Articoli e lettere agli amici - 2004

p. Franco Cagnasso


2004

L'anima dell'Asia

MDI febb.2004

Nel 1998 ho avuto la grazia di partecipare al Sinodo per l'Asia, che si è tenuto in Vaticano. Molti vescovi sono intervenuti a proposito del modo di fare evangelizzazione in Asia, sviluppando sostanzialmente lo stesso tema. Insistevano che l'Asia ha bisogno di un'evangelizzazione meno intellettuale, dogmatica, e invece più esperienziale. L'Asiatico, dicevano, ha bisogno di maestri che accompagnino a partire dalla vita per giungere alla verità, più che di verità annunciate perché poi entrino nella vita; ha bisogno di percepire e di vivere la verità per crederla. Perché ciò avvenga, ha bisogno di persone che abbiano non solo nozioni esatte da comunicare, ma che sappiano soprattutto condividere e trasmettere una percezione vitale dell'opera di Dio in loro.

L'evangelizzazione deve toccare l'anima dell'Asia.

Quei pensieri mi sono rimasti den­tro fino al mio ritorno in Bangladesh e, un giorno, in mezzo al traffico caotico di Dhaka, ho creduto di incontrare proprio l'anima dell'Asia..

Da qualche tempo, tre o quattro volte la settimana vado a piedi dal Seminario fino alla Nunziatura. Faccio il percorso in poco più di venti minuti, nell'ora in cui la gente va a lavorare. Devo districarmi in mezzo ad automobili, autobus, riksciò e devo andare contro corrente, perché tutti si dirigono verso la città mentre io mi dirigo verso l'esterno. Dico contro corrente, perché c'è come un fiume di persone che a piedi, a passo svelto, su entrambi i lati della strada, si dirigono verso le fabbriche di tessuti e di abiti confezionati. Sono quasi tutte giovani donne, a migliaia. Passo anche accanto a due punti in cui si radunano lavoratori a giornata. Sono uomini con la zappa in spalla e donne con la cesta in attesa di qualcuno che venga a chiamarli per lavorare; a volte discutono animatamente, e quasi ostruiscono una corsia della strada.

In tutto questo movimento ci sono i mendicanti. Alcuni ciechi, anziani, alcuni storpi, donne con bambini, sui marciapiedi. Ciascuno di loro cerca di attirare l'attenzione cantando, gridando, chiedendo, mostrando la sua deformità o malattia... Credo che qualcosa riescano ad avere, perché tornano regolarmente ogni giorno, e proprio a quell'ora; più tardi si spostano altrove, forse nei mercati dove la gente si affolla. Spesso c'è anche un moulubi, "prete musulmano", che invita a fare offerte per una moschea con un altoparlante a batteria, su un tavolino sempre ricoperto di monete e banconote di piccolo taglio.

In un punto poco in vista, sul ciglio erboso che dal marciapiede scende verso un grande stagno, c'è anche una donna anziana, piccola piccola, parzialmente velata. Sta rannicchiata davanti ad un leggio appoggiato per terra e legge il Corano, lentamente. Segue le parole con il dito e le pronuncia una per una, ma senza suono, o almeno, a voce molto bassa perché non si sente nulla, nel frastuono del traffico: solo si vedono le labbra che si muovono.

Sono passato in altre ore della giornata e l'ho vista lì, anche la sera quando è già buio: stessa posizione, stesso atteggiamento. Forse non conosce neppure l'arabo, e legge senza capire il senso, ma certamente legge credendo che quella è parola di Dio.

Non chiede, è quasi invisibile, non si fa sentire; ma da quanto ho potuto vedere, sono sicuro che a lei la gente dà più offerte che agli altri mendicanti e al moulubi.

Forse proprio quella donna ci indica dove sta l'anima dell'Asia.

L'Asia non è quel paradiso di spiritualità e di meditazione che alcuni occidentali immaginano, non è la società della non violenza. L'Asia, specialmente nelle grandi città, è frenesia, competizione, chiasso, corsa alla sopravvivenza o all'arricchimento sfrenato, tecnologia, conflitti e tensioni fra religioni e gruppi diversi... ma quest'Asia così poco spirituale e meditativa, così tesa e aggressiva, ha un occhio per quella donna quasi invisibile che passa la vita a leggere faticosamente, sillaba per sillaba, un libro sacro. Forse sente una nostalgia dello spirito, forse vive un senso di colpa, forse ha la speranza magica che aiutando una santa gli affari andranno bene... forse è tutto questo insieme. L'Asia, come e più di ogni altro continente, è impossibile da racchiudere in una formula, ma certamente ha anche questa dimensione, che appare nei templi, nelle moschee, nelle pagode, nei movimenti di rinascita religiosa, ma ancora di più appare, secondo me, in questo sguardo verso una persona che ha fatto una scelta di vita assolutamente fuori del tempo moderno, e quasi fuori dello spazio, una persona che vive di fede.

Franco Cagnasso

Mongeyo

(da Chiacchierate dal Bengala)

Dhaka, 22 aprile 2004

Era in piedi in un angolo del giardino del seminario, vestiti dimessi, puliti, una specie di ventiquattrore, l'aria sperduta.

Tutti gli passavano accanto e lui sembrava proprio non avere il coraggio di accostare nessuno. Non so perché l'ho avvicinato.

«Chi cerchi?».

«Cerco te».

«Ma se non mi conosci!».

«Lo so, ma non conosco nessuno, e quando non si conosce nessuno come si fa a cominciare a conoscere qualcuno?».

Parla il bengalese con uno strano accento che non ho mai sentito.

«Che cosa vuoi?»

«Che qualcuno mi ascolti, senza mandarmi subito via dicendo: bravo, bravo, vai...».

Lo precedo verso la mia stanza, pensando a quanto è facile imbrogliarmi. Lo faccio sedere, resto guardingo: «Ora dimmi...».

Tira fuori dalla borsa carte piene di timbri e firme, prova che tre anni fa un bonzo buddista ha fondato e fatto registrare un ostello per bambini e bambine poveri in un villaggio a me sconosciuto. Poi spiega che il bonzo lo ha nominato direttore, maestro, amministratore, guardiano e quant'altro di questo ostello, in cambio di vitto e alloggio, e lui sta disperatamente cercando qualcuno che lo aiuti a mandarlo avanti. «E finora?». «La gente del villaggio ci vuole bene, dà riso, patate, legna, e poi facciamo fame...».

Prendo la carta geografica e non credo ai miei occhi: il villaggio è a centinaia di chilometri a sud, verso la Birmania, in zona malarica poverissima e afflitta da forti tensioni, guerriglia... «Vieni da laggiù per un ostello di trenta persone? Per forza nessuno ti crede! Questa è una storiella, non una storia».

«Non è vero che nessuno mi ascolta perché vengo da lontano, non mi ascoltano nemmeno i vicini. Noi siamo Marma, un popolo piccolo, povero, ignorante. Il governo dice che siamo ribelli, i musulmani ci considerano infedeli perché siamo buddisti, la polizia ci picchia e prende a calci, le organizzazioni internazionali chiedono progetti, carte e garanzie, nessuno viene a trovarci. Ma se non comin­ciamo a studiare, a venir fuori dai nostri villaggi, il nostro popolo scompare. E con noi altri: nell'ostello non ci sono solo Marma, ci sono Tripura, Khasia...».

È così che ho conosciuto Mongeyo Marma, 25 anni, primo di 8 fratelli e sorelle, diplomato in una scuola di Dhaka grazie al gigantesco sforzo della sua fami­glia, disoccupato, ingenuo, pieno di fiducia in Dio, testardo, convinto che i popoli aborigeni devono "venirne fuori".

Quel giorno gli ho dato 2000 taka (30 Euro), in base al mio principio che è meglio dare tre volte a chi non ha bisogno che mandar via una sola volta uno che ha bisogno davvero.

È una cifra ridicola, ma ringrazio il Cielo di avergliela offerta, perché gli ha dato il coraggio di tornare, di parlarmi dei bambini che dormono senza zanzariere, che battono i denti tutta notte, che bevono acqua del fiume, che usano libri stravecchi quasi illeggibili, che muoiono di malaria o dissenteria sulla barca che li porta all'ospedale. Mi ha raccontato di quando i militari sono arrivati all'ora dell'unico pasto della giornata. Li hanno sbeffeggiati, hanno rovesciato il pentolone con il riso, quello con le patate, e poi sistematicamente tutti i piat­ti già riempiti - e se ne sono andati. Perché? Per metter paura, per far vedere che comandano loro. «Tutto il giorno non abbiamo mangiato, abbiamo solo pianto».

«Una volta ho incontrato una pattuglia. A noi non chiedono soldi, sanno che non ne abbiamo. Mi hanno subito picchiato: "Cosi ti metti bene in testa che sei un pez­zente miserabile! »

Lo racconta con angoscia, poi subito sorride e aggiunge: «Per grazia di Dio non mi hanno arrestato né rotto le braccia e sono tornato a casa».

Nella sgangherata domanda per sussidi che ha preparato, ha scritto che educa religiosamente i bambini, e che pregano insieme due volte al giorno. Che sia un po' stupido? Questa non è la carta giusta per presentarsi ad organizzazioni musulmane o agnostiche, e con quelle cristiane può essere un rischio... Ma alla fine mi convinco che non è stupido, ci crede davvero. Lo aiuto a riscriver­la, gli dico: «Lasciale quelle informazioni, devono sapere che pregate».

È raggiante: «Sì, ma non siamo solo Marma buddisti, ci sono anche altri, e pure tre bambini cristiani, che pregano con noi».

Viene varie volte, ogni volta due giornate di viaggio.

Aspetta davanti alla statua della Madonna e un giorno chiede: «È Gesù?».

«No, è la sua mamma».

«Allora la prego, dev 'essere buona».

Quando va via mi chiede la benedizione.

A Natale se ne arriva, inatteso: «Ho saputo che è la vostra grande festa, e ti ho portato un regalo».

Mi dà vari frutti di foresta, e la foto dei suoi bambini con le magliette che p. Dotti gli ha regalato.

A gennaio, quando ho trascorso un mese in un ashram del sud, ero pronto per andare a visitare l'ostello. Viene a prendermi, è incantato dall'atmosfera dell'ashram, dalle preghiere e dalla Messa nella cappellina, legge i salmi con noi. Purtroppo, uno sciopero dei trasporti manda all'aria i nostri piani. Bisogna rin­viare...

Gli faccio preparare la lista e il preventivo di tutto quello che gli occorre. «Mongeyo, qui hai messo gli stipendi di un maestro, il cuoco, il guardiano... e il tuo di stipendio?»

«Mi vergogno a scriverlo».

«Ma se non guadagni come fai a sposarti? Non hai voglia di sposarti?».

«Tantissima, però non lascio l'ostello, ci lavorerò con mia moglie... se riesco a sposarmi!».

E finalmente mette in preventivo anche il suo stipendio.

Continuo a ripetergli: «Non ti prometto nulla, capito? Nulla, zero. Io non sono una ONG, faccio il direttore spirituale; non sono ricco, non conosco ricchi, tu abiti lontano. Ti do qualcosa, ma è roba da ridere, tu questo progetto devi portarlo in giro per tutto il Bangladesh finché trovi qualcuno?».

Lui mi guarda, sorride: «Io ho trovato te, tu mi hai dato le coperte per i bambini, due sacchi di riso, un sacco di cipolle, e il tuo amico le magliette. Se Dio vuole troveremo anche tutto il resto».

Disarmante.

Ma ha ragione.

Proprio in occasione della sua visita a Natale ha trovato con me mia sorella Anna e mio cognato Aldo Galli, parrocchiani di S. Lucia a Bergamo. Sono ripartiti dal Bangladesh con le foto dei suoi bambini nella borsa, e la sua storia nel cuore.

Il resto lo sapete.

Mi hanno detto che la parrocchia ha raccolto l'intera cifra necessaria a costrui­re il dormitorio/studio, il dormitorio ragazze, la cucina, il pozzo, i gabinetti, tutto "semi-paka", cioè misto muratura e terra, con tetti in lamiera. 15.428 Euro; non osavo nemmeno sognare una somma così tutta insieme!

A Mongeyo darò la notizia poco per volta, perché non mi svenga per l'emozio­ne. Anche i soldi glieli darò poco per volta, man mano che i lavori procedono per evitare tentazioni a lui e perché non si facciano avanti ladri e polizia a chie­dere tangenti.

So già che mi dirà: «Senti, se io riesco a comprare direttamente il materiale, e se i ragazzi lavorano un poco (ohibò, sfruttamento del lavoro minorile...???) i soldi che risparmio devo darteli indietro, o posso usarli per i libri, il cibo, le medicine...».

Gli do io la risposta, senza chiedere il permesso ai donatori.

Aggiornamento:

Tutte le costruzioni sono realizzate, e ora un bel cartello accoglie chi arriva al Betchara Shishu Sadan: «DONO DI AMICIZIA DELLA COMUNITÀ CRISTIANA DI S. LUCIA», scritto in italiano e in inglese.

Durante uno scontro a fuoco fra militari e ribelli "Arakani ", i militari hanno arre­stato molti uomini del villaggio, e anche Mongeyo è scappato. Quando è tornato, lo hanno portato in caserma e interrogato, specialmente per sapere da dove aves­se preso i soldi per fare quelle capanne. Per fortuna aveva qualche mia lettera come prova, e allora i militari stessi gli hanno dato un consiglio: «Metti un bel car­tello, cosi chi arriva ti rispetta di più».

Ho avuto altri aiuti, ancora da Bergamo e specialmente da Roma, e prima di par­tire ho potuto consegnare a Mongeyo il necessario perché almeno fino ad agosto dia un piccolo stipendio al maestro, al cuoco e a sé stesso, compri una piccola scorta di riso, le divise scolastiche, tappetini da mettere per terra per non dormi­re sul cemento come fanno ora, e qualche libro. Ho trovato magliette, e medicine- quindi per un po' andranno avanti bene.

Ogni volta che viene, Mongeyo mi porta qualcosa di nuovo: yogurt tenuto nel cavo di un bambù, riso nero di montagna da mangiare con il cocco grattugiato, patate dolci, arachidi, tamarindo, un rosario buddista. Mi chiede sempre qualcosa da leggere, e passiamo un po' di tempo a contarcela su...

Franco Cagnasso

Il pane di Elia

13 giugno

"Signore, ho avuto abbastanza. Prendi la mia vita; non sono migliore dei miei antenati". Nella profondità del deserto il grande profeta Elia esprime la sua crisi con queste parole disperate. L'uomo che si è misurato ed ha vinto quattrocento profeti di Baal è fuggito per la sua vita, spaventato dalle minacce della Regina Jezebel e ora la sua vita gli è divenuta insopportabile, senza futuro e senza scopo. Lui giace e dorme, quando un angelo viene e lo sveglia due volte portandogli del pane per mangiare. "Fortificato da quel cibo - dice la Bibbia - camminò per quaranta giorni e quaranta notti finché arrivò a Horeb, la montagna di Dio."

Là, dopo un altro periodo di lotta intima e di dolore, Elia ha un'esperienza nuova di Dio, la sua vocazione è rinnovata; può tornare alla sua missione con più umiltà e più discernimento (vedi: I Re, 19).

Il pane di Elia è una "profezia" che ci parla di un particolare aspetto dell'Eucaristia.

Dopo avere mangiato il pane offerto dall'angelo, il Profeta non sente di aver superato la sua crisi. È ancora nel deserto (un simbolo di solitudine, tentazione incertezza...), e là deve camminare per molto, molto tempo. Ma può procedere. Il suo cuore sta ancora sanguinando, la sua mente è ancora confusa, ma lui non si ritira, come aveva deciso di fare prima. Cammina fino ad arrivare alla "montagna di Dio."

"Capirono gli Apostoli che presero parte all'Ultima Cena il significato delle parole dette da Cristo?" Giovanni Paolo II se lo chiede, nella sua Lettera Enciclica " Ecclesia de Eucharistia" - e risponde: "Forse no" (n. 2).

Spiega che le parole dell'istituzione dell'Eucaristia saranno chiare solamente quando il Mistero Pasquale sarà adempiuto. Gli Apostoli, dopo aver mangiato il Pane e avere bevuto il Vino dato da Gesù, ancora devono attraversare il terribile deserto della passione e della morte di Gesù, della propria debolezza e codardia. Come il profeta Elia sulla montagna di Dio, dopo la risurrezione devono lottare con la loro cecità, la mancanza di fede e l'inabilità riconoscere il Signore Risorto. Ma non abbandonano. Si raggruppano di nuovo insieme, pregano, sperando in qualche modo contro tutte le speranze. Da quella esperienza matura in loro una fede nuova, di farli testimoni della Risurrezione e messaggeri del Vangelo.

L'Eucaristia è l'espressione più alta della nostra partecipazione al Mistero di Cristo, e per questa molta è anche una scuola dove noi impariamo qual è la vera vita, un supporto della nostra incerta ricerca e del nostro pavido desiderio di seguire il Dio.

In che senso è una scuola?

Nella sua umiltà, Gesù condivise tutto coi suoi discepoli, lui stette anche con loro quando loro litigarono circa "chi è il più grande nel Regno di Dio", quando loro rifiutarono di accettare la sua decisione di far fronte alla sua passione.

Questo accadde quando Gesù era un "Rabbino" nella terra di Israele, lo stesso accade adesso, quando lui è presente fra noi come il Dio Risorto, quando lui ci dà il suo Spirito.

Come discepoli, noi abbiamo posto la nostra fiducia in lui ma, realmente, non conosciamo il significato profondo della nostra fede. Noi dobbiamo imparare, passo dopo passo. I nostri desideri, la nostra buona volontà, i nostri sogni e la nostra fede sono mescolati insieme. Essi devono seguire un processo di purificazione; devono divenire esperienza vivente. Anche noi dobbiamo attraversare i nostri deserti, piangere sulla nostra debolezza e sui nostri peccati per vedere che senza di Lui non possiamo fare niente.

L'Eucaristia è il Pane che rende possibile questo viaggio.

Diamo un'occhiata alla mia esperienza personale. Da bambino mangiato quel Pane obbedendo alle parole dei miei genitori e dei miei insegnanti, come fece Elia obbedendo all'angelo, come fecero gli Apostoli obbedendo a Gesù.

Più tardi, presi la mia decisione di continuare. Da allora, con ogni giorno che passa questo Mistero è divenuto sempre di più parte della mia vita; ha trasformato la mia anima. Mi ha reso capace di prendere la mia decisione, di continuare non perché i miei genitori me lo avevano detto, ma perché io lo voglio.

Ricordo i molti deserti che ho attraversato. Ho continuato a mangiare il Pane dell'Eucaristia anche se non ne sentivo il gusto, anche se dubitavo di potermi salvare dalle mie frustrazioni, dalla mia solitudine, dai miei peccati e dalle mie paure. Ora però posso vedere che ho attraversato tutti quei deserti con la forza di quel Pane.

Cristo mi ha dolcemente portato, ogni volta, in una comunione profonda con lui, con la sua passione e la sua risurrezione; mi mantenuto unito con la sua Chiesa anche quando mi sono accorto che gli aspetti umani della Chiesa erano troppo pesanti per essere accettati da me. Come il vino del Buon Samaritano versato sulle ferite dell'uomo colpite dai briganti, il Vino dell'Eucaristia ha pulito e guarito le mie ferite.

Questi umili elementi, pane e vino, mi hanno insegnato ad accettare la mia umanità e l'umanità della Chiesa.

Posso dire, ora, che capisco "il significato delle parole dette da Cristo" nell'Ultima Cena?

No, non posso. Sto ancora imparando.

Le ascolto quando le pronuncio ogni giorno, e le ricevo nel mio cuore come un inesplicabile eccesso di amore di Gesù per i suoi amici. Riaccendo il mio "profondo stupore e gratitudine", come dice il Papa nella sua Lettera (n. 5).

Spesso penso a due piccole ma reali storie che ho sentito. Entrambe sono avvenute in Cina, durante il peggior periodo delle persecuzioni di alcune decadi fa.

Un Vescovo del PIME fu messo in prigione, assieme al suo Vicario Generale. Un Fratello, Francesco chiese alle Guardie Rosse di prendere anche lui. Subirono umiliazioni, torture e fame, ma il Fratello riuscì ad ottenere la fiducia di qualche Guardia, e poté provvedere al pane e al vino per celebrare segretamente la Messa. Dopo che furono rilasciati, ebbero un'udienza con Papa Pio XII che chiese: "Come avete passato le lunghe ore e le lunghe giornate della vostra detenzione in quella piccola cella?" "Abbiamo sempre celebrato la Santa Messa con Lei" rispose Fratel Francesco.

"Con Lei"! Perse in una distante e ostile prigione della Cina, Fratel Francesco, con la sua scarsa conoscenza di teologia aveva capito che l'Eucaristia è un'obbligazione di comunione che supera qualsiasi distanza; aveva capito che quando noi diciamo "Il Corpo di Cristo" noi vogliamo dire il Corpo intero, la Chiesa tutta inseparabilmente. Aveva anche capito che l'Eucaristia non è limitata al breve tempo della celebrazione liturgica, ma dà una dimensione nuova a tutto, così che noi viviamo una "vita Eucaristica" tutto il giorno e la notte. La loro sofferenza nella cella era una partecipazione alla vittoria di Cristo sulla morte, e diventava un "ringraziamento" (= Eucaristia).

Un prete cinese mi raccontò la seconda storia. Era stato per molti anni in un campo di concentramento dove non aveva mai avuto l'opportunità di celebrare la Messa. La preghiera veniva severamente vietata ma lui pregava nel suo cuore, quando era a letto, durante le lunghe ore del suo duro lavoro.

Un giorno, un giovane cattolico fu assegnato alla stessa sezione del Campo, e riuscì in qualche modo ad ottenere del pane e una piccola quantità di vino. "Mi fu allora possibile celebrare molte volte -il prete mi disse - e successivamente dare la Comunione ad alcuni cattolici nel Campo. Celebravo la Messa di notte, nel mio letto, sotto una coperta. Non avevo un calice o un bicchiere, dovevo allora mettere il vino nel cavo della mia mano; due, tre gocce ogni volta, per farlo durare più a lungo! Le guardie in ogni momento mi potevano scoprire e castigare; ma avevo un'esperienza di paradiso sulla terra!"

Perché il 12 giugno non ho lavorato

20 giugno

Il 12 giugno è festa nazionale nella Federazione Russa: celebrano l’indipendenza dall’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche; è festa anche nelle Filippine: 106 anni dalla proclamazione di indipendenza dalla Spagna, anche se in seguito il paese fu invaso dagli USA, e poi dal Giappone – un sacco di guai.

Attraverso attenti contatti diplomatici e prudenti trattative, le rispettive ambasciate a Dhaka si sono accordate per organizzare i festeggiamenti in orari diversi, così da non mettere in imbarazzo gli invitati. L’accordo consente ai diplomatici di paesi amici di guadagnarsi il pane correndo, come è loro preciso dovere, da un ricevimento all’altro per partecipare alla gioia dei colleghi sia russi sia filippini, senza rompere alleanze o creare incidenti internazionali.

Le Filippine sono anche un paese a maggioranza cattolica, e l’attuale Ambasciatore è un uomo squisito, molto colto, che parla varie lingue, gentilissimo e cattolicissimo. Sempre presente alla Messa festiva qui nella chiesa del seminario, è lui che legge la seconda lettura. Per il 12 giugno ha ripreso una tradizione abbandonata dal suo predecessore musulmano e – fuori dal protocollo ufficiale – ha invitato i Filippini cattolici per una Messa la mattina alle 7.30.

Dal momento che di preti autenticamente filippini qui in giro non se ne vedono, l’Ambasciatore invita me a celebrare. Da qualche mese infatti io sono, tra l’altro, sostituto cappellano provvisorio aggiunto della sparuta e variegata comunità degli stranieri cattolici a Dhaka: coreani, indiani, nigeriani, srilankesi, inglesi, americani (c’è pure l’ambasciatore), naturalmente filippini... Italiani? Beh, non è che in chiesa si facciano vedere molto, ma qualcuno c’è.

Così, nella caldissima prima mattina del 12 giugno mi trovo alla Cancelleria dell’Ambasciata filippina, salutando chi arriva e ansiosamente ripassando la predica. Per fortuna i Filippini sono simpatici, sanno metterti a tuo agio subito. Mi coccolano un po', mi dicono che l’Italia è bellissima e sono contenti di avere un prete italiano con loro, cantano nel giardino l’inno nazionale, ascoltano il messaggio della loro graziosa Presidente della Repubblica appena eletta, e si ritrovano a Messa nella sala d’aspetto adattata.

Canti belli, predica... ce la metto tutta. Alla fine tiro il fiato, e quando l’Ambasciatore ringrazia, fa i complimenti e dice che devono applaudire, tutti lo fanno energicamente, con patriottica convinzione.

Dopo una fatica del genere, e mentre il caldo aumenta nonostante i ventilatori, che cosa si può desiderare?

Subito girano vassoi con invitanti tazzine e mi ritrovo con un tortino di riso in mano. Lo mangio di gusto, ma le tazzine mi passano accanto senza fermarsi. Una signora s’accorge che ho lo sguardo incollato al vassoio, esita, lancia un’occhiata all’Ambasciatore che mi sta accanto e si avvicina. Non è caffè, come speravo, ma è cioccolata e va bene lo stesso.

Sto per penderla, e per essere cortese chiedo: “E' cioccolata?”.

“Porco” – mi risponde la signora.

Ammutolisco.

In un istante rivedo il mio comportamento, ma proprio non mi sembra di avere commesso gravi scorrettezze.

Che la signora stia facendo proposte, del tutto sconvenienti visto il mio stato clericale e l’ambiente? No, anche questo è da escludere: il suo sguardo e il suo sorriso sono assolutamente innocenti.

Ricorro a Babele. Dalla torre di Babele in poi, capitano un sacco di malintesi. Capita ad esempio che un italiano dica ad un cinese: “Vuoi un bicchiere di vino di Porto?” e il cinese capisca “Vino di porco” e resti sconcertato. O che un inglese mi chieda: “Are you hungry?” (affamato?) e io capisca “Are you angry?” (arrabbiato), e risponda: “Per nulla!”, rimanendo così a pancia desolatamente vuota...

Babele dunque mi rassicura, ho capito male. Afferro la tazzina fumante di forse cioccolata; mi ricorda una specie di ottimo zabajone con cacao che mi hanno offerto più volte a Mindanao, anni fa.

Bevo.

Signori, Babele non c’entrava, né la signora era stata scortese o indecente. In quella tazza c’era porco, grasso di maiale fuso. Ecco perché esitavano a darmelo!

Io ho fatto colazione in mille modi diversi. Mi è capitato di mangiare alle 6 del mattino pesce fritto, porridge, spezzatino, uova con pancetta, caffè turco, farina di mandioca, minestre al pepe, bistecche, funghi, alghe, soia, frittate, riso freddo con pasta di pesce, cavoli in agro, zampe di gallina, pasticcini alla crema, spaghetti, passato di ceci, latte, fegatini al peperoncino, brodo, fritto misto di verdure, purè di melanzane, mostarda di mango, tè, semolino, persino – pensate! – cappuccino e cornetto (o brioche, come si dice in Padania)...

Ma brodo di grasso di maiale no, quella era la prima volta.

Avete mai provato a digerire una tazza di grasso di maiale fuso e lavorare?

Io, il 12 giugno 2004, festa dell’indipendenza della Federazione Russa e della Repubblica delle Filippine, non ci sono riuscito.

Franco Cagnasso

Perché il 6 agosto ho deciso che andrò (spesso) al cinema

22 agosto

I due ragazzotti si chiamano Alison e Kevin. Così era scritto sul foglietto che mi mandarono per chiedere un appuntamento – urgente.

Non avevo mai incontrato nessuno con nomi del genere, ma questo non era un buon motivo per rifiutarsi di accontentarli: volevano sposarsi.

Allampanato e impacciatissimo perticone lui, spigliata ed emozionata tappetto lei, mi spiegano la loro storia, e portano tutte le carte delle rispettive parrocchie, perfettamente in regola. Lei di Chittagong, lui di Dhaka – sono anglo-indiani, perciò vogliono celebrare in inglese, e perciò sono venuti da me che da qualche tempo sono, come già ho avuto occasione di scrivere, malcapitato vice sostituto aggiunto provvisorio del cappellano degli anglofoni (stranieri e non) a Dhaka.

Hanno fretta, si fissa la data al 6 agosto. Prove liturgiche, cordiale chiacchierata del caso, paterne esortazioni. Sono simpatici.

Arriva il giorno, ore 18 – puntuali. Tengo d’occhio lui, perché ho paura che stramazzi al suolo soffocato dal farfallino sullo strettissimo colletto inamidato. Lei ha rischiato salendo i gradini e inciampando tre volte nel vestito, ma ce l’ha fatta e ora sorride distesa.

Si incomincia. Omelia bene innestata sul tema liturgico della Trasfigurazione, convinta, resa più efficace con il chiamarli più volte per nome. Ascoltano. Solo un ragazzetto fra gli invitati si distrae, chiama un compagno e ridacchiano, ma li incenerisco con lo sguardo e tutto continua bene. Seriamente, intensamente.

Poi, il fatidico sì.

Avete presente? “Alison, vuoi prendere…”.

Bene, non so come spiegarmi. Immaginate un parroco italiano che si rivolge agli sposi e dice a lui: Susanna, vuoi prendere come tua legittima sposa la qui presente Aldo e prometterle fedeltà, servirla e onorarla... ecc. ecc.? E lui, cioè Susanna, non batte ciglio e dice di sì.

Poi il prete si volge a lei, e le dice: Aldo, vuoi prendere come tuo marito il qui presente Susanna, e promettergli fedelta’, servirlo e onorarlo...ecc. ecc.? E lei, cioè Aldo, non batte ciglio e risponde con un robusto “si’”.

Poi arriva il momento dello scambio degli anelli, tocca a loro parlare. Lui prende l’anello, lo mette al dito di lei e dice: “Susanna, ricevi questo anello...”. Sto quasi per fermarlo e dire che ha sbagliato, ma subito lei prende l’anello, lo mette al dito di lui e dice: “Aldo, ricevi questo anello...”.

Un lampo di luce terrificante: Kevin è lui, non lei, e Alison è lei, non lui.

È fatta. Non serve svenire, sprofondare, chiedere scusa, spiegare (ma cosa vuoi spiegare?). Continuo come se niente fosse, con un’ammirazione sconfinata per gli sposi e gli invitati che mi hanno ascoltato come se niente fosse.

Come diavolo ho fatto a prendere lui per lei?

È andata così.

Tempo fa, alla casa del PIME di Dhaka, ero sceso per prepararmi un caffè. Un caffè “all’italiana”, privilegio di cui si gode proprio quando si va alla casa del PIME. Messa su la moka, dal cucinino passo alla stanza dei giornali/ospiti/TV/pacchi in partenza e arrivo/chiacchiere. La TV è accesa e due pimini m’invitano: “Fermati, c’è un bel film con Kevin Costner”.

Non mi posso fermare, ma versato il caffè nella tazzina vado a berlo seduto accanto a loro. Sullo schermo un’americana bionda, affascinante, sicura, occhi splendidi, di quelle che sembrano fatte con il computer parla animatamente a un bambino, che pianta grane. Bisticciano un pò, salgono in macchina e se ne vanno.

Me ne vado anch’io con un po’ di rammarico. Mi rimane impressa l’attrice. Kevin Costner, appunto...

La sera del pasticcio matrimoniale, a cena, racconto ai colleghi la storia e mentre gli altri tentano invano di non sghignazzare troppo, Fratel Jacques, di Taizè, mi spiega con pazienza che Kevin Costner e’ un attore, un regista, un uomo. Maschio. Aggiunge pacatamente che questo lo sanno tutti, anche i muri.

I muri forse; ma io no.

Era la sera del 6 agosto 2004. Mi proposi fermamente di andare al cinema spesso, e tenermi aggiornato, e ricordare i nomi degli attori e delle attrici – se non altro per sapere chi è lui e chi è lei quando si sposano. P. Franco Cagnasso

P.S. N. 1 – Come spesso accade, non so se manterrò il proposito. L’altro giorno a Sylhet hanno messo l’ennesima bomba in un cinema, ammazzando un bimbo di 10 anni che vendeva noccioline vicino all’entrata e ferendo 20 persone. È la sesta o settima volta che mettono bombe nei cinema, i morti sono più di 30. Forse risolverò il mio problema comprando un vocabolario con i nomi inglesi.

P.S. N. 2 – Ma l’attrice bionda, bella, quella che sembra fatta con il computer... chi è?

Franco Cagnasso

A un Missionario in attesa del visa…

da Chiacchierate dal Bengala

Dhaka, 12 ottobre 2004

Carissimo,

non ho bisogno di molta fantasia per intuire le difficoltà che vivi in que­sto momento: le ho vissute prima della mia partenza, nel 1978, quando stava­no quasi per decidere di cambiarmi destinazione. Ironia della sorte, un con­fratello più anziano che aveva chiesto il visa dopo di me, lo ha ottenuto prima. Quando l'ha avuto in mano non s'è sentito di partire ed è rimasto, andando poi ad incardinarsi in una diocesi americana. Le ho rivissute nelle ansie e nei disa­gi di parecchi confratelli (ricordo in particolare la lunghissima attesa di p. Mariano Ponzinibbi) e poi di nuovo personalmente nel 2001-2002, con 9 mesi di attesa del mio visa.

Ciò che scrivi è vero.

Non si sa bene che cosa fare, e nemmeno come presentarsi a chi ti chie­de più volte quando parti e tu devi continuare a spiegare e rispiegare, e dopo che hai spiegato bene ti chiedono: «Ho capito, e allora... quando parti?...»

Non si prendono impegni a lunga scadenza, quelli a breve non soddisfano. Poi ci si impegna un po' più a lungo, e allora quasi non si sa se desiderare che il visa arrivi subito o che ritardi per permetterci di terminare quanto si e iniziato.

La voglia di partire non solo si affievolisce, rischia di passare del tutto. Devo dirti sinceramente che quando sono partito la prima volta, dopo la lunga attesa (ed ero già al mio nono anno dopo l'ordinazione) di voglia non ne avevo proprio nessuna. L'ho anche detto ad amici e persone che potevano capire: "parto per vocazione, non per entusiasmo; sono contento di andare perché ho giocato la mia vita e la mia parola su questo, ma mi dispiace lasciare."

È una grazia che nell'attesa tu possa fare cose utili e che ti coinvolgono. Ma sarebbe uno sbaglio cercare risposte positive e rassicuranti alle domande che ti fai nella lettera che mi hai scritto: «Riuscirò a costruire quel dialogo con la gente che qui mi appare relativamente semplice? Saprò intuire attese e bisogni come mi sembra di riuscire qui? Saprò dire quella parola che è attesa da chi si accosta a un sacerdote invocando l'aiuto di sentire il Dio che lo ama e che gli è, nonostante la vita che sta vivendo, vicino?».

La mia risposta molto chiara e forte è: no, non ci riuscirai.

Se parti pensando di poter trovare qui questo tipo di rapporto con la gente, con la stessa lunghezza d'onda o comunque con una relativa facilità ad intuire il problema dell'altro, allora rischi delusioni brucianti.

Io non penso che la vita del prete diocesano nella propria chiesa d'origi­ne sia più facile e gratificante. Tuttavia sono convinto che difficoltà e gratifica­zioni del diocesano e del missionario siano spesso molto diverse. Per questo a volte non ci si capisce. Senti il diocesano che dice: beati voi, che almeno avete gente semplice, che vi segue, qui invece vengono in chiesa sempre meno, sono sofisticati, pieni di problemi... A sua volta il missionario sperimenta ogni tanto la nostalgia di un posto dove poter vivere proprio quelle cose che tu hai espo­sto nella parte della tua lettera che ho citato sopra...

Il confronto è impossibile, ed è impossibile cercare un misuratore di dif­ficoltà (o di eroismi per sentirsi più bravi o più sfortunati).

Che cosa aspettarsi allora?

Bisogna aspettarsi che la partenza sia davvero tale, cioè un morire a ciò che si è vissuto fino a quel momento per tuffarsi in una realtà nuova fidandosi di Dio. Bisogna aspettarsi lunghi tempi di deserto, che vengono sempre nel modo che uno non si aspetta, come ora questa tua logorante attesa del visa: sapevi in teoria che poteva avvenire, ma ora che la vivi ti sembra insensata e negativa, perciò comunque da rifiutare.

Morire a ciò che si è vissuto fidandosi di Dio significa sperare che ci sia una "risurrezione", ma lasciando decidere a Dio circa i tempi e i modi. Ho visto, in me e in altri, che questa risurrezione avviene, se il distacco è serio e non tentiamo di mantenerci in vita con legami vari che ci tengono attaccati al passato. In un certo senso, credo che la partenza dei missionari di 100 anni fa fosse più facile. Più dolorosa certamente, nella consapevolezza che non sareb­bero tornati, ma proprio per questo più decisa a giocarsi completamente nella nuova realtà. Il rischio oggi, grazie ai viaggi frequenti, le visite, le e-mail e quant'altro, è di non staccarsi del tutto, di lasciare il cuore alle proprie spalle e perciò sentire sempre il bisogno di riprenderselo, di tornare là, e quindi non rinascere mai nella realtà nuova, restare mezzi vivi di qui e mezzi vivi di là, divisi.

Ciò non significa che l'esperienza che fai ora sia inutile! Come ho scritto, è una grazia. Oltre ad essere utile a coloro ai quali ti dedichi e ai preti con cui collabori, arricchisce te, crea rapporti, in un certo senso conferma la tua iden­tità di prete. Ma poi, come missionario, dovrai porre tutto nelle mani di Dio e dirgli: «Ora parto, grazie per ciò che mi hai dato qui. Sei tu che mi mandi, io non porto dietro due bisacce e due sandali, ma solo ciò che sono, e andando mi fer­merò a mangiare da chi mi invita e mangerò ciò che mi metteranno davanti...».

Ci facciamo scrupoli sul missionario che ha troppe valigie. Va bene, ridu­ciamole più che si può, è cosa buona. Ma la vera povertà è quella che ci fa accettare di non essere accolti come vorremmo, di non essere eroi per la gente a cui andiamo, di non riuscire spesso né a capirli né ad essere capiti. E quindi di accettare per la nostra vita di fede il "cibo" che quella realtà ci offre, anche se a volte ci sembra poco, o non adatto al nostro palato, incapace di nutrirci.

Allora anche il cibo che è l'Eucaristia verrà riscoperto, Pane offerto da un Uomo che sta per andare sulla Croce, Pane che fa attraversare il deserto ad Elia, che tiene in vita la vedova "per scommessa", perché non ci sono scorte e ogni giorno bisogna andare a vedere se il Signore ha messo la farina nella giara e mi farà sopravvivere ancora.

Allora è tutto solo deserto e croce?

Niente affatto!

Bisogna però che non sia tu a decidere quali saranno le cose buone e belle che - in mezzo a tentazioni, aridità e delusioni - riempiranno la tua vita, la renderanno gioiosa, a volte addirittura esaltante. Tu lascia, perché a questo sei chiamato. Il Signore poi penserà a darti ciò che occorre, e non si lascerà vincere in generosità.

Lasciare non significa neppure che non si debbano più tenere relazioni con amici e persone in Italia. Il PIME ha messo addirittura nelle Costituzioni il dovere di "fare da ponte" e quindi collegare una Chiesa con un'altra! Però biso­gna sia chiaro "dove" tu sei e dove giochi la tua fedeltà, chi ha la priorità. Deve averlo il popolo a cui sei mandato. Quanto più ti inserirai lì tanto più la tua testimonianza e il tuo aiuto anche a chi è in contatto con te da lontano sarà efficace. E lo sarà la tua preghiera per loro; perché dobbiamo credere che non è soltanto con le lettere, gli articoli e le visite che si può fare animazione e aiu­tare persone lontane.

Concludo promettendoti di pregare perché il visa arrivi presto, e perché tu possa svolgere un servizio intenso e bello mentre attendi, anche se ciò ren­derà più difficile e duro il distacco. Compilo con fede e abbandono nel Signore e il Signore, a modo suo, ti darà cento volte tanto.

Un abbraccio fraterno.

Franco Cagnasso

Evangelizzazione e santità

Aspetti teologici relativi all'evangelizzazione

Novembre

Conferenza tenuta in inglese ai sacerdoti diocesani di Dhaka il 21 Settembre 2004, sul tema “Theological Aspects of Evangelization”. Pubblicata da “Prodipon”, rivista del’Holy Spirit Major Seminary di Dhaka. Traduzione di Banglanews.

Molti sono gli approcci possibili per tale vasto tema. Il mio è uno tra i tanti; la mia unica ambizione è di aiutare la vostra riflessione e offrivi alcuni suggerimenti.

Santità: il punto di partenza

"Dopo il Giubileo e tutti i suoi programmi, cosa faremo?" Questa è la domanda che Giovanni Paolo II rivolse alla Chiesa nella sua Lettera Apostolica “Novo Millennio Ineunte” (2001). La sua risposta è centrata su un concetto molto semplice: "Non si tratta di inventare un programma nuovo. Il programma già esiste: è il piano basato sul Vangelo e sulla Tradizione, lo stesso di sempre. Ha il suo centro nello stesso Cristo, che deve essere conosciuto, amato ed imitato, così che in Lui noi possiamo vivere la vita della Trinità, e con Lui trasformare la nostra fino al suo adempimento nella Gerusalemme celeste" (n. 29).

Questo programma "deve essere tradotto in iniziative pastorali (…). Prima di tutto, non ho esitazione nel dire che tutte le iniziative pastorali devono essere messe in relazione alla santità" (n. 30).

L'idea-chiave è che il Papa vuole che tutte le iniziative pastorali siano viste e messe in relazione con la santità. Prendo questa posizione come sfida ed opportunità per sviluppare il tema che mi è stato assegnato, e mi chiedo: possiamo mettere direttamente ed esplicitamente la missiologia in relazione alla santità? Può la santità essere presa come punto di partenza per una riflessione sull'evangelizzazione?

Possiamo farlo in due modi.

Il primo, e più comune, considera la santità da un punto di vista etico, ascetico, spirituale. La santità viene quindi intesa come un supporto necessario per la missione. Senza santità, il missionario non può toccare i cuori delle persone alle quali vuole annunciare il Vangelo. Anche quando lavora molto, se quel lavoro non è fatto in preghiera e sotto la guida dello Spirito Santo, esso non avrà successo. Testimonianza e santità fanno più di qualsiasi attività, programmi, predicazioni e insegnamento.

Un pensiero di Paolo VI nella sua Enciclica "Evangelii Nuntiandi" è divenuto popolare fra i predicatori: "L'uomo moderno ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, e se ascolta i maestri, è perché essi sono dei testimoni" (EN, n. 41)

La santità, in questo senso, è in qualche modo una “condizione indispensabile” per svolgere una corretta ed efficace evangelizzazione; e la preghiera è come il motore, l'energia che viene data alla missione evangelizzatrice della Chiesa.

L'enciclica "Redemptoris Missio" invita i missionari a riflettere sul "dovere" di essere santi, come conseguenza del dovere di rinnovarsi nella propria vocazione (n. 90).

Non posso che essere d'accordo e credo che non insisteremo mai abbastanza su questo punto.

Santità è partecipazione alla vita di Dio

Possiamo pero’ considerare anche un secondo punto di vista, e tentare di vedere la santità non solo come condizione, ma come fonte di evangelizzazione, o meglio ancora, come la ragione per la quale evangelizziamo.

Che cos'è la santità? È un buon comportamento morale? un’intensa vita di preghiera? il dedicarsi totalmente in maniera esemplare e umile? Chiaramente lo è, ma dove hanno origine tutte queste cose?

Nella “Novo Millennio Ineunte” il Papa cita un intenso e meraviglioso capitolo del Lumen Gentium, che alcuni considerano il capolavoro del Vaticano II.

Questo capitolo, prima di parlare sul dovere di essere santi, indica con chiarezza dove la santità ha origine.

"Cristo, il Figlio di Dio, che col Padre e lo Spirito Santo è lodato come 'unicamente santo', amò la Chiesa come sua sposa, consegnando se stesso per lei. Fece questo per la sua santificazione. La unì a sé come il proprio corpo e portò la perfezione col dono dello Spirito Santo, per la gloria di Dio. Perciò nella Chiesa ognuno, sia appartenente alla gerarchia, o parte del suo gregge, è chiamato alla santità, secondo il detto dell'Apostolo: ' Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione '". (L.G. 39)

La santità appartiene solamente a Dio; condivisa pienamente fra Padre, Figlio e Spirito Santo; è la divinità stessa di Dio.

Nessuno può avvicinare; nessuno può capire la santità di Dio, tuttavia la Bibbia ci dice che possiamo averne in qualche modo un'esperienza, perché è una "santità aperta". Con nostra grande sorpresa, scopriamo che Dio non vuole tenerla come un esclusivo privilegio che dobbiamo adorare da lontano, con rispetto e paura. La santità di Dio è trascendente, ma si apre a chi che non è santo, per santificarlo.

"Cristo - dice la Lumen Gentium - consegnò sé stesso per la Chiesa, per santificarla."

Per questo dovremmo intendere la santità prima di tutto come un dono di Dio. È l'iniziativa di Dio a santificarci facendoci condividere la Sua santità.

La santità deve essere capita come ciò che riceviamo e ciò che diveniamo per l'azione di Dio Padre su di noi, con l'invio del Figlio e dello Spirito Santo.

Dobbiamo anche considerare la santità come la nostra risposta a questo dono, una risposta che richiede impegno, sforzo ascetico, pentimento, dedizione. Ma la santità non è costruita in noi dal nostro sforzo; è l'attività dello Spirito Santo che porta i frutti attraverso la nostra docilità e la nostra cooperazione.

Il miglior esempio ce lo offre Maria. La grazia di Dio la fece prima santa e, grazie alla sua piena cooperazione e alla donazione di sé stessa, la rese idonea a portare il miglior frutto dell'umanità: Gesù, il Santo di Dio.

Santità umana significa essere chiamati a condividere la santità di Dio.

Conseguentemente dobbiamo ricordare che l'evangelizzazione non consiste essenzialmente nel dare corrette informazioni su Dio, né insegnare a come comportarsi, né avere una buona condotta morale. Evangelizzazione vuole dire portare alle persone la "buona notizia" che sono chiamate a condividere la divinità e la santità di Dio.

Giovanni Paolo II scrive: "Chiedere ai catecumeni: ' Desideri ricevere il Battesimo? ' è come chiedere: 'Desideri di diventare santo? '" (NMI n. 31).

Nell'assoluta libertà di Dio vi è una sorta di "bisogno" di amare. "Dio è amore" (I Gv 4:8) e Dio non può che amare.

Lo stesso deve dirsi sulla santità di Dio, che dà esistenza a un mondo meraviglioso, crea uomo e donna ad immagine di Dio, "a somiglianza di noi stessi" (Gn 1:26). Quando questa "immagine", la nostra partecipazione nella santità di Dio, è resa impura dai peccati, siamo chiamati a divenire di nuovo santi in Cristo; il che vuol dire: ad accogliere la salvezza. Gesù ci chiama "amici" e non "servitori" perché Egli condivide tutto con noi - non perché noi siamo degni di essere chiamati amici. Noi diventiamo la residenza dello Spirito Santo, lo Spirito di Santità (vedi: Gv 15:14-15, e Rm 8:9).

Il perdono è parte di questa "storia dell'amore". Poiché siamo peccatori, la santità di Dio si mostra attraverso il perdono. Siamo purificati dal sangue di Cristo come pre-condizione per diventare santi: "Cristo consegna sé stesso per la Chiesa, per farla santa" leggiamo nella Lumen Gentium.

Santità e misericordia si incontrano perfettamente in Dio.

La santità ha bisogno di condivisione

Facciamo un passo avanti.

Se siamo fatti santi, la prima radicale trasformazione compiuta in noi è un passaggio dal peccato - che è egoismo, con i suoi frutti - all'amore che è donazione di sé stessi, con i suoi frutti. Una persona santificata è partecipe dell’amore di Dio, della sua misericordia, donazione di sé, del suo essere comunicazione e comunione. Non abbiamo più paura della morte; non abbiamo più bisogno di lottare per la vita perché ci è già stata data una vita che mai perirà. Così Gesù può proclamare a noi: "Chiunque perderà la sua vita per causa mia la ritroverà" (Mt 10:39).

Partecipazione alla santità di Dio ci fa capaci di questo, di vivere costantemente con questa buona novella, di "imitare Dio": "Fatevi dunque imitatori di Dio, come figli bene amati.." (Ef 5:1).

Per la grazia di Dio noi siamo santi; è questo il motivo per cui dobbiamo vivere la santità, e dare i frutti della santità.

Il primo di questi frutti è che sentiamo come Dio sente. Come conseguenza noi "non possiamo che" condividere con altri quello che siamo diventati, quello che siamo per la grazia di Dio.

Se la santità di Dio comunica sé stessa, la nostra santità deve essere dello stesso genere. Non possiamo pensare ad una santità che non si comunica perché si preoccupa solo di sé stessa, è un controsenso, una chiara contraddizione.

Più cresciamo nella perfezione, più diventiamo intimi con Dio e condividiamo la sua santità, più sentiamo come Dio sente... e più diventiamo pieni di amore, di misericordia, di ansia di donare, di condivere con altri.

In unità con Dio, capiamo anche l'appassionato appello di San Paolo per essere "...uno stesso amore, una stessa anima, uno stesso sentire.." (Fil 2:2), e siamo desiderosi di procedere nello stesso modo di Cristo, nella kenosi o spogliamento di sé: "Gesù Cristo, il quale, sussistendo in natura di Dio, non considerò questa sua uguaglianza con Dio come una rapina, ma svuotò sé stesso…" (Fil 2:5-7). Tutti sappiamo come la kenosi o l'annullamento di se stessi richiede il nostro perseverante esercizio, il nostro sforzo ascetico, e il nostro pentimento. Tutti questi e altri requisiti della perfezione non vanno intesi come un sforzo individualistico per rispondere alla chiamata di Dio. Essi sono invece un processo con il quale noi costruiamo la comunità in "una nell’amore", come prima citato, e sono il processo della missione, della evangelizzazione.

La trasformazione graduale provocata dalla santità che abbiamo ricevuto e praticato non è precedente alla evangelizzazione; non è parallela ad essa ma procede con l'evangelizzazione.

"Sono divenuto tutto per tutti" (1 Co 9,22) è la strategia evangelizzatrice di Paolo che richiede un annullamento di se stesso per incontrare gli altri nelle loro mentalità, culture, e necessità. È l'atteggiamento di Cristo, che noi abbiamo il privilegio di condividere, perché noi siamo fatti santi e non abbiamo paura di perdere la nostra vita.

Poiché abbiamo ricevuto così tanto, non abbiamo il diritto di tenerlo per noi, perché quello che riceviamo è l'atteggiamento oblativo di Cristo.

È per questo che Paolo può scrivere ai Corinti la sua famosa asserzione: "Guai a me se non predicassi il Vangelo!" "Predicare" è una responsabilità che è stata messa nelle mie mani" (vedi. 1 Co 9,16-17).

È stato detto che la Chiesa è missionaria "per sua stessa natura". Giusto, ma perché? Precisamente perché la Chiesa è fatta santa da Cristo e la santità è per sua natura donazione di sé.

Permettetemi di ricordare ancora una volta come Paolo descrive il suo metodo e la meta del suo sforzo di evangelizzazione: "Mi faccio ogni cosa a tutti perché tutti siano salvi. Faccio tutto questo nell'interesse del vangelo, così che possa condividere le sue benedizioni" (1 Co 9,22-23). Questa asserzione può essere capita da due punti di vista: l'evangelizzazione permette ad altri di condividere le benedizioni del vangelo; l'evangelizzazione è un modo per il missionario di condividere le sue benedizioni. Paolo dice in altre parole, che se non evangelizzasse, rinuncerebbe a godere delle benedizioni del vangelo!

Evangelizzare la salvezza?

Ho parlato dell'evangelizzazione, ma solo ora per la prima volta ho usato la parola “salvi”, citando le parole di Paolo e aprendo così il discorso sulla salvezza.

"Salvezza" era il principale, forse l'unico scopo dell'evangelizzazione nei tempi passati; oggi è fonte di dubbi e domande.

È molto comune sentir dire: "Se anche chi non è battezzato può essere salvato, qual è lo scopo dell'evangelizzazione?" Oppure: "Poiché anche i non-Cristiani si salvano, perché proclamare loro il vangelo?"

La mia prima reazione a queste domande è che non dovremmo essere "superficiali" su questo punto, perche’ se perdiamo il concetto di evangelizzazione, o il concetto di salvezza nella Bibbia, resta ben poco.

Cosa vuol dire la Bibbia con la parola "salvezza?"

Molto spesso per "salvezza" noi intendiamo "salvezza delle anime", "salvezza dall'inferno dopo la nostra morte". È ciò che vuol dire la Bibbia?

Penso di no.

Molte mani hanno contribuito a scrivere la Bibbia. Molti scrissero di Dio che salvò il popolo di Israele, ma non avevano una chiara idea sulla "sopravvivenza" delle anime, e nemmeno di qualsiasi genere di punizione o di ricompensa dopo morte. Quando ci narrano la storia del loro popolo salvato dalla schiavitù in Egitto e di come Dio fece loro attraversare il Mar Rosso, certamente non vogliono dire che quelle persone andranno in paradiso, dopo la loro morte. Questo evento è salvezza perché, dopo avere attraversato il mare, essi possono seguire la legge di Dio da loro liberamente accettata, andare verso la Terra Promessa, adorare il loro Dio in dignità, divenire il libero popolo di Dio. Tutte queste cose accadono qui, in questo mondo; non domani, in un altro mondo.

Poi la rivelazione si sviluppa, ed emergono concetti nuovi, come fede nella risurrezione e anche nella sopravvivenza delle anime, con ricompensa e punizione dopo la morte. Questi sviluppi completano, non annullano, quello che era stato pensato ed insegnato prima.

Se noi consideriamo la salvezza soltanto in relazione alla vita dopo la morte, abbiamo torto.

Possiamo essere sicuri che mentre l'attenzione di Gesù va oltre questa vita mortale, allo stesso tempo nel suo insegnamento il futuro comincia oggi. Oggi noi siamo salvati, o non salvati; e lui ci dà chiare indicazioni di cosa la salvezza vuol dire, in questo mondo.

I miracoli di Gesù non sono gli spettacoli di un mago che vuole sorprendere le persone e mostrare come lui sia grande; non sono nemmeno "prove" che lui è il Messia. Sono indicazioni di cos'è la salvezza.

Come Gesù ci mostra attraverso questi segnali, la salvezza ha molti aspetti. Vuol dire liberarci da una religione che ci dà un'immagine sbagliata di Dio, facendoci credere che Dio è centrato su sé stesso e compiaciuto della nostra schiavitù alla legge. Significa la rivelazione a noi della vera natura di Dio che è amore, dicendoci che Dio vuole la nostra crescita umana e la nostra libertà nell'amore.

Salvezza vuol dire avere esperienza del perdono di Dio, che ci libera dalle paure e dalle oppressioni provocate dai nostri peccati o dai nostri sensi di colpa.

Salvezza vuol dire aprire la mano rinsecchita dell'uomo che non può più dare e ricevere. Gesù salva dandoci l'acqua che estingue la sete profonda dei nostri cuori. Salvezza vuol dire essere liberi dal potere del diavolo, che è sottomissione, divisione e paura e che ci costringe a fare quello che noi odiamo. Salvezza deve mettere i piccoli al centro della comunità e della nostra attenzione.

Quando noi capiamo, o meglio ancora, quando noi crediamo e percepiamo che la salvezza è questo nuovo genere di vita umana, trasformato dalla grazia di Dio, la vita vissuta da Gesù, possiamo porci la domanda: devo ritenere che se una persona riesce a sfuggire alla dannazione finale, essa non ha bisogno di nient'altro? È questo che Gesù insegnò e fece? È tutta la nostra evangelizzazione soltanto intesa a dare un'opportunità per sfuggire alla dannazione finale?

Una persona si salva quando è fatta santa dalla grazia di Dio, e questa santità la introduce in una nuova dimensione di amore, di donazione di sé, di condivisione. Chiaramente il ladrone crocifisso alla destra di Gesù fu salvato all'ultimo momento, e questo è un meraviglioso messaggio dell'amore di Gesù per noi, sino alla fine. Ma se questo episodio è uno splendido segno della misericordia di Dio, e un messaggio di speranza fino all’ultimo, non penso tuttavia che la vita di quel pover’uomo debba essere presa come modello di vita umana.

L'evangelizzazione è l'impegno della Chiesa a condividere la salvezza da lei ricevuta e sperimentata ogni giorno nella vita dei suoi fedeli. È una crescita in Cristo, una ricerca del vero significato della vita in Lui, un viaggio gioioso verso Dio, una lotta contro il male; un portare la croce con speranza, perché la portiamo con Gesù.

Quelli che non conoscono Gesù non ricevono questa salvezza, e noi dobbiamo proporla anche a loro per essere, d’ora in poi, salvati con loro.

Devo essere veramente santo per evangelizzare, ma devo anche evangelizzare per essere santo perché è solamente attraverso la condivisione che mi apro pienamente alla santità di Dio così da portare frutti. Quando evangelizzo, mi santifico; se non lo faccio il giudizio di Paolo vale anche per me: "Dovrei essere punito se non predicassi!"

Vi è qualcuno in questo mondo che è già "salvato" in modo tale da non aver più bisogno di nessuna evangelizzazione? Certamente questo non può essere detto di noi cristiani, nemmeno dei più santi. Tutti noi dobbiamo continuamente essere evangelizzati, a conferma e crescita di ciò che già abbiamo ricevuto, e anche per convertirci da egoismi e cecità che sempre ci affliggono. I cristiani dunque hanno bisogno di evangelizzazione... e i non cristiani no?

La Chiesa è fatta santa ed è coinvolta nel viaggio dell'umanità verso Dio; è il segno, il sacramento di quello che Dio fa in Cristo per ognuno, indipendentemente da nazione, gruppo, razza, religione, o cultura a cui si appartiene. Come può essere un tale segno, se essa stessa non comunica, condivide e mostra che è salvata con gli altri e per gli altri? Loro decideranno, poi, se accettare o no; loro prenderanno la loro decisione responsabile; ma noi non possiamo negare o sopprimere la nostra natura.

Gli obiettivi dell'evangelizzazione

Per capire il servizio di condivisione e di evangelizzazione di cui sto parlando, permettetemi di dire qualcosa su un altro aspetto della missione, che si è recentemente evoluto.

Era idea comune fra quasi tutti i missionari del passato che il loro lavoro sarebbe stato fruttuoso se, e soltanto se, fossero riusciti a portare quante più persone possibili nella Chiesa, battezzandole. Un missionario che non battezza ha fallito l’obiettivo della propria vita.

Recentemente, alcuni missionari e missiologi hanno invertito questa posizione e hanno detto che, poiché le persone possono essere salvate anche senza il battesimo, la proclamazione non è più necessaria, può essere addirittura inappropriata e dovrebbe essere sostituita dalla testimonianza silenziosa e/o dal dialogo.

Voglio ricordare che l'insegnamento del magistero accetta una diversa scala di valore fra gli obiettivi dell'evangelizzazione, ma non prende una posizione che escluda l’uno o l’altro aspetto dell'attività del missionario. Più e più volte ripete che la meta finale dell'evangelizzazione è la piena partecipazione nella vita della Chiesa che si ottiene con il Battesimo. Per questa ragione, la proclamazione viene al primo posto. Ma il dialogo, la testimonianza, il lavoro di carità nei suoi diversi aspetti, sono attività di evangelizzazione, anche se non sfociano nella proclamazione e nel battesimo.

Assumono la loro dignità non dal fatto che arrivano alla meta ideale di far conoscere ed accettare pienamente Cristo alle persone e di chiedere di essere battezzati, ma in se stesse. Sono quello che Gesù fece nella sua vita sulla terra e quello che Dio vuole che noi, la Chiesa, facciamo. Sono davvero segni della presenza, dell'amore, della cura, del perdono e della gratuità di Dio: il seminatore che semina in tutti i tipi di terreno, l'Altissimo che manda la pioggia su ognuno.

Se un Cristiano si prende cura di un Buddista invalido; se una Cristiana è una buona amica di una Musulmana; se vive con pazienza e perdono fra i non credenti, quel Cristiano o quella Cristiana stanno compiendo una missione evangelizzatrice anche se gli altri non percepiscono la loro azione come motivo per cambiare il proprio credo. La qualità dell'azione del Cristiano dipende dalla presenza dello Spirito Santo in lui/lei e nella motivazione che ha. La presenza e il comportamento di quel Cristiano gli fanno condividere la santità ricevuta dallo Spirito Santo, indipendentemente dal fatto che gli altri accettino, capiscano e siano d'accordo.

Questa posizione aperta e bilanciata del Magistero della Chiesa ci dà libertà dall'ansia che sembra agitare alcuni dei Cristiani che appartengono a Gruppi Evangelici: pensano che i non-Cristiani siano condannati se non sono battezzati, ed è questo il motivo del loro sforzo, qualche volta, di battezzare ad ogni costo. Allo stesso tempo noi non possiamo crearci un alibi dicendo, come qualche cattolico dice: "Non serve, tanto non diventeranno mai cristiani!" o: "Non occorre, si salvano nella propria religione."

Noi dobbiamo evangelizzare in ogni caso; quello che dobbiamo fare è vedere come: qualche volta la proclamazione è il modo adatto che deve essere praticato assieme alla carità, alla testimonianza ecc; qualche altra volta la proclamazione non è possibile o conveniente, ma questo non significa che la missione sia inutile o sorpassata. Come Gesù rispose ai suoi Apostoli appena prima della sua Ascensione: "Non sta a voi di sapere i tempi ed i momenti; il Padre li ha serbati nella sua potestà, ma voi ricevete forza di Spirito Santo, quando verrà su di voi; e mi sarete testimoni (…) e fino alle estremità della terra." (Atti 1:7-8).

Certamente, nella lingua degli Atti dei Apostoli "mi sarete testimoni" significa, prima di tutto, "Voi proclamerete." Ma qui voglio sottolineare un altro aspetto: il fatto che la missione nasce dalla presenza dello Spirito Santo e che agli Apostoli viene detto di non preoccuparsi dei frutti della loro testimonianza (1).

Evangelizzatori umili e fiduciosi

Cerchiamo ora di arrivare ad una conclusione ponendoci alcune domande, pastorali e spirituali, che possono venire da questi semplici suggerimenti teologici.

Vediamo noi la nostra fede e la nostra vita cristiana come una condivisione della santità di Dio, e quindi come un dono prezioso?

Pratichiamo noi un servizio pastorale inteso ad aiutare le persone a divenire libere ed a maturare, a sentire la loro fede come un magnifico dono, che arricchisce? o ci preoccupiamo di insegnare soltanto dogmi e regole da seguire, con o senza consapevolezza, solo per evitare punizioni?

Se è così, non è possibile capire la santità come sorgente della missione. La missione sarà allora vista solo come un altro dovere da compiere. Un dovere da evitare quanto più possibile, pronti ad accettare qualsiasi scusa per sfuggire a tale difficile mandato.

La missione sarà concepita solamente come un sforzo per aumentare il numero dei membri della nostra Chiesa, al rischio di cadere sotto la tremenda minaccia di Gesù: " Guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti! Andate per mare e per terra pur di fare un solo proselito e, fatto che sia, lo rendete degno della Geenna il doppio di voi!" (Mt 23:15).

Come possiamo evitare questo giudizio? Certamente, non fermando la missione che evangelizza!

Nel suo interessante rapporto alla FABC (Federazione delle Conferenze Episcopali Asiatiche) su "Ecclesia in Asia", il Vescovo Malcon Ranjith (Sri Lanka, al tempo Segretario aggiunto della Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli) dice che in Asia noi commettiamo spesso questi errori, relativamente alle attività missionarie (2):

- Pensiamo di non essere capaci

- Vogliamo vedere risultati immediati

- Lavoriamo da soli

- Pensiamo di essere troppo pochi e troppo deboli per essere efficaci

Dobbiamo superare questa mentalità - dice il Vescovo Ranjith - che ha fiducia nei numeri, nel potere, nel prestigio, per entrare nella mentalità evangelica della gratuità, della sincerità di cuore e della fiducia.

Nella stessa occasione l'Arcivescovo Thomas Menamparampil (Guwahati, India) propone agli evangelizzatori in Asia tre "icone", che presento a conclusione della mia riflessione (3).

- Prima "icona": "Il ricercatore nella notte", Nicodemo (vedi: Gv 3). E’ imbarazzato dalla sua cultura e dalla sua posizione sociale, che non gli lasciano libertà di cercare. Interroga Gesù durante la notte, non visto da nessuno, ma è un uomo retto e sincero, e Gesù gli dà pazientemente ascolto e l'accompagna nella sua ricerca. Gli Evangelizzatori in Asia devono prestare attenzione ai molti Nicodemo di questo Continente nel nostro tempo; devono sapere che: “Un uomo come Nicodemo avvicinerà solamente un Evangelizzatore che sia disponibile e che abbia il cuore aperto alle principali preoccupazioni del suo popolo". Un Evangelizzatore, pensa l'Arcivescovo Thomas, che possa capire e accompagnare la profonda ricerca di tale uomo o donna, perché anche un Evamgelizzatore superficiale può fuorviare anche un Cercatore profondo, costringendo la discussione a rimanere ad un livello superficiale.

- Seconda "icona": "Il ricettore di un dono inatteso", la Donna di Samaria (vedi: Gv 4). Va a riempire la sua brocca e scopre il Messia; e crede in lui, con il suo villaggio. "La storia di Asia in ogni secolo ha visto questo modo di accogliere in gruppo la fede cristiana. Anche oggi ciò sta accadendo fra seguaci delle religioni tradizionali. Alcune di tali comunità mostrano una sorprendente apertura al maestro inspirato che visita il loro villaggio. Nel messaggio cristiano trovano il compimento di tutto ciò che la loro società stava attendendo."

- Terza "icona": "Colui che crede al di là del gruppo", il Centurione Romano il cui servitore è guarito da Gesù (vedi: Mt 8). Eà persino lodato : "Vi dico, non ho trovato alcuno in Israele con una fede come questa" (Mt 8:10). Secondo l'Arcivescovo Thomas: "Ci sono milioni di persone nel continente asiatico che sono più vicine a questo Ufficiale Romano che a Pietro, Giacomo e Giovanni. Non conoscono formule di fede, riti e rituali, tradizioni della Chiesa e speculazioni sottili (…) tuttavia hanno fede. Fu nel vedere la fede di una donna Cananea che Gesù esclamò, "Tu sei una donna di grande fede" (Mt 15:28). Dio sembra avere un suo modo unico di rapportarsi con tali persone. Ci sarà abbastanza spazio nel Regno di Cielo per i molti che verranno da est e da ovest a sedere e banchettare con Abramo, Isacco, e Giacobbe (Mt 8:11)."

Dove una missiologia dalla vista corta non vede alcuna possibilità o alcuna necessità di evangelizzazione, un atteggiamento evangelico di condivisione scopre molte possibilità di diffondere i semi del Vangelo, e anche di percepire i segnali della festa escatologica che inizia ora.

Per poter vedere questi segnali noi dobbiamo sentire come sente Dio, il suo ardente desiderio di unire a sé tutti gli uomini e le donne. Dobbiamo condividere la sua santità che si umilia e si svuota al punto di scomparire agli occhi, per rivelarsi ai cuori.

p. Franco Cagnasso, PIME

Holy Spirit Major Seminary

Banani - Dhaka

Note:

(1) Nota aggiunta il 13 aprile 2006: su questo punto, si vedano le chiare e belle riflessioni di Benedetto XVI nell’Enciclica “Dio è Amore”: “la natura più profonda della chiesa è espressa nella sua triplice responsabilità: di proclamare la parola di Dio, celebrare i sacramenti, ed esercitare il ministero della carità” (n.25); “l’esercizio della carità è un’azione della chiesa come tale e, come il ministero della parola e dei sacramenti, è stata fin dall’inizio parte essenziale della sua missione” (n.32); “un cristiano sa quando è tempo di parlare di Dio e quando è meglio dire nulla e lasciar parlare soltanto l’amore. Sa che Dio è amore e che la presenza di Dio si sente proprio quando la sola cosa che facciamo è amare” (n.31c)

(2) Vedi: RANJITH Malcom "L’Evangélization à la Lumière d’Ecclesia" in Dossiers et documents N. 2/2003 - Eglises d’Asie N. 369, Paris, 16 fèvrier 2003, pp. 3-11

(2) Vedi: MENAMPARAMPIL Thomas "Sharing the Gift of Faith in Asia" in: Omnis Terra, Rome, n. 334 February 2003, pp. 59-74

Chiamati alla Comunione

12 dicembre

Intervista coi Fratelli di Taizè che vivono in Bangladesh. L’originale, in inglese, è stato pubblicato da “Prodipon”, rivista trimestrale del Seminario Maggiore “Holy Spirit” di Dhaka. Un ringraziamento doppio va a padre Franco che ha avuto anche la pazienza di correggere i molti errori della mia traduzione!

"Sì, puoi andare. Ma sta attento, troverai soprattutto un ambiente protestante. Vedremo se è bene mantenere i contatti con loro o no..."

Questa fu la saggia risposta che il Rettore diede alla mia richiesta di andare a trascorrere alcuni giorni presso la Comunità di Taizè.

Era il 1967 e io ero un seminarista di Teologia del P.I.M.E., a Milano. Il Rettore – P. Vincenzo Carbone - era stato molti anni missionario a Hong Kong. Ci incoraggiava ad essere aperti a esperienze nuove ma, allo stesso tempo, ci avvertiva di non essere troppo entusiasti su qualunque idea nuova. La mia prima preoccupazione era di informarlo su Taizè, per ottenere il permesso che desideravo.

* * *

Taizè, un piccolo villaggio in una regione orientale e collinosa della Francia era pressoché abbandonato quando, nel 1940, Roger Schutz, terminati gli studi in teologia protestante, venne dalla Svizzera e si stabilì la’, per una vita di preghiera.

Era tempo di guerra, e lui ricevette molte persone che fuggivano verso la libertà nella Francia Meridionale. Proprio a causa di questo, dovette poi lasciare il posto e ritornare a Ginevra, dove trovò Max Thurian, ancora studente in teologia, e altri giovani interessati ad una vita di comunità e di preghiera, nel celibato e nella povertà.

Quando la II Guerra Mondiale terminò, nel 1945, Roger Shutz con tre compagni riprese a vivere a Taizè. Abbastanza presto alcuni studenti protestanti francesi si unirono a loro. Avevano in mente un modello monastico di vita piuttosto insolito nelle Chiese protestanti. Unità ecumenica e comunione erano la loro meta e il loro obiettivo. Come? Il Signore li avrebbe guidati...

Nel giro di qualche anno persone provenienti da Chiese diverse, inclusa quella cattolica, si unirono a loro per formare una Comunità che per molti divenne un centro di ispirazione. I giovani erano attirati dalla loro semplicità, dalla bellezza della preghiera, dall'intensa condivisione che non era bloccata da differenze teologiche.

La Comunità credeva che fosse possibile amarsi l'un l'altro e proclamare insieme il Vangelo a dispetto delle nostre differenze, e così, lo Spirito Santo ci avrebbe guidato all' unità in modi imprevedibili per i quali noi dobbiamo pregare insistentemente.

Praticavano l'ospitalità, dando ad ognuno la possibilità di parlare e discutere liberamente. Proponevano modi di meditazione e preghiera nel rispetto delle varie tradizioni, spiritualità, e problemi. Le loro semplici canzoni in molte lingue rapidamente si sparsero al di fuori della comunità e furono conosciute in tutta l'Europa. Ancora oggi mi commuovo se ricordo la "Chiesa della Riconciliazione" dove molti giovani passavano la notte intera in preghiera silenziosa sentendosi chiamati a rinnovare la loro fede e il loro impegno.

Alcuni dei Fratelli di Taizè pubblicarono riflessioni teologiche. I libri di Max Thurian sulla Confessione e sull'Eucaristia mi illuminarono moltissimo durante i miei studi teologici.

La Comunità organizzò anche incontri di giovani nelle maggiori città europee. I "Gruppi di Taizè" fiorirono spontaneamente in tutt'Europa.

Quando il Concilio Vaticano II decise di invitare alcuni "osservatori" non cattolici, Max Thurian e Roger Shutz vennero a Roma ed ebbero intensi dialoghi prima con Papa Giovanni XXIII e poi con Paolo VI.

* * *

Gradualmente, la spiritualità di Taizè uscì dai confini europei, e dal 1974 alcuni "Fratelli di Taizè" sono anche presenti in Bangladesh.

Quasi ogni Cristiano in Bangladesh conosce almeno uno di loro, ma pochi possono dire cosa sono come Comunità, quale sia il loro scopo e perché stanno qui.

Questo articolo offre ai lettori i frutti di alcune ore di conversazione coi quattro Fratelli di Taizè.

Seguendo la tradizione monastica, loro si presentano solamente col nome cristiano e col luogo di nascita. Mantengono legami e appartenenza con le loro Chiese di origine, ma non la dichiarano, se non occorre.

Fratel Frank e Fratel Guillaume, entrambi olandesi arrivarono rispettivamente nel 1974 e nel 1976. Fratel Jacques, svizzero, arrivò nel 1975 e Fratel Johannes Erick, svedese, è il più giovane ed arrivò nel 1990.

* * *

--- Perché la Comunità decise di mandarvi qui? Quali erano i vostri propositi 30 anni fa?

Frank. Negli anni settanta, la Comunità, accogliendo centinaia di migliaia di giovani europei,entrò pure in contatto con persone di altri continenti. Nel 1974, durante una grande adunata a Taizè, un cristiano di Dhaka diede la sua testimonianza sulla situazione del Bangladesh, indipendente da tre anni, le sofferenze della guerra di liberazione, la disperata povertà di milioni di persone. Noi pensammo: è là che vogliamo andare!

Tre mesi più tardi partii per il Bangladesh. Conoscevo soltanto la persona che ci aveva parlato a Taizè, e avevo l'indirizzo di un prete francese, Fr. Dujarrier. Lui mi presentò al Vescovo Joachim Rozario, che ci accolse con grande cordialità. Per questo motivo i primi tre Fratelli si stabilirono a Chittagong, nel 1975.

Non eravamo venuti per organizzare niente. Incominciammo in due stanze nella soffitta di un piccolo edificio in uno slum di Jamalkanda. L'idea era pregare, possibilmente con altri Cristiani, e essere vicini ai poveri. Lo Spirito Santo ci avrebbe poi detto come esprimere la nostra vocazione ad incontrarci con gli altri, condividere, incoraggiare.

Guillaume. Tentammo di vivere una vita molto radicale. La povertà era allora anche più severa e dura di oggi. Ma il Paese era nato da poco, c'era un generale idealismo fra i giovani e il desiderio di lavorare insieme come Musulmani, Indù, e Cristiani... Col passare degli anni la situazione economica è migliorata, ma questo idealismo sembra scomparso.

Frank. La nostra casa era sempre aperta, e i bambini dello slum furono i primi a venire. Ci sedevamo a terra nella nostra piccola cappella di primo mattino, poi facevamo assieme una colazione molto frugale. Più tardi abbiamo scoperto che i fiori che I bimbi portavano per la Cappella erano rubati dal giardino della parrocchia... Dopo tre anni ci trasferimmo in un appartamento più grande perché più persone cominciarono a venire ed a stare con noi. Fra loro ricordo Moses Costa, un seminarista dell'Holy Cross, che ora è il Vescovo di Dinajpur.

--- Non avevate alcun piano, ma presto avete cominciato a raggruppare persone di chiese e religioni diverse. Come e’ accaduto?

Guillaume. Visitavo famiglie povere e ammalati negli ospedali, coinvolgendo i giovani in questo ministero. Formammo il gruppo "Il Buon Samaritano" con Cristiani, Musulmani e Indù che condividevano la stessa preoccupazione per le persone sofferenti. Donare il sangue, per esempio, era qualcosa che non avevano mai sentito e che quei giovani accettarono con entusiasmo.

Poiché allora quasi nessuno, negli slums, poteva andare a scuola, aprimmo varie scuolette. Passo dopo passo tentammo di motivare i giovani e di responsabilizzarli.

Essendo fedeli di religioni diverse, non potevamo predicare Cristo, ma condividevamo lo spirito di Cristo e del Vangelo.

Frank. Gradualmente vedemmo nuove possibilità. Organizzammo un primo incontro giovanile nei locali della Oxford Mission a Barisal, con Cristiani delle Chiese di tutto il Paese. Parteciparono anche il Vescovo Joachim e il Vescovo Mondol e la riunione ebbe un gran successo. Subito dopo raggruppammo Musulmani, Indù e Cristiani, parlando di problemi sociali e di come essere con i poveri. Era il 1976, un anno dopo l'uccisione di Mujib. La polizia era sospettosa, controllava persino le note dei partecipanti. Ma tutto andò bene, e noi organizzammo altre riunioni a Chittagong, Diang e altrove, sempre in maniera molto semplice, offrendo qualche forma di immersione nella realtà della povertà e della sofferenza.

Trovammo molte persone generose che incoraggiavamo a fare qualche cosa per il loro Paese, e a farlo insieme. Gradualmente si fecero carico dei servizi che noi avevamo cominciato. Alcuni di loro hanno mantenuto il loro spirito e ancora oggi, dopo tanti anni, sono coinvolti nel campo sociale. Alcuni Musulmani dedicati a questi servizi sono fra i frutti migliori del nostro lavoro…

Johannes. Io non ero qui a quel tempo. Mi colpisce la differenza, non nelle intenzioni ma nel modo in cui viviamo oggi gli stessi ideali. Ammiro la vita dei Fratelli all'inizio, ma penso che la stessa scelta oggi non avrebbe molto senso. Sarebbe considerato molto strano per noi stranieri vivere in quel modo. Le persone si aspettano che prendiamo iniziative, che creiamo lavoro e strutture. La situazione si è evoluta; abbiamo mantenuto lo spirito ma ora lo viviamo in un altro modo...

--- Potete spiegare come vedete questa continuità?

Guillaume. Gratuità è la parola chiave. Vivevamo davvero gratuitamente fra i poveri, e sento che lo stiamo ancora facendo, sebbene in modo diverso.

Johannes. In aggiunta, continuiamo a vivere soprattutto fra Musulmani e Indù. Noi troviamo pochissime occasioni di parlare direttamente del messaggio, ma quelli che hanno a che fare con noi sanno che siamo Cristiani e che preghiamo insieme per mezz'ora tre volte al giorno. Semplicemente andiamo nella Cappella, che è ben visibile al centro dell’area in cui abitiamo, e preghiamo. Ognuno può unirsi a noi. È stato meraviglioso scoprire come la preghiera è accettata e rispettata in Bangladesh. Loro vedono che siamo persone attive, Cristiani praticanti ed apprezzano il fatto che preghiamo.

Guillaume. Nel passato, Indù e Musulmani erano meno diffidenti e sospettosi nel venire a pregare nella nostra Cappella, c'era più fiducia.

Johannes. Le relazioni coi musulmani sono impostate sulla fiducia. C'è molto sospetto reciproco fra noi. Dobbiamo essere molto attenti ed evitare anche il minimo sospetto di trucchi e competizione, per eliminare tutti i pregiudizi che esistono.

Possiamo costruire questa fiducia con mezzi semplici. Quando un musulmano viene nella nostra Cappella e silenziosamente vi passa del tempo, solo perché trova un po' di pace, penso che questo sia un piccolo passo verso la fiducia. Senza di esso non si avanti, con esso speriamo in migliori relazioni per il futuro.

Frank. Un "pir" che vive nelle vicinanze, un uomo buono e semplice, ci ha detto: "Voi Fratelli siete veri Musulmani, perché praticate quello che la nostra religione ci dice di fare". Sono queste incoraggianti parole di fiducia.

--- Dopo qualche tempo avete lasciato Chittagong per andare altrove. Come si sono sviluppati la vostra presenza e il vostro lavoro?

Guillaume. Fratel Frank fu chiamato a lavorare in altri paesi per sei anni, e la Comunità fu ridotta solamente a due. Poiché Fratel Jacques era sempre più coinvolto nell'insegnamento delle Sacre scritture nella Chiesa anglicana e nel Seminario cattolico, decidemmo di spostarci a Dhaka. Fu una decisione dolorosa perché Chittagong ci piaceva molto.

In Dhaka spendevo metà del mio tempo in ritiri e riunioni con i giovani, e l'altra metà nelle visite agli ammalati, in particolare di TB, ed a quelli terminali.

Comprendemmo che vi era un'enorme ricchezza nella Chiesa del Bangladesh: i Cristiani vengono da molti gruppi e culture diverse. Ci siamo impegnati a far incontrare persone di gruppi diversi: Bengalesi, Santal, Mandi, e Khasia... per conoscersi ed e arricchirsi vicendevolmente. Abbiamo anche creato un centro per i Garo urbanizzati, il "Nok Mandi" perché molti di loro lavorano nella città, e soffrono molto.

Frank. Durante quegli anni mi trovavo a Calcutta. Aiutavamo le Suore di Madre Teresa, e pregavamo con loro negli slums. Quando il Governo indiano rifiutò di rinnovare i nostri visti, tornai in Bangladesh. Fu a quel punto che mettemmo in dubbio la nostra presenza e il nostro lavoro. Avevamo quasi deciso di andar via quando il Vescovo Joachim suggerì: "Fate lo stesso ministero che avete a Taizè! Prendete un luogo che sia tutto vostro, dove però anche altre persone possono stare, pregare con voi, prendere delle iniziative. Un luogo ecumenico per contribuire a preparare la futura leadership delle chiese..."

Anche l'Arcivescovo Michael Rozario e il Vescovo Mondol c'incoraggiarono, e decidemmo di tentare. E’ cosi' che siamo venuti a Mymensingh, in un luogo che appartiene alla Chiesa del Bangladesh ma che all'epoca non era usato da nessuno.

Jacques. Da allora la mia posizione divenne un poco particolare perché una riflessione comune portò alla decisione che io restassi a Dhaka. Ho vissuto ed insegnato per 15 anni nel Seminario Maggiore Cattolico; insegno anche al Seminario anglicano e in altri posti. In un certo modo sono un collegamento tra i Fratelli e le istituzioni. Incontro due volte al mese tutta la Comunità e condivido con loro l'esperienza di essere all'interno della Chiesa.

A differenza di quanto avviene per la nostra Comunità, vivo soprattutto fra Cristiani. Mi manca quindi questa dimensione di essere mandato in missione...

--- Che attività state facendo a Mymensingh?

Johannes. Abbiamo diverse scuole in alcuni slums. Il metodo è sempre lo stesso: noi cominciamo, coinvolgiamo studenti e poi lasciamo a loro, per quanto possibile, la responsabilità. Abbiamo un centro di artigianato dove possono lavorare persone con qualche handicap.

In un certo senso tutto è un po' vago, e questo ci va bene. Le persone più svariate vengono qui, coi loro guai, le loro curiosità ... Ascoltare e seguire "casi" individuo per individuo richiede naturalmente molto tempo.

Organizziamo ancora incontri della gioventù; non tanti quanti in passato, ma solamente quando e dove essi possono essere una nuova esperienza, significativa, come nel nord-ovest del Bangladesh o nel sud est, oltre Chittagong.

Frank. Il luogo incui abitiamo è bello, l'area era chiamata "Il quartiere dei Sahib"; ed inizialmente ebbi la sensazione di aver perso il contatto coi poveri. Così sin dall' inizio facemmo di tutto per portarli qui. Quando vidi che il nostro posto veniva utilizzato anche da persone con handicap, feci la pace con la nostra casa e con il giardino...

Guillaume. Abbiamo "scoperto" gruppi di Cristiani molto poveri in villaggi vicini,che erano stati lasciati senza leadership per intere generazioni. Ora potevano venire qui, incontrare altri Cristiani, e trovare una nuova speranza...

Frank. Il primo ad aprire la strada verso gli handicappati è stato Muhammad Ali, un ragazzo cieco che conosceva Fratel Guillaume. Venne da Dhaka; una mattina lo trovammo che aspettava al cancello. Invitai allora dei giovani della zona a andare in giro e a vedere dove vivevano le persone ammalate e quelle con qualche handicap. Ci portarono Nurul Hussein, paralizzato, che aveva venduto la sua proprietà nel tentativo di curarsi, ma senza alcun risultato. Era stato lasciato sull'argine del fiume a morire.

Più tardi, quando il numero delle persone con handicap aumentò, non potemmo più far fronte alle loro necessità. Chiedemmo aiuto e organizzammo meglio il nostro servizio...

Johannes. Siamo davvero occidentali "purosangue"! Stiamo parlando di quello che facciamo, ma una cosa che le persone attorno a noi vedono, ed è importante, è quello che siamo. Noi siamo una comunità.

Una cosa che piace ad un Fratello può importunare un altro; per me qualche cosa può avere valore, per un altro no. Dobbiamo perciò trovare sempre un equilibrio e questo influenza moltissimo la nostra vita. La nostra priorità non è un dato progetto, ma vivere e scegliere insieme. Piuttosto che mettere un Fratello in difficoltà noi cambiamo un'attività. Ipoteticamente, se altri tre altri Fratelli fossero venuti da Taizè, la storia della Comunità sarebbe completamente diversa; se uno di noi è sostituito, le cose cambiano.

Quelli che vivono in contatto con noi scoprono questo gradualmente, e per loro diviene significativo.

--- Se la Comunità dipende così tanto dai doni personali e dalle idee di ciascun membro, come potete mantenere la vostra unità? Non rischiate di avere una sorta di individualismo?

Frank. Essere insieme così significa avere molte discussioni, tensioni e lotte, ma il risultato è che ogni attività fatta da uno di noi è veramente un'attività della Comunità. C'è un sentimento profondo di accettazione comune e di un ministero comune, con molte espressioni.

Johannes. Vi è sempre solidarietà e consapevolezza che quello che un Fratello fa è fatto perché lui riesce a farlo, forse io non posso. D'altra parte io so bene che quello che faccio dà qualche cosa alla nostra vita comune. Ci sosteniamo l'un l'altro e mandiamo assieme avanti anche l'intera struttura di attività attorno a noi.

Frank. È un processo di apprendimento che non finisce mai, ma le sue difficoltà ci danno la forza di far fronte a eventuali delusioni. Quando non riusciamo a far qualcosa con Musulmani, Indù, Cattolici, Battisti... ricordiamo l'esperienza della nostra Comunità, e non siamo scoraggiati: cominciamo di nuovo...

--- Direste che questo è lo "stile" di Taizè? Che relazioni esistono tra la Comunità a Taizè e i Fratelli che lavorano in altri paesi?

Johannes. I nostri Fratelli sono presenti in vari paesi, ma c'è solamente una comunità. La struttura è molto piccola; le relazioni potrebbero essere descritte come "organiche". Quelli che entrano a Taizè sono formati per condividere la stessa prospettiva, la stessa sensibilità. Il processo della nostra formazione prima della Professione non è facile da definire; è il modo con cui si fanno le cose, il modo con cui si pensa. Questo ci tiene uniti più di ogni altra cosa.

Guillaume. Ci sentiamo intensamente parte della comunità. Riceviamo molte notizie, e a Taizè si aspettano che comunichiamo con loro frequentemente. Loro dicono: "Siamo felici che voi siate là. State vivendo là anche per noi". Fratel Roger direbbe che se almeno un piccolo numero di Fratelli non ha un'esperienza di vita semplice, non possiamo parlare ai giovani in Europa sulla semplicità, povertà, condivisione. Abbiamo bisogno l'uno dell'altro.

--- Come descrivereste il cuore, l’essenza della vostra vocazione e del vostro ministero?

Frank. Desideriamo che la nostra vocazione sia un segnale di amore fraterno fra le persone. Come può essere riconosciuto Cristo? Attraverso il mio amore fraterno. Questa sfida è per ogni Cristiano, prete, religioso. Dobbiamo dare alle persone un senso di: "noi siamo insieme perché Dio vuole che ci amiamo l'un l'altro e proclamiamo questo attraverso la nostra vita". Qualche volta mi chiedo se preti e pastori non possano fare di più in questo senso. Ricordo il Saveriano p. Tonino Decembrino e i ragazzi dell'ostello che andavano a pregare con lui nella piccola cappella della nuova missione; c'era un senso di appartenenza, un senso di preghiera. Non vi era la distanza che si vede in altre istituzioni.

Johannes. Abbiamo un dovere speciale in questo senso perché, con tutte nostre peculiarità, noi siamo una comunità monastica. Questo è lo specifico della nostra comunità: regolare preghiera insieme, bilanciata con il lavoro, fratellanza, tutto centrato su Cristo. Alcune cose che sono per noi ovvie non sono facili per una parrocchia o per una istituzione diversa.

Frank. La gratuità che tentiamo di praticare implica che tutti quelli che vivono con noi non sono tenuti a diventare parte di Taizè. In molte comunità religiose ci sono segni di comunione, accettazione, condivisione ma in prospettiva di essere futuri membri della congregazione. Questo non avviene nel nostro caso. Se Dio ci manda qualcuno lo accettiamo con gioia, ma noi tentiamo di crescere insieme con i giovani in Cristo senza pensare a quello che faranno in futuro. Abbiamo la grande libertà di non essere costretti a cercare vocazioni. Abbiamo visto tutti i generi di vocazioni crescere con noi, tutte diverse dalla nostra.

Johannes. In un certo senso abbiamo lo stesso atteggiamento con Musulmani e Indù. Teniamo sessioni "spirituali" regolari coi membri del centro della Comunità per chi ha un handicap. Attualizziamo il significato di quello che facciamo, riflettiamo sulla dedizione per gli altri, pratichiamo un genere di introspezione - che è piuttosto raro fra la gioventù qui - trattando con le emozioni personali, facendo esprimere quello che uno ha in se’ ... le persone sono ansiose di ricevere questi orientamenti. Forse questo è il massimo che possiamo dare del Vangelo senza parlare esplicitamente di Cristo.

Coi Cristiani, dobbiamo far fronte alla sfida dell'interiorizzazione della fede; qualche cosa di simile, con mezzi diversi, è fatta fra quelli che non sono cristiani.

--- Taizè è conosciuta per la sua spiritualità ecumenica. Volete dire qualche cosa su questo?

Guillaume. A Taizè non siamo chiamati "missionari", ma "Fratelli in missione" e noi siamo mandati anche per identificarci coi missionari locali. Abbiamo un forte desiderio di condividere la ricchezza del Vangelo che riceviamo. Durante il corso degli anni abbiamo riflettuto molto sulla nostra missione. La nostra scelta è di cooperare con gli sforzi delle varie Chiese in Bangladesh. Questo significa anche far incontrare persone di Chiese diverse. Qualche volta è molto duro, e richiede pazienza senza fine. Battisti, Cattolici, altre Chiese... non si odiano più, ma si ignorano e sono abituati a vivere separatamente. Gesù ci dice di pregare per l'unità "così che il mondo possa credere". Se siamo così divisi, la nostra testimonianza in Bangladesh è indebolita!

Johannes. Abbiamo il grande privilegio che come un gruppo di Fratelli conosciamo e teniamo contatti con tutte le Chiese nel Paese. Fra i Cattolici, i Battisti, la Chiesa di Dio... si trovano atmosfere totalmente diverse. Tutte danno testimonianza, predicano, e hanno molte attività che vanno avanti; conoscono l'esistenza degli altri e danno per scontato di non avere relazioni con loro, a meno di non tentare di convertirli al proprio gruppo - cosa che è fatta da alcuni. Siamo così pochi, e così divisi; è una vera tragedia! So che non possiamo arrivare all’unità, ma almeno possiamo conoscerci, informarci vicendevolmente su quello che facciamo e quello che pensiamo, incontrarci.

Frank. La dimensione ecumenica ed interreligiosa della vita è la conseguenza del mio essere un Fratello. Siamo chiamati per essere uomini di comunione. Lo impariamo nella Comunità, lottiamo, e gradualmente emerge una visione che diventa parte della nostra vita. Comincia nella Comunità e si apre alle parrocchie, continua fra le Chiese e fra le persone di religioni diverse, come una visione di unità della famiglia umana. Non è qualcosa deciso dal di fuori, ma qualche cosa che inizia al nostro interno.

Una delle difficoltà per praticare l'ecumenismo fra le Chiese è che viene considerato solo come una delle tante attività; non è parte di loro in quanto Cristiani. Nulla accade finche’ il cuore non e’ toccato dal fatto di essere una persona di comunione, a causa di Cristo e della Santissima Trinità. Poi tutto diviene parte di questa visione intima.

--- L'Esortazione "Ecclesia in Europa" dice che dovremmo tentare di "fare dell'ecumenismo, esattamente capito, una dimensione ordinaria della vita dell'attività ecclesiale" (n. 31).

Johannes. La parola chiave a Taizè è "riconciliazione". Riconciliazione in noi, per le nostre divisioni e ferite; riconciliazione fra le Chiese, rammendando la stoffa lacerata della Chiesa; riconciliazione dell' umanità in sé stessa. La Chiesa ha una vocazione ad andare verso ognuno con cuore riconciliato. Questo è il mistero della Trinità e della riconciliazione che Cristo ha realizzato. Ogni volta che facciamo qualcosa col nostro cuore, questo mistero dovrebbe essere manifesto.

Guillaume. Non ci verrebbe mai neppure in mente l'idea di avere una riunione che non sia ecumenica. Le persone si incontrano sempre in gruppi separati. Durante le riunioni di Cattolici, Battisti e altri ci sono insieme discorsi, programmi ecc, ma il fatto di essere e pregare insieme con fede è importante, è questo che "trasforma".

Jacques. Qui si coglie cio’ che penso sia la mia partecipazione alla nostra missione.

Vedo la mia presenza nelle istituzioni e il mio insegnamento come una sfida a portare una sorta di apertura, di interesse al mondo fuori della singola comunità.

Dopo molti anni, vedo questo come uno dei problemi principali delle Chiese in Bangladesh. C'è un mentalità di "ghetto"; c'è paura degli altri, particolarmente dei Musulmani. La Bibbia è accettata come parte della vita giornaliera, ma non come una sfida che viene da un altro mondo. Ci sono chiaramente somiglianze tra il mondo della Bibbia e questa cultura, ma noi dobbiamo aprire le menti a quello che va oltre ciò che conosciamo. Dio nella Bibbia parla particolarmente di quello che è diverso dal nostro modo abituale di pensanre e di fare.

La Bibbia non va presa come un "mantra" indù, come una parola che cade direttamente dal cielo. Insegnare la Bibbia ha una dimensione missionaria, fa che le persone pensino, e le rende capaci di cambiare. Predicare il Vangelo deve avere un effetto trasformante, dovrebbe cambiarci e renderci più attenti a Dio e agli altri.

--- Pensate che la presenza della vostra Comunità come tale sia ben accetta dalle Chiese in Bangladesh?

Jacques. L'accettazione è piuttosto buona. Come ha detto Fratel Johannes, noi abbiamo il privilegio di avere contatti con tutte le Chiese. Tuttavia... il prossimo anno sarà il trentesimo dal nostro arrivo. Più si è presenti più si è parte di un determinato panorama, si diviene una parte dello scenario cristiano, ma pochissimi s’interrogano sulla nostra presenza. Il Vescovo Joachim ci ha accettato e ci ha capito; mi chiedo se tutti quelli che ci accettano sanno anche capirci. Forse non siamo pienamente considerati come un contributo alla generale testimonianza della Chiesa.

Ma non sono sconvolto da questo fatto; mai ho pensato che abbiamo bisogno di un riconoscimento speciale. C'è un genere di testimonianza che deve essere data anche senza essere riconosciuta. Forse i frutti verranno con un'altra generazione. La gratuità non è facile, ma è un valore. I frutti non appartengono mai a noi; appartengono a Dio.

p. Franco Cagnasso, PIME