Articoli e lettere agli amici - 2021

p. Franco Cagnasso


2021


Lettera agli amici

Natale 2021

Carissimi Amici,

quest’anno, la “consueta” lettera natalizia è... inconsueta: comunica l’inattesa notizia che fra qualche mese forse lascerò il Bangladesh. Dove andrò è presto per dirlo, ma non posso scrivere facendo finta di nulla, perché in questi giorni il mio pensiero va insistentemente non a ciò che mi attende, ma a ciò da cui mi allontano; con rammarico, ma consapevole che i 24 anni vissuti in questo Paese: dal 1978 al 1983, poi dal 2002 a oggi, mi hanno “arricchito” molto. Ho operato soprattutto nel campo dell’accompagnamento spirituale e della formazione, ma ho potuto dedicarmi liberamente anche a qualche attività con i poveri scegliendo, quando possibile, di sostenere iniziative locali piuttosto che mie. Qualcuna è fallita, ma alcune di esse sono decollate bene e non hanno più bisogno del mio aiuto. La mia preoccupazione adesso è: come lasciare ciò in cui sono tuttora impegnato?

Si tratta di attività diverse, che alcuni di voi sostengono. Ve ne informo, come sempre nelle mie lettere natalizie, ma nella prospettiva eventuale che io le debba lasciare.

E per incominciare faccio cenno a qualche cosa che ancora non esiste, ma - pensata insieme ad altri missionari del PIME - sta prendendo forma: aiutare alcune mamme e bambini affetti da disabilità mentale, a Dinajpur. Osiamo inoltrarci in questo settore per noi sconosciuto, grazie all’esperienza e al “carisma” di una missionaria laica giapponese che si rende disponibile. Si tratta di un progetto molto piccolo, anche se coinvolgerà italiani e giapponesi, membri di comunità cristiane varie e di religioni diverse. Spero che entro qualche mese avrà inizio; con me o con altri, non ha importanza.

Il Centro Assistenza Ammalati (SAC) di Rajshahi, ora ha un fratello minore: un “Centrino” con lo stesso nome e lo stesso scopo, collocato in tre stanze della casa del PIME qui a Dhaka. Le attività di entrambi si sono ridotte a causa della pandemia, ma stanno riprendendo con prudenza. Le suore di Maria Bambina, co-fondatrici e collaboratrici fin dall’inizio, hanno accettato la piena responsabilità dell’iniziativa più complessa, a Rajshahi. Continueranno, spero, con il sostegno degli amici che ci hanno accompagnato finora. Il PIME penserà al SAC di Dhaka.

A Rajshahi c’è pure Snehonir, la “casa della tenerezza”, dove una quarantina di bambini e giovani con varie “disabilità”, o “abili”, si incontrano, si aiutano, giocano, studiano, lavorano in un’atmosfera di gioia e di speranza che anche un visitatore frettoloso percepisce, e dove io “cerco rifugio” ogni tanto. La Caritas ci aveva affidato 16 bambini non vedenti o non udenti, garantendo la copertura delle spese fino alla fine di quest’anno. In seguito, teoricamente, i bambini dovrebbero continuare nelle scuole ordinarie; ma non sono pronti, e ancora meno le scuole pubbliche sono in grado di riceverli. Non li rimandiamo a casa in questa condizione incompiuta, li teniamo, e in qualche modo si riuscirà ad andare avanti. Ho fiducia che alle Suore Shanti Rani, che vivono e operano a Snehonir, non mancherà l’appoggio fraterno di tanti che (finora attraverso di me) li aiutano a distanza, e del PIME.

A Bandarban, nel sud, se mi vedranno partire non mancheranno le lacrime. Nei Marma, infatti, ho scoperto, tra altre, due simpatiche caratteristiche: danno importanza ai sogni, che fanno parte del loro quotidiano, e non si vergognano a mostrare le loro emozioni, anche con il pianto. Per il futuro, ostello e scuola fanno conto sulle piantagioni di frutta e di gomma, che hanno incominciato a produrre in modo significativo. Inoltre, il PIME ha approvato un progetto di “Sostegno a Distanza” in favore di 20 dei loro circa 140 bambini e bambine dai 7 ai 18 anni. Piantagioni, adozioni, e generosità che vari amici dimostrano, permetteranno a Mong Yeo, ideatore e realizzatore di “Hill Child Home”, di continuare a dare una buona educazione a membri delle minoranze etniche più trascurate e sfruttate, perché cresca la loro fiducia in se stessi, e trovino spazi dignitosi nella società bengalese e musulmana.

Queste le iniziative “strutturate”. Ma c’è altro – anzi – ci sono altri che, se dovrò partire, non avranno un’organizzazione che li appoggia.

Mi viene in mente Mukta, vissuta sempre fra tensioni e litigi: i loro vicini avanzavano diritti sulla terra e sulla baracca in cui abita, i creditori esigevano il pagamento di debiti contratti dai suoi sprovveduti genitori... minacce, attacchi, disprezzo come cibo quotidiano. Appena possibile, s’è sposata, per andarsene. Ma è accaduto il contrario: il marito è andato a vivere da loro, e dopo la nascita del secondo figlio si è congedato con una telefonata: ne ho abbastanza! Ora lei cuce bottoni in una fabbrica di abiti, mantenendo due figli, i genitori, se stessa e la suocera ammalata, di cui s’è fatta carico.

Ho aiutato Mukta come potevo, e come lei altri che vivono situazioni simili di povertà e precarietà. A volte l’aiuto, pur modesto, è risolutivo: grazie al dono di una macchina per cucire. Apu mantiene dignitosamente se stessa e la mamma, una donnetta fragile che l’ha fatta crescere e studiare lavorando come manovale in cantieri edili. Ma per molti l’assistenza richiede continuità. Rita ha ripreso con sé il marito che l’aveva piantata, rifacendosi vivo quando un incidente lo ha reso invalido. Lo assiste, ma non ce la fa a comprare le medicine... come Biren che, poveretto, trova inaccessibile il prezzo delle medicine per il suo diabete...

La lista sarebbe lunga e monotona, anche se la sofferenza ha volti e strade differenti... A tutti cerco di offrire il dono di un po’ di tempo, di ascolto: devo farmi perdonare sgridate o arrabbiature, raccogliere “sfoghi” da cui a volte imparo molto, verificare se mi stanno imbrogliando: succede anche questo... Combatto l’ansia suscitata da questi pensieri ricordando che esiste tanto bene nascosto; prego che il bene si rafforzi, a vantaggio di coloro dai quali mi allontanerò, e di tutti.

La prospettiva di andar via, mi ricorda che sono venuto in Bangladesh senza piani di interventi sociali o pastorali. Volevo seguire il Maestro che si è fatto piccolo per essere con i più piccoli, essere testimone di Lui, che ha dato senso e orientamento a tutta la mia vita. Il mio impegno è stato un “grazie” per ciò che ho ricevuto io, in tanti anni, da persone che mi erano accanto quando ero bambino, giovane, e fino ad oggi; primo fra tutti, il dono della fede, e quello delle amicizie, il cui valore si fa sentire più vivamente proprio in questi momenti.

Il 25 dicembre richiama ai credenti la “buona notizia” che l’Origine di tutto ciò che siamo si esprime venendo in mezzo a noi e vivendo fra noi un modo nuovo di guardare a se stessi, ai rapporti fra noi, al Mistero che ci avvolge e che ci è “Padre”. Auguro a tutti di sentire che il Natale è dono di Dio, e può rendere più vera e piena tutta la nostra vita.

A chi lascio e a chi incontrerò ricordo che ciò che viviamo insieme è e rimane dentro di noi.

Buon Natale a tutti!

p. Franco

Nella fotografia, oltre al sottoscritto, vedete Robi Hasda: colpito da poliomielite appena nato, orfano di madre, lo affidarono alla Missione. Sopravvisse grazie all’affetto tenacissimo di Suor Gertrude a cui vennero poi affidati altri bambini con disabilità, finché, gradualmente, si formò la comunità di “Snehonir”, di cui Robi è il “capostipite”. Ora sta avviando il suo negozietto di cartoleria. La Suora è Dipika, succeduta a Suor Gertrude; da 15 anni dirige Snehonir, dove ha creato un’ottima atmosfera educativa.

P. Franco Cagnasso – PIME House – 92 Asad Avenue – Mohammadpur – 1207 DHAKA – Bangladesh

Email: cagnassofranco3@gmail.com


Istruzione superiore o primato dei poveri? Dilemma scuole in missione

p. Franco Cagnasso

Mondo e Missione - 20 dicembre 2021

Da Dhaka padre Franco Cagnasso nel suo blog “Schegge di Bengala” (ndr: disponibile anche sul sito Amici missionari) riflette su un tema che accomuna tanti istituti impegnati nelle frontiere missionarie. Le società locali cercano sempre di più dai missionari standard elevati di istruzione. Ma questo non può avvenire a scapito dell’impegno a portare sui banchi anche gli ultimi

L’impegno dei missionari del PIME per la scolarizzazione dei poveri in Bangladesh risale ai primissimi, arrivati nel 1855. Operavano a partire da Krishnanagar, nel sud del Bengala centrale (oggi parte dell’India), e quando il PIME gradualmente si spostò a nord, per evangelizzare gli aborigeni, il metodo non cambiò, e si moltiplicarono anche gli ostelli, che permettevano a bambini e bambine di andare alla scuola della missione anche se abitavano in villaggi lontani. Non era facile persuadere i genitori a mandare i figli a scuola, anziché a pascolare gli animali o raccogliere legna. P. Viganò mi raccontava che, da giovane, subito dopo l’apertura mattutina della scuola girava in bicicletta a “caccia” di bambini che volontariamente, o per decisione dei genitori, andavano nei campi, o a pescare negli stagni.

Nel corso degli anni si avviarono molte scuole, almeno fino alla quinta elementare, ma parecchie fino alla classe decima, quando c’era l’esame statale (il nostro “esame di maturità”), una meta allora raggiunta da pochi.

Alla fine degli anni ’70, il direttore della scuola parrocchiale di Mathurapur era “metric failed”, cioè era arrivato all’esame di maturità ma non era riuscito a superarlo… tuttavia era autorevole, e se la cavava bene.

Si identificò così l’impegno per le scuole – che assorbiva energie e risorse – con l’impegno per i poveri. Grazie agli aiuti che ricevevano dai cristiani dei Paesi benestanti (Italia anzitutto, poi anche USA) le scuole e gli ostelli dei missionari erano economiche e per molti del tutto gratuite, e davano ai poveri la possibilità di frequentarle.

Quando visitai brevemente la Thailandia, nel 1983, rimasi sorpreso nel sentire che le scuole in quel Paese costituivano una fonte di guadagno, almeno nelle zone di popolazione tailandese. A Phrae, mi disse p. Bordignon, la piccola parrocchia sembrava un’appendice delle ampie scuole, una gestita da Suore e l’altra da Fratelli, che erano ben conosciute in città nonostante il numero di cristiani fosse molto basso.

Oggi forse ci stiamo avvicinando ad una situazione analoga, anche in Bangladesh. Motivi? Grazie alla scolarizzazione a livello elementare e medio, il numero di giovani che può accedere a studi superiori è cresciuto, e così il desiderio di farlo. A queste esigenze, diocesi e istituti religiosi rispondono con la costruzione di “College”, cioè scuole di livello universitario. Presenti già in aree dove i cristiani sono in maggioranza bengalesi, i cristiani aborigeni chiedono che anche nelle loro zone si investa in College “cristiani”. Alle poche prestigiose scuole cattoliche di Dhaka e Chattogram, fondate ormai tanti anni fa dai Missionari della Santa Croce con i loro tre rami indipendenti (Suore, Fratelli, Padri) se ne stanno aggiungendo altre in altri luoghi, tutte di buon livello, e stimate.

Ma ovviamente occorrono insegnanti qualificati, e le spese sono alte. Non solo, ma diminuendo i missionari esteri e passandole responsabilità a suore, fratelli e preti locali, il flusso di offerte dall’estero diminuisce. Di conseguenza, anche le scuole elementari e medie diventano costose da gestire, e la loro fama di scuole per i poveri, va scomparendo. “Caso” tipico è la St. Philip’s School” di Dinajpur con l’omonimo ostello. Erano ottime, e molti benestanti vi mandavano i loro figli, ma i poveri non paganti, o che davano piccoli contributi erano la maggioranza. Poi la scuola è stata affidata alla Diocesi, che a sua volta l’ha affidata ai Fratelli della Santa Croce, i quali l’hanno ampliata e migliorata notevolmente, ma ovviamente aumentando le tariffe a livelli inaccessibili per molti. Inoltre, i Fratelli stanno avviando scuole dello stesso tipo in diversi posti. Noi del PIME in genere ci troviamo a disagio con questi cambiamenti, e magari brontoliamo e critichiamo. Però il problema esiste: senza donazioni sufficienti, specie per scuole di livello superiore, e senza aiuti dal governo, dove prendere le risorse?

Suore, Fratelli e Padri della Santa Croce, e di altri istituti, tengono tariffe alte, ma spesso offrono lezioni gratuite, in altro orario, per studenti che non ce la fanno ad accedere ai corsi regolari. Prima e seconda categoria? Loro sostengono di no: gli insegnanti sono gli stessi e sono competenti.

La nostra risposta è diversa, anche perché come istituto non siamo specializzati nelle scuole e nell’insegnamento: ci siamo tuffati in quel settore come risposta ai bisogni dei poveri, che vedevamo immediati e importanti, ma non sentiamo il bisogno di avere le “nostre” scuole, e ci sono per noi anche altre vie per esprimere la nostra testimonianza missionaria. Tuttavia non ci disinteressiamo. Recentemente abbiamo introdotto il sistema delle “Borse di studio”, mentre proseguiamo con le così dette “adozioni”, o “sostegni” a distanza, finanziate da donatori in Italia e negli Stati Uniti. Integrano i contributi chiesti agli studenti, e permettono di tenere basse le tariffe. Venivano gestite da noi a livello parrocchiale, ora per il clero locale ci sono uffici diocesani a Rajshahi e a Dinajpur dove ci si prende cura di tutte le adozioni della diocesi, sollevando i parroci da un compito impegnativo, che a volte viene trascurato. Abbiamo un sistema analogo a Dhaka, solo per le missioni che abbiamo avviato e poi passato all’arcidiocesi. Funziona, ma in certi casi sembra non bastare per scuole parrocchiali gestite da preti diocesani o da suore locali. E quando giunge notizia che in una missione alcuni bimbi di famiglie povere non ce la fanno ad andare a scuola, o non sono accolti nell’ostello, si sta davvero male.

Pienamente d’accordo che scuole ben qualificate, anche se costose, offrono un rilevante contributo ad avviare e mantenere rapporti con la società nel suo insieme, includendo musulmani e hindu, classi medie, benestanti e ricche. L’influsso positivo della presenza a Dhaka di due prestigiosi “College”, “Notre Dame” per i giovani, e ”Holy Cross” per le ragazze, emerge spesso incontrando persone che hanno nella società bengalese posizioni di responsabilità: sono riconoscenti per quanto hanno ricevuto, non solo sul piano scolastico, ma per l’educazione in genere, in senso ampio, che include senso del dovere, serietà professionale, apertura mentale e a persone di religione diversa, generosità e affidabilità, attenzione ai problemi sociali, ecc. Ma non vorrei che fra qualche anno si identificasse la scuola cattolica come scuola solo dei ricchi.



Come va con il Covid-19 in Bangladesh?

Mondo e Missione - 27 giugno 2021


Padre Franco Cagnasso, missionario del Pime a Dhaka: “Credo di poter dire che stiamo peggiorando. Ma per capire quanta sia la confusione basta mettere in fila un po’ di titoli del quotidiano locale…”


Molti chiedono come va la faccenda Covid 19 in Bangladesh. A tutti rispondo che non si capisce, ma oggi – 27 giugno 2021 – credo di poter dire che stiamo peggiorando. Prendo alcuni titoli dal quotidiano ”The Daily Star” uscito questa mattina.

In prima pagina:

ICU Occupancy Gallopping. Aumenta rapidamente il numero di letti (d’ospedale) occupati. Dal primo al 27 giugno 103, 78% in più per tutti i tipi di letti; 111,56% in più per i letti di Terapia Intensiva.

Work on own vaccine plant to start soon. Inizierà presto il lavoro per produrre il nostro vaccino. Il progetto, dice il ministro della salute, nasce dall’esperienza fatta: le promesse di vari paesi di fornire vaccini non sono state mantenute. Se tutto andrà bene potremo iniziare a produrre localmente tra due anni.

Madness, again. Di nuovo follia. Fiumi di cittadini di Dhaka si accalcano su traghetti e mezzi di fortuna (treni e autobus a lunga percorrenza sono bloccati) per andare ai villaggi prima della proclamazione del “lockdown” totale.

Cruelties rising in chaotic time. Aumentano le crudeltà nel tempo del caos. Legami famigliari fragili e disorganizzazione sociale sono un fattore determinante di questo. In aumento anche i suicidi.

Government taking steps for cash, food aid for the poor. Il governo sta prendendo misure per aiutare i poveri con denaro e cibo. Con giugno, in Bangladesh si chiude l’anno finanziario, e viene pubblicato il piano di spese del governo per l’anno seguente (primo luglio 2021-30 giugno 2022). L’anno scorso il piano per i poveri si era rivelato un colabrodo con corruzione che rosicchiava le risorse da tutte le parti. Quest’anno il piano non prevede provvedimenti di assistenza per le povertà causate dal virus. A chi criticava questa lacuna, il ministro delle finanze aveva risposto che si tratta di una situazione provvisoria e non era il caso di metterla nel piano. Ora ci ripensa?

Lockdown now from Thursday. Ora la chiusura totale inizia giovedì. Era stato annunciato un lockdown totale e severissimo a partire dal 28 giugno, ora l’inizio è rinviato al primo luglio, per almeno una settimana. Molte categorie si sono mobilitate per chiedere eccezioni e dispense varie.

In altre pagine:

Covid death toll passes 14k mark. Il numero dei morti salito oltre i 14mila, di cui mille negli ultimi tre giorni.

Just give us the vaccines. Dateci almeno il vaccino: è l’invocazione dell’OMS in favore dei paesi rimasti senza.

2.4m Moderna shots to arrive soon. Presto in arrivo due milioni e quattrocentomila vaccini Moderna: contributo degli USA al progetto Covax.

A life lost for a vacant ICU. Una vita persa alla ricerca di un posto libero all’Unità Terapia Intensiva (descrizione di un caso particolare, fra diversi).

Hunger, lockdown don’t go together. La fame e il lockdown non stanno insieme: il capo dell’opposizione afferma che non puoi tenere la gente chiusa in casa se non ha da mangiare e nessuno provvede per loro.

Keep labour migration out of lockdown purview. Tenere i lavoratori migranti fuori dalle restrizioni del lockdown.

Factors determining the 3rd wave of Covid 19 in Bangladesh. Fattori che determinano la terza ondata di Covid 19 in Bangladesh.

Ce ne sono parecchi altri ancora. Ma ve li risparmio…

p. Franco Cagnasso


A Dhaka la promessa iniziale di Tijes e Shaon

Mondo e Missione - 14 giugno 2021

La pandemia ha impedito in questi mesi a due seminaristi del Pime del Bangladesh di aggregarsi al seminario di Monza. Ma a Dhaka hanno vissuto comunque l’anno di spiritualità e compiuto il primo passo solenne, manifestando pubblicamente la propria volontà di diventare missionari a vita. Padre Franco Cagnasso racconta le storie di questi due giovani

Le loro storie sono diverse. Entrambi hanno uno stile sobrio, di poche parole, con un po’ di timidezza, ma non chiuso; ora hanno in comune anche una promessa pronunciata insieme.

Tijes Mri appartiene alla popolazione Mandi. È diffusa specialmente nel nord est del Bangladesh e al di là del confine, in India; ha un alto numero di immigrati in città; è quasi completamente di religione cristiana: cattolici, battisti, anglicani… Ha una cultura e una organizzazione sociale “matrilineare”: i figli prendono il cognome della mamma, è il marito, non la moglie che dopo il matrimonio si trasferisce nella casa dei suoceri, l’eredità è in gran parte destinata alle figlie…

I Mandi sono stati evangelizzati soprattutto dai missionari americani della Santa Croce. Il Pime non ha mai operato nelle loro zone, e Tijes non ci conosceva. Ci ha incontrati grazie ad un amico, pure lui Mandi, che era venuto a studiare e lavorare a Dhaka e gli parlò con soddisfazione del “Samuel Program”. È una serie di incontri che – coinvolgendo suore e preti di diversi istituti – il Pime da anni organizza per ragazze e ragazzi che, dopo il liceo, vogliono riflettere e pregare sulla loro vocazione, in vista di una scelta matura. Tijes abitava lontano, presso uno zio che lo ospitava per permettergli di studiare al College della cittadina dove risiedeva, e da lui aveva imparato un metodo di preghiera contemplativa che gli piaceva e praticava fedelmente. Ora il “Samuel Program” lo attraeva, e si impegnò a partecipare, incoraggiato dallo zio che vedeva di buon occhio la sua ricerca vocazionale. Risparmiava al centesimo per poter partecipare agli incontri, dove interveniva sempre con poche parole, ma molto a proposito. Trascorse anche qualche mese nella nostra comunità formativa, mentre preparava l’esame finale del College, e questo tempo aiutò ad aumentare la confidenza reciproca fra lui e i missionari, che lo presentarono al seminario filosofico nazionale come “candidato del Pime” verso la strada della missione a vita.

Shaon Caesar, come dice il cognome – che è “Rosario” – appartiene ad una famiglia discendente di bengalesi diventati cristiani alcuni secoli fa per influsso di commercianti e missionari portoghesi. Un gruppo di loro, all’inizio del secolo scorso, lasciò l’area di Dhaka spostandosi al di là del Brahmaputra, dove trovarono terre coltivabili a prezzi accessibili, e fondarono alcuni villaggi con popolazione cristiana. Fra questi, anche Borni, dove il Pime fondò la missione di Mariabad, e dove Shaon nacque. Ha respirato dunque aria di Pime fin da piccolo; la sua famiglia fu in buoni rapporti con parecchi nostri missionari, fra cui p. Luigi Pinos, e ne ha un ottimo ricordo. In realtà, lui – giovane – non li può ricordare, ma fin da piccolo si è sentito attratto da ciò che vedeva e che sentiva di loro. Lo attirava molto il loro “andare verso” la gente, e l’idea che fossero venuti da lontano per parlare di Gesù. Voleva essere “come loro”, ma fu consigliato di entrare nel seminario diocesano, dove completò bene il College, e dove con molta prudenza e qualche timore continuò a chiedersi se e come passare al Pime. Mentre studiava filosofia – compagno di classe di Tijes – la decisione maturò e alla fine del biennio il “salto” avvenne, con permesso e benedizione del vescovo.

Così per Tijes e per Shaon arrivò il momento di continuare la formazione in Italia, con l’anno di studio della lingua e poi il periodo di spiritualità. I superiori li accolsero, ma eravamo nel 2020, e in piena pandemia non fu possibile partire. “Pazienza – si sentirono dire – se non potete venire, ci organizziamo lì da voi!”.

Rimasero nella nostra comunità di Dhaka, con un programma sviluppato per loro da p. Rapacioli, p. Brice, p. Parolari e dal sottoscritto: quattro “professori” per due alunni… non c’è male!

Infatti, andò bene. Ecco perché lo scorso 11 giugno, dopo vari rinvii dovuti alle restrizioni di movimento che il governo continuava a rinnovare, è stata organizzata la celebrazione della “promessa”. Si è fatta nella chiesa di santa Cristina, la prima parrocchia fondata dal Pime nell’area di Dhaka, e passata da tempo sotto la responsabilità del clero locale. Per seguire la regola anti-virus, gli invitati erano pochi, ma i genitori di entrambi, Tijes e Shaon, con qualche fatica in più sono riusciti a venire, insieme ad alcuni altri famigliari, – contenti. I due hanno ricevuto la “veste” bianca, segno del loro cammino formativo verso il presbiterato, e hanno pronunciato la “promessa”. Di che cosa?

Prima di tutto hanno espresso la volontà chiara di diventare missionari del Pime a vita, e poi hanno promesso di impegnarsi a fondo per seguire bene la preparazione, nell’istituto e con la guida dell’Istituto. La formazione li accompagnerà alla “promessa definitiva” di essere missionari di Cristo, nel e con il Pime, per sempre.

Come delegato del Superiore generale, la promessa è stata accolta e tutta la celebrazione è stata presieduta da p. Brice Tambo, missionario camerunese in Bangladesh, che indossava la bella casula ricevuta in dono anni fa per la sua prima Messa, ricca di simboli africani: il Pime del futuro sta arrivando…

Ora i due, diventati amici, andranno in Italia per continuare a Monza il loro cammino; con loro dovrebbero andare altri quattro, che nel frattempo hanno finito il biennio filosofico nel seminario nazionale. E se di nuovo il Covid 19 metterà il bastone fra le ruote? Niente paura: una via per andare avanti – e andare avanti bene – si troverà!

p. Franco Cagnasso


Viaggio - 1

Da Schegge di Bengala - 200 del 7 febbraio 2021

Qualche settimana fa mi lanciai in un coraggioso esperimento: “ispirato” dalla notizia della prossima canonizzazione di Charles de Foucauld, scrissi alcune schegge a puntate (assoluta novità editoriale), e per di più parlando della mia storia personale. Pensavo che l’iniziativa mi avrebbe fatto perdere almeno un milione dei miei affezionati lettori, invece... ne ho guadagnati 2 (no, non due milioni, due lettori!). Ingolosito dallo strepitoso successo, riprovo, narrando a puntate un viaggio compiuto recentemente: un modo per parlare di dove siamo e che cosa facciamo, cioè qualche cosa che forse finora ho “scheggiato” poco...

P. Gian Paolo Gualzetti, lecchese fino al midollo, è un ottimo autista e un famoso viaggiatore. Gestendo un pulmino avuto in regalo da Gisella e Vittorio con amici, trasporta passeggeri e merci di ogni tipo, e quando parte sa dove arriverà. Ciò che non sa esattamente è quando, e ancor meno dove, e con chi, farà tappa. Partendo, prevede sempre qualche “piccola” deviazione con visita, ma viaggiando vengono in mente altre possibilità, i ricordi si risvegliano, deviazioni e tappe diventano una tentazione. A Dhaka, dove ha fondato una parrocchia di “urbanizzati”, Gian Paolo ha conosciuto persone provenienti da tutto il Bangladesh, e ora che dirige il “Centro Gesù Lavoratore” in località Zirani (quaranta chilometri a nord ovest di Dhaka) ne conosce molti altri, quasi tutti giovani, alcuni dei quali sono vissuti con lui e con le suore del PIME al Centro. Li ricorda e li incontra volentieri, oppure passa a salutare mamme, sorelle e papà portando e ricevendo notizie. Di solito non avvisa: meglio arrivare all’improvviso, piuttosto che mobilitare la famiglia intera per assassinare polli, impastare dolci, preparare collane di fiori per l’accoglienza, radunare il vicinato... e poi sentirsi in colpa se non si fa abbastanza onore mangiando a quattro palmenti, a rischio di addormentarsi poi mentre guida verso la meta. Ogni crocicchio, bivio, viottolo gli fa venire in mente... ah, da queste parti abita la famiglia di Shilpy, che è venuta a Zirani dimenticando a casa il golf... passiamo, lo prendo e glielo porto... Più avanti c’è una coppia che ho sposato sei mesi fa... I passeggeri, se non sono nervosi e affrettati, scoprono villaggetti, famiglie, giovani e anziani che accolgono volentieri, fanno festa, danno notizie ne ricevono, garantite dall’autorevolezza del Padre...

Questa volta è toccata me, unico passeggero di un viaggio Dhaka-Dinajpur - circa 350 km, senza contare le digressioni. Si parte alle 9.40 di sabato 16 gennaio. Orario insolito: Gian Paolo, noto lavoratore notturno, era abituato a viaggiare solo di notte, ma ora parte la mattina prestissimo, perché con il passare del tempo anche la notte è diventata sovraffollata di traffico come il giorno, e tutti viaggiano con gli abbaglianti accesi: un fastidio incredibile e un rischio notevole. Solo tra la fine della notte e l’inizio della giornata, si può trovare una strada quasi libera e viaggiare abbastanza velocemente. Attraversiamo la vasta area industriale di Savar. Ogni volta, arrivando al bazar più grande della città, torna alla mente la strage di 1.200 operai che avvenne qualche anno fa proprio lì, quando crollò un palazzo di cinque piani che ospitava varie fabbriche, e anche il Centro Gesù lavoratore ebbe le sue vittime. Più avanti si attraversa la EPZ – area industriale “a statuto speciale, la cui produzione è esclusivamente destinata all’esportazione, tanto che le merci sono sottoposte a controlli doganali. Nelle ore di cambio dei turni di lavoro, fiumi di lavoratrici e di lavoratori entrano ed escono in fretta, a piedi, o scendendo da autobus fatiscenti che si fermano in tutte le possibili posizioni ostruendo le strade. Si ricorda allora una carissima coppia di amici italiani che aveva avviato là una fabbrica di tessuti, a mio parere un “esperimento” di vera missionarietà laicale. Fabbricare tessuti... missionarietà laicale? Sì. Hanno realizzato una realtà industriale che cercava il profitto, come fa ogni azienda seria, ma dando assoluta importanza ai rapporti umani, alla sicurezza, alla giustizia, all’onestà, al rispetto e alla fiducia, alla sostenibilità ecologica. Impegni non piccoli, perseguiti con tenacia, fatica e successo, finché problemi di famiglia li hanno costretti a vendere e tornare in Italia. Ora la fabbrica continua a produrre, ma la buona fama che aveva (chi lavorava “da Berto” era invidiato da tutti!) e la stima che riscuoteva si stanno dissolvendo nella normalità...

Arriviamo al Centro Gesù lavoratore in meno di due ore, non c’è male, visto l’orario. Ci accoglie P. Piero Parolari, compagno di servizio in questa iniziativa unica in Bangladesh, che pian piano si sta facendo conoscere e anche apprezzare dal clero locale, all’inizio indifferente o sospettoso. Un’occhiata ai due edifici del Centro inevitabilmente fa pensare a Alberto Malinverno, l’ingegnere volontario dell’ALP (Associazione Laici PIME) che li ha disegnati e ne ha curato la costruzione, dando un tocco che i vari architetti dilettanti della nostra comunità non sanno a dare. Passiamo a salutare le tre suore che stanno qui, fra cui suor Pauline, in attesa di partire – virus permettendo – come missionaria in Brasile. Un’attesa dinamica a dire il vero, perché suor Pauline conosce quasi tutti, e non le piace star ferma ad aspettare che qualche cosa succeda...

Dopo pranzo, accogliamo anche noi il pulmino delle Suore che arrivano da Khulna: sono in corso “trasferimenti” di superiore delle loro comunità – un andirivieni che ogni anno avviene a gennaio.

Poi, pomeriggio tranquillo, guardando i cambiamenti che avvengono attorno. Lo spazio accanto a noi a sinistra era stato riempito di “container” vecchi, scassati, arrugginiti, messi lì come segno di possesso da parte di uno dei vari che si contendono la proprietà del terreno. Ora i container sono spariti, ma non so chi abbia “vinto”... Dalla parte opposta, c’è un fiumiciattolo lento, perennemente blu intenso per gli scarichi di alcune tintorie. Il terreno fra il fiume e il nostro recinto, regno di anitre e topi, ora è completamente occupato da mucchi di spazzatura accanitamente ispezionati da selezionatori che recuperano e rivendono quasi tutto. Il riciclaggio artigianale è un’arte molto praticata in Bangladesh, attuata con grande ingegnosità da molti poveri, soprattutto bambini e donne, con altissimo rischio per la salute. Dietro il nostro edificio, una miriade di stanzette precarie affittate a lavoratori con pochi mezzi, e davanti uno spazio non grande ma considerato campo da calcio, e pure giardino di giochi per i bambini dell’asilo nido che permette a numerose mamme e papà di andare al lavoro, lasciando i figli in buone mani. Pochi anni fa c’erano risaie ovunque, ora il panorama è complesso: industrie, discariche, spazi vuoti, negozietti.

Una piccola moschea là vicina ha altoparlanti ben orientati, potentissimi; il richiamo alla preghiera del tramonto accompagna l’inizio della celebrazione della nostra Messa; siamo solo in tre, tutti sono negli stabilimenti, in cucina, sulle strade, al bazar, qualche devoto alla moschea...


Viaggio – 2

Da Schegge di Bengala - 201 del 25 febbraio 2021

Per fortuna ci siamo attrezzati con abiti invernali, perché il vento che soffia a Zirani nella serata del 26 gennaio entra allegramente nelle stanze, costruite pensando solo come evitare il caldo, e ci intirizzisce. Ogni anno il freddo invade il Bangladesh brevemente, ma fa soffrire milioni di persone non attrezzate ad affrontarlo, dà a partiti politici e benefattori l’occasione per distribuire coperte ai poveri, mentre commercianti improvvisati espongono lungo le strade mucchi di golf, maglie e indumenti che verranno usati per pochi giorni e poi lasciati in qualche angolo per undici mesi...

Siamo alla prima tappa del viaggio Dhaka-Dinajpur, al Centro Gesù Lavoratore, nel cuore di un’ampia zona trasformatasi rapidamente da rurale ad industriale, a circa 40 chilometri da Dhaka, con fabbriche ed edifici grandi e piccoli costruiti in ordine sparso.

Il Centro ha un cortile interno relativamente grande, usato per giochi, incontri, liturgie, e due edifici che ospitano la chiesa, la comunità delle suore del PIME e i due padri, un ostello per lavoratrici, e uno per lavoratori, un asilo nido, qualche ufficio, la cucina all’aperto che serve tutti.

È stato progettato e realizzato per venire incontro alle esigenze di cui i nostri missionari – p. Baio, p. Gualzetti, p. Ballan – si rendevano conto mentre avviavano la nuova parrocchia urbana di Mirpur, cercando contatti ovunque si potessero avere, anche molto lontani dalla sede parrocchiale. Trovavano tanti immigrati cristiani isolati e smarriti, con possibilità praticamente nulle di frequentare comunità cristiane. A loro volta, i responsabili della scuola tecnica di Dinajpur, specialmente Fratel Massimo, vedevano l’urgenza di preparare i ragazzi, provenienti da zone rurali tradizionali, non solo ad essere buoni meccanici, carpentieri, elettricisti, ma ad entrare nella giungla suburbana, nel mondo del lavoro, per trovare un impiego e per vivere in modo dignitoso e sereno in quell’ambiente per loro del tutto sconosciuto. Pensa e ripensa, i missionari di Dhaka e di Dinajpur hanno unito le forze passando ai fatti. Trovare e comprare il posto adatto e disponibile non è stato facile, ma ce l’hanno fatta, e l’iniziativa è partita: con gli ostelli, dove i giovani possono rimanere per un certo tempo, mentre cercano lavoro e poi una abitazione adatta; e organizzando interventi pastorali e sociali adeguati.

Si potrebbe dire che il Centro è come una parrocchia, ma disegnata sulle esigenze dei lavoratori, di cui le parrocchie tradizionali – rurali o urbane - non sono abituate a tener conto. L’adattamento più evidente è quello di svolgere la liturgia domenicale il venerdì, che in Bangladesh è il giorno di riposo settimanale, perché solo il venerdì le fabbriche concedono un giorno, o almeno qualche ora libera. Ma è importante anche stabilire rapporti di collaborazione con le parrocchie di origine, che sono legate agli usi tradizionali, specialmente per i matrimoni. I giovani che si trasferiscono lontano, per ragioni di lavoro ed economiche non possono seguire queste regole (incontri tra famiglie, visite, offerte di regali...),e per questo rinviano o si adattano a convivere, in attesa di poter celebrare secondo le regole... Le iniziali difficoltà ad intendersi con le parrocchie di origine, con pazienza si sono quasi superate; ora a Zirani si interviene con corsi prematrimoniali e celebrazioni che liberano i giovani da questi problemi. La presenza di un Centro “per loro”, attrae molti, non soltanto cristiani, specie appartenenti a gruppi etnici di minoranza, che trovano possibilità di aggregazione e di iniziative varie – dal torneo di calcio alle conferenze sulla giustizia sociale, dalla celebrazione di feste all’attenzione per gli ammalati... Insomma, un’iniziativa indovinata e, dopo iniziali perplessità e critiche, apprezzata. Ormai non sono pochi a dire che ce ne vorrebbe altre simili in altre zone.

La mattina del 27, domenica, Gian Paolo e io celebriamo l’Eucaristia alle 5.30 e partiamo con il buio. È stagione di nebbie, e infatti oggi c’è nebbia, ma non troppo fitta, e si può viaggiare bene. Proseguiamo sulla strada che sale verso nord. Recentemente sono stati fatti lavori molto impegnativi per migliorare la viabilità in Bangladesh. Questa strada, che collega il resto del Paese con tutto il quadrante nord ovest, chiamato “Uttorbongo”, ha ora molti tratti larghi e scorrevoli; rimangono da completare gli attraversamenti dei centri abitati, e per questo un buon numero di sovrappassi sono ora in costruzione.

Dopo pochi chilometri c’è lo svincolo di “Chondra”, con la direzione e parecchi stabilimenti della Walton, una ditta in rapida crescita. Proprietà di quattro fratelli bengalesi, produce materiale e macchinario elettrico, frigoriferi, televisori, motociclette e dicono che stia ora puntando anche sulle automobili.

A Chondra prendiamo la direzione ovest, verso il fiume Brahmaputra. La zona ci è nota anche per un grande ostello con scuola gestito dagli “Avventisti del Settimo Giorno”, che ospita centinaia di studenti di varie provenienze cui offrono un buon servizio, ma con l’esplicito obiettivo di convertirli, anche allettandoli con facilitazioni, sconti e privilegi vari.


Viaggio - 3

Da Schegge di Bengala - 201 del 25 febbraio 2021


Pochi chilometri oltre la scuola e l’ostello degli Avventisti, attraversiamo un bazar da dove si diparte una strada che percorsi anni fa, alla ricerca di una zona ancora afforestata dove, a quanto avevo sentito dire, si trovavano famiglie non cristiane e cristiane di varie denominazioni. Appartengono ad una popolazione in parte assimilata ai bengalesi – specialmente indù - insediatasi in ordine sparso in varie aree del Bangladesh. Le sue origini sono discusse, le tradizioni indebolite fino a scomparire; culturalmente, socialmente ed economicamente il gruppo è in gravi difficoltà.

Cercai la casa di una famiglia che conoscevo, e in breve tutti seppero che era arrivato uno straniero. Iniziò una raffica di inviti pressanti, perché ciascuno voleva esprimere la sua gioia e offrire un tè, per passare poi, senza altri preamboli, a richieste molto concrete e insistenti: riparazione della casa, terreno per una cappella (vorremmo proprio diventare cattolici!), cure mediche, scuola per i figli, acquisto di una mucca, e via chiedendo. M’indicarono anche una casa, un po’ in disparte, per visitare un’ammalata. Era sui vent’anni, debilitata, in condizioni che apparivano gravi. Mi assicurarono che aveva fatto diversi esami in vari ospedali, ma occorrevano soldi per farne ancora. “Potreste accompagnarla al nostro centro per i malati di tubercolosi”. “No, non ha la tubercolosi, dacci i soldi, ci pensiamo noi”. L’ammalata mostrò di ricevere volentieri una benedizione, poi telefonai a suor Berchmans, allora direttrice del Centro Assistenza Malati, che mandò l’ambulanza per portarla a Rajshahi (circa 100 chilometri di distanza), dove sapevo che avrebbero fatto le cose bene. In seguito, suor Berchmans mi disse che la giovane aveva rischiato di morire durante il viaggio, ma ce l’aveva fatta, ed effettivamente aveva una grave forma di tubercolosi ormai avanzata. Dopo pochi mesi stava bene e ritornò a casa.

Da allora la mia fama (!) si è diffusa, e ancora oggi, dopo oltre 10 anni, ogni tanto qualcuno telefona dicendomi che ci conosciamo benissimo, ci siamo visti proprio in quel giorno famoso, e ora lui o lei si aspetta... no, non una benedizione, ma che io l’aiuti con qualche donazione più concreta: se avevo aiutato allora, perché non anche adesso? Che cosa sono queste preferenze?... Molti pensano di aver diritto a ricevere aiuti economici, perché questo è “il mestiere” dei missionari – se così non fosse, perché mai vengono qui? E a quale scopo mio zio s’è fatto battezzare, mio cugino ha “confessato che Gesù è il salvatore” e il Pastore tal dei tali ha fatto riparare i tetti delle case a chi va nella sua chiesa? A parere non solo mio, l’approccio con questo popolo da parte dei missionari di diverse confessioni è avvenuto in modo concorrenziale e decisamente sbagliato, e pur non essendone l’unica causa, ha contribuito ad accrescere una mentalità passiva e dipendente, che non li ha aiutati affatto, e che ha reso i rapporti ambigui e difficili. Mi piacerebbe ritornare a quel villaggio, ma non lo faccio per non rinvigorire la “caccia”, che saltuariamente continua con ammirevole tenacia, nonostante tutti i miei “no”...

Più avanti, proseguendo su una circonvallazione, lasciamo alla nostra sinistra Mirzapur, la cittadina dove si trova una delle opere benefiche meglio organizzate ed efficaci che io conosca in Bangladesh. Si tratta del “Kumudini”: ospedale ampio e di buona qualità, con prezzi contenuti, scuola infermiere, e ora anche corsi di laurea in medicina. Kumudini è il nome di una donna che all’inizio del secolo scorso morì dando alla luce il figlio, Ranada Prasad Shaha. Di famiglia indù molto ricca, Shaha custodì in sé la pena per la morte della mamma che non aveva potuto conoscere, e decise di fare qualche cosa per migliorare i servizi sanitari del Bengala (allora parte dell’India e colonia britannica), specialmente per le donne. Creò una fondazione che 88 anni fa incominciò i suoi servizi con grande attenzione ai poveri.

Nel 1971, quando le opere della Fondazione erano parecchie e stimate, durante la guerra che portò il Bangladesh all’indipendenza l’esercito Pakistano sequestrò Shaha e suo figlio, e fino ad ora nessuno sa come e dove siano stati uccisi. Era la “politica” del Pakistan: battere la rivolta decapitando il Bengala dei suoi uomini migliori. Ma la fondazione è sopravvissuta grazie all’impegno di altri famigliari, e ora gestisce diversi ospedali, scuole, ostelli femminili, e centri di ricerca in varie parti del Paese. La più recente iniziativa è un nuovo ospedale a sud di Dhaka, con trecento letti e una sezione specializzata per cura e ricerca sui tumori, con 50 posti.

L’ambiente e l’atmosfera al Kumudini sono aperti, professionalmente buoni, attenti alle persone. I corsi per infermiere e infermieri sono considerati ottimi. Fratel Joseph Aind, missionario del PIME ora in Cameroun, li ha frequentati anni fa come parte della sua preparazione, e ne è rimasto soddisfatto – non solo perché circondato da ben 70 studentesse... Pure chi non può pagare è ammesso: rimborserà lavorando, non ricordo se per due o tre anni, con stipendio ridotto al Kumudini stesso. Fra le studenti, sono numerose le suore e giovani cristiane, a cui viene dato spazio per vita comune, preghiera, celebrazione domenicale della Messa – responsabilità che ultimamente è ricaduta proprio su p. Gian Paolo, che viene spesso qui a celebrare o per accompagnarvi ammalati.

Viaggio – 4

Da Schegge di Bengala - 202 del 14 marzo 2021


CORREZIONE. Nella scheggia “Viaggio – 1”, ho scritto che siamo partiti da Dhaka sabato 16 gennaio 2021. Giusto. Nella scheggia “Viaggio – 2” ho scritto che siamo ripartiti da Zirani domenica 27 gennaio. Sbagliato. Siamo rimasti a Zirani soltanto una notte, perciò siamo ripartiti domenica 17 gennaio 2021, non il 27. Mi scuso e auguro a tutti... buon viaggio...

Oltre Mirzapur e l’ospedale Kumudini, si procede verso ovest sulla strada ora a quattro corsie, salvo qualche lungo tratto con lavori in corso. Molta campagna, villaggi, bazar, risaie a perdita d’occhio. Non sono al corrente di alcuna presenza di comunità cristiane in quest’area del Bangladesh. Dopo oltre un’ora, si arriva al Jamuna – nome locale del fiume che conosciamo come Brahmaputra (Figlio di Brahma). Scende dal nord, più a sud incontra il Gange e, insieme, i due fiumi formano il grande delta, una “ragnatela” di corsi d’acqua che sfociano nel golfo del Bengala.

Nel 1998 è stato inaugurato il ponte che collega le due rive del Jamuna, collegando le regioni est e ovest, via strada e per ferrovia. È un’opera di ingegneria molto complessa, lunga quasi 5 chilometri (4.800 metri), su cui tutto ciò che so mi è stato spiegato da p. Carlo Buzzi. Durante gli anni in cui veniva costruito, p. Carlo si coinvolse con maestranze e lavoratori stranieri e bengalesi, facendo loro da “cappellano”, non so se ufficiale oppure no, e scoprendone i “segreti”. Mi ha spiegato alcuni complessi problemi tecnici per la costruzione, soprattutto quello delle sponde. L’enorme massa d’acqua che scende dall’Himalaya, durante la stagione delle piogge erode le sponde sabbiose facendo crollare interi villaggi, forma nuove isole, muta i giochi delle correnti, e metterebbe gravemente a rischio la stabilità del ponte. È stato necessario un grande lavoro per consolidare le sponde, “fermarle” con muraglioni enormi; inoltre, con il fiume in piena si formano vortici profondissimi che possono “rosicchiare” il fondo al di sotto dei muraglioni facendoli crollare.

Perciò speciali barconi perlustrano le rive per identificare i gorghi e dare l’allarme a grosse chiatte, che accorrono per scaricare nei vortici blocchi di cemento e così “scombinarli” (linguaggio da incompetente, ma spero che sia chiaro) per impedire l’erosione. Anche i piloni sono costruiti con particolari accorgimenti che li rendono stabili nonostante il fondo sabbioso.

Oggi la nebbia ci impedisce di vedere il maestoso panorama del fiume, fino a qualche anno fa ingentilito dalle vele di barche da pesca e chiatte da trasporto che lo percorrevano, ora sostituite da motori. C’è acqua a perdita d’occhio o, nella stagione secca, grandi isole sabbiose che affiorano, in poco tempo coprendosi di verde brillante, dove povera gente dalle due rive si avventura per coltivare qualcosa o pascolarvi mucche – nella speranza che non arrivino impreviste violente piogge fuori stagione e tutto venga spazzato via...

Frequentando chi lavorava per il ponte, p. Carlo si interessò anche ai guardiani notturni delle numerose, piccole fabbriche di tessuti, tecnicamente ancora molto rudimentali, che si trovano oltre la sponda ovest del fiume. Si tratta di cristiani, che appartengono alla popolazione “Mandi” (chiamati anche Garo), e provengono dal nord est del Bangladesh. Uno dopo l’altro, hanno conquistato la fiducia dei proprietari, in qualche modo ottenendo il “monopolio” di questo poco ambito mestiere, per lo più lavorando lontani dalle famiglie, guardiani durante la notte e conduttori di riksciò durante il giorno. I Mandi gli dissero che volevano un prete con loro e che ne valeva la pena perché erano parecchi, un migliaio. Presto p. Carlo si accorse che in realtà si trattava di un centinaio di persone e non di più, ma non li volle deludere. Perciò aggiunse anche questo ai molti impegni che già aveva nella vasta area, quasi priva di cristiani, della missione di Gulta, diocesi di Rajshahi. Fra l’altro, aveva aperto e sosteneva piccole scuole in vari villaggi di aborigeni, e altre fra i poveri, fra cui molti fuori casta hindu, nel capoluogo Sirajgonj, cittadina sulla riva del fiume, sempre a rischio di venire inghiottita dalle sue acque... Una curiosità: a Sirajgonj p. Carlo si dedicò anche ai... defunti, “riscattando” con grande fatica e sistemando un cimitero cristiano lasciato dai coloni britannici e da decenni completamente abbandonato e indecoroso, che ora si presenta bene ed è un dignitoso testimone della storia, oltre che quasi una curiosità turistica.

Fuori città, a pochi chilometri dalla strada che stiamo percorrendo, p. Carlo diede vita ad un villaggetto dove i bambini mandi vanno a scuola, e pure gli adulti, da soli o con la famiglia, hanno un punto di appoggio. Poco lontano, su un altro terreno, ha costruito una chiesetta e spazi per incontri, catechesi, attività varie. Un “centro mandi”, piccola isola cristiana fra bengalesi hindu e musulmani.

Sarebbe bello passare a salutarli, si è sempre bene accolti; ma oggi proprio non possiamo. Proseguiamo in fretta per quasi un’altra ora, arrivando allo svincolo dove la strada si dirama verso nord, ovest e sud.

A questo punto è quasi automatico fermarsi al “Food Village” (Villaggio del Cibo) che, insieme al suo gemello posto a qualche chilometro verso nord, in Bangladesh è forse l’unica struttura di ristorazione paragonabile ai nostri “Autogrill”. Nelle ore di punta, anche in piena notte c’è una ressa incredibile di autobus e di passeggeri che approfittano del servizio di bar, ristorante, toeletta, vendita di ottimo “doi” (una deliziosa specie di yogurt), bancarelle con frutta, kebab, ecc. ecc. e da qualche tempo anche un caffè dalla macchinetta automatica che è il meglio della produzione locale. Perfino gli italiani, che in materia sono schizzinosissimi e si ritengono gli unici al mondo che sanno preparare un caffè degno di questo nome, quando lo assaggiano arricciano il naso, ma ammettono a mezza bocca: “Non è un caffè, ma si può bere”. Io non lascio scappare l’occasione per gustare uno o due “tanduri”, specie di piadine emiliane croccanti e leggere che, servite calde, sono ottime. Ma il timore che il Covid 19 sia in agguato nella ressa del Food Village è più forte della golosità, e questa volta Gian Paolo e io ci limitiamo al caffè automatico con bicchierino in plastica. Poi ripartiamo, prendendo la strada che va a nord.


Viaggio – 5

Da Schegge di Bengala - 202 del 14 marzo 2021

Ci lasciamo alle spalle la strada a quattro corsie ben asfaltate, procedendo verso nord con tratti molto malmessi, altri in corso di rifacimento, e tanti ponti in costruzione. Il terreno in Bangladesh è quasi ovunque morbido, e il lavoro per costruire o asfaltare le strade è complesso: prima di tutto, quasi ovunque la strada deve essere sopraelevata di alcuni metri rispetto al terreno circostante, perché non finisca allagata alle prime piogge. Si sposta dunque un’enorme massa di terra, e poi si scava in profondità nella striscia sopraelevata, preparando il “letto” a vari spessi strati di sabbia e di terra, pazientemente spianati e compressi uno dopo l’altro, fino a mettere poi ghiaia di mattoni (o di pietra), anche questa da comprimere e spianare; e finalmente arriva l’asfalto; ma se si vuole un lavoro che duri a lungo bisogna ricorrere ai lastroni di cemento. Inoltre, se si tratta – come in questo caso – di allargare una strada già esistente, bisogna anche liberarsi delle case costruite sui margini: si demoliscono, o almeno si “affettano”, abbattendo la parte che dà fastidio, e recuperando in qualche modo il resto – se possibile.

Attraversiamo un’area dove si dice che venga prodotto il miglior “doi” di tutto il Bangladesh, poi prendiamo la circonvallazione nuova di Bogra, una città in crescita di cui ho parlato in una scheggia della serie “Charles de Foucauld”, perché vi ho trascorso quasi due anni(1981-82 se non sbaglio) con p. Achille Boccia e p. Gianni Zanchi. Cercavamo – nel linguaggio che si usava nel primo periodo del dopo-Concilio Vaticano – “vie nuove” per l’evangelizzazione, anche là dove non ci si poteva appoggiare ad una presenza cristiana cui offrire un servizio pastorale. A Bogra infatti c’era un’unica famiglia cattolica, e poche altre di diverse denominazioni cristiane; tutti erano hindu e soprattutto musulmani; stranieri non se ne vedevano. Qualcuno ci disse perplesso: che cosa andate a fare a Bogra, dove non c’è nessuno?

Quel tentativo ebbe vita breve per ragioni diverse, una delle quali era la mia incapacità ad agganciare rapporti basati soltanto sul desiderio di conoscersi e dialogare: suscitavo sospetti, o non riuscivo a smuovere l’indifferenza. P. Achille e p. Gianni riuscirono a combinare qualche cosa più di me, ma anche loro dovettero rinunciare: Achille per malattia, Gianni perché eletto superiore regionale del PIME in Bangladesh. Fu una ritirata un po’ triste, ma per fortuna non ci mancavano alternative; inoltre, in seguito venimmo a sapere che qualche piccola cosa era rimasta. Nel 1988 infatti, rimessa in sesto la salute, p. Achille riprese il discorso, con un’idea un po’ più precisa: organizzare un luogo dove i cristiani si riunissero a pregare, proprio in mezzo ai musulmani; pregare per loro e anche con loro, nell’intenzione e nella collocazione. Mentre si stava sistemando, gli capitò di incontrare uno dei giovani che era stato con lui volontario per aiutare le famiglie con disabili. Da lui seppe che, dopo la sua partenza, un medico a cui si rivolgevano per disabili ammalati, aveva chiesto come mai non si fosse più visto nessuno. Il giovane rispose che il Padre straniero era andato via, e questo fece riflettere il medico: “Perché stare con le mani in mano aspettando che ritorni uno straniero per fare ciò che dovremmo fare noi?” E in qualche modo diede continuità all’iniziativa che era stata forzatamente abbandonata, ma aveva lasciato, a nostra insaputa, un seme che era germogliato.

Achille affittò una casa (per la cronaca, un ex pastificio...) e si mise a disposizione per guidare ritiri spirituali. In Bangladesh allora non erano disponibili luoghi e strutture predisposte a questo scopo, e lui ne propose uno... assurdo: un ritiro spirituale in una casa qualunque, senza giardino in cui passeggiare, senza cappella bella e accogliente, in un quartiere dove non mancavano rumore e distrazioni, a due passi da “Sat Matha”, il punto più trafficato della città. Si fece autore, editore e diffusore di “Atma o Jibon” (Spirito e Vita), una rivista di spiritualità che scriveva tutta lui, a mano, in bengalese, mandandone fotocopie a chi era interessato. Trovò persone che desideravano e apprezzavano il suo impegno, ed ebbe richieste di guidare giornate o settimane di preghiera e ritiro per catechisti, seminaristi, suore e preti. Si trattava di una proposta originale non solo per il luogo, ma anche per il metodo, che comprendeva tra l’altro una meditazione passeggiando al bazar, e offriva prospettive inedite e stimolanti, che aiutavano a non considerare la vita spirituale semplicemente come una parentesi diversa, e un po’ astratta, rispetto alla vita “normale”, e anche a interiorizzare il fatto che noi cristiani siamo una presenza numericamente insignificante, ma che non deve chiudersi a riccio.

Poi Achille dovette di nuovo lasciare Bogra (1999) e p. Carlo Dotti, con l’aiuto di P. Francesco Rapacioli, continuò i programmi di ritiri. Ma le situazioni evolvono, ed era iniziata la “concorrenza” di altre strutture più comode e accessibili. I ritiri si diradavano, e con p. Dotti, poi p. Meli e infine p. Buzzi la casa divenne sede di un ostello per studenti in ricerca vocazionale, e un centro pastorale per i cristiani che gradualmente aumentavano di numero, venendo a lavorare nella città. Infine, il gruppo vocazionale venne trasferito a Dinajpur, e il PIME passò tutto quanto alla diocesi di Rajshahi, che vi manda un prete diocesano. Il servizio di doposcuola per i poveri che da anni si svolgeva tutti i pomeriggi venne trasformato in una vera e propria scuola elementare intitolata a S. Silvia.

Vorremmo passare a salutare p. Lipon, il giovane prete – mio ex alunno - attualmente residente lì, e sentire come va; ma entrare in città richiede tanto tempo, e dobbiamo rinunciarvi: con rammarico, si tira dritto...


Viaggio – 6

Da Schegge di Bengala - 203 del 3 aprile 2021


Il PUNTO. Se qualcuno ha perso il filo, niente paura: p. Gian Paolo e io, al secondo giorno di viaggio, stiamo percorrendo la lunga circonvallazione est della città di Bogra, tortuosa e malconcia, ma meno affollata della circonvallazione ovest, più breve, più vecchia, e ormai quasi inghiottita dall’urbanizzazione.

Nel lasciare la città, è d’obbligo una tappa per rifornirsi di CNG (Compressed Natural Gas), perché la distribuzione del gas non raggiunge le aree più a nord. Poi, lungo la strada diretta a Rangpur, a tratti orribile causa lavori in corso, attraversiamo Mohasthan, un grosso bazar affiancato da un collinetta decisamente improbabile, visto che per centinaia di chilometri intorno tutto è pianura. Sulla collina c’è un centro di pellegrinaggi che ha l’aria di essere molto frequentato; ritengo sia di musulmani sufi, ma non lo so con certezza. Ho visto fotografie e letto informazioni su analoghe collinette in Bangladesh: erano centri monastici, abbandonati quando il buddismo è quasi scomparso dal Bengala; in questi ultimi anni ne hanno scoperti alcuni e gli archeologi se ne stanno interessando. A proposito di Mohasthan, molti anni fa un anziano maestro cristiano mi disse che sulla collina c’era un pozzo miracoloso: se un defunto veniva calato nel pozzo, ritornava in vita. Così facevano i primi monaci, così continuarono a fare gli hindu che subentrarono. “E ora, con i musulmani?” chiesi io. Non sapeva, ma secondo lui e altri, anche loro usavano il pozzo allo stesso modo, senza dirlo in giro...Voci di popolo...

Arriviamo poi a Gobindogonj, affollato bazar, che pare essere centro di un’area turbolenta, teatro di soprusi e occupazioni di terre di gruppi aborigeni in parte cristiani, e anche di conflitti politico-economici, con numerosi omicidi.

Noi tiriamo dritto, mentre per andare a Dinajpur dovremmo piegare a sinistra, e passare accanto alla missione di Mariampur, una delle più grandi nella diocesi. Per me è legata al ricordo di un caro amico, p. Carlo Menapace. Ricordarlo è sempre un piacere, direi un incoraggiamento, anche se venato di nostalgia. Era nato nel 1942, un anno prima di me, a Tassullo (Trento), e mi aveva preceduto di un anno nel diventare membro del PIME (1967), nell’essere ordinato prete (1968), nel partire per il Bangladesh (1978). Mariampur è stata la sua prima e unica missione, all’inizio come assistente, e poi come parroco. Negli anni in cui cercavamo “vie nuove” e guardavamo con sospetto la “struttura” della parrocchia, sospettata di essere chiusa su se stessa e di sottrarre energie alla prima evangelizzazione, lui si era tuffato senza distrazioni proprio in quella “struttura”, ma fu capace di non lasciarsene paralizzare. Anzi...

Ci vedevamo in occasione di incontri o ritiri spirituali del PIME, arricchendo di chiacchierate tutti gli spazi di tempo possibili. Sapeva cogliere nella gente gli aspetti buoni e positivi che molti non vedono o cui non danno valore. “Ingenuità”, diceva qualcuno, ma si trattava dello sguardo di un uomo dal cuore puro, appassionato del Vangelo, e perciò degli altri... tutti.

Andai a trovarlo in parrocchia in un periodo in cui era solo, penso poco dopo il 1981. La prima sera, a cena, ero affamato, e gustai moltissimo una rarità: una minestra di verdure varie, proprio buona. Ero stupito: “Sei tu che gli hai insegnato a cucinare?” “No - rispose - una suora. Lui ha imparato bene, gli ho detto che mi piaceva molto, e ormai sono più di due anni che ogni sera mangio questa minestra, sempre rigorosamente identica. È un menu un po’ monotono – aggiunse ridendo - ma il cuoco ne è fierissimo, come deluderlo?” Trascorsi con lui tre giorni, aiutandolo a tenere un incontro con i catechisti, ascoltandolo molto. Era appassionato di ciò che faceva, soprattutto del “suo” popolo, che erano i membri della parrocchia, certo, ma non soltanto loro. Mentre passeggiavamo fra la casa e la chiesa (costruita anni prima, sul modello di non ricordo quale chiesa lombarda) passò accanto a noi un ragazzo; Carlo lo chiamò, e scambiammo quattro parole; era un po’ imbarazzato ma contento della nostra attenzione. Mentre se ne andava, p. Carlo mi chiese: “Secondo te, quanti anni ha?”. “Difficile dirlo – risposi – 12 o 13?”. “Ne ha certamente più di 20, ma è come un... bonsai: la denutrizione gli ha impedito di svilupparsi. Sono parecchi i giovani nelle sue condizioni. Che lavoro può fare? Certo non il manovale, ma a scuola non è potuto andare, e anche lo sviluppo dell’intelligenza è stato rallentato. Vorrei inventare qualche cosa per questi “figli della fame”... Ancora oggi, a Mariampur, c’è una piccola scuola tecnica, che dopo qualche anno di chiusura il Vescovo mons. Sebastian ha voluto riaprire. Insegna a ragazzi che non hanno altre possibilità i rudimenti di qualche attività utile: riparare una bicicletta o un riksciò, per i più bravi magari dare un’occhiata ad una pompa idraulica difettosa. P. Carlo aveva idee, era capace di organizzare e avviare iniziative: non fece grandi progetti, ma “piccole” cose che erano ritagliate apposta per i bisogni del momento; fra l’altro anche un impianto di biogas, forse il primo della zona.

Non è raro trovare persone di Marianpur che dicono con fierezza di essere stati suoi “discepoli” (e fra loro anche mons. Sebastian), o di aver sentito parlare di lui dai genitori, e io mi sono chiesto quale fosse il centro del suo interesse, e quale il motivo della sua popolarità. Il suo obiettivo fondamentale era accompagnare la sua gente alla preghiera, a un rapporto vivo con Gesù scoperto nei Vangeli. Anche a Mariampur, come in ogni altra missione, c’erano un ostello maschile e uno femminile. Di solito gli ostelli vengono affidati a un “boarding master” o a una “didi moni” (un laico o una laica responsabili) i quali devono organizzarli, farli studiare, tenere la disciplina, e anche “farli pregare”, vigilando perché tutti siano presenti alla Messa quotidiana, guidando le preghiere del mattino, della sera, ai pasti, attenti a far pronunciare bene le parole, sostenuti da una cantilena che aiuta la memoria. P. Carlo preparava personalmente questi momenti, e non li “faceva pregare”, ma pregava con loro. Ogni giorno una frase del Vangelo, una parola di commento, una breve preghiera ripetuta perché “entrasse” nella mente e nel cuore, o una ripresa della liturgia domenicale, o una riflessione su qualcosa che era accaduto. Era contento di pregare con loro: la preghiera non era un dovere, o qualcosa da insegnare, era un momento di incontro con Gesù insieme a loro. P. Carlo, senza ostentazione, sapeva trasmettere la fede con cui lui stesso cercava il Maestro. Vedeva e valorizzava i progressi anche minimi della sua gente: una riconciliazione, una collaborazione, un aiuto, un consiglio...

Stava anche preparando un sottocentro della vastissima parrocchia che era affidata a lui, per sistemarvi un gruppetto di laiche animate a dedicarsi all’evangelizzazione; già collaborava bene con le Suore di Maria Bambina, e vedeva in questa iniziativa una possibilità in più di valorizzare le donne nella missione della Chiesa.

Poi... gli diagnosticarono un tumore maligno, e dovette ritornare in Italia. Con fatica volle rivedere uno per uno tutti i “suoi villaggi”, spiegando perché se ne andava. Prima che partisse ci trovammo, e mi disse: “Tu sai che mons. Michael è un uomo spiccio, concreto, e non ha tanto l’aria “spirituale”... eppure proprio lui mi ha detto la cosa più semplice e più utile, che porto con me come un messaggio prezioso.” Michael Rozario era stato il primo vescovo bengalese della diocesi di Dinajpur, diventando poi arcivescovo a Dhaka. “Gli ho detto quale è la mia condizione. Ha taciuto un momento, poi mi ha stretto la mano dicendomi: “P. Carlo, tieni cara la fede che hai. Lotta con tutte le tue forze per vivere, e noi ti aiutiamo con la preghiera. Ma se la malattia prevale, affrontala da uomo e da credente, non lasciare che sconfigga il tuo spirito”.

Fu proprio così. Rividi P. Carlo in Italia, molto provato, ma sereno. Mi raccontò dell’angoscia delle sale di attesa dove diversi ammalati di tumore aspettano “risultati” spesso pesanti come il piombo; e mi parlò anche con ammirazione di un’infermiera che si impegnava a strappare un sorriso a chi era nelle condizioni peggiori. “La gente di Mariampur mi ricorda – aggiunse – e questa è una medicina potente. Tanti mi scrivono, così passo tanto tempo a leggere le lettere in bengalese, spesso con grafia incerta. Traduco e scrivo tutto qui, in questo quaderno che è solo per me. Leggo e rileggo, e ogni volta arriva un ricordo nuovo, nasce in me una preghiera nuova...” Strappò ai medici il permesso di ritornare per qualche settimana, e fu un pellegrinaggio di saluto, abbreviato dall’aggravarsi delle sue condizioni. Qualcuno gli scattò una fotografia che lo riprese di spalle, mentre pedalava faticosamente su un sentiero fangoso, tenendo sul portabagagli della bici una grossa croce di legno da consegnare alla gente in attesa della sua visita. Una fotografia che dice tanto, tantissimo della sua vita, e che circola ancora adesso fra noi. Morì poco dopo il suo ritorno in Italia, a Cles, nel 1991. Dopo tanto tempo, a Marianpur e in vari “sotto-centri”, ancora organizzano ogni anno una giornata di ricordo e preghiera per lui, animata da un torneo di calcio: il “Menapace Football Tournament”.

Pochi chilometri prima di raggiungere Rangpur, il centro urbano più grande del nord, chiedendo a destra e a sinistra riusciamo a imboccare una stradetta, a sinistra, che con qualche giravolta e molte informazioni raccolte da passanti, ci permette di arrivare a Khalisha verso la una, accolti dalle Suore dell’Immacolata (PIME) che hanno qui una comunità con tre suore bengalesi e due indiane. Accoglienza come sempre piena di cordialità, e pranzo arricchito da una conversazione interessante, che ci aggiorna reciprocamente di tanti avvenimenti grandi e piccoli. Poi, senza sentir ragioni, spediscono il vecchietto (che sarei io) a riposare, mentre p. Gian Paolo viene accompagnato a compiere il suo rapido ma intenso “pellegrinaggio” tra famiglie che conosce o che vuole conoscere. Khalisha, era un sottocentro di Boldipukur, dal quale si staccò quando p. Giovanni Vanzetti – che si era sempre dedicato alla popolazione Orao – si stabilì là e ne fece nascere una nuova parrocchia, nel 1980. Non era alla prima esperienza. Era tenace, convinto, molto sensibile schivo, affezionato alla sua terra e diocesi di origine, Saluzzo (Cuneo), con cui teneva molti rapporti e da cui si sentiva “mandato”. Proprio non aveva l’aria del leader energico e indaffarato, al contrario, a tratti sembrava addirittura impacciato; ma una dopo l’altra fondò tre missioni nuove, tutte in area a prevalenza Orao – il popolo a cui era più affezionato nonostante i numerosi contrasti e grattacapi che dovette affrontare: prima a Pathorghata (1962), zona archeologica su terreni contesi; poi Khalisha (1980), e alla fine Lohanipara (2007). Delle strutture che mise in piedi, tutte di modeste dimensioni e costruite in economia, a Khalishanon rimane praticamente nulla, ma il lavoro di evangelizzazione e pastorale non è stato cancellato.


Viaggio – 7

Da Schegge di Bengala - 205 del 3 maggio 2021


P. Gian Paolo e io stavamo viaggiando da Dhaka a Dinajpur, e la mia cronaca di viaggio si era fermata poco dopo il pranzo offertoci dalle suore del PIME nella missione di Khalisha – da dove riparto con questa settima puntata.

Ho appena terminato la mia doverosa dormitina pomeridiana quando, accompagnato dalle suore che lo hanno guidato nelle visite, P. Gian Paolo ritorna. Ma non ha finito: vuole ancora ritrovare una sua ex parrocchiana. “A due passi dalla missione”, ci dicono, e vado con lui.

Entrando nel cortile vedo con sorpresa scritte, posters, avvisi, simboli che fanno pensare ad una chiesa più che ad un’abitazione. Infatti: è un’abitazione ma è anche la sede di una piccola denominazione “evangelica” di cui non avevo mai sentito il nome. Qui vive la giovane che Gian Paolo conosce, con il marito, un simpatico giovanotto, che è Pastore –anche se adesso non ne svolge il ruolo. Nella loro casa la piccola comunità evangelica “fa chiesa”. A Khalisha ci sono – mi dicono- una decina di “denominazioni”, di provenienze e impostazioni varie. La famigliola che visitiamo sembra in ottimi rapporti con tutti, e tutt’altro che aggressiva. In qualche caso questi gruppi lo sono, e non fanno mancare polemiche settarie, anche basate su calunnie. Ma ci sono pure gruppi a cui la gente si accosta per i motivi più vari, senza farsi domande impegnative, direi con la mentalità con cui all’interno della Chiesa cattolica alcuni fanno la scelta di un movimento, o di una devozione particolare, o magari andare a Messa in un’altra chiesa piuttosto che nella loro parrocchia. I passaggi da una “denominazione” all’altra, o la formazione di nuovi gruppi, possono avere origine da conflitti “di potere” o economici; ma possono essere legati anche, ad esempio, ad un matrimonio, o all’occasione di trovare un impiego, gestendo adozioni per mandare a scuola i bambini, o organizzando la distribuzione di aiuti vari, la guida delle letture bibliche, la preghiera della domenica... La mia opinione, frutto di qualche esperienza di incontri e ritiri spirituali con Pastori di varie denominazioni, è che ci sono certamente comunità “esclusiviste”: noi e basta; ma altre comunità (o singoli individui) riconoscono una forma di unità, centrata su Gesù salvatore, a cui è data la dovuta importanza, nonostante le differenze su aspetti teologici e morali rilevanti. Ne conseguono rapporti cordiali e anche di aiuto reciproco che a mio parere sono positivi e attenuano lo “scandalo” delle nostre divisioni. Divisioni – direi – prese “alla leggera”...

Dopo una breve, simpatica chiacchierata, e l’immancabile té con biscotti, si parte, prendendo a bordo due suore che a Dinajpur parteciperanno ad un breve corso organizzato dalla Caritas.

Gli ultimi quaranta chilometri del viaggio, da Fulbari a Dinajpur, sono disastrosi: la strada è tutta raddoppiata, larghissima e spianata ma senza asfalto, priva di strisce o altri segnali, e con numerose deviazioni per superare piccoli corsi d’acqua. Scende presto il buio; auto, camion, autobus viaggiano sempre con i fari abbaglianti, creando un enorme disagio al nostro povero Gian Paolo, ancora alla guida dopo una giornata così intensa.

Accompagnate le suore alla Caritas, finalmente eccoci a Suihari, il quartiere nord di Dinajpur. Qui il PIME ha la sua “Casa Regionale”, costruita su un vasto terreno che ospita: la chiesa e la casa parrocchiale, il convento delle suore Shanti Rani che lavorano in parrocchia e nella scuola, l’ostello parrocchiale per bambini, quello per le ragazze più grandi, la scuola elementare e media, la “Novara Technical School” e il corrispondente ostello con oltre cento posti, il corso di sartoria per ragazze, il dispensario medico, la comunità vocazionale “Giovanni Mazzucconi”, il noviziato delle suore Shanti Rani, il seminario “Intermediate” della diocesi, nonché la stalla per una dozzina di bovini, e ampi spazi con alberi, verdure, riso, granturco, campi da gioco... mica poco, vero?

Il luogo è noto come “Novara Technical School”, ma non è soltanto la scuola tecnica che ne porta il nome ad avere una storia legata alla città piemontese. Fra gli anni sessanta e settanta del secolo scorso, in Italia si parlava molto di fame nel mondo, missione della chiesa come sviluppo, liberazione... Associazioni, parrocchie, movimenti si mobilitavano per sensibilizzare e per agire; i quattro Istituti missionari di origine italiana fondarono Mani Tese. Un prete di Novara, don Ercole Scolari, concepì e realizzò un impegnativo programma di coscientizzazione e di raccolta fondi contro la fame, coinvolgendo tutta la diocesi. Raccolse una somma di tutto rispetto, e pensò di fare un gesto coraggioso: offrirla per un progetto proposto e garantito dalla FAO, l’organizzazione ONU che si occupa di cibo, agricoltura, e di fame. Andò a Roma, alla sede centrale della FAO, e fece la proposta. Lo ascoltarono, e poi gentilmente gli spiegarono che cifre del genere - per loro - erano... briciole: la FAO gestisce progetti di ben altra proporzione...

Don Ercole riprese la strada di casa, chiedendosi quale potesse essere l’alternativa alla sua idea che si era rivelata ingenua. La trovò in un piccolo prete barbuto, con l’aria mite, anche lui alla stazione in attesa del treno per Milano. Si salutarono, si presentarono: lo sconosciuto in tonaca nera era mons. Giuseppe Obert, un valdostano che fu l’ultimo vescovo del PIME nella diocesi di Dinajpur. Don Ercole parlò del suo problema; mons. Obert gli disse che se la FAO non sapeva che fare di quella somma, lui lo sapeva, e gli parlò del desiderio di aprire una scuola tecnica per avviare giovani, specialmente aborigeni, verso professioni che, con lo sviluppo del Paese, sarebbero diventate molto richieste: elettricità, carpenteria metallica, motoristica, falegnameria... Don Ercole era un uomo di azione e presto la proposta divenne un progetto: non solo per la scuola tecnica, ma anche per il relativo ostello, e per la parrocchia stessa, perché potesse accogliere bambini di villaggi remoti e senza scuola, offrendo loro una buona istruzione di base e una buona formazione. Sono trascorsi tanti anni, più di cinquanta. Don Ercole, trasferito poi a Varallo, anche là continuò la sua opera di animazione nella chiesa, attirando anche qualcuno che in chiesa ci andava poco... Gli amici di Novara e di Varallo sono venuti tante volte a trovarci, e ora – dopo la morte di don Ercole - continuano ad aiutarci, affiancati e animati dal parroco attuale don Roberto Collarini. Una collaborazione bella, e direi straordinaria per la sua qualità e per la sua durata; i frutti si vedono negli edifici costruiti, ma specialmente in migliaia di bambini e giovani che sono passati di qui ricevendo formazione, istruzione, preparazione professionale, e buon cibo, nonostante le loro condizioni di povertà.

Poco dopo le 19 facciamo il nostro ingresso trionfale nella casa del PIME, trovando già a tavola i “pimini” che abitano nella zona, che ogni domenica sera si radunano per cenare insieme. È bello rivedersi! Eccoli qua: l’imponente Michele Brambilla, direttore dell’ospedale St. Vincent (100 posti letto e una scuola per infermiere), e superiore del PIME in Bangladesh; p. Gianni Zanchi, parroco della parrocchia di Suihari, con tanti villaggi – nonostante le “gemmazioni” avvenute in questi anni, fra cui quella della missione di Mohespur, di cui è parroco il giovane brasiliano P. Almir, che purtroppo non è potuto venire; così come non sono venuti P. Giulio Berutti, e p. Emilio Spinelli, anche loro in parrocchie lontane da Dinajpur. C’è p. Gianantonio Baio, cappellano del santuario di Rajarampur, molto bello, aperto alla periferia della città in occasione del giubileo del duemila. È intitolato alla Madonna del Rosario – con la precisazione “di Pompei”, grazie ad uno dei tre architetti (ruspanti) che hanno realizzato l’opera: P. Adolfo L’Imperio, originario di Gaeta, orgogliosamente devoto e... “tifoso”, appunto, della Madonna di Pompei. Con lui lavorarono P. Ezio Mascaretti e P. Giovanni Beretta; fra noi qualcuno ritiene che questo sia stato il primo miracolo del nuovo santuario: che i tre siano riusciti a lavorare insieme alla stessa opera, fino alla fine... C’è il dottor Iaio, medico chirurgo, Missionario Saveriano che da molti anni opera al St. Vincent Hospital e fa gruppo con noi “pimini”: ha aiutato a nascere un numero imprecisato di bebè e dà una mano anche in dispensari medici fuori Dinajpur. Ci sono gli ultimi due acquisti: P. Papaiah Marneni detto Papu, originario dell’Andhra Pradesh (India) che ha finito da poco lo studio della lingua e si occupa ora dei giovani di due ostelli e della casa del PIME; e Alberto Malinverno, ingegnere di Como, membro dell’ALP(Associazione Laici PIME) che già aveva lavorato qui per cinque anni, e dopo qualche tempo è ritornato con un impegno di altri cinque. Il suo arrivo è stato un’iniezione di fiducia per la scuola tecnica, che risente non poco dell’assenza del suo direttore Fratel Massimo Cattaneo, trasferitosi in Italia perché eletto nella direzione generale del PIME come consigliere.

Siamo a tavola ora, gli argomenti per chiacchierare non mancano. Inoltre, il dottor Iaio ha portato una bottiglia di ottimo vino rosso. Ci fa credere che sia Barolo (o qualcos’altro di pregiato, che non ricordo), poi confessa che è lui stesso il vinificatore: bravo dottore, così si fa!


Viaggio – 8

Da Schegge di Bengala - 206 del 23 maggio 2021

A Dinajpur, Gian Paolo e io siamo affaccendati ciascuno per conto suo. Due giorni e tre notti, durante le quali gusto il fascino del silenzio e dell’aria pulita. Poi, mercoledì 20 gennaio, alle 10 del mattino riprendiamo la via di casa, naturalmente con qualche deviazione.

In meno di tre ore siamo a Dhanjuri, una delle missioni “storiche” del PIME, un “centro” dell’evangelizzazione soprattutto della popolazione Santal. Da Dhanjuri si sono formate e sono ancora in via formazione altre missioni e altri centri minori, e si è sviluppata una vasta opera di assistenza e aiuto agli ammalati di lebbra, che aveva due aspetti: la cura in ospedale, a fianco della missione, e una rete di “cliniche”, punti di appoggio dove personale preparato periodicamente svolgeva opera di informazione e prevenzione della lebbra, faceva le prime diagnosi di “casi” sospetti, controllava chi veniva curato vivendo a casa propria.

Quando arrivai in Bangladesh, nel 1978, il “Dhanjury Leprosy Center” funzionava a pieno ritmo. Una vasta area verde coltivata a orto era come racchiusa da una serie di edifici a uno o due piani con spazi per i degenti, donne e uomini, sala operatoria, laboratorio clinico, laboratorio per fabbricare scarpe ortopediche adatte alle mutilazioni dei pazienti, cappella, cucine, refettori, e tutto ciò che serviva agli ammalati, alle suore del PIME che vi lavoravano, e ai volontari laici stranieri che per alcuni anni diedero il loro servizio a quest’opera.

In quel periodo, a Dhanjuri soffiava aria di novità. Dopo molti anni in cui era stato quasi impossibile mandare nuovi missionari in Pakistan Orientale, quando il Bangladesh divenne indipendente le porte si spalancarono, e i superiori, non sapendo se e quanto sarebbero rimaste aperte, mandarono tutti coloro di cui potevano disporre. I giovani portavano con sé – magari “baldanzosamente”- idee e sogni “post-conciliari”, e c’era da chiedersi come sarebbero stati accolti dal gruppo dei veterani “pre conciliari” che avevano lavorato duramente e in condizioni difficili negli anni precedenti. Non mancarono frizioni e crisi che si verificarono ovunque in quegli anni, e che videro molti abbandoni. Ma tutto sommato il PIME se la cavò... senza troppe ferite. Sono convinto che una parte del merito vada al superiore regionale di allora, p. Enzo Corba, che nella sua stessa persona in qualche modo univa le due tendenze. Come età ed esperienza era del gruppo anziano, come spirito di ricerca e desiderio di rinnovamento, di autenticità, i giovani lo sentivano vicino, solidale. Aveva per ogni persona un grande rispetto, che non si lasciava incrinare da dissensi o scelte differenti. Lui stesso, p. Corba, volle vivere il “nuovo” in un villaggio del sud, partecipando da vicino alla vita della gente, lavorando con loro, pregando in mezzo a loro, cercando di essere punto di convergenza per tutti, nel rispetto delle differenze religiose. Qualcuno scrisse che era un “missionario contadino”, fece pure il “superiore contadino”. Non accontentò tutti, ma rimase in dialogo con tutti. Fra le molte virtù che aveva, fra cui il coraggio, p. Corba aveva anche una... saggia furbizia, che non guastava!

Dhanjuri era quasi un “campo sperimentale” di queste differenze che sarebbero potute diventare divisioni, avendo un parroco, p. Luigi Scuccato, tradizionale nella sua impostazione pastorale e missionaria, ma che accettò in parrocchia giovani – preti e volontari laici – che sembravano poco interessati, anzi critici di ciò che lui faceva o aveva fatto. Desideravano dedicarsi soprattutto ai problemi sociali e di sviluppo, cercavano un orizzonte vasto, non sospetto di “ecclesiocentrismo”, mentre lui si sarebbe occupato di catechesi, e di sacramenti. Ci volle molta pazienza reciproca, e si dovettero affrontare (come dicevo, non solo a Dhanjuri!) anche “crisi” personali. Ma si evitarono rotture e conflitti amari – e credo che, pur nella concitazione di certi momenti (ricordo le animatissime discussioni durante le assemblee del PIME in quegli anni) la nostra presenza missionaria abbia testimoniato una chiesa in ricerca sofferta, ma che non era solo conflitto ideologico – e nemmeno teologico – e cercava di vivere la carità.

P. Gian Paolo non c’era ancora in quegli anni, e mentre ci avviciniamo a Dhanjuri ascolta con pazienza qualche ricordo storico e qualche aneddoto raccontato dal suo passeggero. Gli parlo anche di suor Rosa Sozzi, missionaria dell’Immacolata che era medico, e per qualche anno dedicò tutta se stessa alla cura degli ammalati di lebbra. Quando passavo da Dhanjuri, prendevamo un po’ di tempo per una lunga chiacchierata: cercava di unire la professionalità con la testimonianza, in un certo senso anche per “rimediare” al fatto di non poter offrire – in ambiente islamico - un annuncio diretto del Vangelo che la animava e che l’aveva condotta qui. A fermarla fu un tumore al fegato, di cui era perfettamente consapevole. Mi disse che solo un trapianto avrebbe potuto salvarla, ma subito precisò che aveva sentito troppe cose a proposito di commercio di organi, e che non avrebbe assolutamente preso in considerazione quella possibilità.

Un aneddoto? Suor Rosa mi disse che insisteva molto con i parenti perché stessero vicini ai loro cari ammalati, e qualche mese prima aveva notato con soddisfazione un aumento nel numero visitatori che spesso – essendo Dhanjuri in luogo piuttosto remoto – si fermavano anche uno o due giorni. Ne era soddisfatta, ma poi si accorse che l’insperato aumento delle visite non era dovuto alle sue raccomandazioni, ma alle... carote. Allora erano pressoché sconosciute in Bangladesh, e suor Rosa le aveva fatte seminare nell’orto. Ai degenti piacquero, e si sparse la voce che al lebbrosario c’era qualcosa di buono che nessuno conosceva. Andando a visitare un malato si faceva un’opera buona, si accontentava la dottoressa, e si potevano assaggiare le carote. Le quali ora sono un vegetale molto diffuso in tutto il Bangladesh, al punto che viene venduto per le strade come “rompidigiuno”.

Suor Rosa morì pochi mesi dopo la diagnosi, in Italia, lasciando un grande vuoto.

Viaggio - 9

Da Schegge di Bengala - 206 del 23 maggio 2021

A Dhanjuri ci accoglie p. Livio Prete, per tanti anni vicario generale della diocesi, recentemente trasferito qui per gestire il “Leprosy Program” e per prendersi cura di un villaggio che il Vescovo vuole sviluppare facendone un centro autonomo, forse una parrocchia.

Con lui visitiamo l’area del “Leprosy Center”. La lebbra, una millenaria, gravissima piaga della storia umana, è curabile e sta scomparendo. Alla fine del secolo scorso ci fu una mobilitazione direi grandiosa di medici, ricercatori e gente comune, cui diede un notevole contributo il giornalista francese Raoul Follereau che, dedicandosi appassionatamente alla lotta contro la lebbra, fu all’origine di molte iniziative, i cui buoni frutti si vedono anche ora, in queste strutture che cambiarono in meglio la vita di tanti ammalati, e che ora - felicemente - sono diventate quasi inutili. Infatti, a Dhanjuri ora ci sono soltanto due piccoli gruppi di ammalati, uomini e donne per lo più anziani e che in certi casi, guariti ma rimasti semi invalidi, rimangono perché non hanno più riferimenti familiari. Gran parte degli spazi che pochi decenni fa erano necessari sono ora vuoti. Una piccola comunità di ragazzi e ragazze con qualche disabilità fisica ne occupano una parte, sotto la responsabilità della diocesi e con l’aiuto della Caritas, ma un futuro per loro, e anche per le strutture che ora sono disponibili, è tutto da inventare. Coraggio, p. Livio!

Pranziamo, e si riparte su strade strette, ma in condizioni discrete, per arrivare a Lohanipara, una missione che “ai miei tempi” non c’era: è la terza delle tre missioni fondate da p. Giovanni Vanzetti. Come le altre, è prevalentemente formata da cristiani Orao; attualmente il suo parroco è p. Boniface Murmu, un maturo prete diocesano, santal, che ci accoglie con molta cordialità insieme ad un diacono che trascorre in questa parrocchia un periodo di “formazione sul campo”. Dopo una bella sosta con una tazza di té, scambi di informazioni, commenti, pettegolezzi, espressioni di delusioni o speranze... prima che scenda il buio, il diacono ci accompagna a visitare i genitori di Bablu, un seminarista del PIME che studia filosofia nel seminario nazionale. Vivono in un villaggio a un quarto d’ora dalla missione, case molto semplici, di terra, tenute bene e pulite. La conversazione con questa coppia anziana ma attiva è veramente piacevole, infonde un senso di serenità e saggezza; è bello vedere la loro gioia per il figlio che ha scelto di diventare missionario, e per il quale pregano con molta fede.

Al ritorno, troviamo ad attenderci P. Danilo, prete diocesano colombiano, associato al PIME per un servizio di alcuni anni in Bangladesh. Ha lavorato prima a Zirani e ora qui, dove sta per terminare il suo periodo come “associato”. In questi ultimi venti anni, abbiamo condiviso l’impegno missionario con una quindicina di preti colombiani, che dopo un periodo di servizio sono rientrati nella loro diocesi. Per il PIME è stata ed è una esperienza bella, positiva, e speriamo che continui. In questo tipo di collaborazione con le diocesi, contano molto l’accoglienza che sappiamo riservare agli “associati”, come pure l’eco che questi preti inviano alle loro comunità, diocesi e parrocchie. Conta anche il succedersi dei Vescovi: chi arriva nuovo a volte accoglie cordialmente questo servizio missionario dei suoi preti, e qualcun altro non ne è entusiasta: la continuità non è mai del tutto garantita, anche quando l’esperienza è positiva. P. Danilo, si è dedicato, tra l’altro, a pubblicare libri illustrati di catechesi varia per ragazzi. Iniziativa che non ha trovato un terreno ben predisposto: in Bangladesh, l’uso di sussidi didattici è limitato e, salvo eccezioni, ci si accontenta di far memorizzare il catechismo, prima di conferire i sacramenti– proprio come avveniva “ai miei tempi”, anche in Italia.

Trascorriamo la notte a Lohanipara, e la mattina presto celebriamo nella piccola chiesa, bella e ben tenuta. Poi... si riparte. Ma... quando finisce il viaggio?

Tranquilli: è finito: quel giorno prendemmo a bordo una giovane passeggera che tornava a Zirani per lavorare. Partimmo, e arrivammo, felici e contenti. E questa è l’ultima puntata della serie “Viaggio”.

p. Franco Cagnasso


Notizie dal Bangladesh

Dhaka - 5 maggio 2021

Carissimi,

sento dire che in Italia e dintorni molti si chiedono con preoccupazione se anche in Bangladesh la situazione è drammatica come quella dell'India.

No.

E' lecito pensarlo, perché siamo vicini di casa e per tanti aspetti in situazioni analoghe. Anche qui c'è stata una ripresa dei contagi, ma siamo su livelli molto più bassi (se non altro, perché tutti i "test" si pagano salati, e quindi per forza devono essere meno...).

Da due settimane siamo in lockdown, e si andrà avanti fino al 16 maggio, un prolungamento chiaramente inteso a diminuire (se non a impedire) i grandi movimenti di massa che in occasione della fine del mese di digiuno (quest'anno il 12 maggio) di solito si verificano.

Per quanto riguarda il vaccino, ne hanno iniettato qualche decina di migliaia di dosi, e poi si sono fermati: mancano i rifornimenti, e si teme che anche chi ha fatto la prima dose non riesca ad avere la seconda. L'India aveva promesso di mandarne, ma poi ha deciso che non ne aveva abbastanza per sé; la Cina e la Russia sono disposte a far produrre il vaccino qui, ma pare che le difficoltà organizzative (avere la materia prima: dicono che gli svaiati componenti del prezioso intruglio arrivino da numerosi paesi diversi, e mettere tutti insieme è un'impresa). Anche le complicazioni politiche sembrano non essere poche... L'America ha detto che manderà ma il Bangladesh aspetta di sapere se dovrà pagare o se si tratta di un regalo... Insomma, situazione di stallo.

Dunque: avanti con la mascherina!

Ma c'è anche chi trova il lato vantaggioso della situazione: il nostro fratel Massimo Cattaneo, consigliere generale venuto in visita qui, sarebbe dovuto ritornare a Milano già parecchi giorni fa, ma tra voli sospesi e cittadini provenienti dal Bangladesh considerati pericolosi, è stato "costretto" (!) a decidere di rinviare il ritorno. Ha deciso di rimanere a Dinajpur, e la cosa non gli dispiace per nulla: dà una mano alla Scuola tecnica in cui ha lavorato per tanti anni e che sente la sua mancanza, e pratica il bengalese per essere pronto a ritornare da noi appena finirà il suo incarico a Milano.

Statemi bene e... mi raccomando, la mascherina!!!

Un abbraccio

Franco