di Khulna alla processione notturna al Shaheed Minar. Il silenzio della notte era rotto dalle note struggenti di un canto che diceva: "Posso io dimenticare il sangue dei miei fratelli sparso il 21 febbraio?". Avevamo appena deposto la nostra ghirlanda di fiori, quando alcuni studenti, stupiti per la mia presenza, si slanciarono a stringermi la mano e ad abbracciarmi. In quel momento provai anch'io la gioia di poter parlare una lingua così amata e sentii tutta la verità dei versi della poetessa Sofia Kamal:

"La lingua è fiorita in bocca,

gli eroi fanno risuonare un canto:

nel cippo dei martiri il Bengalese

ha scoperto una direzione da seguire".

Il poeta Shamsur Rahman ha visto nella camicia insanguinata di Ashad garrire al vento la "bandiera dell'anima" del suo paese. "Quello straccio umano ne copre le debolezze, le vigliaccherie, l'ignominia e le vergogne". Non è retorica affermare che il 21 febbraio 1952 è risuonato il primo squillo di tromba che preconizzò la nascita del Bangladesh.

L'esperimento pakistano si concluse per i Bengalesi con una guerra che ebbe tutti i toni del genocidio. Per avere il comando sulle proprie risorse e per uscire dal circolo vizioso della propria povertà il Pakistan orientale aveva chiesto maggiore indipendenza economica e politica. La rivendicazione di una legittima autonomia regionale, sanzionata dal verdetto plebiscitario di libere elezioni, fu repressa nel sangue il 25 marzo 1971, prendendo come primo obiettivo la classe intellettuale. Il massacro di professori e studenti dell'università di Dacca segnò l'inizio di una caccia all'uomo. Il giornalista Antony Mascarenas ebbe a dire: "Questa è una guerra tra il puro e l'impuro". Anche i villaggi più remoti conobbero atrocità, incendi e vendette. lI 5 aprile 1971, domenica delle Palme, la comunità cristiana di Jessore cominciò la sua dolorosa settimana di Passione. Un drappello di soldati pakistani, entrati nel recinto della chiesa cattolica, abbatterono con una fucilata al petto il P. Mario Veronesi che stava per andare a celebrare la Messa. Egli portava ancora sul braccio la fascetta della croce rossa perché si era appena prestato a far ricoverare nel Fatima Hospital una malata con un braccio in cancrena. Nella loro furia devastatrice i soldati entrarono anche in chiesa, dove uccisero altri cinque cristiani. P. Mario era stramazzato al suolo con le braccia spalancate, come un crocefisso. Il fiotto di sangue che uscì dal suo cuore trafitto impregnò la terra bengalese. Questa immagine estrema di P. Mario resterà incancellabile nel cuore della gente abituata all'eloquenza del gesto. Cristiani, indù e musulmani vanno ancor oggi in pellegrinaggio sulla sua tomba e parlano di lui come di un eroe nazionale.

Come si ricorda la dichiarazione dell'indipendenza avvenuta il 10 aprile 1971 sotto un boschetto di mango, l'esodo in India di 10 milioni di rifugiati e la gioia della vittoria del 16 dicembre 1971, così anche il sacrificio di P. Mario è divenuto come una memoria sacra integrata nella storia di liberazione del Bangladesh.

Dire Bangladesh libero significa oggi parlare di una repubblica popolare basata sulla fede in Dio, il nazionalismo, la democrazia ed il socialismo. Significa in concreto una popolazione di quasi 100 milioni di abitanti che vivono in un territorio di appena 143.998 kmq. Significa una massa enorme di problemi: povertà di risorse naturali, malnutrizione moderata al 50% e malnutrizione grave al 5%; il 75% di analfabetismo; il 30% di disoccupazione; un ricorrente stato di emergenza dovuto alle calamità naturali; un'esplosione demografica incontenibile, tanto da far prevedere per il 2.000 i 160 milioni di abitanti.

Per molti il Bangladesh è il quarto mondo, il paese-campione dei problemi mondiali portati al parossismo, una sfida quotidiana alla speranza. Proprio la speranza è la zattera che tiene a galla il Bangladesh.

Il villaggio: cuore del Bangladesh

In Bangladesh il 90% della popolazione vive nella campagna. Il paese conta 68.000 villaggi. Se il villaggio vive è il Bangladesh che vive. Quando la vita nel villaggio diventa impossibile la gente scappa in città col suo fagotto. Molto spesso questo è l'inizio della disintegrazione del nucleo familiare, di un penoso anonimato, di una lotta esasperata per la vita.

Prima di decidersi a fare questo passo la gente ci pensa molto. La città ha il suo miraggio, è vero; ma il villaggio natale tiene legato il cuore con tanti fili invisibili che è impossibile spezzare senza dolore. Qui tutti hanno succhiato, come dal seno di una madre, i frutti squisiti della terra, l'acqua dolce raccolta negli stagni artificiali, i profumi che impregnano l'aria. Qui l'alternarsi delle sei stagioni è sentito come una musica ed una danza travolgente che spezza la monotonia del lavoro e ritma i giochi dei bambini.

Crissokal, l'estate (da metà aprile a metà giugno) porta con sé temporali violenti che danno breve ristoro alla calura umidiccia, ma porta anche bellissimi fiori come il rosso-arancione khrisno-chora e frutta prelibata come il mango ed i lioni.

Bursakal o stagione del monsone (da metà giugno a metà agosto) non porta solo muffa ed insetti fastidiosi, ma anche il verde nei campi di riso.

La stagione autunnale è detta Shorotkal (da metà agosto a metà ottobre): è il tempo delle messi e dei tramonti cangianti che sembrano acquerelli.

Hemontokal o stagione delle rugiade (da metà ottobre a metà dicembre) porta dal nord i primi venticelli rinfrescanti, ma talvolta anche disastrosi cicloni.

Shitkal è l'inverno (da metà dicembre a metà febbraio), il tempo preferito dai turisti che vengono in Bangladesh. Anche le scolaresche approfittano di questo periodo mite ed asciutto per fare i loro pic-nic nelle località storiche del paese, nel Sunderbon la famosa foresta della tigre o semplicemente in campagna.

La primavera, Boshontokal (da metà febbraio a metà aprile) fa esplodere la vegetazione, gli uccelli ed anche gli uomini che preferiscono questa stagione per celebrare i matrimoni. Allora lungo le rive dei fiumi si snodano i cortei accompagnati da piccole orchestre ed i sari rossi delle spose animati dalla brezza gareggiano con i colori e l'euforia della natura.

Chi vive nel villaggio ha imparato a leggere con emozione rinnovata il libro che la natura scrive, stagione dopo stagione, sulla terra variopinta. Essa è come una coltre ricamata pazientemente dalle donne durante le lunghe soste sotto la veranda durante la stagione delle piogge. Tra le abili mani delle donne la più umile stoffa prende colore e si anima in disegni geometrici, arabeschi, scene di vita quotidiana o personaggi delle fiabe. Queste trapunte daranno tepore e vivacità alle culle dei neonati e rallegreranno anche i letti di legno su cui sognano i grandi. I contadini sogneranno naturalmente distese di riso, il dono prezioso che la natura non si stanca mai di elargire.

L'isolamento e la routine della vita di villaggio vengono rotti dal periodico bazar, il mercato situato per lo più lungo i fiumi che sono tuttora le vie maestre per il trasporto delle mercanzie. Tutti cercano di portare qualcosa da scambiare nella speranza di poter comperare ciò che occorre: riso, carne, pesce, frutta e verdura, vestiti, utensili, giocattoli per bambini e ciondoli per le donne, un romanzo breve di Sorot Chondro, batterie per la radio portatile.

Quando scende la sera, il vento porta di villaggio in villaggio le serenate del flauto, il rullare dei tamburi di qualche puja indù o il grido lancinante del muezzin che invita alla preghiera. Le comuni gioie, gli affanni e la fatica si placano in un silenzio meditativo ed in un discorrere quieto.

Josim Uddin (1903-1976), detto "il poeta del villaggio", nei suoi poemetti esalta molto spesso la fraternità che esiste nei villaggio dove vivono mescolati indù e musulmani. Dopo aver lavorato Insieme, costoro accettano cordialmente le rispettive feste e mescolano insieme anche i dolori.

"Come la mamma musulmana accetta

li dolore della morte del suo bambino,

sotto la pianta dei 'tulsi'

della mamma indù brilla la lampada.

E quando la sposa indù si affligge

davanti alla pira del marito morto

e sulla panchina della cremazione

lascia il 'sonkho' ed il 'sindur',

Il dolore dell'amica musulmana

non è minore degli stessi parenti:

batte egualmente al cuore

della indù e della musulmana

sia il dolore che dorme nella tomba

che la pena che brucia sulla pira.

Dove hanno imparato tutto questo?

V'assicuro che non hanno trovato

ispirazione per questo

nè leggendo il Corano,

nè meditando i Purana.

Sul loro capo pende la stessa meraviglia

dell'azzurro del cielo infinito

e spira su loro la stessa brezza

fresca dell'ombra della foresta.

La loro terra ha la stessa pendenza;

e l'acqua della pioggia scorre

gorgogliando nella stessa direzione.

Come i raggi della luna

entrano attraverso le fessure

dentro la capanna musulmana

così la stessa luna eternamente gioca

attraverso la siepe del cortile indù.

Come tutti condividono le stesse pene,

così le onde di gioia d'una capanna

arrivano alle altre capanne".

(da `Zingaro Sugion", traduz. M. Rigon)

Ma bisogna pur dirlo che, di tanto in tanto, quest'idillio viene spezzato dal sopruso di qualche prepotente o da una catena miserevole di vendette. Passato l'uragano, si ricompone il tranquillo scorrere della vita.

Acqua amica e nemica

In Bangladesh i sentieri della campagna conducono spesso al fiume, dove si trova una barca per traghettare. Il fiume è la grande via che, con procedere sinuoso, si snoda verso il mare, la pescosa Baia del Bengala.

Accondiscendere al movimento della corrente o risalirvi con fatica: questi sono i due movimenti che ritmano la vita del Bengalese. C'è sempre un confronto con l'acqua: sia che una famiglia passi all'altra sponda su una fragile barchetta o che dei pescatori affrontino l'uragano che sconquassa anche le grandi imbarcazioni; sia che dei ragazzi gettino speranzosi la loro rete a cerchio; sia che le donne vadano ad attingere acqua con le anfore; sia che i bambini si tuffino spensierati per il bagno quotidiano; sia che gli anziani contemplino estasiati le acque tranquille o guardino attoniti le acque turbinose che erodono le rive. L'acqua e l'uomo non cessano di guardarsi, di interrogarsi, di parlarsi.

I Bengalesi sanno per esperienza che la vita e la morte vengono dall'acqua. Ho letto anch'io nei loro occhi la festosa accoglienza alle prime piogge ed il terrore impotente davanti alle raffiche dell'uragano o alla corsa travolgente dell'alluvione. Ho ancora viva nella mente l'immagine di cadaveri di bambini abbandonati alla deriva su zattere di piante di banana dopo il terribile ciclone del 12 novembre 1970. Rivedo lo sguardo mesto degli indù che raccolgono le ceneri di un parente dal luogo della cremazione e le gettano nella corrente. Risento le grida eccitate della folla che preme sulle sponde del fiume per guardare la statua della dea Durga che viene immersa nelle acque.

In qualsiasi periodo dell'anno, basta uscire di casa per vedere un Bengalese immerso nell'acqua: nel fiume, nel canale o nel pukur. L'acqua o l'umidità è l'elemento che avvolge quasi di continuo il Bengalese.

In Bangladesh ci sono tre grandi fiumi che trasportano di continuo fertile humus e sabbia: il Gange, il Brahmaputra ed il Megnna. Ben 8.550 kmq. del paese sono coperti da fiumi, canali ed estuari. Le maree portano il loro influsso fino a 200 km. nell'interno. Lungo questi corsi d'acqua sono stati costruiti villaggi, città, palazzi che sono stati spazzati via senza lasciare traccia.

Dopo aver eroso ogni cosa fin dalle fondamenta alcuni fiumi hanno cambiato corso o si sono impaludati. Nelle paludi, tra gli azzurri giacinti e le alghe verdi, occhieggia il rosso sapla, il loto prescelto come fiore nazionale.

Al limitare della Baia del Bengala il terreno emerge di pochi centimetri sul livello del mare. Ma anche queste nuove terre, sempre precarie, sono prese d'assalto nella speranza di poter avere da esse almeno un raccolto di riso.

Lungo la storia i Bengalesi si sono sbizzarriti nel proporre vari tipi di barche adatte al trasporto di persone o mercanzie e perfino anche alla guerra. La gente di Barisal, Chittagong e Noakhali, desiderosa di commerciare o forse anche attratta dall'ignoto, si è spinta verso le Molucche, Ceylon (Sri Lanka, ndr), Sumatra e Malacca.

Nei villaggi distribuiti lungo i 500 km. del delta troviamo i tipi umani più ardimentosi, capaci di battersi fino in fondo per una causa.

La fatica dei poveri

I villaggi più remoti del Bangladesh tengono serrate in cuore pene inenarrabili. I menestrelli che passano di mercato in mercato raccontano vecchie storie ritessendole continuamente con quelle nuove che raccolgono nel loro peregrinare.

È vero che Dio ad ogni bocca ha dato due mani. Non occorre spendere molte parole per sfatare lo sciocco luogo comune che dice che i poveri in via di sviluppo non vogliono lavorare. Nelle stesse condizioni ambientali anche il nostro dinamismo occidentale si troverebbe a mal partito. I Bengalesi si lasciano scorticare la schiena dal sole e restano a lungo sotto la pioggia nel fango delle risaie. Rimangono nell'acqua a ripulire la juta, pescano, lavorano il legno e il bambù, scavano pukur, cuociono mattoni e vasellame, tessono, montano macchinari moderni... Dato il limite delle loro risorse, la loro sopravvivenza non finisce di stupire e mette sotto giudizio i nostri sprechi.

I Bengalesi non si arrendono facilmente alla fame, a quella che chiamano "la tigre nera". Per vederla in faccia basta guardare i vigorosi schizzi del pittore Zaimui Abedin sulla carestia del Bengala del 1943. Ma in alcuni periodi dell'anno quel famigerato 1943 torna a bussare alla porta.

La fame riappare in scena come una inseparabile compagna che si appiatta vicino alla capanna colpita da un'alluvione o da un'epidemia di colera. L'assedio diventa asfissiante. Comincia a mancare il lavoro nei campi. Nei negozietti non si fa più credito. Entrano quindi in scena gli usurai che mettono l'ipoteca sul campicello o sulle piante da frutta e si dicono disposti a fare un prestito ad altissimo interesse. Tante famiglie vanno alla deriva. C'è chi scappa, c'è chi comincia a mendicare, c'è chi si prostituisce. Come si può sopportare il singhiozzo sommesso dei bambini che vanno a dormire a stomaco vuoto?

Il Bangladesh talvolta è anche questo. Talora si creano delle emergenze così gravi che la gente non può affrontare da sola. Ma insieme si possono prevenire o arginare. E questa è la nuova direzione che si sta prendendo.

Ricordo uno di questi villaggi disperati. A Shimulia molti cristiani avevano svenduto la loro terra. Il vecchio mestiere di conciare le pelli aveva reso randagia una parte della popolazione ed aveva reso inviso all'ambiente circostante l'intero villaggio, con ardimento P. Valeriano Cobbe intraprese con la sua gente un cammino di auto-liberazione attraverso un lavoro dignitoso. Riscattò terreni ipotecati ed organizzò in cooperativa cristiani, musulmani e indù. Con l'aiuto esterno impostò una vasta rete di irrigazione facendo trivellare pozzi profondi. Il suo slogan era: mettere in esercizio le risorse dei poveri: essi sono forti se sono uniti.

A Shimulia si ebbero anche tre raccolti all'anno e la fame fu vinta. Sul volto della gente riapparve il sorriso.

Non contento di ciò, P. Valeriano volle che anche le donne partecipassero alla propria elevazione attraverso l'istruzione ed il lavoro artigianale. Il programma non fu perfetto in tutti i dettagli. Ma resta il fatto positivo che esso diede spinta al lavoro ed alla libera iniziativa, creò un ambiente di solidarietà interreligiosa e ruppe tante barriere di pregiudizio e di egoismo che prima si ergevano tra poveri e poveri.

Su questa linea resta memorabile anche l'iniziativa di Broder Flavian, un fratello missionario canadese, che mobilitò verso l'autosufficienza un intero villaggio di pescatori vicino a Chittagong.

Nuovo ruolo della donna

Nel Bangladesh si stanno moltiplicando un po' ovunque questi esperimenti di solidarietà tra i poveri, in essi c'è una novità: il ruolo che sta prendendo la donna. In un "paese di uomini", dove però ha grande valore la famiglia, la donna deve scoprire e vie segrete per raggiungere non solo la borsa ma specialmente il cuore del marito. Se è modesta, sottomessa, servizievole e soprattutto madre, si sente bene accettata e realizzata.

Secondo la tradizione bengalese, il matrimonio viene combinato tra le famiglie delle due parti servendosi di mediatori. Il consenso degli interessati viene alla fine e, normalmente, anche l'amore. Talvolta però la gelosia, l'impossibilità di sposare la persona amata, la freddezza del marito può spingere qualche donna dei villaggi ad impiccarsi o a prendere il veleno.

in Bangladesh solo il 14% delle donne sa leggere e scrivere. L'analfabetismo acuisce il loro isolamento e la dipendenza. In questo paese l'educazione è così fortemente orientata verso l'élite che per i poveri resta ancora un sogno proibito. Si comprende perciò facilmente come i programmi di educazione non formale per i poveri che ora vanno prendendo piede siano una condizione essenziale per la loro coscientizzazione, premessa della giustizia sociale. L'alfabetizzazione per adulti, dove tiene conto delle condizioni di vita dei partecipanti, diventa un forte stimolo al cambiamento sociale ed alla partecipazione. Le donne interessate a questi programmi mostrano subito che esse non hanno solo due mani per lavorare, ma hanno anche un cervello ed una sensibilità da valorizzare.

A questo proposito ricordo l'animazione di 6.000 donne di villaggio nel distretto di Jessore compiuta da una laica, Angela Gomes. Fattasi presente capillarmente anche nei villaggi più remoti essa ha potuto convincere le donne che per risolvere i loro problemi non occorreva abbandonare il villaggio.

Lunghe discussioni portarono alla individuazione delle comuni difficoltà e della loro soluzione. Prese così il via un'azione concordata per la propria istruzione e la costituzione di una cooperativa artigianale. Le donne del villaggio riportarono alla luce la tradizionale arte del ricamo, della creazione di giocattoli e di vasellame decorato. La richiesta di mercato dei loro prodotti diede slancio alle iniziative e comunicò una percezione più profonda del loro ruolo nella società. Anche le famiglie per cepirono benefici immediati come l'aumento del piccolo risparmio, il miglioramento della dieta e dell'igiene, l'incentivo a far studiare i propri figli.

Il Governo stesso ha preso atto di questo movimento che viene dal basso ed anche attraverso la stampa e la televisione comincia a dare risalto a queste piccole iniziative di autosviluppo proponendole come modelli facilmente imitabili.

Piccole e grandi virtù

Nel villaggio c'è la grande riserva spirituale che fa sperare in un nuovo Bangladesh. Qui il Bangladeshi esprime liberamente Il suo temperamento vivace, intelligente, amante del canto, della poesia e della danza. Gran lavoratore, semplice, timorato di Dio e quindi fiducioso in Lui, pur con una venatura di fatalismo ed anche di pessimismo. La grande dipendenza dalle forze naturali, ma anche la sua esperienza acquisita sui fiumi, in foresta, nella campagna ne hanno plasmato un carattere elastico e duttile, abile ad affrontare ogni situazione più ardua senza cedere in una disperazione paralizzante. Egli accetta tutto con calma. Dopo un uragano o un'alluvione egli ricostruisce la sua casa e la sua stessa esistenza.

Il suo spirito di osservazione, la buona memoria e la passione del raccontare lo hanno reso un instancabile narratore dei piccoli e grandi fatti della vita. Poeti, romanzieri, giornalisti sanno ricreare in storie emblematiche anche l'umile cronaca. In quasi tutti i villaggi c'è un club di poeti e scrittori che almeno per il 21 febbraio, a ricordo dei martiri della lingua bengalese, stampano raccolte di poesie, racconti e saggi.

Nonostante l'introduzione della radio e della televisione, nel villaggio ed anche in città resiste e prospera l'operetta popolare della jattra. La jattra ripropone vicende mitologiche indù o fatti storici dell'epoca mogul. La rappresentazione drammatica è intercalata da canti e danze. Normalmente lo spettacolo inizia a notte inoltrata e si prolunga fino all'alba. La gente sta seduta sotto grandi tende e si estasia del proprio passato fiabesco dimenticando un po' il travaglio quotidiano.

Nella vita ci sono altre occasioni per gustare qualcosa di bello e di buono: sono le feste religiose ed i matrimoni. I musulmani celebrano con solennità l'Eid-uI-Fitr che conclude il mese sacro del digiuno o Ramadan. Poi c'è il Korbani che ricorda il sacrificio dl Abramo ed il Muharran che rievoca la morte tragica del nobile Husain nella pianura di Karbala. In queste occasioni anche i poveri godono della festa, ricevendo offerte in denaro e dolciumi.

Nella società bengalese il Ramadan è apprezzato per il suo valore spirituale come richiamo al dominio di sé, alla purificazione dall'egoismo e dalla ricerca del piacere immediato e come invito ad attendere alla salvezza dell'anima.

Le celebrazioni indù dette puja, distribuite lungo tutti i mesi dell'anno lunare, sono pittoresche e suggestive.

Le maggiori feste musulmane o indù, come pure il Natale cristiano, costituiscono una buona occasione per far ritorno al villaggio d'origine, per rivedere parenti ed amici. La visita ai parenti ha un rituale preciso che esprime il debito di gratitudine che i giovani sentono verso le vecchie generazioni. I nuovi arrivati salutano sulla soglia di casa le persone più anziane con un inchino profondo e col gesto di mettersi sulla fronte la polvere dei loro piedi. Poi avviene la presentazione dei doni.

Tra i Bengalesi, l'ospitalità è sacra. Poco importa che uno sia occupato e che l'ospite sia anche un nemico: bisogna mettersi a sua disposizione, farlo sedere, dargli da mangiare ed intrattenerlo, magari facendogli fresco col ventaglio.

Le relazioni umane hanno un'importanza primaria. La cortesia, l'uso dell'espressione eufemistica che salva il buon nome, la pacatezza nel parlare, l'uso dei titoli appropriati alla persona, il rispetto per gli anziani, la capacità di serbare l'amicizia: queste sono virtù che vengono instillate fin dall'infanzia.

Per affrontare problemi difficili che potrebbero risolversi in uno scontro personale si ricorre spesso ad un mediatore, cioè ad una persona gradita alle due parti. Spesso solo dopo lunghe trattative possono concludersi serenamente dispute tra famiglie sorte per ragioni economiche o di prestigio. Ma quando non è possibile giungere al compromesso si ricorre al tribunale. La catena di casi e controcasi porta molte famiglie al disastro economico e fanno dell'avvocatura una delle professioni più redditizie.

Il gusto della parola fa apprezzare gli artisti da teatro, gli oratori politici ed i ciarlatani di piazza, ma può intrappolare la gente in discussioni interminabili. A volte può trattarsi di esibizionismo, a volte si vuol far valere fino in fondo il diritto democratico di esprimere il proprio parere.

Il Bengalese ama identificarsi col gruppo. Qui sente il suo ruolo e la sua protezione, come anche trova l'ardimento di fare qualcosa che esprima la sua solidarietà. Il gruppo può motivare la persona all'altruismo, ma talvolta anche a vendette sconsiderate e ad autentiche ingiustizie verso il debole.

Non è facile saper leggere le strutture di potere che regolano le società bangladeshi. Molti poveri non si accorgono neppure quanto sia ramificata la loro oppressione. Tuttavia anche tra coloro che si autodisprezzano sta facendosi strada un nuovo rispetto di sé basato sulla coscienza che la dignità della persona non si fonda sul potere economico.

La religione del cuore

Mi ha sempre favorevolmente impressionato vedere nelle moschee, dopo la preghiera di rito, gli uomini seduti a dialogare sui loro problemi. L'islam ha in sé un grande potenziale per fermentare la vita. Ma in Bangladesh non potrà porsi come unica forza di rinnovamento sociale, dato che qui ci troviamo di fronte ad una cultura stratificata che ha raccolto, in una simbiosi filtrata dal sentimento, tradizioni indù, buddiste, islamiche ed anche cristiane.

Basta notare che i maggiori poeti bengalesi hanno cercato di prospettare una società che fosse superiore alle comunità religiose particolari, senza differenze determinate dalla casta o dal credo religioso. E proprio per questo hanno avuto un'accoglienza universale.

Nella vita pratica l'animo tendenzialmente mistico del Bengalese mira non ad opporre ma a risolvere in unità gli elementi che potrebbero creare attrito e difficoltà.

Nell'ambito della cultura rurale, la religione ha raccolto accentuazioni interioristiche e pratiche di culti tantrici che cercano di cogliere la verità dell'universo attraverso il microcosmo del corpo dando risalto anche al culto della fertilità. La comunità esoterica dei Baul e quella del Nath Dharma hanno predicato che la radice della sofferenza umana è nel corpo che non si è purificato. Il poeta Baul Lalon Shah (1775-1820) giungerà a dire che la vera Mecca a cui bisogna fare pellegrinaggio è il cuore umano dove si è insediato Dio stesso che si è fatto amico. Nel cuore c'è il giardino dell'intimità divina. Anche colui che non può fare pellegrinaggio sa di poter contare sulle ali misteriose del suo cuore, come dice un canto di barcaioli:

"O vento orientale

soffia ad occidente verso la Kaaba

e porta i desideri di pace

di questo povero uomo".

L'anima bengalese è affascinata dalla ricerca del "cuore", della realtà mondana, dell'uomo e di Dio stesso. Di qui l'insistenza di tutte le religioni sulla pratica rigorosa degli stadi della vita spirituale. Per i sufi musulmani l'anima raggiunge "il cuore della rosa" attraverso i vari petali del distacco e della contemplazione. Vicino a Comilla, a Mainamati, si ergono le grandiose rovine di un monastero buddista costruito nell'VIII secolo dell'era cristiana. Esso incorpora anche un tempio che riprende lo schema del mandala, che è come un'illustrazione plastica dell'ascesa dell'anima verso il Nirvana superando le barriere dei sensi e delle forme. La tradizione indù del fiore di loto dai mille petali vede rappresentate le fasi del cammino spirituale: lo yoga dell'azione, della contemplazione e dell'amore.

Dove un pio musulmano canta il nome di Allah, o un gruppo di indù esegue il Bhojon che esalta il nome di Dio, o dei cristiani cantano Kirton di storie bibliche, là si raduna un pubblico eterogeneo, attirato dall'espressione emotiva di un'esperienza religiosa di cui nessuno mete in dubbio la sincerità. Questa base di rispetto reciproco verso le espressioni migliori delle varie religioni (e qui per il cristianesimo va ricordato in particolare il servizio disinteressato ai poveri) fa onore ai Bengalese.

C'è però da aggiungere che il "cambiare religione" suscita ancora molte resistenze: ciò comporta qualcosa come perdere la propria casa ed affrontare una scomunica sociale. Nonostante ciò c'è chi ha il coraggio di fare il passo della conversione perchè ha compreso che il cuore della religione è nella coscienza che si apre alla chiamata di Dio e non nel debito che bisogna pagare alla società che ci ha allevato. Chi ha scoperto in Gesù Cristo il vertice della propria ricerca religiosa ed il principio dinamico della trasformazione della realtà affronta anche il rischio dell'ostracismo.

Se non vengono strumentalizzate dalla politica, le religioni che convivono in Bangladesh possono avere un ruolo di pacificazione sociale ed anche di trasformazione. Del resto i problemi umani del paese sono così gravi che solo la religione potrà sostenere il forte idealismo morale richiesto. Nella generale crisi dei valori sarebbe triste che il Bangladesh venisse a dubitare della forza rinnovatrice della religione, non come religione di stato ma come religione delle libere coscienze.

Esploderà la disperazione o la speranza?

Nei riguardi del Bangladesh nessun futurologo azzarda previsioni. Seduti al suo capezzale alcuni specialisti stanno a guardare, nell'atteggiamento della resa: ogni rimedio è inutile. Altri propongono drastiche cure senza consultare l'ammalato, come se si trattasse di una cavia: limitazione delle nascite ad oltranza, immissione massiccia del surplus mondiale di cibo. C'è chi arriva ad ipotizzare una grande emigrazione (nuovi boat people!) alla ricerca di un lembo di terra ospitale.

Non è semplice far decollare il Bangladesh. Ogni programmazione quinquennale si scontra col problema del riso quotidiano. La "rivoluzione verde", generalmente parlando, ha avvantaggiato più i possidenti che i poveri. Il progetto di distribuire la terra a chi la lavora non può dimenticare che il Bangladesh non ha terra bastante. L'esportazione della juta è poco competitiva a causa delle materie plastiche. Il Bangladesh rischia quindi di essere condizionato dal complesso del mendicante che crede di non aver nulla da fare. Cedere a tale complesso sarebbe come cedere alla disperazione o ipotizzare una rivoluzione cruenta.

Le strutture ingiuste non si cambiano al tocco di bacchetta magica di una rivoluzione. Se non cambia il cuore dell'uomo non c'è speranza, ma se cambia c'è speranza. Il Bangladesh sta raccogliendo tutte le sue forze per essere se stesso, per spezzare l'inerzia, per trarre dal suo popolo non l'autocommiserazione ma l'amore.

Nel 1904 il poeta R. Tagore scriveva delle parole ancora attuali: "Non si deve dimenticare che ogni nazione fa parte dell'umanità ed è tenuta a rispondere a questa domanda: `Che cosa hai offerto all'uomo, quali sono le nuove vie che hai scoperto per la sua felicità?' Quando una nazione perde la forza vitale che le permette di fare tali scoperte, essa diventa un peso morto, un arto paralizzato del corpo universale. Non basta esistere semplicemente; esistere non è gloria". lo credo che il nuovo Ban gladesh possa dire una parola originale per la felicità dell'uomo, proprio partendo dalla sua povertà. Ogni sviluppo ha il suo inizio ed il suo fine nell'uomo. È l'uomo con la sua dignità e le sue capacità creative che deve nascere e crescere in una famiglia. È l'uomo come uomo, cioè libero e non alienato, che vince la miseria e cambia le strutture sociali.

Lo sviluppo rurale è la chiave dello sviluppo della società bengalese. In Bangladesh si vedono segni di partecipazione democratica che superano il dirigismo dall'alto e rifiutano l'assistenzialismo. Si comincia a realizzare una certa autosufficienza, come espressione di fiducia nelle proprie capacità. Tutto lo sforzo che ora sta facendo il Paese per la decentralizzazione ha accentuato l'importanza della individuazione a livello locale dei bisogni e delle risorse.

Il Bangladesh è il primo a voler dare speranza a se stesso, a voler reggersi sui propri piedi, ma non può farlo isolatamente dal resto del mondo. I rapporti culturali ed economici e le leggi per l'emigrazione devono favorire uno scambio internazionale rispettoso che non ponga condizionamenti. Con le sue ricchezze spirituali, con i suoi uomini e le sue donne, il Bangladesh, restando coscientemente e creativamente se stesso, può indicare all'umanità delle vie nuove per essere felice.

Guardando i bambini...

Guardando i bambini bangladeshi varie volte mi sono detto: com'è facile essere felici! Immersi nella natura non ancora inquinata, essi giocano spensieratamente quasi sentendo sopra di sé il perenne sorriso di Dio che non si pente di averli creati. Nei suoi bambini, nei suoi giovani il Bangladesh ha un grande potenziale di speranza per il mondo.

L'educazione delle nuove generazioni dei popoli emergenti è il più grande investimento che l'umanità solida veramente deve sentirsi chiamata a fare. È doloroso pensare a quanti tesori di intelligenza e di cuore rimangono sotto le ceneri di un'umanità che è ancora povera perché impegnata nella propria distruzione. Nel sorriso dei bambini del Bangladesh leggo un invito lanciato all'umanità perché riscopra l'amore alla vita e sappia fare festa.

p. Silvano Garello, sx