Schegge di Bengala - 2017

p. Franco Cagnasso

2017

12/12

Visita del Papa e dintorni 1-4  

21/11

Furbi - Situazione 

3/11

Domande papali - Paura 

15/10

Benevolenza - Quattro dita 

21/9

Svaniscono - Cibo - Autodifesa 

4/9

Lasciare - Antiterrorismo 

3/8

Amloki - Mistero - Zanzare 

2/7

Picnic? - V.I.P. - Golapi

3/6

Solidarietà - Effetto Cardinale - Un mondo a sè - Ripartire 

16/5

Indagini - Riforma 

3/5

Pitor - In cammino

12/4

Volti e nomi - Stagioni - Interpretazioni - Brivido 

5/3

Un cammino insolito - Autobus - Dopo la strage - Polli

21/2

Libri di Testo - Sant'Antonio 

6/1

Caro P. Franco - Detersivo - Sorprendente - Ringiovanire 

154

Dhaka - 12 dicembre 2017

     

Visita del Papa e dintorni 1
La visita del Papa in Bangladesh, con tutto il movimento che ha creato per la preparazione e lo svolgimento, coinvolgendo almeno 90mila persone (una più, una meno...), ha avuto contorni vari, che non fanno notizia, ma fanno realtà.
Così per l’anziano Tripura che, dopo aver coraggiosamente deciso di lasciare il suo villaggio ha affrontato, per la prima volta, l’infinito viaggio fino a Dhaka. Arrivato stanco morto nella caotica città, capisce subito che qui ci sono sì le fermate degli autobus, ma gli autobus non si fermano, al massimo rallentano. Così, quando vede che l’autobus su cui si trova sta passando davanti a un cancello e gli dicono “qui arriverà il Papa”, salta giù al volo, e assaggia la consistenza del malandato asfalto della capitale, per poi sperimentare la premurosa (si fa per dire) assistenza degli ospedali della capitale stessa. Non ha visto il Papa, ma ora sta bene ed è tornato al villaggio.


Visita del Papa e dintorni 2
“Pronto! Padre, come stai?” “Bene, grazie, ma tu chi sei?” “Non mi riconosci? Ma come! Sono Shilpy, la tua figlia” Già, ne ho così tante che ho perso il conto... Fatico parecchio, poi mi torna in mente. Bisogna andare indietro di 10 anni (circa), avevo pure scritto una scheggia (*) su Shilpy e Kolpona, due amiche del sud venute a Uttora per cercare lavoro, che vivevano sul tetto di una casa in costruzione ricamando la sera e lavorando in fabbrica tutto il giorno per aiutare le famiglie. Su una precaria scaletta eravamo andati a trovarle, nel buio dell’inverno e nel fango della stradetta. Avevano offerto il te’ a me, a suor Emilia, e un altro, mi pare fosse Hilarius. Avevano fatto bere prima il reverendo, poi – scese a piano terra e accuratamente lavato all’unico rubinetto disponibile l’unico bicchiere di loro proprietà – la reverenda, e poi il laico. Ci eravamo rivisti qualche volta, venivano a Messa quando potevano, e alla fine mi avevano chiesto un regalone: un aiuto per completare la somma necessaria a comprarsi una macchina per cucire. Le aiutai, la comprarono, e poi mi diedi dell’ingenuo: scomparvero dalla circolazione senza un saluto; un “caso” fra i tanti di poveri che non riesci ad aiutare perché sono pasticcioni – o imbroglioni. E ora, come piovuta dal cielo, mi chiede al telefono: “Ma come, non mi riconosci? Senti, vengo a Dhaka per vedere il Papa, e vorrei proprio incontrarti”.
Così se ne arriva la mattina del fatidico 30 novembre, giorno dell’arrivo del Papa che l’indomani celebrerà al parco. Ha il faccino simpatico di allora, qualche chilo in più, e – per buona misura - un marito e un figlio di 5 anni. Mi chiede scusa perché se n’era andata senza dir nulla: “Kolpona s’era ammalata gravemente, siamo tornate di corsa a casa, ho perso il tuo numero di telefono e non ho più potuto rintracciarti”. E la macchina per cucire appena comprata? “Una benedizione! L’ho portata con me, e da allora vivo lavorando a casa. Mio marito è catechista parrocchiale, guadagna poco, ma è un uomo che vale molto più di quel che guadagna... mia suocera poi è ancora meglio: ho perso la mamma da piccola, e ora l’ho ritrovata. E’ stato mio marito a rintracciarti, chiedendo di qua e di là a preti e suore il tuo numero di telefono. Anche lui ti conosce, grazie alle mie chiacchiere...” E Kolpona? “Guarita, sposata, ha un bambino. Ci vediamo spesso...”
Chissà se mi sta leggendo quel gentile signore che, dopo aver letto la scheggia su Shilpy e Kolpona (come dicevo, circa 10 anni fa) mi mandò una donazione per loro? Allora non la consegnai: erano irreperibili. Ora – se mi sta leggendo – sono lieto di potergli dire che il suo aiuto s’aggiungerà ai risparmi che Shilpy e marito stanno accumulando per comprarsi una macchina nuova, e più moderna... 

            


Visita del Papa e dintorni 3
Suor Roberta da anni manda avanti un ospedale che cura ammalati di lebbra e di tubercolosi, a Khulna, e segue non pochi “satelliti” dell’ospedale, punti d’appoggio distribuiti nella zona, aperti a rotazione, dove i pazienti possono fare controlli e ricevere medicine. Saputo che il Papa sarebbe venuto a Dhaka, s’è detta: “Se il Papa pensa agli ultimi, allora glieli porto vicini”. Comitati, permessi, tagliandi, difficoltà, raccomandazioni, consigli: “ma lascia perdere!”, e alla fine l’ha spuntata. Erano una decina, e il viaggio era lungo, con tanto di attraversamento in traghetto dell’immenso fiume Padma, e di circolazione sugli autobus di Dhaka. Fino alla fine, tutto bene – quasi. Arrivati alla parrocchia “Maria Regina degli Apostoli”, che aveva messo a loro disposizione una saletta ben arredata con tre tavolini e varie stuoie, una signora si fa avanti e comunica: “Ho perso mio marito”. Chi li conosce pensa subito: “Un colpo di fortuna” – ma queste cose non si possono dire, e la signora piange. Interrogatorio a tutti, e risulta sicuro che l’anziano, iracondo e distratto signore era ancora con il gruppo quando si accingevano a salire sull’ultimo autobus, in un punto caoticissimo della caotica Dhaka. “Voleva finire la sigaretta e non s’è accorto che stavamo salendo” è l’unanime commento, e la preoccupazione s’aggrava quando la moglie conferma che non aveva soldi nè indirizzo, quindi non poteva chiedere indicazioni per andare... dove?
Ma l’uomo – da tutti giudicato piuttosto “tardo” – se la cava, e chiede ai passanti di accompagnarlo dove c’è una chiesa. Trovare chiese a Dhaka non è che sia facile, e il disperso interpella innumerevoli passanti, vigili, pedalatori di riksciò, venditori di noccioline, autisti di autobus, ragazzini di strada... finchè uno (purtroppo rimasto sconosciuto e senza il piccolo premio che avrebbe meritato), l’ha fatto arrivare ad una chiesa – protestante. Sottoposto a pressante interrogatorio, l’uomo ha fornito elementi sufficienti a far supporre che si trattasse di una chiesa cattolica, e con un giro di telefonate i nostri “fratelli separati” ci hanno rintracciati. Permettendo così a suor Roberta di dormire tranquilla, alla moglie di smettere di piangere, alla gente di chiedersi “che facciamo?” e di offrire i consigli più disparati, al disperso di arrivare a destinazione, mangiare la cena e di andare il giorno dopo a vedere il Papa – dopo essersi fumato una sigaretta.


Visita del Papa e dintorni 4
Ripa era venuta a cercarmi con una lettera di presentazione firmata da un prete diocesano che conoscevo bene; anche un cieco avrebbe subito capito che la lettera era falsa, e infatti
p. Abel me lo confermò. Ma Ripa, giovane, bruttina e magra come un chiodo, oltre a essere imbrogliona e chiacchierona, era pure con un braccio rotto, con due bambini, senza il marito (andatosene dope averle spezzato il braccio... “ci vogliamo bene, ma quando perde la pazienza perde anche la testa”), senza soldi, senza possibilità di lavorare; ma non senza debiti da tutte le parti. L’aiutai un poco, poi di nuovo, poi di nuovo. Dai e dai, riconciliati e ridivisi, alla fine hanno trovato un po’ di equilibrio e i figli ora sono sui 15 anni. Ma lui – si chiama Badol – lavorando come imbianchino è scivolato dalla precaria impalcatura cadendo dal quarto piano. Vivo, ma sconquassato. Appena rimesso in sesto per poter ricominciare a guadagnare qualche soldo pescando (la sua passione), tocca a Ripa – forse per amore? Piove, l’acqua entra dal tetto in lamiera, Ripa sale per aggiustarlo e cade. Viva, ma sconquassata. Non che vadano troppo in chiesa, ma qualche volta sì; non avendo mezzi nemmeno per farsi vedere da un medico, pensano di rivolgersi al parroco, che trova un posto per lei dalle suore di Madre Teresa. Vado a trovarla là, e mi fa proprio pena. Dolorante da tutte le parti, scoraggiata, sfigurata dai denti rotti: “Le suore mi trattano benissimo, ma non miglioro, questa volta non sopravvivo”. Per di più, arriva anche il giorno in cui le suore le dicono: ci dispiace, ma fino a dopo la visita del Papa dobbiamo liberare questi locali – e la riaccompagnano a casa. Mi telefona più volte, piange come una fontana e capisco poco, ma non ci vuol molto per intuire che va sempre peggio.
Il Papa viene, e va dalle suore di Madre Teresa prima di incontrare preti, suore e affini nella chiesa “Regina del Rosario”. Poi riparte.
E Ripa mi telefona di nuovo. Non piange, e capisco che mi dice: “Sto bene, sono a posto” “Cioè?” “Cioè sto bene, vengo e te lo racconto”.
Il giorno dopo arriva. Cammina, ride, parla (questo però non mi stupisce...). Insomma, è andata così. Pochi giorni prima, una Suora le telefona: “Ripa, tu hai bisogno di una benedizione speciale, vieni a prenderla dal Papa” “Ma se non c’è posto! E poi sto male, malissimo, ho dolori da tutte le parti, non cammino, vomito...” “Vieni, il posto te lo trovo io”. Ripa non se la sente, ma alla fine sale dolorante e piangente su un pulmino che va a Dhaka, aspetta pregando come una matta, ed è presente quando il Papa fa il giro fra i letti. Si ferma anche davanti a lei, si scambiano due parole, la benedice, se ne va. E poi? “E poi quella notte l’ho sognato, tre volte. La mattina mi sono svegliata e stavo bene, benissimo. Non lo vedi?”. Sì, i denti sono ancora rotti, ma tutto il resto funziona – anche la lingua. 

     
p. Franco Cagnasso 

153

Dhaka, 21 novembre 2017

 

Furbi

Come camminare nella schifosissima fanghiglia che ricopre le strade del bazar dopo la pioggia?

C’è chi indossa scarpe alte e pesanti, per non sporcare i piedi con il concentrato di decenni di rifiuti di ogni natura, su cui è decenza tacere.

C’è chi toglie le scarpe e cammina a piedi nudi per salvare il cuoio o la plastica delle scarpe dai componenti corrosivi della melma.

I furbi (non faccio nomi) vanno al bazar con i sandali. Così inzaccherano piedi e scarpe...

 

 

Situazione  

Nel 1972, subito dopo dopo una devastante guerra con il Pakistan, e la nascita del  Bangladesh, si aprirono le frontiere all’ingresso di missionari. Il PIME, vedendo le enormi necessità e le possibilità di operare nel nuovo Paese, fece un grande sforzo, mandando quanti più missionari poteva in poco tempo. Erano tutti giovani ed entusiasti, pieni di idee belle e di idee campate per aria. Poi, ovviamente, si tornò alla normalità, e i nuovi arrivi si diradarono molto.

Quel folto gruppo di giovani ora è diventato un folto gruppo di anziani, pieni di esperienza e di acciacchi. Scarseggiano i successori di mezz’età. I giovani,  quelli che portano a loro volta energie ed idee nuove, buone e meno buone, benchè provvidenzialmente rinforzati da missionari provenienti da Brasile, Africa, India, Colombia, sono pochi. 

La nostra comunità si sta chiedendo che cosa lasciare, che cosa continuare, che cosa e come trasformare, e p. Ferruccio Brambillasca, superiore generale del PIME, recentemente ci ha visitati per un mese, anche per aiutarci a fare il punto.

Riassumo pescando fra le note del suo intervento, e le discussioni che ne sono seguite.

Dhaka colpisce subito per la sua “invivibilità” e per il grandissimo afflusso di persone; per questo è importante per noi. Abbiamo avviato e poi lasciato alla diocesi varie iniziative; l’impegno di servizio al mondo dei lavoratori richiederebbe non uno, ma due missionari, il lavoro pastorale nella parrocchia, in cui si integra la comunità formativa  per giovani, andrebbe continuata. La casa del PIME, in passato era molto usata ma ora non più: che farne? P. Ferruccio assicura che cercherà di rispondere alla richiesta del seminario nazionale che il PIME ancora dia aiuto, inviando professori per tenere corsi di teologia. Apprezza lo stile pastorale che alcuni di noi praticano, di vicinanza e visite frequenti alle famiglie.

Rajshahi è la diocesi che in ogni angolo testimonia silenziosamente il grande lavoro svolto dal PIME, ma la nostra presenza si è rapidamente ridotta al minimo; è significativa però per ciò che facciamo negli ostelli giovanili, fra le minoranze etniche, per gli ammalati, con persone disabili. Terminare del tutto?  Ci chiedono un prete maturo ed esperto per ritiri e direzione spirituale a preti e suore, in maggioranza giovani. In questo periodo, in varie zone si celebrano i centenari dei primissimi battesimi: sono occasioni di festa, ma anche catechesi ed evangelizzazione.

Quanto a  Dinajpur, la diocesi dove siamo più numerosi p. Ferruccio si chiede come aiutare la gente a non dipendere dagli aiuti dei missionari, ma rendersi autonomi, e contribuire, anche perché i missionari sempre meno potranno aiutare economicamente come in passato. Le opere che gestiamo, Scuola Tecnica “Novara” e ospedale St.Vincent rispondono molto bene alle nostre priorità, ma bisogna cercare di passarne la responsabilità alla diocesi o a organizzazioni che ne garantiscano la continuità e la finalità: servizio a poveri e a minoranze. Il Vescovo ci guarda con stima e riconoscenza e s’aspetta molto dal PIME, specialmente aiuto per aprire nuove presenze di evangelizzazione fra le minoranze etniche, e per la formazione spirituale delle suore locali. Ha bisogno anche di sostegno economico. Sarebbe contento di mandare qualche suo prete diocesano in missione con noi come associato.

Il bilancio finale di P. Ferruccio è benevolo nei nostri confronti. Dice di avere apprezzato specialmente tre caratteristiche del nostro variopinto gruppo di missionari, decisamente difficile da inquadrare. La prima è la comune, forte passione per la gente a cui siamo stati mandati. Mi è tornato alla memoria il libro scritto da Mariagrazia Zambon dopo un attento viaggio fra noi, nel 2005: “Passione per un popolo”. Nei 12 anni trascorsi da allora, molte cose sono cambiate, ma la passione non è diminuita! 

La seconda caratteristica consiste nel rispetto, accoglienza e dialogo sincero che ha trovato fra noi, nonostante le grandi differenze di carattere, stile e anche idee che abbiamo. La terza, il buon rapporto con il clero diocesano e con le religiose, specialmente le missionarie dell’Immacolata (PIME), le Suore di Maria Bambina (le prime a raggiungerci in Bengala, nel 1860), e le suore locali “Shanti Rani”, fondate da un vescovo PIME.

Infine, tre raccomandazioni. 1. Una grande attenzione alla formazione delle vocazioni locali, anche se, per molti di noi, prendersi cura di un piccolo gruppo di giovani costa molta fatica.  2. Nonostante il calo numerico, che è in corso e continuerà, “non tirate i remi in barca, rassegnandovi a gestire quello che c’è. Pensate a qualche cosa di nuovo per la nostra presenza, per quanto pochi possiate essere.” 3. P. Ferruccio ci invita a continuare a collaborare con le opere e iniziative dell’Istituto, come in passato, e “siate di esempio per la vita fraterna, il desiderio di lavorare  per le popolazioni più discriminate, e il servizio umile alla chiesa locale, tre pilastri importanti del nostro carisma,”

A lui, un grazie cordiale.

  

p. Franco Cagnasso

152

Dhaka, 3 novembre 2017

 

Domande papali

Il 30 novembre prossimo, a Dio piacendo, Papa Francesco metterà piede sul suolo del Bangladesh per la prima volta in vita sua, per effettuare la seconda visita papale della storia; la prima e finora unica fu di Papa Giovanni Paolo II nel 1986. Francesco arriverà dal Myanmar, dopo una visita di tre giorni programmata “in tandem” con la visita di tre giorni in Bangladesh; presumo che i politici e i diplomatici (laici ed ecclesiastici, cristiani, buddisti e musulmani) nel decidere le date non prevedessero che nel frattempo i rapporti fra i due paesi (che hanno un tratto relativamente breve di confine in comune) si sarebbero complicati enormemente a causa del problema dei Rohingya...

Chissà che ci abbia pensato invece la Provvidenza, mettendo il Papa nei pasticci per guidarlo a fare qualcosa che aiuti a districare la matassa?

Nel frattempo, i cristiani si preparano. Dall’Italia, alcuni mi chiedono se c’è attesa per la sua visita anche da parte di fedeli di altre religioni. Posso dire di sì, ma è necessario capirsi bene. Ecco perché ho collezionato alcune domande che mi hanno rivolto, per offrire un’idea delle “attese” che circolano fra la gente comune.

-  Ma il Papa, è capo dei cattolici o dei battisti?

-  E’ vero che il Vaticano confina con l’Italia? E’ più grande o più piccolo?

-  Come vi trovate con un papa africano? Ho sentito dire che viene dall’Argentina...

-  Vorrei parlargli direttamente, mi prenota un incontro?

-  E’ lui che ha fatto costruire una moschea in Vaticano?

-  In Italia, c’è un presidente come da noi, o fa tutto il  Papa?

-  Ci sono più abitanti in Bangladesh o in Vaticano?

-  E’ lui che vi dà i soldi per convertirci?

    

 

Paura

E’ già buio, e fra poco arriva l’ora della cena. Nel cortiletto di fronte alla chiesa alcuni parrocchiani chiacchierano e prendono il fresco seduti sulla lunga panchina in cemento. Mi trovo al computer, quando arriva un giovane con la faccia tra lo spaventato e lo  stupito. “Padre, c’è un gruppo di hujur vicino al cancello, alcuni giovani e uno o due anziani. Dicono che vogliono parlare con te”. Hujur è termine rispettoso che indica un musulmano solitamente vestito nel tradizionale abito arabo che distingue una persona religiosa: calzoni larghi in tela bianca, tunica bianca fin quasi al ginocchio, cappellino bianco. Vado e me li trovo davanti, una quindicina, che si accalcano per stringermi la mano, mentre uno che sembra essere il “capo” mi dice che provengono da una madrassa (scuola coranica) del quartiere vicino e vorrebbero vedere la chiesa. Appartengono ad una corrente di spiritualità conosciuta come “tablig”, quella che organizza ogni anno un gigantesco pellegrinaggio con un milione di partecipanti, proprio vicino a Dhaka. Sono “fondamentalisti” cioé seguono e vogliono praticare l’interpretazione assolutamente letterale del Corano, e hanno per scopo l’islamizzazione di tutti, ma con mezzi pacifici, attraverso la predicazione e il buon esempio. Inizio a spiegare che cosa è una chiesa, come preghiamo la domenica nell’Eucaristia. Ogni accenno a qualche cosa o qualcuno di cui si parla anche nel Corano suscita cenni soddisfatti del capo o esclamazioni di consenso, seguiti spesso da sguardi perplessi perché, se i nomi quasi sono uguali, in molti casi i contenuti non lo sono, e allora scatta in loro la risposta che avrei dovuto dare e non ho dato. Me la dicono – a volte in arabo – delusi di non potermi persuadere: “Ma come, è scritto nel Corano!” Poi viene la domanda che li preoccupa: “Che sarà di voi? Chi non segue il Corano va all’inferno, e voi che cosa dite?” Il mio tentativo di spiegare si disperde in vari rivoli, rincorrendo altre domande che si accavallano; capisco che più che spiegare, sto complicando loro la vita. Interviene l’anziano: “Andiamo a vedere la chiesa, si può?”. Chiedo se sono veramente interessati e un ragazzo mi dice: “Vogliamo vedere se rispettate il Corano o no”. Qualcuno lo ascolta con disappunto, e io mi avventuro in una lezioncina storica per far capire che – essendo la Bibbia stata scritta prima del Corano, non poteva né parlar male né parlar bene di ciò che è venuto dopo. Il concetto è chiaro, ma difficile da accogliere. “Ma insomma, ci sarà o no per voi un giudizio? E come sarete giudicati? E cosa troverete all’inferno, o caso mai in paradiso?”. Racconto la parabola del giudizio finale, “avevo fame e mi avete dato da mangiare”; sembrano interessati, ma non convinti: “Ma il Corano dice...”, e soprattutto vogliono sapere come descriviamo il paradiso. Su questo li deludo proprio, sorvolando sulle pittoresche descrizioni coraniche e cercando (invano) di spiegare che non possiamo semplicemente proiettare sull’aldilà le cose che conosciamo qui.

Alla fine apro la chiesa e accendo le luci, mi chiedono se devono togliere le scarpe: “Sì, e per favore, rispetto!”. Non c’è male, si comportano decentemente anche quando dico di no alla loro richiesta di avere in regalo una Bibbia: prima vi spiego che cosa è, mi ascoltate bene, poi se volete ve la do da leggere.”

Ci avviamo all’uscita, e m’accorgo, che mentre ero immerso in questa sarabanda di domande e risposte, nel cortile era arrivata altra gente: alcune donne, la cuoca, gli studenti di college che abitano con noi, qualche giovanotto che vive nelle case vicine, due membri del Consiglio pastorale con il cellulare in mano... Mi guardano quasi stravolti mentre esco circondato dalla piccola nuvola di hujur, e finalmente capisco che sono accorsi, pronti a intervenire per salvarmi. “Stavo rientrando in casa dall’ufficio e mi hanno avvisato che un gruppo di studenti del corano era entrato da noi...” Tento di tranquillizzarli, ma restano persuasi che io sia un incosciente. Li ringrazio di cuore di essersi preoccupati per me. Mi raccomandano di non farlo più, perché – dicono - l’atmosfera da un anno e mezzo a questa parte è cambiata.

Sì, hanno ragione: ora, ben nascosto nel profondo, non c’è più soltanto sospetto, c’è paura.

 

p. Franco Cagnasso 

151

Rajshahi, 15 ottobre 2017

  

Benevolenza

In città la mentalità sta cambiando in fretta, ma per lo più è ancora diffuso un senso di rispetto per gli anziani e di pazienza verso di loro. Me ne avvantaggio largamente, ora che il mio parroco p. Quirico è in Italia per cure mediche che si prolungano, e io sono alle prese con una variegata parrocchia formata da cristiani provenienti da tutti gli angoli del Bangladesh, di varie condizioni economiche, sparpagliati, con tradizioni anche religiose e devozioni diverse. Si adattano con pazienza alla mia inesperienza e al fatto che debba pure tener d’occhio impegni precedenti che con la parrocchia non hanno nulla a che fare. Quando proprio le mie dimenticanze (nomi, date, appuntamenti, telefonate, ecc.), confusioni, gaffe, incertezze e inadempienze diventano macroscopiche, evitano critiche e brontolamenti. Chiedono soltanto – con squisita gentilezza: “A proposito, quando tornerà il parroco?”

 

 

Quattro dita

Piccola e magra, cammina spedita indossando un burka nero che la copre da capo a piedi; attraverso la fessura per gli occhi, di pochi millimetri, s’intravvedono due lenti scure. Nero, ovviamente , anche il velo, e nere le calze (rare a vedersi in Bangladesh, rarissime in questa stagione). Dalle maniche lunghe escono mani guantate di nero, ma la destra lascia scoperta la punta delle dita, intrecciate con quelle di un bimbo che le cammina al fianco. Lo accompagna alla scuola non lontana, e ritorna subito, di buon passo. Ora, anche le quattro dita sono guantate. Nero integrale. 

 

p. Franco Cagnasso

150

Rajshahi, 21 settembre 2017

          

Svaniscono

“Hanno sgozzato tre giovani di un villaggio vicino al mio” mi dice angosciato un giovane Tripura che studia a Dhaka. Queste voci che arrivano da lontano non sono mai del tutto sicure, ma un fondamento ce l’hanno. Sono ormai oltre 400mila i Rohingya che in pochi giorni hanno passato il confine e sono stati faticosamente sistemati in campi profughi nell’estremo sud. Il Bangladesh dapprima aveva cercato di fermarli, anche a fucilate, poi su giornali e TV ha preso forza l’interpretazione che i Rohingya siano perseguitati perché musulmani, e il governo ha avviato iniziative di accoglienza – accompagnate da regole chiare: li accogliamo ma nessuno esca dai “campi”, si faccia un censimento specifico per loro e nessuno abbia documenti bengalesi, non vengano assunti per lavorare, dovranno andarsene al più presto. 

E’ da tempo che Myanmar e Bangladesh si scaricano addosso questo “peso” umano e politico, sostenendo che i Rohingya sono cittadini dell’altro paese. 

Si dice che ora, in questi squallidi campi, si trovino in stragrande maggioranza donne e bambini; e gli uomini? “Svaniscono” scrive un quotidiano bengalese; polizia ed esercito hanno rintracciato gruppetti di profughi anche in altre regioni e li hanno prontamente rispediti ai campi di raccolta, ma si tratta proprio di poca gente... Perché cercare lontano? Lungo il confine con il Myanmar c’è il Cittagong Hill Tracts, la fascia collinare che nel sud est del Bangladesh è da secoli terra di vari gruppi aborigeni con culture e religioni diverse, e già prima che si scatenasse la repressione dell’esercito birmano era meta di molti Rohingya. Per molti bengalesi l’Hill Tracts è come il “far west”, da occupare cacciando i pochi “selvaggi” che la abitano; e sono già riusciti a diventare maggioranza, specie nelle città. I Rohingya che negli anni scorsi scappavano da questa parte del confine, rimanendovi clandestinamente, venivano impiegati come mano d’opera a basso costo dalla malavita e dal contrabbando locale, che li aiutava a trovare spazi, a spese degli aborigeni. Ora il processo si accelera. Se altrove in Bangladesh è quasi impossibile farsi largo, qui gli spazi ci sono, e dell’accoglienza si può fare a meno, se si è decisi, armati, e fiancheggiati da bengalesi locali anche loro arrivati da lontano ed entrati a forza. In più, gioca a loro favore uno degli obiettivi dell’estremismo islamista: creare e sfruttare odio contro i “diversi”. Già vittime di assalti razzisti negli anni scorsi, ora i buddisti vengono dipinti come bestie assetate di sangue, persecutori dei musulmani, e se molti aborigeni buddisti non sono, la differenza non è tanto importante.

Attorno ai campi profughi ronza gentaglia di ogni tipo: chi cerca donne per i bordelli bengalesi e all’estero, chi recluta estremisti o spacciatori, chi vuole lavoratori a bassissimo costo, cioè schiavi...

Nei remoti villaggi Tripura, Chakma, Marma, Mrong e di altre etnie in quest’ultimo angolo di foreste in Bangladesh, gli uomini vegliano tutta notte per prevenire assalti; ai buddisti le autorità hanno consigliato di girare “con prudenza”; i monasteri sono presidiati. La paura è tanta, e non è infondata.

 


Cibo

Il Bangladesh sembra aver raggiunto, e forse superato Cina e India per la rapidità dello sviluppo economico, in ansiosa attesa del momento in cui il Paese verrà classificato non più come “sottosviluppato” o “povero” ma come “a reddito medio/basso” o addirittura “medio”... Il fervore di opere balza all’occhio ovunque, con cambiamenti rapidi di interi quartieri, negozi, strade e così via. Anche il “consumismo” avanza nella vita quotidiana, con la corsa ai cellulari sempre più smart, l’uso crescente di merendine oleose e dolciastre che fanno poi andare dal medico con il mal di fegato e il sovrappeso, le moto che infestano le strade, la gente meglio vestita di quanto fosse pochi anni fa. La miseria si ritira e si nasconde; se prima era normale, ora si vergogna. Le statistiche (non chiedetemi su quali dati si fondino) dicono che le persone gravemente malnutrite sono oltre 26 milioni. Malnutrizione non significa rimanere senza fatica snelli e senza cellulite; significa fragilità, meno resa nel lavoro anche intellettuale (risultati scolastici anzitutto), malattie più frequenti. I medici dopo una serie di esami costosi, concludono che hai bisogno di mangiare meglio e prescrivono ricostituenti, vitaminici e integratori vari. Poi aggiungono “consumare ogni giorno un bicchier di latte, un uovo, verdure abbondanti”. Se sono rimasti quattro soldi, si comprano le medicine e si dimenticano uovo, latte e verdure...

 


Autodifesa

Non so se è un termine bengalese; in inglese la parola “char” ha un altro significato, ma qui viene usata per indicare le aree sabbiose che si formano ai margini dei grandi fiumi che attraversano il Bangladesh, Gange, Brahmaputra, e altri. Sono ai margini dei fiumi, o formano vere e proprie isole, sommerse durante la stagione delle piogge, abitabili negli altri periodi dell’anno, dove  migliaia di senza terra cercano spazio per coltivare qualcosa, far pascolare gli animali, pescare, costruirsi una capanna che, se la va bene e le piogge sono scarse, duri magari due stagioni. Una condizione forse paragonabile ai nostri montanari del passato che “facevano la stagione” estiva nelle malghe e nei pascoli alti; ma per loro i pascoli erano stabili mentre qui i “char” appaiono e scompaiono a capriccio dei fiumi: impossibile prendere possesso stabile, esibire diritti di proprietà, pianificare una assegnazione regolare... A rendere più varia e interessante la vita di questi seminomadi fluviali, ci si mettono pure i banditi, che con motoscafi veloci assaltano e depredano le barche, specie se trasportano animali, piombano di notte sui casolari isolati e li saccheggiano. Se uno di loro viene catturato dalla gente, verrà linciato sul posto, ma questo invece di spaventarli li incattivisce. In una zona del nord, lungo il Brahmaputra, i poveracci che vivono sui “char” hanno deciso di difendersi, chiamando un Santal a stare con loro un poco di tempo, per insegnare come si preparano e come si usano archi e frecce; un’arte che fra i Santal ancora è viva, per un poco di caccia, per sport, e per difesa.   

 

p. Franco Cagnasso 

149

Dhaka, 4 settembre 2017

 

Lasciare

Quando Gesù dice al giovane ricco: “Vai, vendi tutto, dallo ai poveri; poi vieni e seguimi”, quello s’intristisce e se ne va, in silenzio. Forse gli è mancato il coraggio, che certamente occorre per una scelta del genere; o forse gli è mancato quell’appoggio che sarebbe bastato a fargli compiere il salto? Lo pensavo mentre, dal 3 al 6 agosto, partecipavo alle liturgie, celebrazioni, festeggiamenti, spettacoli che hanno animato la parrocchia di Tumilia (Dhaka), e molti di noi missionari del PIME con rispettivi amici e collaboratori, per l’ordinazione presbiterale di Regan John Gomes.

Era lui, infatti, che veniva ordinato e che era deciso a lasciare tutto, partendo per la Guinea Bissau; ma chi “lasciava” di più non era certo lui.

Lo conosco da quando era all’inizio degli studi di college. Dinamico, impulsivo, pieno di energie e interessi, in ricerca, anche critico e “zuccone”... Lo interpellava la nostra vita qui, lontano dal nostro paese e perciò “per forza” dedicati interamente alla gente a cui eravamo stati mandati. Cercava la sua strada, e si è orientato sempre più chiaramente e decisamente al presbiterato missionario nel PIME. Ma non era una scelta facile: primo di 6 fratelli e sorelle, il papà era morto improvvisamente pochi anni prima, e l’unico fratello – molto giovane - era annegato in uno stagno vicino a casa. Ogni volta che andavo a trovarlo, la mamma mi mostrava piangendo le loro fotografie. Quattro sorelle: una suora nel monastero di clausura delle Clarisse adoratrici a Mymensingh; una gravemente handicappata e bisognosa di assistenza, due che studiano ora nel liceo. Regan non doveva lasciare molti campi, o case, o conti in banca, ma questi “beni” ben più preziosi. Se lo ha potuto fare, certamente è perché ha avuto coraggio; ma ancora di più perché questi suoi cari non solo non hanno posto ostacoli, ma lo hanno sostenuto in tutti i modi nella scelta. Durante le celebrazioni osservo la mamma: sempre silenziosa, sembra quasi che voglia scomparire in mezzo agli altri, senza farsi notare. Ricordo quante volte mi ha chiesto: “Come va Regan? E’ buono? Mi raccomando, lo aiuti a realizzare la sua vocazione; non deve pensare a me!” E osservo la zia, avvocato, sorella del papà, che gli ha confermato tante volte: “Problemi in casa ce ne sono, anche economici; ma tu non preoccuparti, ci penso io, la mia famiglia siete voi. Vai avanti.” Mentre siamo affiancati durante la processione di entrata, le chiedo: “E’ contenta ora?” “Sì, tanto” mi risponde.

Abbracciando Regan subito dopo l’ordinazione, gli sussurro: “Sai che la tua mamma non mi ha mai detto: perché Regan non rimane con me? Mi ha sempre detto: preghi perché io lo affido al Signore, e voglio che sia tutto per Lui.” E in un brevissimo incontro durante queste feste, mi ha mormorato: “Sto dando proprio tutto...”

 


Antiterrorismo

Dopo l’attentato terroristico di Dhaka, avvenuto in un ristorante il primo luglio dell’anno scorso, la paura era diffusa – e le vendite di telecamere a circuito chiuso per controllare entrate, cortili, sale e quant’altro andarono alle stelle. I parrocchiani di Mirpur cercarono di persuadere il parroco p. Quirico, e il sottoscritto, che un impianto del genere era assolutamente necessario; non ci riuscirono, ma non si scoraggiarono: raccolta la somma necessaria, strapparono il permesso di sistemare l’impianto con tre telecamere nei punti strategici. Poi si rilassarono contenti: ora siamo sicuri...

Infatti, non successero incidenti di sorta, se non che – dopo circa un anno – una signora, tornando al suo posto dopo aver ricevuto la Comunione durante la Messa, vide che la sua borsetta era sparita. Stupore, indignazione, commenti... poi, per qualche settimana ogni tanto spariva un paio di scarpe in buono stato (qui da noi si entra in chiesa a piedi scalzi) e rimanevano desolate in veranda una signora a piedi scalzi, e un un paio di vecchie ciabatte non sue. Poiché l’atmosfera rischiava di avvelenarsi, si decise di tenere chiusi i cancelli al momento dell’uscita, finché tutti avessero recuperato le loro calzature, scarpe o ciabatte che fossero: un provvedimento astuto, unanimamente approvato, e mai messo in pratica. Finchè un’altra borsa scomparve durante la distribuzione della Comunione...

Fu allora che qualcuno si ricordò dell’impianto antiterroristico, e alcuni volontari si diedero a controllare i filmati, alla ricerca non di bombe o cinture esplosive, ma di una borsetta – che venne trovata! Una donna sconosciuta appariva mentre s’affrettava verso il cancello con la refurtiva, prima della fine della Messa. “Non si farà più vedere” sentenziò qualcuno. Ma dopo oltre un mese la signora riapparve, e venne riconosciuta. Allora sì, i cancelli vennero chiusi, e la signora, fermamente invitata ad andare in sacristia, dovette fronteggiare una decina di membri del consiglio parrocchiale, insieme al facente funzioni del parroco. L’accusa era ampia: scarpe in numero imprecisato, e due borsette, ma la signora negava. Dopo qualche tira e molla, il segretario parrocchiale, che conduceva l’interrogatorio, tirò fuori l’asso che teneva nella manica: la ripresa delle telecamere: “Lasciamo perdere tutto il resto, ma abbiamo le prove che una borsetta l’hai rubata. Se lo ammetti, bene, altrimenti... polizia”. Mentre parlano, finalmente ricordo di averla già vista: viene da lontano; l’ho aiutata almeno due volte, pur con qualche dubbio, perché evidentemente ammalata, e – secondo il suo racconto – completamente sola. Indù, aveva sposato un cristiano che poi l’aveva piantata in asso e ora era rifiutata dagli indù e sconosciuta ai cristiani che aveva frequentato per poco tempo. Mi guarda a lungo. Le sussurro: “Ti hanno indicato la via per uscirne, coraggio...”. Ammette, negando – non creduta – di aver preso anche le scarpe e l’altra borsetta. Seguono vari predicozzi, dal sapore inevitabilmente ipocrita, di alcuni dei presenti, che esprimono in vari modi il concetto fondamentale che: “I cristiani non fanno queste cose”. Già...

Finalmente lo spettacolo finisce: “Vai, non ti facciamo nulla, ma non farti più vedere”. E i “giudici” se ne vanno. Rimaniamo di fronte, lei e io, a lungo. S’incidono nella memoria e nel cuore il suo volto magro e terreo, le sue parole disperate. Le do quel poco che ho in tasca al momento, poi mi dice: “Come faccio a uscire con questa vergogna?” L’accompagno per mano fino al cancello, per un addio tristissimo, e senza speranza di rivederci. Come faccio a ricordarla senza angoscia? 

    

p. Franco Cagnasso

148

Dhaka, 3 agosto 2017


Amloki
E’ un piccolo frutto, la buccia verde chiaro, e la consistenza, fanno pensare a un chicco d’uva perfettamente rotondo. Sui mercati quasi non si trova, perché non può certo fare concorrenza con il mango o con i lichi, però i bimbi ne vanno alla ricerca. Lo infilano in bocca, mordono, strizzano gli occhi e storcono le labbra perché il succo è aspro e amaro; ma se non lo sputi subito – dicono – dopo un po’ ti lascia il dolce in bocca...
Il “calciobalilla” – come si chiamava una volta - o il “calcetto” classico degli oratori di un tempo continua ad avere un successo strepitoso nella parrocchia di Mirpur, dove ogni tanto compaiono facce nuove, ragazzi e ragazze di altre scuole incuriositi dai racconti fantastici di quanto ci si diverta con questo gioco mai visto altrove. Purtroppo, i grandi ogni tanto decidono che hanno bisogno di un po’ di silenzio (ma che cosa mai se ne faranno del silenzio lo sanno solo loro...) e sequestrano le palline, a volte anche per due o tre ore di seguito! Che fare?
L’altro giorno trovo un gruppetto di piccolissimi urlanti che giocano in punta di piedi per riuscire a vedere almeno una parte del campo. Sono accaniti, ma devono spesso interrompersi perché la pallina è molto piccola e i piedi dei calciatori non la raggiungono. Sembra una biglia di vetro un po’ malconcia, e io ora dovrei passare alla meritata punizione sequestrandola, ma mi viene un dubbio, e me ne vado lentamente, seguito da un inatteso silenzio. Poi una vocetta mi chiama: “Padre!”; mi volto indietro e vedo un bimbo che viene verso di me a mano tesa e mi offre il corpo del reato: “Lo puoi mangiare”. Ringrazio e mi allontano mentre il gruppetto riprende a parlottare. Poi, il più grande mi raggiunge e mi raccomanda: “Però prima lavalo...”


Mistero
Chiedo scusa a Mario, perché soltanto pochi giorni fa ho trovato due suoi “commenti” interessanti del 9 e 20 giugno, in cui riprende le riflessioni di alcune “schegge” sul mondo islamico in Bangladesh, e altrove. Mario scrive: “Credo che per noi cristiani sia un mistero, tra i tanti, il nascere ed il prosperare di una religione come l’islam fondata da un profeta che era un capo religioso, politico e militare (definito da alcuni “un signore della guerra che non si faceva scrupolo di sterminare i propri nemici, con un harem di cui faceva parte, tra le altre, una sposa bambina”) e che si è diffusa (...) soprattutto grazie alla forza delle armi, ed attraverso conversioni forzate. Ma che, al tempo stesso, è professata oggi, tra gli altri, da uomini e donne che sono persone di pace, e persino santi e sante, secondo i criteri che ci dà il Vangelo per definire i santi”.
Mario continua toccando vari temi interessanti, che forse riprenderò, ma per ora mi fermo qui. Sì, credo proprio che la presenza dell’Islam sia un mistero. Se non sbaglio persona, il priore del monastero di Toumliline, decapitato dai terroristi insieme agli altri monaci durante la guerra civile in Algeria, scriveva che il pensiero della sua morte era accompagnato da un desiderio profondo, di riuscire – appena passata quella soglia - a vedere l’islam con gli occhi di Dio, di capirci qualche cosa. I tentativi di offrire una risposta teologica a questo “mistero”, sono stati molti, e veramente disparati. Da chi ha considerato Maometto come l’Anticristo, a chi vorrebbe che fosse considerato come i grandi profeti dell’Antico Testamento. A proposito, se è vero che Maometto ha fatto ricorso alla guerra, ha condannato a morte alcuni avversari, ha dato norme per la guerra (e qui la distanza da Gesù, dalla sua vita e dal suo insegnamento è davvero abissale), non credo però che sia giusto dire che “non si faceva scrupolo di sterminare i propri nemici”. Anche in questo, come in altri campi, si può ritenere che la sua opera abbia contribuito a “umanizzare” la disumanità della guerra – come in seguito contribuiranno le norme internazionali contro l’uso dei gas asfissianti, o quelle sul trattamento dei prigionieri di guerra, ecc. E lasciatemi anche aggiungere che in fatto di “sterminio” abbiamo la storia di Elia a ricordarci che l’uso della violenza non era considerato in contrasto con il dono e la missione di un profeta...
Qualcuno ha voluto considerare l’islam come una “eresia cristiana”, o come una specie di rimedio, che ha introdotto il monoteismo in un mondo pieno di idoli, colmando la lacuna lasciata dai cristiani che – divisi tra loro – non hanno saputo evangelizzare il mondo arabo. Molti “orientalisti” occidentali, fra cui alcuni profondamente cristiani, hanno ammirato molto l’islam dei sufi, a volte leggendo tutta la realtà dell’islam in questo ottica mistica e non politica, che in realtà era osteggiata dalla maggioranza dei musulmani e dei suoi leaders.
Non vado oltre, perché parlerei a vanvera. Aggiungo però che una “valutazione” di questo mistero preferisco farla proprio a partire dall’ultima osservazione che fa Mario, cioè dalle persone che lo vivono. Certo, ci sono i terroristi, o gli opportunisti, ma non pochi trovano nell’islam gli elementi che permettono una vita morale e spirituale degna di tutto rispetto, e anche di ammirazione. E’ questo anche l’approccio del Vaticano II, che non ha parlato – come spesso si dice – di “dialogo fra le religioni”, ma del rapporto con i seguaci di altre religioni, esprimendo rispetto per queste religioni perché in esse, e attraverso di esse, tante persone cercano risposte ai misteri, problemi, desideri più profondi, al senso della vita e del destino di ciascuno, ecc. In esse – aggiungo – alcuni vivono una santità (come Mario segnala) che ritengo frutto dello Spirito, il quale opera liberamente, oltre e spesso nonostante le strutture, le ideologie, le gabbie dogmatiche in cui un molti ci troviamo. L’islam, pensa qualcuno, è anche una sollecitazione, uno stimolo a noi cristiani a non banalizzare il rapporto con Dio, mantenendo forte il senso del mistero, dell’adorazione e dell’obbedienza, ricordando che l’incarnazione di Cristo ci permette una familiarità (Cristo nostro fratello, Dio nostro Padre) che è puro dono, stupefacente, da contemplare con adorante meraviglia, accompagnata dalla riconoscenza perché ci è dato di crederlo e viverlo; a differenza di altri, che pure sono a volte più rispettosi, e devoti di noi.


Zanzare
Una vignetta mostra una grossa zanzara sollevata sulle zampe posteriori, che ascolta con aria compunta e contrita le parole di un severo “maestro” che – guarda caso – ha le fattezze di un ministro del governo. Il quale, impensierito dal diffondersi delle critiche, ha organizzato un programma di sensibilizzazione e coscientizzazione nelle scuole, e con i mezzi di comunicazione, per risolvere il problema.
Quale? Questa zanzara dall’aria ipocritamente pentita, si chiama Aedes Aegiptia (o Aetiopica?) ed è portatrice della temuta febbre “dengue”, in circolazione per Dhaka e per tutto il Bangladesh da vari anni. Ma quest’anno la signora s’è sbizzarrita, organizzandosi per un menu a scelta: quando punge può lasciare come ricordo la dengue, o la finora sconosciuta “cikungunia”. La quale non è mortale, e questo è consolante, ma provoca febbre altissima per alcuni giorni, seguita da spossatezza e da forti dolori articolari che spesso durano mesi, e sono ricorrenti. Poiché da tre mesi si diffonde ovunque in Dhaka, e non ci sono sono rimedi specifici (paracetamolo in quantità!), ad un certo punto ha preso il via la protesta contro i due municipi in cui è divisa la città e, per buona misura, anche contro il governo. Il ministro di cui sopra ha sguinzagliato ovunque esperti, a spiegare che non bisogna farsi mordere dalla zanzara: nulla da dire contro le altre, ma dalle Aedes Aegiptia (o Aetiopica?) assolutamente no. Dunque, evitare luoghi infestati, specialmente dalle 7 alle 8 del mattino e dalle 6 alle 7 di sera –orario dei pasti per la bestiola in questione. Poi pulire i posti dove essa depone uova, come il secchio della spazzatura di famiglia o i vasi da fiori...
Non diminuendo però il diffondersi del malanno, le autorità hanno dichiarato che sì, provvederanno a disinfestare strade e giardini, ma bisogna sapere che a mordere i cittadini non sono le zanzare di strada, ma quelle casalinghe – e che nemmeno un ministro può verificare che tutti, in casa loro, stiano sotto una zanzariera. Persuasi da questa ragionevole spiegazione, i cittadini continuano a prendere la cikungunia e a scambiarsi consigli: mangiare limoni e cibi amari, non bere latte, spalmarsi con oli puzzolenti, non avvicinarsi ad ammalati... Ogni tanto un individuo mascherato appare nel quartiere con un enorme e rumorosissimo nebulizzatore. Seguito da un codazzo di bambini urlanti, entra ed esce da vicoli e giardini chiedendo mance e generando nuvole di qualcosa che dice essere insetticida. Intanto, gli esperti discutono anche se la cikungunia sia da considerarsi endemica, pandemica o epidemica. E io purtroppo devo lasciarvi con questo interrogativo senza risposta certa.... Come? No, finora io l’ho scampata.

p. Franco Cagnasso

147

Dhaka, 2 luglio 2017

 

Picnic?

Tutti gli anni si ridiscute: “Dove fare il picnic che fa parte del programma Samuel?” Il programma ha a disposizione 9 giornate, distribuite su un anno intero, per aiutare una settantina di giovani a riflettere sulla loro vita, sul loro futuro, sulla vocazione. Fra le 9 giornate, una ingolosisce, perché ha la faccia di un picnic – anche se nasconde una motivazione segreta: far incontrare i giovani con qualche esempio di impegno un po’ differente da quelli che già conoscono. Quattro suore di quattro congregazioni diverse, due pimini, un prete diocesano e qualche “osservatore” di provenienza variabile, riconsideriamo i pro e i contro delle varie possibilità: destinazioni, distanze, condizioni delle strade, costi, emergenze in caso di pioggia, e compagnia. E poi si decide: andiamo  a Mymensingh: come l’anno scorso, come due anni fa, come tre anni fa... Tanto tutti i giovani ogni anno cambiano, e d’altra parte solo Mymensingh – una cittadina a 150 chilometri a nord di Dhaka - ha un menu così vario e insolito per la Chiesa del Bangladesh, piuttosto monotona in fatto di iniziative: parrocchie, scuole, dispensari medici, cooperative di risparmio – punto. 

Che cosa c’è di diverso a Mymensingh? C’è la Comunità di Taizé, con Fratelli di appartenenze ecclesiali e nazionali diverse che vivono e lavorano insieme, specialmente fra i poveri e i giovani: una vocazione ecumenica che è ancora una perla rarissima. Si ascolta la loro esperienza, presentata con grande semplicità e convinzione, si prega con uno stile un po’ insolito e gradevole, si passa un po’ di tempo lungo un fiume con una brezza deliziosa. 

E poi varie “gemmazioni” delle attività dei Fratelli. A poca distanza, la Comunità dell’Arche, che raccoglie  persone con disabilità mentale, organizzate in tre gruppetti tipo famiglia, con l’aiuto di volontari. Qui le religioni si incontrano e convivono, rispettate e incoraggiate, senza miscugli e senza barriere. Basta poco per intuire che i disabili mentali non sono “oggetto di assistenza”, ma persone a cui si chiede di esprimere tutto ciò che possono, che ricevono e danno affetto. Ci si può incontrare anche con “Amici della Pace”, un’associazione nata fra gli studenti di varie religioni, che hanno un programma di sensibilizzazione e formazione alla pace anche in condizioni di tensioni nei villaggi, nelle scuole, ovunque si può. Seguono 10 “decisioni” fra le quali – mi dice una ragazza musulmana – quella che preferisce è la volontà di vivere una vita sobria, perché è profondamente liberante. E c’è pure un’associazione insolita, chiamata “Svegliamoci!”, che raccoglie solo persone del gruppo etnico Mandi, e solo cristiani (lo sono quasi tutti i Mandi...). Lo scopo? Intercettare Mandi che vivono isolati, bevono o si drogano, sono trascurati in ospedale, non possono studiare... e dire loro: “Non sai che noi siamo i migliori? Dai che ci tiriamo su!” Un messaggio sorprendente per popoli di minoranza spesso angustiati dal complesso di inferiorità, o da una rabbia troppo a lungo inghiottita.

E poi, prima di ripartire, una visita e una chiacchierata con le Suore del Monastero di Clausura, le “Clarisse adoratrici”, che suscitano un’infinita curiosità e non poche domande, a cui arrivano risposte di semplicità sconcertante. “Suora, perché ha deciso di chiudersi qui dentro?” chiede una ragazza. “Perché é bello stare con Gesù”. “Non so se posso chiederlo – balbetta un ragazzo – ma vorrei sapere... quali programmi potete vedere alla televisione?” “Beh, la televisione qui non c’è”. Il ragazzo quasi sviene e poi balbetta  “Ma come fanno?”

Il tutto in una giornata: partenza alle 5.30, una banana e una specie di pagnottella dolce lungo il viaggio, arrivo alle 10, programma con Taizé, L’Arche, Amici della Pace, Associazione Svegliamoci, preghiera con i Fratelli, un piattone di risotto, una passeggiata al fiume, trasbordo dall’altro capo della città, Messa in cattedrale, colloqui al monastero, partenza, e in viaggio un pacchettino di biscotti. Tutti contenti, e noi gongoliamo perché nessuno dice: ma che razza di picnic è questo? Faremo poi una valutazione, discuteremo i pro e i  contro, e... decideremo che anche il prossimo anno si tornerà a Mymensingh.

 


V.I.P.

La pronuncia italiana è come un soffio: “vip”. In inglese “vi ai pi” va già meglio, ma certo non esprime la solennità del significato del tronfio acronimo V.I.P.: Very Important Person! Espressione che cede il passo soltanto davanti al superlativo del superlativo, che incute sacro timore: V.V.I.P.: Very, Very Important Person. Persona molto, molto importante!

L’autobus di super lusso con aria condizionata, tre soli sedili per ogni fila, WiFi (se si dice così, e chi non sa che cosa sia, peggio per lui/lei), bottiglia di acqua e biscotti omaggio, copertina, sedile pulito... deve partire per Rajshahi alle 14.00. Essendo di lusso, l’autista alle 14.01 è già presente sul posto, e i passeggeri incominciano ad arrivare. Verso le 14.15 sembra che tutto sia pronto, salvo due posti sono ancora vuoti. Con qualche esitazione, sapendo che l’autobus di lusso dev’essere puntuale, alle 14.20 si parte. 

Alle 16.04 l’aiutante che assiste i passeggeri riceve una telefonata imperiosa: “Avete lasciato a terra due V.I.P! Fermatevi immediatamente e aspettateli”. Nessuno fiata, mentre l’autista parcheggia vicino a un negozietto dove ci si può consolare con un tè. Il tempo passa... Qualcuno incomincia a chiedersi come faranno i due V.I.P. a raggiungerli così lontani, le signore sussurrano che è tardi, sta a vedere che arriviamo con il buio. Una di loro prende coraggio, e telefona ad un amico poliziotto informandolo di ciò che accade. Il poliziotto interessa i superiori, e poco dopo l’autista in persona riceve per telefono un ordine perentorio, ripartire subito e arrivare al più presto. Romba il motore, stridono gli pneumatici... Ma i V.I.P., su auto a noleggio, arrivano poco dopo là dove l’autobus avrebbe dovuto aspettarli. Stupore, indignazione, ira, interessamento di massime autorità, che minacciosamente intimano all’autista: “Fermarsi subito e attendere finché non arrivano”. L’aiutante, imbarazzato, informa i passeggeri, che sospirano e tacciono. Di nuovo fermi. La signora di cui sopra, dopo un attimo di riflessione, ha un colpo di genio. Chiama l’aiutante, gli dice di chiamare anche l’autista, sussurra loro qualche cosa, poi si alza e proclama a voce alta, chiara e sicura: “Voi non sapete chi sono io! IO sono una V.I.P., e non vi dico che cosa succederà se mi fate arrivare quand’è già buio”. 

Una V.I.P. contro due V.I.P. – direte voi. Sarà, però l’autista non fiata, si mette al volante e parte, per fermarsi soltanto all’arrivo, anzi – dieci metri oltre. Vale dunque il principio che una V.I.P. presente conta più di due V.I.P. assenti... 

 

Golapi

Di studiare non le va molto, a fatica arriverà alla fine del liceo, e solo perché costretta. Da che cosa? A Golapi (Rosa), una giovane Orao, piccoletta e di poche parole, ma simpatica e arguta, piace girare nei villaggi, mescolarsi con le donne, i bambini, visitare i malati, parlare loro di Gesù. E lo fa. Un bel giorno una suora le dice: puoi farti suora, così ti dedichi completamente a predicare Gesù. L’idea le va, ma è nuova, le Suore del PIME sono arrivate da poco, tutte italiane; inoltre... “Io sono ignorante”. Con il papà d’accordo e la mamma titubante, riprende a studiare stando all’ostello, e a pezzi e bocconi supera l’esame di liceo. Quando due suore da poco arrivate chiedono all’ostello se c’è una ragazza disposta ad accompagnarle, dopo qualche esitazione si fa avanti. Lavorano insieme per un bel po’. Qualcuno le aveva detto: “le suore devono obbedire alle regole, ma tu non hai salute, non ce la faresti”. Ora ci ripensa: ma come, non sono suora, ma vivo con loro e come loro e sto bene!  Anzi: essendo giovane, quando le suore viaggiano sul carro da buoi, lei e il catechista accompagnano a piedi – e di chilometri ne fanno tanti! Poi, finalmente, il salto: la accolgono, e la mandano in India perché in Bangladesh (allora Pakistan) l’Istituto non ha ancora programmi formativi. L’esperienza internazionale la entusiasma e le dà coraggio, aiutandola a superare il disagio di appartenere ad un gruppo aborigeno minoritario. Nel 1964 pronuncia i primi voti, nel ’70, quando ha 39 anni, i voti definitivi: la prima suora del  PIME dal Pakistan, che sta per diventare Bangladesh. 

Da allora, Golapi continua a fare proprio quello che aveva sognato: gira i villaggi parlando di Gesù, e non si stanca. Compila diligentemente vari quadernetti, dove annota con precisione luoghi e persone visitati, argomenti trattati, confessioni, lezioni, compagni di visita. Dice: “Quando morirò, come farà s. Pietro a riconoscermi in mezzo a tanta gente sulla porta del paradiso? Gli mostrerò i quadernetti, e saranno la mia carta di identità” Prega molto, senza ostentazione, rimane normalmente piuttosto silenziosa, ma spiega che le hanno detto che nel silenzio si ascolta Dio, e quindi tace – però “dentro sono contentissima.” 

Dopo tanti anni nei villaggi, formando una coppia “famosa” con l’italiana suor Maria Assunta, tutte e due vengono trasferite a Dhaka, in un’area che si sta rapidamente popolando. L’ambiente cambia, ma lo stile rimane: girare di casa in casa, scovare i più lontani, i più poveri, i malati, e parlare di Gesù, fare catechesi, preparare a battesimo, cresima, matrimonio... Finchè le gambe smettono di obbedirle e deve rimanere in casa, a pregare e fare quello che può. La sera del 29 giugno, festa di s. Pietro e Paolo, partecipa, in carrozzella, all’adorazione eucaristica. Alla fine le dicono: “Saluta Gesù, è ora di andare.” Congiunge le mani nel saluto bengalese e improvvisamente il respiro diventa affannoso. La portano subito in stanza, la sdraiano – e spira in silenzio. Aveva 85 anni. Credo che ora s. Pietro stia sfogliando il diario di suor Golapi, e magari lo commentano insieme... 

 

p. Franco Cagnasso 

146

Dhaka, 3 giugno 2017

  

Solidarietà
Una donna poveramente vestita, silenziosamente li precede. Seguono cinque anziani, con barba bianca e zucchetto per la preghiera. Sono ciechi. Il primo appoggia la mano su una spalla della donna, e gli altri a seguire, ciascuno appoggiato alla spalla di chi lo precede, formando una piccola catena di solidarietà. La donna si ferma di negozio in negozio lungo la stradetta affollata. Ad ogni tappa i cinque cantano, con energia ma bene intonati, una lunga filastrocca religiosa; poi accolgono l’elemosina e ripartono, in silenzio.
       

 
Effetto Cardinale
Ogni anno, leaders e rappresentanti di tutte le denominazioni cristiane, grandi e piccole, presenti in Bangladesh, si radunano per una mezza giornata di riflessione e preghiera insieme, intesa a esprimere in qualche modo quell’unità di cui si sente il bisogno ma non si sa come e dove cercare. Quest’anno l’incontro è avvenuto nella sede della conferenza episcopale cattolica, il 27 maggio, sul tema “Unità centrata su Cristo”. C’era una grossa novità rispetto alla volta precedente: pochi mesi fa il Papa ha nominato Cardinale l’arcivescovo di Dhaka mons. Patrick D’Rozario – il primo Cardinale in tutta la relativamente breve storia della Chiesa cattolica in Bangladesh. Mons. Patrick è sempre stato attento all’ecumenismo – come pure ai rapporti con membri di altre religioni – e già aveva una certa leadership morale nella piccola e variegata galassia di denominazioni cristiane. Questa nomina ha colto tutti di sorpresa, ed è stata una sorpresa piacevole, che ha dato il via non solo a congratulazioni formali, ma all’affermazione che mons. Patrick è Cardinale non solo dei Cattolici, ma “di e per tutti noi”, ed è quindi un punto di unione da tenere prezioso.


Un mondo a sé
Da tempo ci si preoccupa perché nessuno sa quali siano i programmi e quale tipo di islam sunnita insegnino le 14.000 “Qwami madrasse” (scuole coraniche) spuntate in tutto il Bangladesh in questi ultimi decenni, con finanziamenti esteri. Alcuni tentativi del governo di vederci chiaro sono falliti di fronte alla reazione furiosa e minacciosa dei responsabili, che non accettano controlli di sorta. Ultimamente, la Primo Ministro ha promesso di equiparare i titoli di studio della Qwami madrasse a quelli statali, una concessione data “al buio”, che non si sa quale effetto pratico possa avere, se non quello di compiacere gli elettori religiosi.
Una recente inchiesta giornalistica (The Daily Star, 19 maggio 2017) ha alzato un poco il velo su ciò che accade in queste scuole, che contano un milione e quattrocentomila studenti. Il corso di studi completi, residenziali, dura 20 anni; tutto sembra organizzato “a porte chiuse” per creare un mondo a sé, che preservi e inculchi la santità dell’islam, senza contaminazioni esterne. Nei primi 5 anni, corrispondenti alle elementari, i bambini studiano 4 lingue: bengalese, inglese, arabo e urdu, specialmente queste ultime due. In quinta, iniziano anche con il persiano; si insegnano pure matematica, storia e scienze sociali. Dopo la quinta, il 90% degli studenti non passa alla sesta, ma affronta un corso intensivo, della durata di 4 o 5 anni, per memorizzare il Corano, naturalmente in canto. Un esercizio, dicono, che accrescerebbe molto la capacità intellettuale dei giovani, la loro attenzione, pazienza e perseveranza. Finito questo, quindi dopo 9 anni di studi, si riprende il curriculum dalla sesta, dedicandosi a persiano, arabo e urdu – le principali lingue in cui la cultura islamica si esprime. Si danno pure esami sulla legislazione islamica, logica e filosofia; il bengalese si accontenta di un esame. La storia è “cucinata” in casa, e – ad esempio – si parla molto della scissione dall’India che diede origine al Pakistan (1947), ma si tace completamente sulla guerra che portò alla creazione di un Bangladesh indipendente e secolare, distaccandosi dal Pakistan (1971). Dalla classe nona alla dodicesima (cioè dal tredicesimo al sedicesimo anno di studio) ci si concentra sulla sharia e sulla filosofia islamica, finché, negli ultimi anni, ogni altra materia viene messa da parte.
Durante tutti gli studi, è proibita ogni lettura che non sia dei libri di testo, e colloqui con persone esterne richiedono il permesso. Si crea una “classe” di giovani che fa storia a sé, molto solidale, orgogliosa e unita, da cui è facile trarre elementi per impegni politici in partiti islamici.
Aggiungo che una mia visita – anni fa – ad una scuola coranica del sud, allora abbastanza aperta da permettere a me, uno straniero non musulmano, di entrare, ascoltare e fare domande, mi ha impressionato per la durezza della vita che questi ragazzi affrontavano. Ambiente poverissimo, orari per il sonno assolutamente insoliti, studiati in modo da facilitare la memorizzazione; ricreazione (gioco a calcio) ridottissima, spazi molto ristretti, nessuna “privacy”.
Con questa preparazione, i giovani possono poi dedicarsi a studi islamici, “offrendo soluzioni a problemi religiosi”, insegnare in altre madrasse, guidare comunità nelle moschee – ma non hanno altri sbocchi, nonostante la formale equiparazione concessa dalla Primo Ministro.
“Con questo sistema educativo isolato – commenta un professore universitario – le prospettive per una possibile radicalizzazione sono allarmanti”.

  


Ripartire
La partenza sembrava proprio in salita per il Missionario Laico Fratel Lucio quando, anni fa, tornò in Bangladesh con la precisa intenzione di dedicarsi ai bambini “di strada”. Era già stato nel Paese, poi aveva lavorato in Italia, e poi ancora in Brasile, dove si era bene inserito in una organizzazione che assiste appunto i bambini senza dimora, specie visitandoli di notte lungo le strade. Inserito bene sì, ma lui voleva il Bangladesh, la presenza nel mondo non cristiano, e alla fine, dopo una sosta di alcuni mesi in India dove si coinvolse in un’altra organizzazione per bambini di strada e ne studiò il metodo, ecco il sospirato rientro. Ma da dove cominciare? E con chi? La comunità non mostrava entusiasmo per un progetto che appariva vago, e Lucio sembrava procedere a tentoni, a volte sbagliando la mira. Ma pian piano qualcosa prese forma, e l’impegno per questi ragazzi, che a Dhaka sono tantissimi e che molti disprezzano, divenne concreto. Lucio non ha voluto strutture dove accoglierli, ha preferito incontrarli, conoscerli e aiutarli lungo le strade, con il desiderio di far compiere a ciascuno quel cammino che poteva compiere. Per qualcuno si trattava solo di qualche incontro, di qualche medicina o un momento di gioco; per altri di qualcosa in più fino – in qualche caso - al ritrovare la propria famiglia e la propria casa. Per fare tutto questo, Lucio ha messo insieme una organizzazione di volontari, per lo più studenti ma non soltanto, tenendoli accuratamente lontani dall’idea di servire i ragazzi attraverso l’uso di grosse risorse economiche. Niente aiuti dall’estero; al contrario, la gioia di donare tempo e anche risorse economiche, e di stimolare altri a farlo: medici, avvocati, poliziotti... Un volontariato così autentico era forse un caso unico in Bangladesh, e molti lo ritenevano impossibile. Ma ha funzionato, coinvolgendo decine e decine di giovani e adulti, che a loro volta hanno collaborato nel sensibilizzare la società al problema e al valore dei ragazzi che vivono in strada. I media sono stati spesso coinvolti, e anche le autorità. Un altro aspetto non unico, ma certo raro e interessante, è la collaborazione interreligiosa creata da questa iniziativa. Lucio è noto a tutti come un missionario cattolico, ma ha lavorato circondato da volontari di tutte le religioni presenti in Bangladesh, e non credenti: una esperienza di tutto rispetto.
E poi? E poi un bel giorno Lucio ha pensato che ora i tempi erano maturi: altri potevano prendere la responsabilità di continuare a Dhaka, e lui – con qualche volontario – poteva staccarsi, per tentare di ripartire altrove. Si è congedato dalla sua abitazione nella baraccopoli e ha preso una vacanza, dopo di che ricomincerà daccapo, forse a Chittagong, forse a Sylhet. Auguri!

p. Franco Cagnasso

145

Dhaka, 16 maggio 2017 

 
Indagini

Giugno 2016: nel quartiere di Mirpur – Dhaka – un grosso gruppo di esagitati assalta un’abitazione, sfonda porte, saccheggia, pesta e scappa. Segue denuncia alla polizia con indicazione dei nomi di chi ha, o si pensa abbia partecipato partecipato al misfatto.
27 febbraio 2017: dopo otto mesi di accurate indagini, la polizia riformula la lista e la inoltra alla magistratura, indicando 22 nomi di imputati, fra cui un certo Rubel (saccheggio con furto di 25.000 taka, due catene d’oro, un cellulare), suo padre Abdul Kashem, e tale Arifur Rahman. Per Rubel e Arifur, che risultano latitanti, chiede il mandato di cattura.
La giustizia fa il suo corso, e il 9 marzo Rubel risponde alla convocazione. Si presenta al magistrato, si guarda intorno smarrito, e scoppia in un pianto dirotto con singhiozzi irrefrenabili. Non è il pianto che turba il giudice: sa bene che spesso si tratta di una commedia per impietosire, o di una reazione nervosa, o dell’espressione di un doveroso pentimento per le iniquità compiute. Ciò che lo lascia perplesso è il fatto assolutamente improprio che l’imputato sia entrato in aula in braccio ad una giovane donna la quale, interpellata, dichiara di essere sua madre, la madre di Rubel, il quale Rubel è proprio il marmocchio che – nonostante le sue coccole – continua a strillare disperatamente. Ha 11 mesi e 6 giorni di età, perciò “all’epoca dei fatti” (come si dice in gergo) di cui si sta per discutere, aveva circa tre mesi di età. Il magistrato ritiene il caso insolito, da chiarire, e invita altri accusati a farsi avanti per poi decidere. Vengono, e fra essi un anziano che si dichiara padre di Arifur e afferma di poter chiamare numerosi testimoni per provare che suo figlio è morto tragicamente, per attacco cardiaco, all’età 27 anni, tre anni fa; di conseguenza, “all’epoca dei fatti” era già da tempo defunto e incapace di delinquere.
Il magistrato rinvia l’udienza, e convoca l’ispettore di polizia responsabile dell’indagine, il quale risulta essere gravemente infermo e impossibilitato a presentarsi. Il suo superiore, interpellato dai giornalisti, dichiara senza esitare: “Deve esserci stato un errore”. 

      


Riforma
Mario, fedele visitatore delle “Schegge”, dopo aver letto “Interpretazioni” (ndr: vedi schegge 143 qui sotto) del 22 aprile scorso, mi segnala gentilmente un articolo pubblicato tre giorni dopo da Asianews con il titolo: “Le radici dell’islamismo violento sono nell’islam, parola di un musulmano”, a firma di Kamel Abderrahman. Tratta del rapporto fra islam e islamismo – inteso come la parte fondamentalista, radicale, intollerante e violenta che sta emergendo in tante aree del mondo musulmano e si chiede: è vero, come sostiene la maggioranza dei musulmani, che l’islamismo non è l’islam autentico? Asianews ha toccato l’argomento varie volte, con interventi di studiosi fra i quali mi pare ci sia una certa convergenza. L’A. sostiene con grande passione la tesi, che senza una riforma profonda e radicale, l’islam si stia condannando ad essere ostaggio in balia dell’islamismo radicale violento.

Secondo lui, le radici dell’islamismo si trovano nella tradizione islamica “riscoperta” e rimessa in circolazione in modo acritico. L’islam, nei secoli, ha prodotto una massa enorme di interpretazioni giuridiche del Corano e della Sharia, spesso rigide, legaliste, che danno ampio spazio all’uso della coercizione e della violenza per “difendere”, diffondere, far rispettare l’islam e opporsi agli “infedeli”. Esse vengono tuttora insegnate in migliaia di scuole coraniche, inclusa la prestigiosa università Al Azhar del Cairo. Non è possibile tenere per buoni questi insegnamenti e allo stesso tempo opporsi efficacemente al fondamentalismo violento. L’islamismo non inventa e non vuole inventare nulla di nuovo, vuole soltanto mettere in pratica tutto ciò che è stato insegnato ma non praticato, perché crede che il “ritorno” a quegli insegnamenti sia la via per vivere un islam autentico e risolvere i problemi del mondo. Se l’islam di oggi – sostiene l’Autore - non prende coraggio per analizzare queste radici, sottoporle a verifica critica e razionale, distinguere e tenere ciò che è buono e liberarsi di ciò che non lo è, sarà sempre più chiuso, intollerante, violento.
Caro Mario, tu vuoi sapere che cosa penso di questa valutazione, ma devo deluderti: non sono in grado di vagliarla con competenza. Non ho mai studiato gli autori antichi di cui l’articolo parla, e non so quali sono i riferimenti fondamentali degli insegnamenti di Al Azhar...
Posso solo condividere ciò che percepisco e “fiuto”, vivendo in una metropoli di un Paese a larga maggioranza musulmano, e di tradizione tollerante. Ne ho parlato altre volte nelle “Schegge”: sta crescendo, gradualmente, una mentalità più attenta alle regole e alle espressioni anche esterne, sociali, della religione (ad esempio, abiti delle donne, ma anche degli uomini, desiderio di leggi che indirizzino i fedeli e “proteggano” l’islam...). Si ha la sensazione che l’insegnamento nelle scuole coraniche sia, rispetto al passato, più ripiegato su se stesso, intransigente, e che trovi un’eco sorprendentemente ampia.
Ci sono resistenze e reazioni a questa mentalità? Sì, molte e ben articolate; ma quanto incidono? Tempo fa, mi avvicinò per strada un distinto signore presentandosi come Preside di una università, la cui sede era lì accanto. Mi invitò per un tè e quattro chiacchiere e, quando queste furono interrotte dal lacerante “urlo” di richiamo alla preghiera diffuso dagli altoparlanti della vicina moschea, sorrise sospirando: “Li sente? Tutto il mondo cambia, ma loro no. Com’è possibile che leggi emanate oltre mille anni fa per un popolo tribale che viveva nel deserto, siano da applicare pari pari nel mondo moderno di un popolo completamente diverso? A lei queste cose le posso dire; ma chi le dice a “questi signori” – aggiunse guardando verso la vicina moschea – che non le vogliono sentire?”
E’ di questi giorni l’approvazione di una legge, in Pakistan, che commina carcere e multa a chi viene visto mangiare o bere durante il mese di digiuno del Ramadan. E’ di questi giorni la condanna a due anni di carcere dell’ex governatore di Jakarta per aver offeso l’islam: aveva criticato certe interpretazioni che alcuni ne danno. In Bangladesh il movimento islamista continua ad alzare le sue pretese e il governo (ufficialmente secolare) cerca di accontentarli. La legge che proibiva il matrimonio prima dei 18 anni è stata rivista per ammettere casi in cui, “per il bene dei giovani”, il matrimonio può essere contratto anche a quindici anni. Il bene dei giovani consiste nel fatto che, se hanno avuto rapporti sessuali, si devono assolutamente sposare, anche se in realtà s’è trattato di uno stupro. Così, chi violenta una ragazzina ha diritto di sposarla “per il suo bene”... Questo movimento minaccia gli impresari perché non assumano donne, vuole che si proibisca ogni conversione, che ogni negozio e ufficio gestito da non musulmani, metta a disposizione il Corano e il tempo per la preghiera...
     
Chi dice che l’islamismo “non è il vero islam” è sincero, perché nella sua esperienza queste chiusure e violenze non ci sono; ma – sostiene l’A. – in realtà chiusure e violenze sono fondate su norme ampiamente diffuse, e che portano a queste conclusioni, se non vengono sottoposte a una radicale revisione critica. Revisione temutissima e osteggiata perché, secondo alcuni, sarebbe di per sé offesa alla sacralità del Corano; ma anche perché il fondamentalismo ha il terrore della modernità e della critica, convinto che essi vogliano “svuotare dall’interno” l’islam e la sua cultura, come l’occidente ha fatto – secondo loro – con il cristianesimo..
Anche nella vasta galassia del mondo cristiano ci sono interpretazioni molto diverse, e ci sono state guerre fratricide; ci sono stati movimenti radicalizzatisi attorno a uno o più aspetti della Bibbia, che – interpretati alla lettera, fuori contesto, e senza spirito critico – hanno alimentato fanatismi, eresie, conflitti. Oggi il fenomeno nel mondo islamico ha dimensioni gigantesche, diffuse dalle Filippine alla Nigeria, dal Kossovo alla Somalia. La Primo ministro del Bangladesh, Sheikh Hasina, ha sentito il bisogno, recentemente, di sottolineare che i musulmani devono smettere di massacrarsi fra loro, imparare a rispettarsi e a risolvere le difficoltà attraverso il dialogo. Non sono solo i musulmani ad avere bisogno di questo, ma certo anche loro!
Ho scritto, qualche tempo fa, che è in atto un “braccio di ferro” interno al mondo islamico, fra modernità da una parte, e ritorno al passato dall’altra. L’A. sa bene che molti musulmani vogliono reagire. Il punto debole della reazione è – sostiene - che non si prendono le distanze dalle fonti che sono all’origine di interpretazioni letteraliste. Mi permetto di aggiungere che nel mondo islamico un lavoro del genere è già stato avviato da studiosi che rischiano in proprio, e sono – a dir poco – emarginati; altri senza dubbio si aggiungeranno per un’opera “ciclopica”, certamente molto lunga e dolorosa, che ripercorrerà forse, a grandi linee, i travagli del mondo cristiano a partire dall’epoca così detta “dei lumi”. Cammini come questi non sono mai conclusi: sono i cammini spesso convulsi e confusi della storia.

    

p. Franco Cagnasso

144

Dhaka,  3 maggio 2017

      

Pitor

Nella scheggia “Volti e nomi”, di qualche settimana fa (ndr: vedi Scheggia 143), c’è un’omissione di cui mi rammarico. Ho scritto tenendo sotto gli occhi la fotografia che appare nel “blog”, ma in una sua edizione “tagliata”: mancava la parte destra. Per questo non vi ho detto che l’ultima persona a destra si chiama Pitor, ed è un giovane speciale. Sorride sempre, a denti stretti. Non perché sorrida forzatamente, al contrario, ha un sorriso molto spontaneo, dolce, direi “luminoso”. Ma da anni lo tormenta una malattia che gli contrae i muscoli rendendoli duri come legno, deformandogli le ossa e impedendogli i movimenti. Peggiora giorno dopo giorno. Fino a poco fa riusciva ancora a preparare corone del rosario, ora non più; la bocca si è serrata, per cui mangia solo cibi semiliquidi e – come dicevo – sorride e parla “a denti stretti”. Non riesce a sedersi, la carrozzella con le ruote gli serve per appoggiarsi e per fare qualche passo faticoso con una lenta, strana andatura da burattino. Quando arrivo a Snehanir, è il primo che saluto, perché ha una stanza a fianco del cancello di entrata, il posto del portinaio – suo incarico ufficiale. Con lui c’è sempre qualcuno dei ragazzi della comunità, e anche qualcuno di fuori; non c’è bisogno di fare turni, non lo lasciano solo, e se qualcuno bussa al cancello uno di loro scatta (correndo, o manovrando la carrozzella) e apre – così rimane lui, Pitor, il titolare dell’incarico, e nessuno dice che bisogna incaricare qualcun altro perché lui non ce la fa più. “Pitor ciao, come va?” gli chiedo. “Bene bene, grazie!” Sembra uno scherzo, e invece lui lo dice convinto. “I tuoi dolori?”. “Ci sono” mormora, e aggiunge: “Se oggi celebri la Messa, ricordati di portare la Comunione anche a me”.

 

In cammino

Per ora siamo ancora alle dita di una mano, però siamo arrivati al mignolo, e la prossima volta le dita non basteranno più: sono 5 i bangladeshi che fanno parte del PIME, un missionario laico (Fratello), tre padri, e un diacono che il 4 agosto verrà ordinato prete. C’è speranza che la piccola chiesa del Bangladesh continui sulla strada iniziata, magari con il contagocce, ma senza fermarsi. Partendo dalla fine, oltre al diacono, tre seminaristi stanno studiando nel seminario di Monza, quattro – terminata la filosofia a Dhaka – stanno armeggiando con i documenti per il gran salto verso l’Italia; altri tre li rimpiazzano, passando dalla comunità formativa, dove mi trovo pure io, alla filosofia nel seminario nazionale. Il cammino è lungo... 

C’è chi mi chiede se questi giovani vengono a noi per uscire dalla povertà. Fermo restando che alcuni di loro vengono da famiglie benestanti, mentre altri si sono pagati gli studi lavorando sodo, e che Gesù ha scelto i suoi discepoli in mezzo a tutte le categorie sociali ed economiche, la domanda è legittima. Anche per questo il PIME, a livello pre-filosofico, non ha seminari veri e propri, ma due piccole comunità formative in cui spieghiamo che il nostro obiettivo non è direttamente il formare preti e missionari, ma formare uomini e cristiani capaci di rispondere al Signore – là dove li chiama. La vita e le attività che svolgono con noi in parrocchia li aiutano a responsabilizzarsi, capire senza bisogno di tante lezioni, misurarsi con la realtà e confrontarsi non solo con noi “formatori”, ma con i fedeli della parrocchia, che li vedono, li stimano, li rimproverano quando occorre. Poi fanno la loro scelta. Per qualcuno, il motivo che li spinge ad unirsi al PIME è la gratitudine: abbiamo ricevuto tanto, voglio “ricambiare” impegnandomi come missionario. Uno di loro, già con il “Master” (laurea) in economia, non ci conosceva, ma quando ha saputo che la sua parrocchia è stata la prima fondata dai nostri missionari, nella seconda metà del 1800, e che fra i primi battezzati c’erano i suoi tris-nonni, ha scelto il PIME. E chissà che non tocchi proprio a lui di fondare una comunità cristiana in qualche altra parte del mondo, mettendo il seme per un suo “successore” come missionario, nel 2150 – o giù di lì?

 

p. Franco Cagnasso

143


Volti e nomi

Dhaka, 12 aprile 2017

Da qualche tempo, chi apre il mio blog si trova davanti agli occhi una foto di gruppo. Mi sembra giusto non lasciare nell’anonimato i giovani che vedete, e che mi sono cari. Di chi si tratta? 

Fanno parte della comunità Snehanir - Casa della Tenerezza - che 25 anni fa muoveva i primi passi grazie a un marmocchietto minuto, minuto che, in un villaggio della missione di Rohanpur,  nessuno sapeva dove mettere: la mamma era morta e il papà non poteva tenerlo. Lo prese suor Gertrude, delle Suore locali “Regina della Pace”, appoggiata da p. Mariano Ponzinibbi del PIME, che aveva un cuore speciale per ammalati e handicappati. Poi il marmocchietto, battezzato Roby, venne colpito da poliomielite;  sopravvisse, con le gambe irrimediabilmente compromesse, e ora lo vedete nella foto, il primo in basso a destra, sulla carrozzella, ormai alla vigilia della laurea e alla ricerca di un impiego. In maggio andrà a Singapore, convocato dalla squadra nazionale del Bangladesh per un torneo internazionale di cricket. Vi dirò chi vincerà.

Pian piano, al piccolo Roby si  aggiunsero altri, la superiora delle suore chiuse un occhio, poi li aprì bene tutti e due e l’iniziativa divenne ufficiale, in collaborazione fra il suo Istituto e il PIME. Fra trasferimenti vari per trovare posti adatti e non troppo costosi, il numero cresceva, e alla fine la Provvidenza si fece onore, procurando benefattori che fecero costruire una bella casa per loro a Rajshahi. La comunità si delineò gradualnente come “mista” in vari sensi: piccoli e grandi (che aiutano i piccoli), maschi e femmine, con e senza handicap. Denominatore comune: tutti poveri in canna. Obiettivo, aiutarli a esprimere il meglio di sé e rendersi autosufficienti, o per lo meno capaci di gestire se stessi. Con una eccezione: Lilima (seconda da destra, in prima fila), che si esprime solo con improvvise grida di gioia e, per fortuna raramente, con il pianto; ha bisogno di essere assistita in tutto, e lo fa meravigliosamente Merina (alle sue spalle), che ha seri problemi di apprendimento, ma un affetto grande per Lilima, alla quale rende con gioia tutti i servizi necessari.

Al momento in comunità ci sono 42 bambini e giovani. In alto e in piedi, a sinistra, la curiosissima e originalissima Susmita, con la sindrome di Down. Subito sotto di lei, suor Dipika, che 12 anni fa ha rimpiazzato suor Gertrude, ha la responsabilità di tutto, e tira le fila con grande pazienza e passione. Al suo fianco Pauline, che nel gennaio scorso s’è sposata e ci ha lasciato; poi il sottoscritto, davanti a lui Merina e Lilima: di loro ho già detto. Davanti a me, e a fianco di Merina, c’è la mamma di Anup – 10 anni, che non può fare a meno di lei a causa di una grave distrofia muscolare; poi, ancora a sinistra ecco suor Shewly (Sciuli, il nome di un profumatissimo, piccolo fiore bianco), che aiuta suor Dipika e si diverte un mondo con i più piccoli – che nella foto non ci sono perché stavano giocando. Ne rimangono due: la prima a sinistra è Camilla, che dopo aver arrancato fino alla classe ottava, ha deciso che gli studi non sono il suo forte, e sta seguendo il secondo corso di sartoria e cucito, dove riesce bene. Ultima (nella foto), Niva, che ha quasi finito il College, ha imparato il linguaggio dei segni e ora insegna ai piccoli che hanno problemi di udito. Niva canta e suona molto bene, e sa pure organizzare danze cui partecipano anche ragazze in carrozzella.

A nome di tutti loro, e anche di chi non è rimasto inquadrato, auguro a chi ci legge una buona Pasqua e un cuore grande.

 
Stagioni
Ho 73 anni. Non me ne faccio un vanto, ma non posso nemmeno far finta di essere più giovane, solo per non umiliare quelli che sono nati dopo di me. Se, poveretti, sono arrivati tardi, non do loro alcuna colpa, anzi, li invito ad accettare serenamente gli inconvenienti della giovane età, consolandosi con il pensiero che la giovinezza è un problema che ho avuto anch’io, ma passa con il tempo, e tutto sommato passa abbastanza in fretta. Con questa convinzione in testa, ho deciso di partecipare ad un corso di “Formazione permanente” organizzato dal mio istituto a Hong Kong, dal 20 al 24 marzo, per tutti i missionari del PIME che operano in Asia. Il tema era: “Il cammino verso la stagione adulta della vita”. Un cammino che a buon diritto posso dire di aver compiuto già da un po’, ma poiché in tutti questi anni mi sono convinto di avere non un’ignoranza qualunque, ma un’ignoranza che si può (modestamente) qualificare come “enciclopedica” (cioè che si estende praticamente a tutti i settori dello scibile umano), ho pensato che posso ancora fare un passo avanti nella interessante scoperta di quante cose non conosco.
Queste ragioni sono vere; per onestà devo aggiungere che ce n’era anche un’altra, che mi ha spinto a prendere parte al corso: una gran voglia di vedere un po’ di amici missionari, vecchi e nuovi, che da anni non incontro, e di tirarmi fuori, per qualche giorno, dal caos frenetico di quell’inquinatissimo agglomerato di cemento, fracasso, immondizia, corvi ed esseri umani (e io fra loro), che prende il nome di “città di Dhaka”.
L’arrivo a Hong Kong, che pure conoscevo, è stato sconvolgente: una città dove si seguono le regole del traffico, non si suona il clacson a ritmo continuo, le strade sono pulite, e si trovano tante altre stranezze e assurdità, come fermarsi davanti a un semaforo se diventa rosso, non andare contro mano, preoccuparsi di precedenze...troppo lungo elencarle tutte. E’ pure una città che “toglie il fiato” con i suoi grattacieli vertiginosi, splendidi, ma anche con qualche parco tenuto come un gioiello, primo fra tutti il giardino del monastero femminile buddista, e con magnifici panorami sul mare. D’altra parte, non posso nascondere che è una città senza riscaldamento: nonostante la stagione, ho trovato un freddo inatteso, e ho preso il raffreddore – subito curato con un’orrenda ma efficace tisana. Cinese, com’era giusto.
L’obiettivo fondamentale che avevo è stato raggiunto: eravamo 55 (compreso il prof., un simpatico religioso Marista, arrivato dalla Nuova Zelanda per offrirci le lezioni fondamentali). Cinque venivamo dal Bangladesh, gli altri da India, Thailandia, Cambogia, Hong Kong, Cina, Filippine, Giappone, Papua Nuova Guinea. Rivedersi è stata una festa, ricca di emozioni, e di condivisioni interessanti che hanno fatto bene alla testa e al cuore. I luoghi d’origine? Stati Uniti, Brasile, Colombia, Guinea Bissau, Italia, India, Filippine... Una bella insalata intercontinentale!
Ma insomma, che cosa ho imparato? Ho ricevuto una conferma: ci sono tante cose che non so eppure sono interessanti, anzi molto interessanti, come quelle che ho sentito (psicologia con condimento di Vangelo e teologia) – e che ho prontamente dimenticato per non compromettere l’integrità della mia ignoranza. Ma è rimasto un pensiero, o forse più che un pensiero, un sentimento: invecchiando (dicono gli esperti), si può prendere la strada della di-sperazione: non c’è più gran che da sperare; o della gratitudine. Ed è proprio su questa che, con mia stessa sorpresa, mi ritrovo. Una gratitudine diffusa, per cui posso riandare a tantissime persone e storie della mia vita, oppure posso semplicemente soffermarmi a “sentire” una vita profonda e misteriosa che pulsa silenziosamente nel grande mistero dell’amore, che in mille modi riemerge dalle nostre follie ed è più tenace di loro.
BUONA PASQUA A TUTTI !
   


Interpretazioni
Mi chiedono spesso: che cosa pensare? Mentre i terroristi si rifanno al Corano e agli Hadith per giustificare la violenza, molti musulmani credenti e praticanti dicono che in realtà il Corano non incita alla violenza ma alla pace e ai buoni rapporti con tutti. Come stanno le cose? Persuaso che per controllare il terrorismo non bastino azioni repressive e servizi segreti, il RAB (Rapid Action Battalion) del Bangladesh, un corpo speciale impegnato su questo fronte, dopo aver trovato molto materiale ideologico nei “covi” dei militanti, ha chiesto aiuto ad un gruppo di esperti, e ha lanciato un libro dal titolo: “Interpretazioni sbagliate di versetti del Corano e degli Hadith, e loro spiegazione corretta”. Il libro – in bengalese – esamina 60 versetti. Un esempio. Nella quinta “Sura” (capitolo) del Corano si legge: “Uccidi gli atei dovunque li trovi, dopo che i mesi proibiti sono terminati”. Il versetto – dicono gli esperti – si riferisce ad un preciso evento nella storia delle origini dell’islam: violando un accordo di pace con il Profeta, alcuni “infedeli” attaccarono la comunità di Banu Khuza che gli era alleata, e che chiese il suo aiuto. Maometto diede quattro mesi di tempo per ristabilire la pace: “i mesi proibiti” (di tregua) citati sopra. Dopo di che, guerra aperta contro chi non avrebbe accettato la pace.- Estrapolato dal contesto, che lo riferisce ad un momento, un evento preciso, e a un gruppo di persone specifico, questo ordine di “uccidere gli infedeli dovunque si trovino” diviene un ordine applicabile ovunque e in ogni momento; così fanno i terroristi dell’ISIS e altri.
 

p. Franco Cagnasso

142

Dhaka - 5 marzo 2017

 
Un cammino insolito
A Mirpur, il quartiere di Dhaka in cui vivo, oltre alla parrocchia cattolica ci sono almeno 10 comunità cristiane di diverse denominazioni, alcune relativamente numerose, altre molto ridotte di numero, tanto da non riempire una piccola stanza. Quasi tutte hanno un’opera educativo-sociale, alcune sono molto attive nell’annuncio. Le differenze teologiche sono poco chiare e approssimativamente conosciute dagli appartenenti a queste comunità, e i passaggi dall’una all’altra avvengono spesso senza traumi.
Si trovano per lo più attitudini amichevoli, anche molto aperte e cordiali; ma non manca qualche “scivolata” critica del tipo “i cattolici adorano la Madonna”, oppure “i protestanti convertono con i regali”. La Chiesa cattolica, come mi disse una volta con un sorriso un simpatico vescovo anglicano, è considerata da molti come la vecchia mamma, purtroppo un po’ matrigna, che guarda dall’alto in basso. Tutte, a quanto ne so, provengono da forme di “gemmazione” o di frattura di precedenti comunità; tipica la galassia delle chiese battiste, o le più recenti pentecostali di origine americana, o coreana, o autoctone. Un conflitto fra leaders, o una disputa sulla gestione dei soldi è a volte la causa per cui nasce una nuova denominazione.
Ma ho conosciuto un’eccezione. Trentasei anni fa un giovane non cristiano (lo chiamerò Ypsilon) fa uno strano sogno: il Bangladesh diventerà cristiano. S’incuriosisce, legge la Bibbia, ne rimane affascinato, si convince che Gesù lo chiama a seguirlo, e si fa battezzare. Con non pochi rischi e disavventure, inizia a testimoniare il suo percorso di fede, e trova altri che lo seguono. Decide di non uscire dall’ambito culturale della propria religione di origine, conservando nome, linguaggio, costumi, ma vivendo e testimoniando la propria fede in Cristo. Aderisce al Movimento della Riforma, e così, in pratica, nasce una nuova “chiesa riformata” tutta di convertiti. Anche quando il numero degli aderenti cresce, e così suoi impegni, segue l’esempio di s. Paolo continuando il suo lavoro di commerciante, per non essere di peso a nessuno. Sono circa 8mila i membri di questa comunità, sparsi sul territorio e suddivisi in comunità di numero molto ridotto, che di solito pregano nelle case, ma hanno anche una ventina di luoghi di culto. Ypsilon, un uomo simpatico e socievole, non dà l’impressione di un fanatico, né si atteggia a profeta o santone ispirato; non assume atteggiamenti polemici o critici verso altre denominazioni o verso i cattolici; si chiede perché non basti la fede in Cristo per sentirci uniti, nonostante le molte differenze storiche. Fra le varie riflessioni che ho sentito durante la settimana per l’unità dei cristiani, la sua mi è parsa la migliore.


Autobus
In Bangladesh circolano 2.900.000 autobus registrati, e più di 800.000 autobus illegali. Ci sono 1.900.000 autisti con patente di guida, di cui 1.000.000 con patente professionistica per autobus. Ovviamente, per utilizzare un autobus in modo economicamente conveniente, non basta un solo autista per ogni autobus. Provate a fare i conti...


Dopo la strage
Dopo la terribile strage del primo luglio scorso nel ristorante Holey Artisan a Dhaka, in cui un assalto di giovani terroristi provocò la morte di 27 persone, fra cui 10 italiani, si sono moltiplicate notizie “rassicuranti” di terroristi catturati o uccisi, altre azioni sventate, covi scoperti, armi sequestrate. Recentemente sono stati condannati a morte tre uomini che pochi mesi prima avevano partecipato all’assassinio di un cooperante giapponese. Ma ai margini del vortice di informazioni che ogni giorno si fanno circolare, si trova anche altro. Il diciottenne Faraaz Ayaaz Hossein, musulmano, cui i terroristi avevano detto di andarsene prima della strage, ma scelse di restare accanto alle sue amiche “condannate” e fu ucciso, è ricordato in molte circostanze. Qualcuno, a mezza bocca, dice che è stato un citrullo e che avrebbe fatto meglio a salvar la pelle, ma per molti è diventato un motivo di fierezza, di ispirazione, e di coraggio. Il fratello di uno degli italiani massacrati verrà presto in Bangladesh per lavorare come volontario in una organizzazione non governativa che opera fra i poveri; la famiglia di un’altra vittima italiana, uccisa insieme al bimbo di cui era incinta, ha costruito in sua memoria una cappella in un villaggio a sud di Khulna; la mamma di Aminta, giovane amica di Faraaz, ha aperto una fondazione per aiutare bambini poveri, e così realizzare il sogno della figlia, che studiava in America con l’intenzione di dedicarsi al bene del suo Paese. Mi scuso di non ricordare i nomi di tutti, e sono sicuro che quel gesto atroce è stato seguito non solo da queste, ma da altre cose buone, che mettono in pratica – anche da parte di chi non lo conosce – l’insegnamento di Paolo, che ci invita a vincere il male con il bene.


Polli
Facevano parte del panorama e della tradizione, e non c’era neppur bisogno di nutrirli, s’arrangiavano razzolando energicamente nei dintorni della casa, facile preda di sciacalli e ladruncoli, speranza delle massaie che nelle grandi occasioni servivano la loro carne, magra magra e dura come il ferro, ma saporitissima. Erano pure il piatto fisso per ospitare i missionari, in occasione delle rare visite ai villaggi più lontani. Pure oggi le galline rallegrano l’atmosfera dei villaggi, ma per le città sono diventate un gigantesco giro di lavoro, soldi e trasporti: 150.000 fattorie di produzione, innumerevoli camion che ogni notte viaggiano verso Dhaka con gli animali “stivati come polli” (appunto!) per rifornire e “profumare” i mercati. La carne dell’umile pollo oggi è molto tenera, ma quasi insapore, e tuttavia batte le altre carni, impigliate in regole religiose e credenze popolari più o meno verosimili. Guai a offrire carne di mucca a un indù, e d’altra parte, anche musulmani, buddisti e cristiani pensano che sia una carne che “fa male”: alla gola (quindi chi canta non la tocca), alla pressione, agli occhi e via via quasi a tutto, secondo le tradizionali convinzioni di ogni regione. Per il maiale manco parlarne con i musulmani; è il preferito degli aborigeni, e i cristiani lo mangiano con gusto – ma sono pochi. La capra – con il pesce - è considerata la più prelibata, ma costa tanto. Così, se c’è un banchetto cui partecipano diverse categorie di persone, e si tratta di ricchi, sono le capre a farne le spese, ma quasi sempre a farne le spese è l’umile pollo d’allevamento, spennacchiato e traballante, che neppure sa che cosa voglia dire razzolare e scegliersi un insetto o un semino in mezzo all’erba di un prato, o un verme che striscia fuori dalla terra appena arata.
E le uova? Dicono che, con la crescita economica, i bengalesi siano arrivati mangiarsene in media 51 all’anno, e gli addetti al settore puntano a farne mangiare 85 all’anno entro il 2021. In barba agli occidentali terrorizzati dal colesterolo.

p.  Franco Cagnasso

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Dhaka - 21 febbraio 2017    

              

Libri di Testo

3.600.000 libri non sono pochi. Dovevano arrivare entro gennaio in tutte le scuole  elementari del Bangladesh, per la distribuzione gratuita. Tutti s’aspettavano che – come negli anni scorsi - sarebbero arrivati in ritardo, a singhiozzo, a destinazioni sbagliate; e che i distributori avrebbero imposto di dar loro una bella somma; altrimenti, che andassero a comprarsi altrove i libri gratuiti... Invece, sorpresa! I libri partono per tempo, e arrivano entro il mese di gennaio, anche nelle destinazioni più remote. Lasciamo perdere la faccenda di pagare per avere “gratuitamente”; per il resto c’era da rallegrarsi – e i giornali lo fecero, per una volta elogiando l’efficienza di un organismo statale. Purtroppo però, bastò sfogliare i volumi freschi di stampa, per scoprire che erano zeppi di errori: di stampa, d’impaginazione, di grammatica, sintassi, didascalie... “Spiacevole sorpresa, forse il prezzo da pagare per arrivare puntuali” – disse benevolmente qualcuno. Ma poi, guardando meglio, si scoprì che c’era altro: erano scomparsi tutti i testi, citazioni, brani di autori non musulmani, o musulmani ma non abbastanza “ortodossi”, o ambientati in paesi e storie di altre religioni. Scomparso anche Robindronath Tagore, l’amatissimo poeta, premio Nobel per la letteratura, cesellatore di poesie e canti in uno splendido bengalese: aveva il peccato originale di essere indù. Una silenziosa “purga” – di cui nessuno riconosceva la responsabilità – per proteggere gli scolari da idee strane, per esempio che qualche cosa di bello e di buono può venire anche da “altri”, e che il Bangladesh ha anche minoranze che hanno i loro diritti. Proteste, commenti preoccupati, richieste di ritirare i libri e ripristinare la presenza degli autori censurati hanno dato come frutto una commissione di inchiesta, e qualche funzionario “sospeso”. Nel frattempo, alcuni movimenti fondamentalisti si sono congratulati con il governo, perché i cambiamenti corrispondono esattamente alle richieste che da tempo loro facevano.- In una scheggia precedente, mi chiedevo: quale detersivo si usa per il “lavaggio del cervello” che prepara i terroristi? Forse il processo può iniziare così, gradualmente, facendo intendere ai bambini che gli altri non esistono o, se esistono, non sono degni di attenzione...

          

Sant’Antonio

Laringe? Lingua? Braccio? Cuore? Qualcuno domandava quali fossero in realtà le reliquie di S. Antonio da Lisbona che, all’inizio di febbraio, due frati francescani hanno portato da Padova per qualche giorno in Bangladesh, facendo loro compiere un giro di varie località in varie diocesi. Le risposte variavano, ma in fondo era senza importanza per l’entusiasmo di migliaia e migliaia di devoti – non soltanto cristiani – e la gioia di chi riusciva a baciare una reliquia o a sostenere una delle portantine con cui i due reliquiari venivano trasportati. Qualcuno, venendolo a sapere che io non sono andato, non ha nascosto la sua sorpresa: possibile? Davvero Antonio è primo, anzi primissimo nella classifica dei santi amati dai bengalesi, e non andare ad onorare le sue reliquie è quasi uno scandalo.  

            

p. Franco Cagnasso 

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Dhaka, 6 gennaio 2017  

  

Caro P. Franco
Abbiamo ricevuto la sua mail di informazione su come stanno Anita e Amily, sull’andamento della sua attività, sulla situazione in Bangladesh.
Abbiamo ricevuto dal PIME di Milano i biglietti di auguri da parte di Anita e Amily così come le notizie su Snehanir. La ringraziamo per quello che fa e a tutti voi vogliamo comunicare il nostro affetto.
Per quanto riguarda la situazione ora in Bangladesh seguiamo su schegge ciò che sta avvenendo e ne rimaniamo un po’ sgomenti.
Volendo capire qualcosa di questa situazione difficile a livello mondiale e conoscendo solo superficialmente il passato di luoghi e persone di comunità ora così turbolente, rabbiose e distruttive ci siamo andati a leggere “Schegge”dal 2008, quando lei ha iniziato a scrivere.
Ho stampato gli articoli più toccanti e al mattino durante la colazione ho letto ad alta voce i tanti articoli, stimolo per una condivisione e riflessione sui contenuti.
Ci è servito molto per capire; il Bangladesh era un esempio di come possano in pace convivere cristiani, musulmani e indù nel rispetto di ognuno. Non è più così e questo cambiamento è da tempo che sta presentandosi?
Dall’articolo Il vaso di Pandora e poi altri abbiamo un po’ intuito la situazione che ci sembra peggiorare.
Forse è anche un po legato alla trasformazione della vita in Bangladesh, come l’arrivo nel Paese di industrie che però tendono a sfruttare i lavoratori, conseguenze che ne derivano…ecc.
Ci chiediamo cosa possiamo fare e ci sentiamo impotenti. Siete nelle nostre preghiere, preghiamo tanto affinchè Gesù vi sostenga nella salute, nel vostro grande coraggio e fiducia. Siamo speranzosi in momenti più distesi.
Con tanto affetto un Buon S. Natale
*** e ***
PS. Che bei bambini, loro sprizzano di gioia
     
Non rivelo i nomi di chi mi ha scritto, perché non so se lo gradirebbero. Ma so che in calce a questa lettera ci potrebbe stare il nome di molti amici, a cui va il mio GRAZIE cordialissimo. Grazie a tutti quelli che ci sentono vicini, si sentono coinvolti, guardano al mondo con preoccupazione, ma con amore e desiderio di bene per tutti. Buon anno!
     
Detersivo
Una giovane donna, vedova di un terrorista ucciso dalla polizia pochi mesi fa, viveva con altre “militanti”, i loro figli piccoli, un ragazzo di 14 anni al pian terreno di un palazzo nella periferia di Dhaka. Proprio la vigilia di Natale, la polizia ha circondato la casa, intimando la resa. Dopo varie ore, la donna è uscita lentamente, tenendo accanto la bimba di 4 anni; le ordinano di alzare le mani, ma non esegue, accelera il passo verso i poliziotti e fa detonare la bomba che porta legata alla vita. Muore all’istante, la bambina sopravvive, in gravi condizioni. Il ragazzo, dall’interno, incomincia a sparare, e viene ucciso. Altre due donne si arrendono. Se ne parla con sgomento, e tutti si chiedono: com’è possibile? Non manca chi pensa di chiudere il discorso commentando: fanno loro il lavaggio del cervello... Non ne dubito, ma vorrei sapere quale detersivo usano per lavare così in fretta e così efficacemente il cervello di esseri umani.
     
Sorprendente
“Ma che succede?” chiacchiera un italiano che lavora a Dhaka. “Io non vado in chiesa da molti anni, ma mi dicono che le chiese in Italia si stanno svuotando del tutto. Qui invece la religione prende forza. Fra i miei dipendenti ci saranno pure alcuni fanatici, ma molti che prima bevevano birra e non pregavano, ora si sono messi a pregare e non bevono più, eppure sono persone normali, non fanatici. Credevo che quello della religione fosse un discorso chiuso, ma pare di no... Come spiega lei la faccenda?”. “Forse potrebbe chiedere a se stesso come si spiega; se la scelta di piantar lì tutto era motivata e fondata, o se è il caso di ripensarci”. “Chi, io?”. “Certo, proprio lei che si fa queste domande”. “Beh, senta, questo proprio no: è troppo impegnativo, ho altro da fare...”.
     
Ringui
Le “Missionarie dell’Immacolata”, meglio note come “PIME Sisters” (Suore del PIME) hanno celebrato gli 80 anni di fondazione l’8 dicembre scorso. Si trovano in Bangladesh dal 1953, sono una settantina, in maggioranza locali (ormai le “espatriate” sono poche: indiane, italiane, brasiliane, una cinese), alcune di loro sono in missione in altri paesi: Papua N.Guinea, Cameroun, Guinea Bissau, Italia. Operano attualmente in 4 diocesi; ma il luogo storico della loro presenza è Bonpara (diocesi di Rajshahi), un insediamento cristiano che risale a prima degli anni cinquanta, ora diventato una cittadina. Si tratta di una missione ricca di opere, dove le Suore sono coinvolte “da sempre”: dispensario medico con ottima fama in tutta la zona, scuole fino al College compreso, ostelli, attività pastorali al centro e nei villaggi, un rinomato centro di cucito con prodotti di ottima qualità. La loro casa è un poco malandata, ma può ospitare incontri, ritiri e altre attività dell’Istituto. Qualcuno le conosce come “le Suore di Bonpara”. Eppure... sorpresa! - stanno per lasciare Bonpara. Una decisione che sconcerta molti: perché andarsene dal luogo dove sono più conosciute e apprezzate, dove hanno una presenza “storica”, e numerose vocazioni? Forse che non c’è lavoro da fare? Lasciano, ma... dove vanno? Vogliono rimettersi in cammino verso presenze e attività più direttamente di evangelizzazione con gruppi poveri, isolati, in difficoltà. Penso che sia stata una decisione non facile da prendere, ma che riveli grande sensibilità missionaria, o forse proprio specificamente “pimina”. Immagino fatiche non piccole per riadattarsi, ma sono fatiche che ringiovaniscono.
   
p. Franco Cagnasso