Articoli e lettere agli amici - 2008

p. Franco Cagnasso


2008


La poltrona

Dhaka, gennaio 2008

Cari Amici,

(…). Anche se vado spesso in giro a piedi o in autobus (fa bene alla salute, ma soprattutto fa stare in mezzo alla gente), parte del mio lavoro si svolge stando fermo. Tre posizioni fondamentali: seduto in terra – a gambe incrociate – in cappella, seduto su una sedia alla mia scrivania, seduto su una poltrona nel piccolo ufficio/parlatorio del seminario. Mi sta sempre di fronte qualcuno, rispettivamente il Signore nel tabernacolo quando siedo per terra, una persona – per lo più giovane – per l’accompagnamento spirituale quando siedo sulla sedia, e… una varietà di tipi e tipe quando sto sulla poltrona.

Del Signore non vi parlo; lo conoscete. Dei giovani che vengono dirò un’altra volta, per ora mi limito a chiedervi una preghiera per loro, e a parlarvi di chi viene nell’ufficio, e della poltrona. Non la mia, ma quella di fronte a me.

E’ di vimini, piuttosto grande e robusta, piazzata davanti a un piccolo tavolo nell’ufficio a piano terra. Ce ne sono altre tre simili attorno al tavolino, ma quella, vicina alla porta, è la più importante. Sopra il ripiano in vimini, e come schienale, ci sono due spessi cuscini quadrati, color verde scuro. Nel breve inverno del Bangladesh vanno molto bene, nella lunga stagione calda dovrebbero essere tolti perché il vimini è più fresco, ma non saprei dove metterli e allora li lascio, anche se danno un po’ fastidio. Credo che all’interno ci sia una qualche diavoleria plastica moderna, perché non si deformano mai; deve essere spugnosa, perché su quel cuscino hanno fatto la pipì tanti bimbi, e sono anche piovute molte lacrime, ma tutto è stato assorbito senza lasciar traccia.

Quattro anni fa, quando ho potuto allestire l’ufficietto, ho incominciato a far sedere lì tutti quelli che chiedevano di parlarmi. Stranieri che lavorano nelle ambasciate del quartiere vicino, o nelle ditte che comprano e spediscono in Europa o America abiti fabbricati in Bangladesh, tecnici, volontari di varie Organizzazioni non governative… alcuni vengono per le celebrazioni in lingua inglese, poi chiedono di parlare, di confessarsi, di dare un battesimo… Altri sono Bangladeshi benestanti: insegnanti, imprenditori, anche loro vengono alla Messa magari per far praticare l’inglese ai figli. Altri ancora sono domestiche, cuochi, guardie notturne, infermiere, fattorini che lavorano nella zona e vengono alla Messa in bengalese: una grande varietà di provenienze e di costumi, bengalesi e garo, santal e tripura e altri ancora.

Ma non è finita. Spesso arriva qualcuno sconosciuto, magari con uno, due, tre bimbi in braccio, un disoccupato, un drogato, un imbroglione che campa facendo finta di cercare un lavoro, un malato che non ha soldi per comprare medicine, una famiglia intera. Come quando è venuta Molina: giovanissima, analfabeta, il marito scappato perché perseguitato dai creditori, aveva venduto tutto; è arrivata che sembrava più morta che viva, con i quattro figli piccoli che parevano fantasmi.

Alcuni vorrebbero sedersi per terra come sono abituati, altri si prostrano, prendono i piedi e piangono per chiedere aiuto, altri ancora vorrebbero spicciarsela con due parole in piedi, ma io sono inflessibile: finché non si siedono sulla poltrona non iniziamo il discorso.

Finalmente seduti, magari con due o tre figli arrampicati in grembo e uno attaccato al seno, allora chiedo chi sono, da dove arrivano, che cosa desiderano.

Poi rispondo: data del matrimonio, libro da leggere, indirizzo di un connazionale che frequenta questa chiesa e con cui può fare amicizia… Oppure devo decidere. Che fatica!

A volte do un aiuto, a volte no; altre volte indirizzo da chi può aiutare, oppure chiedo che si facciano conoscere meglio, oppure ancora spiego che l’imbroglio è così evidente che non posso proprio crederci… A tutti i bimbi va naturalmente una caramella, e poi pure ai grandi, o qualche biscotto se c’è. Insomma, faccio quello che chiunque farebbe – ma mi sono accorto, con il tempo, che faccio anche qualcosa di speciale di cui non mi rendevo conto, e la cosa speciale è solo questa: farli sedere su quella poltrona.

Anche quando non voglio o non posso dare nulla, anche quando rimprovero (i “ricchi” come me, anche se non sarebbero capaci di sopravvivere una settimana nelle condizioni di vita di certi poveri, tuttavia si prendono anche questo privilegio, di dar loro lezioni, e loro ascoltano in silenzio perché sanno che fa parte dell’essere poveri il ricevere consigli e rimproveri da tutti), se ne vanno – ma poi tornano. Una, due, tre volte – tornano per la poltrona.

Qualcuno me l’ha detto. Avevo fretta, dovevo uscire e ho scambiato due parole in piedi. “Padre, andiamo nell’ufficio”. “Ma ho fretta, devo andare, che altro devi dirmi?”. “Un minuto solo, ma in ufficio”. Seduto o seduta là, non mi dice poi nulla di nuovo, ma lo dice guardandomi bene in faccia, dentro una stanza forse più grande di quella in cui abita con tutta la famiglia, eppure ora tutta per lui o lei. Su una poltrona come a casa sua non ne ha mai viste, davanti a qualcuno che – anche se ha brontolato un poco, anche se fa prediche e rimprovera – però dà tempo, e ascolta.

Non me ne rendevo conto, ma sedersi su quella poltrona è diventato un simbolo, più importante di quello che dico, e forse persino di quello che posso dare o fare.

Ma a volte alla poltrona non arrivo. L’altro giorno sono tornato al seminario stanco, affamato, impolverato. Era tardi. Dritta in mezzo al giardino una ragazza mi aspettava con un bimbo in braccio. Le ho parlato con fastidio, le ho detto che doveva farsi conoscere, di tornare un’altra volta, e sono andato a mangiare. Il riso non andava giù. Sono ritornato, sicuro di trovarla ancora e di poter aprire l’ufficio, farla sedere. Invece non c’era, sparita. Non credo che tornerà: mi aveva aspettato, visto, parlato, ma ha capito che “non c’ero”.

Era S. Vincenzo, se non sbaglio, che diceva che i poveri prima di aiutarli bisogna rispettarli, e chiedere loro scusa per l’aiuto che si dà. Aveva ragione. (…)

p. Franco Cagnasso

Il fango dei miei sandali

Dhaka, febbraio 2008


Preparato per la rivista del Seminario Diptya Shakkho, sul tema dell’Incarnazione

Alcuni giorni fa ho pernottato nella Missione di Dinga Duba, Rajshahi. Sto camminando e pregando nel cortile quando lo sguardo va attraverso la finestra di una piccola stanza vicino alla cucina. Su un tavolo, c’è una bella statua in creta, non ancora terminata, del Risorto. Tengo d’occhio la stanza, e più tardi vedo arrivare l'artista – un giovane Indù che conosco. Sono dietro a lui, non vedo la sua faccia, ma percepisco l'intensità della sua attenzione. C'è come un flusso di devozione e amore che passano da quell'uomo alla creta. Le sue mani non stanno soltanto lavorando, stanno mettendo qualcosa della sua anima, della sua mente e del suo cuore nel suo lavoro; pian piano in quella creta entra la bellezza...

Me ne vado, dirigendomi verso la cappella, quando con disappunto noto i miei sandali. Sono sporchissimi, e mentre mi chiedo come fare a liberarli di quel fango denso ed appiccicoso, improvvisamente, mi accorgo che il fango sui miei sandali e uguale alla creta usata dall'artista. "Di che è fatto quello bel Signore Risorto"? - mi chiedo. Lo stesso materiale può essere un’immondizia da cui liberarsi, o può diventare un’opera d’arte, ispiratrice di bellezza e di devozione. Che cambiamento e che differenza!

Con il lavoro dell'artista, il fango inerte è capace di esprimere qualche cosa, addirittura Qualcuno. Prima di tutto esprime lo stesso artista. Quel lavoro rappresenta il Cristo Risorto, ma è stato creato dall'interpretazione, dalla comprensione e dalla devozione dell'uomo che lo sta facendolo. Se si chiede a due artisti diversi di fare due statue di Gesù, si avranno due interpretazioni diverse. La creta, una semplice mistura di terra e acqua, diviene l'espressione non solo della loro abilità tecnica, ma della loro personalità, sentimenti, passione e umanità. Allo stesso tempo la creta diviene un'immagine che ci ricorda il mistero di Gesù Cristo, della sua divinità, della sua morte e risurrezione, della nostra salvezza...

L'uomo - dice la Bibbia - fu creato ad immagine di Dio. L'arte è un segnale di quella somiglianza con Dio, perché trasforma la materia, e la riempie di significato. La materia diviene capace di suscitare emozioni, contemplazione, e devozione. Un pezzo di legno è sempre e solamente un pezzo di legno, ma che differenza quando “dice” a noi Maria di Nazaret!

Dio è il grande Artista che dal caos iniziale lentamente ha dato luogo alla luce e all'oscurità, ai mari e alle montagne, alle foreste e ai deserti, agli animali e agli uccelli... e finalmente all'uomo ed alla donna.

Uomo e donna sono fatti dello stesso materiale degli animali, delle pietre, dei mari e degli alberi, ma il soffio di Dio in loro li rende capaci di pensare, amare, decidere in libertà e godere la presenza e l'amore di Dio. Che dignità per il povero, informe fango e per l' acqua e le sostanze chimiche di cui siamo fatti!

Ma Dio, il grande Artista ha voluto di più. Ama talmente il mondo, il frutto della sua creazione che non gli basta trasmettere la sua immagine a uomini e donne. Lui stesso, nella persona del Figlio, viene nel mondo, ne prende l'umanità e la materia. Diviene un uomo. E’ uomo, il Figlio dell’Uomo, il Signore Risorto.

Terra e carne e ossa e sostanze chimiche sono imbevute non solo del soffio divino, ma di divinità.

Se credo all'incarnazione, devo cambiare il mio modo di guardare a realtà.

Quando vedo un uomo o una donna, non solo vedo una creatura che può pensare, amare, pregare; vedo anche una creatura che condivide la sua umanità col Figlio di Dio. Cristo è il primogenito; tutti gli altri sono suoi fratelli e sorelle. Lui identifica sé stesso con ciascuno di noi. L'umanità è onorata e divinizzata da Cristo.

Questo può e deve essere detto a proposito della creazione nel suo insieme. Quando vedo l'acqua posso pensare che era parte del corpo divino di Cristo, poi in un modo misterioso è stata trasformata dal processo della risurrezione, è entrata in una nuova realtà nuova che non possiamo immaginare ancora anche se crediamo e la aspettiamo impazientemente.

L'umanità mostra sempre più la sua abilità nel trasformare la materia. Guardiamo ai bei campi di riso del Bangladesh. Sono frutto di lavoro umano, ma soprattutto ci parlano della natura che lavora, lenta e meravigliosa. Poi osserviamo Dhaka, e vediamo che la materia è stata trasformata e continua a essere trasformata in edifici, macchine, apparecchiature tecniche di tutti i generi. Alcuni lamentano l'assenza della "natura" in una grande città come Dhaka, ma perché non considerare anche come la natura è stata trasformata e ricreata, umanizzata per sopperire alle necessità dell' umanità e esprimere la ricerca umana per un mondo migliore?

Dobbiamo avere un giudizio positivo per questo grande sforzo umano. Certo, il progresso spesso rovina, inquina e distrugge la natura e, così facendo, guasta, distrugge e disumanizza uomini e donne. Quando consideriamo la materia solamente come un mezzo per guadagnare soldi, arriviamo a questi eccessi e allora il lavoro che facciamo diventa una fonte di sofferenza e di degrado.

Il mistero dell'incarnazione è per noi un importante promemoria che la materia non è soltanto un attrezzo per il progresso umano o per l'umana avidità; essa è spiritualizzata. Anzi non è soltanto spiritualizzata, è divinizzata. Noi dobbiamo vederla e usarla come una realtà sacra che ci è stata data per il nostro bene, ma che non ci appartiene. Dobbiamo acquisire un atteggiamento contemplativo verso la creazione. Lo dico tenendo presenti tutti i suoi aspetti. Non solo la creazione “al naturale”, ma anche la creazione elaborata e resa diversa dal genio dell’uomo: perché non “contemplare” anche un computer, con meraviglia e con riconoscenza a Dio perché la materia è capace di tanto (e di chissà quante altre cose stupefacenti) e l’uomo è capace di scoprirle e realizzarle?

S. Francesco di Assisi compose il suo famoso e bellissimo "Cantico delle creature" dove chiama il sole e la luna "mio fratello e mia sorella", dove contempla il fuoco come simbolo dell'amore e della forza di Dio, e l'acqua come simbolo di purezza e sincerità. Non era soltanto un'inspirazione poetica, era contemplazione di ogni parte della creazione come diretta a Cristo, per questo una realtà da cantare e con cui tendere a Lui. S. Francesco credeva e si sentiva parte della creazione e, in un certo modo, parte di Dio; credeva e sentiva che la creazione veniva trasformata dal nostro spirito e dall'incarnazione.

La trasfigurazione di Gesù sulla montagna può darci un ultimo pensiero ispiratore. All'improvviso, gli Apostoli videro il corpo di Gesù che splendeva, pieno di luce. Era un momento di verità. In quel momento il carico dei peccati che Gesù aveva assunto su di sé non riusciva a nascondere la sua divinità, e poterono vedere come la materia era stata trasformata dall'Incarnazione.

Era un'anticipazione, una meravigliosa anticipazione, dei cieli nuovi e del mondo nuovo che stiamo aspettando quando si compirà il progetto di Dio di unificare tutto in Cristo.

p. Franco Cagnasso

La cattedrale

Dhaka, marzo 2008

Come ogni giovedì esco prima delle 6, e d’inverno è ancora buio. Un rikshò solitario scampanella e s’avvicina speranzoso, ma proseguo a piedi lungo la strada deserta, attento ai tombini scoperchiati, al canale di scolo, la pozzanghera perenne creata dalla tubatura forata, le immondizie, una buca fuori programma. Un uomo canta il Corano al primo piano di una casa ben tenuta.

Duecento metri, ed ecco la fila di chi dorme sulle morbide, sconnesse mattonelle di cemento del marciapiede; oggi conto 13 tende, cinque, sei, sette persone sotto ciascun telo di plastica blu agganciato al muretto insieme alla zanzariera e tenuto fermo, a terra, da mattoni. Un’anziana s’è già alzata, va a prendere acqua con una bottiglia di plastica; un bambino frigna; un uomo si lava i denti accoccolato. Quando ripasserò, fra due ore, le tende saranno raccolte a fagotti sulla striscia di terra dall’altra parte della strada, gli uomini saranno a cercare lavoro o a pedalare sui rikshò, le donne più giovani e le più anziane baderanno ai bambini: una lava il marmocchio con l’acqua di un pentolino, l’altra cucina su due mattoni, un’altra suddivide il contenuto del primo sacco di pezzetti di carta e plastica raccolti sulle strade dalle bambine più grandi.

Alla Kemal Ataturk Road, sotto un lampione aspetto che arrivi il ruggente microbus. Rispettoso della mia età veneranda, l’autista rallenta più del solito. Di fermarsi non se ne parla: sarebbe un segno di debolezza poco dignitoso. Abbordo baldanzosamente il trabiccolo, unendomi a poche guardie notturne che tornano a casa insonnolite. Fra un’ora sarà strapieno, non riuscirei a salire nemmeno piangendo in cinese.

Tre taka di spesa (tre centesimi), tre minuti di viaggio e sono oltre l’Ambasciata americana, su una tangenziale urbana.

Scendo al volo, finendo nelle nuvole di polvere sollevate da cinque donne che spazzano l’asfalto con lunghe scope di vimini. Tenendo con i denti il velo del sari, su cui vestono una casacca con la scritta: Comune di Dhaka - pulizie, spostano dal centro al margine della strada terriccio e sabbia, e formano mucchietti che resteranno lì. La sabbia si risparpaglia durante il giorno, pronta ad essere riscopata la mattina seguente. A mani nude, o pizzicandole fra due tavolette di compensato, raccolgono le immondizie vere e proprie riempiendo una carriola spostata da un ometto, che la porta a un carretto più grande e poi a un enorme mucchio, dove varie ondate di mendicanti e bambini verranno a rovistare finché, ogni pochi giorni, un camion passa a caricare. Mi sorprendo a fantasticare che qualcuno (l’ONU? La Banca Mondiale? La Polisportiva di Bottanuco? I Cavalieri di Malta?…) realizzi una grandiosa distribuzione gratuita a tutti i fuoricasta di Dhaka di almeno centomila palette di plastica…

Tre vecchi autobus messi di traverso si contendono i passeggeri rombando, strombazzando, facendo la mossa di partire, mentre a terra i rispettivi “assistenti autisti” si sgolano urlando le destinazioni e si sbracciano: “Zio, dove vai? Sali!”. Mi sbarra la strada e quasi mi spinge dentro; scarto e proseguo.

La strada a quattro corsie costeggia sulla destra un enorme slum in rapida trasformazione. Sloggiano gruppi di baraccati, costruiscono palazzi, officine, segherie, ristoranti. Ogni settimana vedo qualcosa di nuovo, se manco per un mese stento a riconoscere i posti. Sulla sinistra, un lungo muro separa il quartiere di Baridhara – quello dei ricchi e delle ambasciate – dal traffico che si sta facendo intenso. Anche il vivaio ha sempre qualcosa di nuovo: è la striscia fra il marciapiede e il muro, circa un metro di larghezza di terra con alberi. Fra un albero e l’altro qualcuno coltiva piante ornamentali, fiori, vasi da terrazza, espone portafiori in gusci di cocco: 200 metri di vivaio largo un metro. Questo sì che si chiama utilizzare il terreno!

Un fantasma viene verso di me a lunghe falcate, agitando a mulinello le braccia e scuotendo i veli neri che la coprono da capo a piedi. Le scarpe da ginnastica rivelano le intenzioni non aggressive: sta facendo jogging, probabilmente per perdere peso. Spero che ce la faccia...

Sono già passato accanto ad una ventina di moschee, ora trovo il capannone-chiesa degli Oblati di Maria Immacolata. Si stanno preparando alla Messa delle 6.30, sempre con un buon numero di fedeli, soprattutto uomini. Qui le Blue Sisters il mercoledì mattina tengono dispensario gratuito, frequentato da un incredibile campionario di persone con miserie, malattie, handicap e imbrogli…

Poco oltre, entro nello slum, che in questo punto per qualche misterioso motivo chiamano “Coca Cola”. Davanti alla moschea illuminata chiacchieravano gruppetti di devoti dopo la prima delle cinque preghiere quotidiane; tempo fa sono stati sloggiati da un improvvisato mercato di banane che, scaricate dai camion, vengono suddivise in grandi ceste e caricate su tricicli con il pianale, o direttamente sulla testa dei rivenditori ambulanti. Marmocchi e marmocchie s’intrufolano svelti sotto i tricicli e raccolgono i frutti caduti, riempiendone sacchetti di plastica che andranno a rivendere ai venditori di tè, seduti agli angoli delle strade con un grosso thermos, tre tazzine, un secchio d’acqua, biscotti, e banane per la colazione dei passanti.

Lo slum si sta svegliando, una bimba velata s’affretta verso la moschea con il quaderno degli esercizi di arabo. Alla baracca ristorante stanno friggendo le porata e viene l’acquolina in bocca…

M’infilo a sinistra in un cancello. Cortiletto, veranda e tre stanze in cui, a fianco di altre famiglie, vivono le Blue Sisters: camera con due letti a castello, cucina/tinello/sala da pranzo/studio, cappella. Se mi legge qualche esperto in arredamenti interni di aerei, faccia un salto qui e imparerà qualcosa su come sfruttare i pochi spazi disponibili. Sr Emilia – cuneese - è qui da tanti anni, Suor Franca – santal – da quando, pochi mesi fa, la coreana suor Nives ha lasciato per trascorrere un anno sabbatico con la comunità a Cuneo. Il “Movimento Contemplativo Missionario P. De Foucauld” vive la missione come comunione, stando insieme ai poveri e pregando.

Mi siedo, un saluto, un bicchier d’acqua. “Come va con i topi?” Quando lo stagno vicino è stato riempito, hanno assalito la casa rosicchiando persino i fili della luce, ma ora la popolazione topesca è tornata a livelli ordinari.

Arrivano Giovanna e Giuseppe, una coppia di imprenditori padovani che hanno ricominciato qui la loro avventura professionale, con la caparbia volontà di praticare un’imprenditoria giusta, onesta, che dia lavoro, sicurezza e dignità.

Giuseppe prepara l’ambiente aggredendo la nuvola di zanzare con una specie di racchetta dotata di batteria, che condanna a morte sicura le malcapitate che vengono toccate; poi s’incomincia la Messa.

Siamo cinque, seduti su sgabelli di vimini, in una chiesa di m. 2,5x2,5. Intorno, i rumori del formicaio / slum: chi fa la doccia, chi cucina, chi russa, chi litiga, chi canta, chi prega, chi ascolta la radio, mentre i corvi gracchiano, gli aerei atterrano e decollano dal vicino aeroporto, la pompa dell’acqua ronza…

Dopo il vangelo, c’è il mio commento, e poi un po’ di scambio. Si parte dalle letture liturgiche, dalla vita qui, dal pensiero di amici lontani… ma gira gira, alla fine Giovanna e sr Emilia parlano dei poveri che cercano di aiutare, Giuseppe della fatica di vivere la sua attività con un cuore evangelico, sr Franca dei bambini a cui fa scuola e io dei seminaristi… Non ci si stanca, però. Finito, i due coniugi scappano al lavoro, per me c’è la colazione con le suore prima di tornare al seminario.

“Ho visitato magnifiche cattedrali, in tante città, ma questa è la più cara e la più bella che ho conosciuto” dice spesso Giuseppe.

E’ la cattedrale di Coca Cola.

p. Franco Cagnasso

Al riparo dalla pioggia

Missionari del Pime - Aprile 2008


Venerdì primo Febbraio c’è stata l’inaugurazione del dormitorio nuovo, un edificio in muratura nel quale tutti hanno trovato rifugio - salvandosi - la notte del ciclone. In quel momento non era ancora finito, ma con gli aiuti ricevuti abbiamo accelerato i lavori e ora i ragazzi dormono tutti al riparo dal freddo o dalle zanzare, dal vento e dalla pioggia.

Non ero presente all’inaugurazione, perché non volevo che l’attenzione si concentrasse su di me. Doveva essere la loro festa, e l’occasione per conoscersi meglio con il nuovo parroco, un bengalese.

Mi hanno detto che è stata una giornata bella per tutti. Oltre ai 34 ragazzi dell’ostello, alla famiglia che li educa, ai maestri e al parroco, c’erano circa 200 invitati, gente dei villaggi vicini che sempre più sente l’ostello come un punto di riferimento, dove va quando vuole passare un momento chiacchierando, facendo festa, o per chiedere un aiuto, come è successo dopo il ciclone.

I ragazzi lo scorso anno sono stati tutti promossi, quindi hanno ripreso a studiare nel nuovo anno con entusiasmo. Vanno dalla terza elementare alla nona classe. L’edificio di una delle due scuole che frequentano non è ancora riparato, ma riescono comunque a fare lezione regolarmente.

Nelle scorse settimane parecchi hanno avuto la varicella, ma ora sembra che la piccola "epidemia" sia passata.

La zona soffre ancora per le conseguenze del ciclone, e ancora per molto tempo ci sarà lavoro da fare e pazienza da mantenere. La piante nuove, messe a dimora per sostituire quelle "stroncate", non crescono certo in pochi giorni: anzi, persino per piantarle bisogna ancora aspettare, perché la stagione migliore è quella delle piogge. Il prezzo del riso è salito, le verdure sono più scarse perché gli orti sono stati rovinati. Ma non si sta con le mani in mano. Le famiglie dei ragazzi che hanno avuto le loro case abbattute dal vento e dall’acqua hanno ricevuto un aiuto per comprare il tetto in lamiera, e per qualcuno il tetto in lamiera è una novità: prima lo avevano di paglia. Per dare un’idea a Matteo, informo che un tetto costa poco più di 4.000 "taka", e che con 100 "euro" si possono comprare due tetti. Quindi, caro Matteo, quando piove a Milano - o dove tu abiti - , spero che ti venga in mente che il tuo aiuto ha messo al riparo dalla pioggia due famiglie, e che tu ne sia contento e ringrazi il Signore che ci dà occasione di aiutarci a vicenda, e di capire che la vera gioia sta proprio in questo, nel volersi bene e nel dare o ricevere senza paura, con semplicità e affetto.

Un saluto cordiale e una preghiera!

p. Franco Cagnasso

Quale dialogo con chi ci sfida?

Mondo e Missione - Maggio 2008

Islam / L'esperienza dei cristiani in Bangladesh

La stanchezza di chi si sente continuamente giudicato e deve difendersi. Ma anche la sorpresa di trovare parole amiche dove meno le aspetti

"Insomma, vuole spiegarci razionalmente la Trinità?". Sono stato invitato a presentare il cristianesimo ad un centinaio di studenti universitari musulmani a Dhaka. Sembrano ben disposti, e mi sento a mio agio finché un giovanotto m'interrompe sfidandomi con questa domanda. "Non sono Dio - rispondo - non posso accontentarti. Nessun essere umano, nessuna religione può dare una spiegazione razionale di Dio". Il tipo lascia l'aula con un sorrisetto ironico, seguito da una decina di amici.

Terminata la conferenza, alcuni studenti si avvicinano per scusarsi. Parliamo cordialmente, e una ragazza si mostra sinceramente addolorata perché non sono musulmano: "Noi conosciamo e rispettiamo Gesù; perché anche lei non accetta Maometto come l'ultimo dei profeti? Il Vangelo stesso ha profetizzato la sua venuta". Spiego che secondo la nostra interpretazione di Giovanni 16, Gesù si riferisce alla venuta dello Spirito Santo...

Per la Chiesa che vive in Paesi a maggioranza musulmana si può parlare di vari tipi di "sfide". Qui faccio cenno soltanto ad alcune di quelle che il cristiano incontra nella vita quotidiana. Anche per un laico, le differenze teologiche non sono la sfida minore. "Sono stanca - mi confida un'insegnante - di sentirmi continuamente giudicata da colleghi e studenti su Gesù figlio di Dio, e perché non siamo monoteisti, mangiamo carne di maiale, crediamo in una Bibbia falsificata...".

Da un lato, siamo vicini perché l'islam conosce Gesù e lo rispetta. Dall'altro, il Corano menziona la Trinità, l'incarnazione e la morte di Gesù in croce, ma per affermare a chiare lettere che si tratta di falsità. Considera la dottrina sulla Trinità e sull'incarnazione come una violazione del monoteismo, e sostiene che Dio non può aver permesso che il suo profeta Gesù morisse sulla croce.

Ai musulmani viene insegnato che la Bibbia è stata manipolata e la parola di Dio distorta, perciò i cristiani o sono ingannatori, o sono ingannati. Normalmente non sentono il bisogno di conoscere la nostra fede: il Corano, rivelazione ultima e perfetta, contiene la verità e tutto ciò che occorre sapere per vivere bene, ottenere il paradiso dopo la morte, e anche per rapportarsi con gli altri, cristiani compresi. L'islam offre "a complete code of life", un codice di vita completo che risolve tutti i problemi religiosi, sociali, familiari, politici, economici di ogni tempo. Il moderno approccio critico alla Bibbia e al concetto di rivelazione, che la Chiesa cattolica ha fatto propri, sono ben lontani da come loro accolgono il Corano e la rivelazione. Usiamo le stesse parole, ma il significato è diverso.

Come vivere circondati da questa mentalità che pervade non tutti, ma molti? L'atteggiamento di sfida - a volte arrogante - che alcuni musulmani hanno, non dovrebbe condurci alla disputa. La Trinità, la divinità di Cristo e la croce dovrebbero essere argomento di vita più che di conflitto.

I primi cristiani sono arrivati a quello che è ora parte del nostro credo attraverso l'esperienza della profondità umana di Gesù, tale da "mostrare" il mistero di Dio in Lui; e attraverso la loro stessa esperienza di vita nello Spirito. Fu la riflessione sull'esperienza con Gesù e nella Chiesa a generare la dottrina: soltanto vivendo, per quanto possibile, quella esperienza possiamo realmente accettare la dottrina.

Giovanni Paolo II scrisse che il nostro programma per il terzo millennio "si incentra in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste" (Novo millennio ineunte, n. 29).

Siamo dunque chiamati a trasformare la storia "vivendo" la vita trinitaria, più che offrendone "prove razionali"; abbiamo bisogno, come dice l'enciclica, di una spiritualità della comunione che "significa innanzitutto sguardo del cuore portato sul mistero della Trinità che abita in noi".

La nostra non è la religione di un Libro, di una legge; è la religione nata da un Uomo che conosciamo e seguiamo nello Spirito Santo di Dio. Che la salvezza giunga attraverso la Croce è una "follia" rivelata ai piccoli, a coloro che sono aperti a Dio che è umile e ci ama, tanto da identificarsi con gli affamati, i prigionieri, gli infermi. La Chiesa non è la soluzione a tutti i problemi dell'umanità; è una comunione di persone che cercano Dio guidati dallo Spirito, seguendo la via di Gesù.

Restare fedeli a ciò che siamo può essere una scelta molto esigente. Qualche tempo fa ho chiesto ai miei studenti di islamologia di descrivere la loro esperienza di cristiani cresciuti in contesto a grande maggioranza musulmano. Sono bengalesi e tribali, provengono da villaggi dove vive gente semplice, con istruzione elementare o addirittura analfabeti.

Dai loro scritti emerge un quadro tutt'altro che roseo. Esprimono sentimenti contrastanti, ma a prevalere è il pessimismo.

I musulmani sono visti come persone che sanno poco della loro stessa storia e religione, eppure seguono ciecamente ciò che viene loro insegnato, senza porre domande. "Ripetono che l'islam è una "religione di pace", ma nessuno si chiede perché siano in guerra ovunque". "Si sentono superiori, affermano che chi appartiene ad altre religioni è semplicemente khafir, pagano condannato all'inferno, non importa se buono e onesto oppure no...".

Alcuni miei studenti hanno l'idea che "non rispettano le loro donne, e tanto meno le nostre". Una giovane suora: "Nei nostri villaggi abbiamo un detto: "Il tamarindo non è dolce e i musulmani non sono ospiti". Significa che non ci si può fidare: come non trovi un tamarindo dolce, così non trovi musulmano che sia vero amico". Questo sospetto, che spesso è paura, è vero specialmente per le famiglie che hanno figlie femmine. Quando un musulmano desidera una ragazza cristiana, la famiglia è quasi impotente: la comunità musulmana farà di tutto per avere la ragazza, che sarà "perduta" per i cristiani. D'altro canto, se un cristiano desidera una ragazza musulmana, la comunità cristiana può andare incontro a grossi guai.

La lista delle lamentele è lunga: "Sono duri, educano i loro figli a essere molto rigidi nel seguire le regole religiose, ma anche nel trattare con il prossimo... Spesso nei sermoni del venerdì lanciano accuse e false informazioni sulle altre religioni...". Nella minoranza cristiana predomina un senso di amarezza e frustrazione, convinti che non si possa mai avere giustizia quando si ha a che fare con un musulmano.

Non c'è da stupirsi che molti cristiani adottino un atteggiamento difensivo e cerchino di creare un ghetto chiudendosi il più possibile: "Il tamarindo non è dolce, i musulmani non sono ospiti". Da quando sono nati, i miei studenti sentono cinque volte al giorno, tutti i giorni, il richiamo islamico alla preghiera rovesciato su di loro a tutto volume da altoparlanti piazzati in ogni angolo, eppure nessuno si chiede quale sia il significato di quelle parole arabe. Non se lo chiedono i cristiani, perché quelle parole non li riguardano, sono un fastidio da subire fatalisticamente; non se lo chiedono i musulmani, per i quali sono un ordine cui obbedire ciecamente, senza bisogno di capire.

Tuttavia queste esperienze amare e la paura lasciano spazio, negli scritti dei miei studenti, alla sorpresa di alcune "eccezioni". Può trattarsi di una famiglia musulmana gentile che abita vicino; può essere un bravo insegnante, un amico, perfino qualcuno che ha affrontato l'ostilità della propria comunità per difendere i diritti di un cristiano... "Un imam ha infranto alcune delle mie idee negative. Guidava la preghiera e insegnava islam nella nostra scuola. Mi chiamava spesso abba per esprimere il suo affetto rispettoso. Ero l'unico cristiano della scuola, perciò non c'erano lezioni di cristianesimo, e per completare gli studi dovevo seguire il corso sull'islam. Mi aiutò molto e non mi invitò mai a convertirmi. Quando confidai il mio desiderio di diventare prete e di vivere il celibato, mi incoraggiò con calore...".

La sfida per la Chiesa è quella di prendere queste "eccezioni" sul serio, come segni da interpretare. Più ci isoliamo, meno riusciamo ad avere una percezione reale della società islamica; più siamo aperti e comunichiamo, più troviamo persone di buona volontà e fede sincera con cui poter interagire. Potremmo perfino scoprire che quelle "eccezioni" non sono, dopo tutto, tanto eccezionali...

Non dobbiamo essere ingenui: comprendo, ad esempio, la paura di genitori cristiani le cui figlie possono essere desiderate da ragazzi musulmani e quindi (non sempre, ma spesso) private della loro libertà. Tuttavia sono certo che esistono occasioni per tutti di avere relazioni sincere con musulmani onesti e disponibili. Potrà trattarsi di un'esperienza nuova per entrambe le parti, in alcuni casi sfocerà in una delusione, ma in molti altri sarà una reciproca scoperta di "mondi sconosciuti", e una base su cui costruire un futuro in cui le minoranze potranno sentirsi a casa nel loro stesso Paese, cosa che oggi spesso non avviene.

La sfida è ancora più seria in Paesi in cui, diversamente dal Bangladesh, non soltanto la gente comune, ma anche la Costituzione e la legislazione privano le minoranze di alcuni diritti. È noto a tutti che alcuni Paesi, in Asia e Africa, sono sotto pressione perché si introduca la sharia per tutti, affidando a tribunali religiosi la giustizia civile e penale. La libertà di conversione dall'islam è un tema scottante, come hanno dimostrato le polemiche di queste ultime settimane.

Purtroppo, non si può dire che questa situazione sia un retaggio del passato, destinata a cambiare in meglio, perché il fondamentalismo sembra piuttosto in crescita. In alcuni casi, le leggi "liberali" esistenti sono considerate un'imposizione dell'Occidente decadente e corrotto. L'islam - si sostiene - sa quel che è bene per l'umanità e come rispettare "i veri" diritti umani, compresi i diritti delle minoranze alle quali conferisce uno status speciale.

Questa tendenza potrebbe dimostrare che le società islamiche sono spaventate; potrebbe essere un segno di debolezza. Tuttavia, quando la Chiesa si trova di fronte a queste situazioni, sperimenta una dolorosa condizione di ingiustizia. In certi casi non c'è altra soluzione se non portare la croce in silenzio, perché anche la libertà di parola è stata soppressa... In altri casi è possibile una reazione pacifica ma chiara e aperta, come in Pakistan, Indonesia e altrove. La Chiesa, al fianco di molti musulmani di mentalità aperta, dovrebbe fare tutto il possibile perché i suoi diritti e quelli dei poveri siano rispettati.

Infine, vivere come cristiani in Paesi musulmani dovrebbe richiamarci a un rinnovato impegno all'ecumenismo. Ci presentiamo tradizionalmente come cattolici, battisti o evangelici, e sembriamo considerare le nostre divisioni più importanti del fatto stesso di essere cristiani. Non testimoniamo unità, ma una reciproca sfiducia. In un recente seminario sull'ecumenismo, tenutosi a Dhaka, ai partecipanti è stato chiesto perché l'ecumenismo è importante per la Chiesa in Bangladesh. Molti hanno risposto: "Per la nostra sopravvivenza. Uniti, possiamo sperare di avere diritto di parola in questa nazione, divisi no".

Non si tratta di volere a tutti costi dimostrare un'unità che non abbiamo. È un invito di Dio a renderci conto che siamo prima di tutto discepoli di Cristo, il quale è venuto per superare divisioni e odio, e per unire tutto e tutti per mezzo della sua croce. Portare la croce testimoniando l'incarnazione attraverso un amore attivo, e vivere la Trinità che ci porta a essere uno, sono - a mio parere - le principali sfide per i cristiani nei Paesi musulmani.

p. Franco Cagnasso

La versione originale dell'articolo è apparsa su World Mission, mensile dei Comboniani di Manila) Vaticano-138: nasce un Forum.

Non senza difficoltà, ma comunque continua il dialogo tra la Santa Sede e il mondo musulmano avviato dalla lettera indirizzata da 138 saggi islamici alla fine del mese di Ramadan (cfr M.M., gennaio 2008, p. 41). Il 4 e 5 marzo si è svolto in Vaticano un incontro tra cinque rappresentanti dei 138 e il Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso. Il frutto è stata la decisione di istituire il Forum cattolico-islamico, un organismo destinato a dare continuità a questo dialogo. È stato anche stabilito che il primo seminario di questo Forum si terrà a Roma dal 4 al 6 novembre e vedrà la partecipazione di 24 esponenti religiosi per parte che saranno ricevuti in udienza dal Papa. Due i temi al centro della discussione: "Fondamenta teologiche e spirituali" e "Dignità umana e rispetto reciproco". Con la scelta di istituire un Forum permanente, il Vaticano ha scelto di considerare i 138 un punto di riferimento importante. La stessa polemica seguita al battesimo di Magdi Cristiano Allam, ne ha offerto una conferma indiretta. Uno dei cinque islamici ricevuti in Vaticano, il professore giordano Aref Ali Nayed, ha inviato una nota in cui "senza mettere in dubbio la volontà di continuare il dialogo" esprimeva delle critiche. A questo testo ha risposto il direttore della Sala stampa vaticana padre Federico Lombardi. Difendendo le ragioni della scelta di battezzare Allam in San Pietro. Ma aggiungendo anche che Nayed "è persona con cui vale sempre la pena di confrontarsi lealmente". (g.b.)

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Missionarie dell’Immacolata - luglio 2008

Il Dipartimento delie religioni mondiali dell'Università di Dhaka ha organizzato un incontro tra appartenenti all'Islam e al Cristianesimo sulla lettera dei 138 studiosi musulmani, indirizzata a esponenti cristiani. In margine a tale iniziativa, un commento di p. Cagnasso

Ambiente bello, organizzato, pulitissimo. Ci si sta volentieri. E' la prima volta che metto piede nel Dipartimento di Studi delle Religioni all'Università di Dhaka. In giro non c'è quasi nessuno perché il sabato non si tengono lezioni. Lentamente arrivano i partecipanti, ci si presenta, si aspetta chiacchierando a gruppetti informali...

Dietro di me qualcuno bisbiglia: "Tutto bene, però bisogna prepararsi. Occorre conoscere bene la propria religione, altrimenti si fanno pasticci". Mi sembra di riconoscere la voce di un parroco della città, mi volto per salutarlo e scopro che a parlare non è stato lui, ma un maulana, responsabile di una moschea, rivolto a due giovani professori del Dipartimento.

Proprio ieri, a tavola, un insegnante del seminario mi comunicava la stessa preoccupazione e aggiungeva che ci vuole prudenza, perché se la lettera dei musulmani al Papa è bella, è anche vero che di loro è bene non fidarsi: qual è il vero motivo per cui hanno scritto? E chi parteciperà, che cosa avrà davvero in testa?

Alle 9 in punto ci siamo tutti, 40 cristiani di varie denominazioni e 40 musulmani di vari gruppi e correnti, venuti a confrontarci per una giornata - oggi 18 aprile 2008 - a partire dalla lettera che 138 studiosi musulmani di diversi Paesi hanno indirizzato, alla fine del 2007, ai rappresentanti delle comunità cristiane: Papa, Patriarchi ortodossi, Consiglio Ecumenico delle Chiese, Arcivescovo Anglicano e altri. La lettera è elaborata, ma si può riassumere in breve. Messi insieme - dice - i fedeli delle nostre religioni costituiscono più del 50% dell'umanità, se non c'è pace tra noi non c'è pace nel mondo, cerchiamo dunque qualche punto in comune.

La lettera ne propone due: l'amore di Dio e l'amore del prossimo, citando e spiegando Corano e Nuovo Testamento.

Ascolto attentamente gli interventi, rigorosamente distribuiti tra cristiani e musulmani. Tutti d'accordo che ci si debba conoscere e rispettare, tutti aperti all'ascolto. Noto sfumature diverse. Un vescovo cattolico sottolinea l'esperienza spirituale personale che, quando è sincera e profonda, non può non costituire un punto di incontro. Un pastore battista sente il bisogno di dire che la sua fede nel Dio unico è una fede trinitaria. Un cattolico chiede che si lasci il confronto sulle dottrine e si passi al confronto sulla pratica, sul servizio all'uomo - e su questo tema gli interventi si susseguono fino a far quasi dimenticare che ci siamo incontrati per riflettere su un testo preciso, teologico e spirituale.

Seguono i lavori di 8 gruppi con 10 membri ciascuno, 5 cristiani e 5 musulmani.

Nel mio, il discorso si orienta sulla situazione attuale del Bangladesh: "L'arroganza dei predicatori e dei maestri che arrivano dall'Arabia Saudita è insopportabile. Rendono i nostri giovani chiusi e fanatici. Bisogna fare qualcosa, il governo ma anche noi...".

Chi parla è una signora musulmana, un'avvocato, e trova pieno consenso negli altri quattro musulmani. Un cattolico che dirige un'apprezzata scuola superiore critica i dogmatismi di ogni religione, e invoca una specie di "vogliamoci bene" che non tenga conto delle rispettive credenze religiose. Un musulmano, direttore di una Organizzazione Non Governativa che opera fra le vittime di tensioni religiose, si lascia scappare un: "Perché voi cristiani non fate niente per fermare le guerre in Medio Oriente, che generano tanto odio e tensioni?". Fa da contrappunto a chi dice ai musulmani: "Perché non fate niente per fermare i terroristi?"...

Sentirò poi di un altro gruppo dove un capo moschea si arrovellava attorno ad un dilemma: "Se noi musulmani riconosciamo Gesù come profeta, i cristiani dovrebbero riconoscere Maometto come profeta, altrimenti non si può dialogare. Ma se lo fanno, diventano musulmani, e allora non c'è più bisogno di dialogo...". È stato cortesemente messo a tacere dagli altri musulmani.

Dopo pranzo, mentre qualcuno va a fare quattro passi, indugio al tavolo con tre signore e un anziano. Si parla del più e del meno, poi le signore attaccano il tema dei rispettivi mariti: bravi e buoni, ma non aiutano, sporcano in casa, non sono puntuali a tavola, cercano di scansare i problemi dell'educazione dei figli. "Signore, ma voi di che religione siete? Sembra che quando si parla dei mariti non ci siano differenze!". Ridono, e si presentano: una è musulmana, una cristiana battista e una cristiana cattolica. L'incontro si conclude in un clima amichevole e di speranza. Viene approvato un documento molto semplice che invita a continuare e a impegnarsi per lare qualche cosa insieme, fra i giovani e fra i poveri. Ci si rende conto che una giornata come questa, pur bella, è meno di una goccia nel mare dei due mondi, cristiano e musulmano.

Io sono, allo stesso tempo, contento e un po' disorientato. Si dice che questo sia un incontro di "dialogo", parola molto usata in questi ultimi decenni, considerata da alcuni la nuova, esclusiva forma della missione, temuta da altri come un cedimento inaccettabile. Ma che cosa è stato il dialogo di oggi? Certo, c'erano in parti uguali cristiani e musulmani, e ognuno dei due gruppi ha convinzioni, pratiche religiose, cammini spirituali diversi. Eppure sono emersi temi e sensibilità che non si possono semplicemente attribuire all'uno o all'altro gruppo. Ci sono persone secolarizzate, esperienze spirituali profonde, dogmatismi, confusioni, differenze, aperture, timori, sia nell'uno sia nell'altro gruppo. Il dialogo c'è stato, ma non tanto fra 40 cristiani e 40 musulmani, quanto fra 80 persone che si sono capite o non capite a proposito di molte diverse sfaccettature della loro vita e della loro fede.

Dialogare dunque? Sì, lasciando da parte gli stereotipi.

Natale 2008

Dhaka, dicembre 2008

Cari Amici,

scrivo ricordando con piacere gli incontri che ho avuto con molti di voi l’estate scorsa in Italia, il tempo trascorso insieme, l’ascolto reciproco, i doni... E’ stato bello per me, spero lo sia stato anche per voi. Ancora mi stupisce, e “mi dà carica” pensare all’interesse sincero che ho visto in voi per le persone cui voglio bene qui in Bangladesh.

Ho ripreso intanto il mio servizio in Seminario, dove insegno e accompagno spiritualmente molti giovani, uomini e donne, verso il sacerdozio e la vita religiosa. Sia questo, sia l’insegnamento, mi arricchiscono molto.

Sento che la gratitudine è la dimensione più profonda e autentica della mia vita di uomo, di cristiano e di missionario, la traduco in preghiera, che è lode e intercessione anche per tutti voi, specialmente in occasione del prossimo Natale. A me si uniscono le persone che avete già conosciuto e aiutato.

Fra loro, ricordo al primo posto i 70 ragazzi e ragazze Marma buddisti, di Tong Khyang Para, i più cari perché così sereni e coraggiosi, lontani e poveri come sono. Stanno bene, le strutture fondamentali dell’ostello sono ora in piedi. Presto gusteranno – e venderanno - i grossi pesci del laghetto che abbiamo formato costruendo una diga in terra. Sono riuscito a dotarli di un computer su cui i più grandi (classe nona) fanno le prime prove. Resta il problema di mantenerli ogni giorno, e di trovare per loro qualche risorsa che li renda meno dipendenti dagli aiuti per le spese ordinarie.

I trentacinque ragazzi di Lebubari sono scesi purtroppo a trentadue, perché tre dei grandi si sono mostrati troppo intraprendenti con le ragazze del villaggio e i capi, inesorabili, ne hanno imposto l’espulsione dall’ostello. Con il nuovo anno risaliremo a 35. Dopo i danni, la paura e i rischi del ciclone del 16 dicembre 2007, quest’anno il 27 ottobre ci ha già visitato il ciclone Reshmi, che all’ostello ha abbattuto fragili piante di papaia e banane, e rovinato un terzo del raccolto di riso… ci accontentiamo. Pesci e gamberi sono rimasti nei pukur e, pur con qualche incidente di percorso, rendono benino; ora aggiungiamo un piccolo allevamento di galline ovaiole e qualche appezzamento di terra per il riso. Se riusciamo a trovare e investire bene qualche risorsa ancora, dovremmo rendere l’ostello autosufficiente entro il 2009.

In primavera, la notizia che l’amica Mariannina Kefalidis era stata trasferita ad Ankara mi aveva creato molta preoccupazione per la Poorest Women Society di Dino e Rotna. Non avrei mai potuto fare il grande lavoro che faceva lei come “agente in Bangladesh per la multinazionale dei poveracci”: con passione raccoglieva gli ordini, verificava la qualità dei prodotti, vedeva come farli arrivare alla nostra “agente per l’Italia” Paola Bensoussan. Mariannina stessa, prima di partire in settembre, ha rimediato alle mie preoccupazioni chiedendo a Giovanna Danieletto di prendere il suo posto. Giovanna ha lunga esperienza di queste cose e ci si è messa d’impegno, anche per aiutare Dino a tenere un’amministrazione più precisa, organizzarsi meglio, darsi obiettivi chiari, migliorare i prodotti, passando da metodi e mentalità un po’ paternalisti e assitenzialisti a criteri che risveglino le energie e le capacità delle persone..

Una prospettiva inattesa di fronte alla quale il povero Dino arranca, ma se non si scoraggerà ne avranno beneficio lui e le circa 130 giovanissime e poverissime donne che ha coinvolto.

Voglio pure accennare a qualcuno di cui finora non ho mai scritto: Dana, Hapeha, Maximilian, Ashati, Sunaya, Win… e altri giovani con i quali il mio coinvolgimento in questi ultimi tempi è cresciuto. Studiano nelle superiori o all’università, provengono da vari angoli del Bangladesh e appartengono a differenti gruppi etnici, accomunati da una tenace lotta per riuscire a studiare nonostante avversità spesso molto gravi.

L’apripista del piccolo drappello è stato Joseph. Lavorava per mantenersi, riusciva bene negli studi, ma aveva momenti di grande scoraggiamento quando confrontava la scioltezza e la facilità a socializzare dei suoi compagni bengalesi, musulmani e indù, con le paure sue, unico della popolazione Tripura, povero, con il papà alcolizzato. Ho cercato di accompagnarlo a capire che non è inferiore agli altri, caso mai superiore, perché capace di vivere in due culture e di arrivare a questo livello nonostante le condizioni personali difficilissime. Ha ottenuto una borsa di studio in Australia, è al suo secondo anno là, e mi scrive che è contento.

Dana è pure lei Tripura, con la famiglia divisa, cresciuta in ostelli di varie città e religioni, alla ricerca finalmente di una “casa”, di affetti su cui far conto.

Maria Loreta, di popolazione Santal, era venuta a Dhaka con l’appoggio del papà, prima che rimanesse invalido per un incidente. Lasciato l’ostello, ha continuato facendo qualsiasi lavoro possibile, per studiare e per aiutare la famiglia, tirando cinghia e mettendo a rischio la salute.

E così gli altri, ognuno con la sua storia di fatica economica, psicologica, culturale.

A questi giovani offro una mano, ma chiedo loro di darsi da fare. Proshanto, il più dotato, mi fa da segretario e dà lezioni d’inglese. Gli altri per lo più aiutano negli studi i bambini di due baraccopoli, appoggiandosi ad un localetto affittato da Suor Emilia e Suor Nives, del Movimento Charles De Foucauld, o al laboratorio di cucito di Dino e Rotna. In questo modo qualcuno ha scoperto di avere belle qualità di insegnante.

Anche John Bahadur era del gruppo, ma… innamoratosi, lui Tripura, di una Garo di nome Hosanna, s’è trovato con un figlio in arrivo. Grande trambusto, finché le famiglie si sono date pace permettendo il matrimonio. Niente laurea, il bimbo purtroppo è morto, ma John ha un lavoro discreto, e stravede – ampiamente ricambiato – per la sua Hosanna. Non ha più bisogno di aiuto.

Infine, sono contento di informarvi che quest’anno ho pure preso parte ad interessanti incontri di conoscenza reciproca e dialogo fra gruppi di differenti religioni: con gli Hindù della Ramakrishna Mission, con i Buddisti, con gruppi Sufi. Il più significativo è stato di una giornata, nella Facoltà Universitaria di studi delle Religioni, fra 40 Musulmani e 40 Cristiani, alla ricerca di ciò che ci accomuna; con lo stesso obiettivo ci siamo incontrati pure il 30 ottobre nella sede di un centro di Ricerca Islamico vicino a Dhaka. Queste iniziative si ripetono anche in altre città, piccolissimo segno buono in mezzo alle molte tensioni e alle follie fondamentaliste che ci affliggono.

A tutti voi il mio grazie, che non esprimo con molte parole ma è cordiale, e i miei auguri fraterni

Franco Cagnasso

Un altro passo verso il dialogo

Missionarie dell'Immacolata - Dicembre 2008

Abbiamo chiesto a p. Franco Cagnasso, e a p. Paolo Nicelli, missionari in Asia e appassionati di dialogo tra cristiani e musulmani, di commentare l'esito del Forum cattolico-musulmano che si è tenuto in Vaticano.

NOVITÀ E LIMITI

Esiste un forum, cioè un punto di riferimento fisso dove musulmani e cristiani possono incontrarsi e confrontarsi pacificamente su temi comuni. Questo è il primo elemento positivo di quanto sta avvenendo nell'oceano tempestoso dei rapporti tra le due religioni. Non è nato dal nulla, ovviamente. Le radici vanno cercate nella famosa lezione tenuta dal Papa a Ratisbona nel 2007, che provocò un vespaio di reazioni anche violente. Pochi mesi dopo, 138 studiosi musulmani di vari paesi proposero di cercare le basi comuni per rispettarsi e vivere in pace. Non si potrà più dire che sono sempre e solo i cristiani a prendere l'iniziativa del dialogo; questo è un altro punto positivo.

Il Vaticano ha risposto proponendo di costituire, appunto un "Forum cattolico-musulmano", che ha tenuto il suo primo Seminar a Roma dal 4 al 6 novembre 2007 sul tema: "Amore di Dio, amore del prossimo".

Il secondo sarà organizzato tra due anni in un paese musulmano.

Positivi, a Roma, il clima di distensione e cordialità, e l'inclusione, insieme a teologia e spiritualità, di temi che riguardano la società e i rapporti fra gli appartenenti alle due religioni: difesa della vita, dignità di ogni persona indipendentemente dalla religione, libertà di coscienza, accettazione della pluralità, ecc.

Ci sono anche limiti. Infatti il Forum non rappresenta in modo autorevole e completo le due religioni: i musulmani non hanno una gerarchia riconosciuta, nessuno è autorizzato a parlare "per l'Islam"; d'altra parte, se il Forum è "cattolico-musulmano", non include protestanti, evangelici, ortodossi.

Le affermazioni della dichiarazione conclusiva sono interessanti, ma suscettibili di interpretazioni varie. Al n. 4: "Ci impegniamo insieme a garantire che la dignità e il rispetto umano vengano estesi sia agli uomini sia alle donne su una base paritaria", molti musulmani obietteranno che dignità e rispetto sono garantiti non dall'egualitarismo, ma dal Corano, che dà all'uomo e alla donna ruoli e livelli diversi, stabiliti dal Creatore.

L'affermazione che i "simboli fondanti delle religioni non dovrebbero subire alcuna forma di scherno o di irrisione" (n. 6) sembra voglia prevenire incidenti come quelli delle vignette satiriche su Maometto pubblicate in Danimarca. Però non ha trovato eco il sequestro avvenuto due anni fa in Afghanistan di oltre venti predicatori coreani, l'uccisione di due di loro, e il cedimento del governo Coreano che, per timore, si è impegnato ad impedire la partenza di altri missionari. Si afferma infatti "il diritto di individui e comunità a praticare la propria religione in privato e in pubblico" (n. 5) senza accennare al diritto - negato in diversi paesi islamici - di diffondere la propria religione.

Il Forum si rivelerà incisivo se avrà un "effetto trainante", incoraggiando iniziative analoghe a livello locale, com'è avvenuto dopo la pubblicazione della lettera aperta dei 138 musulmani

p. Franco Cagnasso, PIME

I CONTENUTI

L'incontro svoltosi in Vaticano tra alcuni intellettuali musulmani e cattolici è stato un avvenimento importante, che segue quello di Madrid esteso alle diverse confessioni cristiane. In questo contesto cattolico-musulmano si sono affrontati più liberamente e concretamente i temi che toccano la dignità della persona umana e la libertà religiosa. Infatti, dal parlare dei "fondamenti teologici e spirituali" delle due religioni, si è passati a trattare i temi "della dignità umana e del rispetto reciproco". A fondamento di tale riflessione sta l'Amore di Dio per la sua creatura. Per entrambe le fedi, Dio crea l'uomo e la donna per amore e dona ad entrambi la ragione e il libero arbitrio, che rendono la persona umana capace di amare Dio e il prossimo.

Il riferimento alla ragione umana (n. 3 della Dichiarazione conclusiva), come dono gratuito di Dio, è di fondamentale importanza. Infatti si concepisce una ragione che, sostenuta e illuminata dalla fede, diviene lo strumento necessario per la conoscenza di tutti i fattori della realtà, al fine di giungere alla Verità su Dio, sull'uomo e per il perseguimento del bene comune. Una ragione quindi spalancata al reale, grazie all'atto di fede, che sostiene e illumina la ricerca razionale della Verità ultima: Dio, proprio a partire dalla conoscenza della creazione.

Anche il libero arbitrio è dono gratuito di Dio (n. 3), perché l'uomo possa decidere responsabilmente di aderire all'Amore divino: di farsi incontrare da Dio. Si tratta dell'incontro tra due libertà, quella di Dio di amare la creatura e quella dell'uomo di accettare tale amore come prospettiva della propria vocazione umana e universale. Amore di Dio all'uomo espresso nell'amore dell'uomo per il prossimo. A partire da questo fondamento antropologico, sia l'Islam che il Cristianesimo affermano il rispetto della dignità della persona umana; l'uguaglianza tra l'uomo e la donna; la libertà di professare la propria fede e la propria cultura, nonché il rispetto delle sue libertà civili e politiche (n. 4, 5, 8, 9). Da qui, ogni religione e cultura deve essere accolta all'interno della società, come fattore d'integrazione e quindi non come motivo di divisione e di conflitto, nell'attenzione continua verso coloro che sono i più bisognosi, i più esclusi (n. 8).

Per questo si rende necessaria una conoscenza delle reciproche fedi, che vada al di là degli stereotipi e dei pregiudizi che si sono formati nel tempo. Bisogna favorire un'educazione ai valori morali dell'Islam e del Cristianesimo, siano essi religiosi, civili e umani, che sia tesa ad informare accuratamente sulla religione dell'altro (n. 10). Abbiamo qui i presupposti concreti per continuare il dialogo-confronto tra Islam e Cristianesimo, di fronte alle sfide che la modernità sta ponendo alle due religioni.

Su questa linea, credo che sia l'Islam che il Cristianesimo devono confrontarsi con il mondo moderno, per dare risposte concrete alle domande fondamentali che uomini e donne si pongono sul senso della vita e del loro destino, in un mondo sempre più globalizzato, multiculturale e multireligioso, teso a sacrificare la dignità della persona umana sull'altare dell'interesse economico e politico.

Ecco dove il dialogo-confronto tra Islam e Cristianesimo può diventare il fattore determinante sul ripensamento dell'uomo moderno nel più ampio dialogo tra Islam e Occidente, partendo dal riconoscimento, per noi occidentali, che il Cristianesimo è stato ed è ancora oggi il fattore fondativo della civiltà occidentale nel suo insieme ed europea in particolare.

p. Paolo Nicelli, PIME