Schegge di Bengala - 2018

p. Franco Cagnasso

2018

8/12

Rischio 

8/12

Nostalgia – Anniversario - Schifezze 

23/11

Ricominciare – Elezioni - Casalingo 

7/11

Vento

17/9

Annibale - Ultraricchi

17/8

Capita - Dove andiamo? (1) - Finalmente - Dove andiamo? (2 ) - 15 agosto - Vivibilità 

9/7

Primo luglio – Saluti – Ma non capisci?

29/6

Coppamania 

8/6

Retata 

17/5

Promozione - Fratelli

24/4

Viaggio 2 – Lieto fine 

20/3

Una breccia? - Viaggio 1   

17/2

Un grido - Brontolone 

15/1

Controversie fantasma – Memoria 

168

Dhaka, 8 dicembre 2018

 

Rischio

Rispondo con questa “scheggia” a un affezionato lettore e commentatore, che a proposito di un mio scritto sulle elezioni in Bangladesh aveva chiesto (6 dicembre 2018):    

 

Caro padre Franco,

quali sono le prospettive per i cristiani?

Io sono rimasto impressionato da quello che sta succedendo in Pakistan, dove centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza per chiedere l’impiccagione di una innocua madre di famiglia, che potrebbe (ma la cosa, se ho ben capito, è stata negata dalla sentenza della Corte Suprema) avere chiesto ad altre donne cosa aveva fatto Maometto per loro.

Soprattutto, mi ha impressionato la mancanza di reazioni, di una contro-manifestazione del cosiddetto Islam moderato… mi sembra di capire che, mentre esistono molte persone che non approvano il radicalismo, ben poche sono disposte a rischiare la pelle per i cristiani.

C’è il rischio che anche il popolo bengalese si incammini per la strada del fondamentalismo e della persecuzione delle altre religioni?

        

Carissimo,

condivido la preoccupazione, credo che il rischio di cui parli ci sia. Ci sono però anche circostanze diverse. Il Pakistan è nato per dare ai musulmani una nazione, uno stato separato, per loro. L'attuale Bangladesh ne faceva parte, ma poi s'è staccato, rifiutando questo modello. Il popolo Pakistano è formato da gruppi etnici numerosi e diversi, in conflitto fra loro per motivi storici, etnici, economici, politici, ecc. ma i conflitti sono aggravati da componenti religiose: tutti musulmani sì, ma con grandi diversità di interpretazione della fede islamica, con contrasti anche molto violenti fra loro. Una miscela pericolosissima. Il contesto è dunque molto più frazionato e violento che in Bangladesh, dove c’è un tessuto culturale e religioso più omogeneo, e la tradizione dei gruppi pakistani è molto più radicale. Non è vero che non ci siano state manifestazioni contro queste tendenze, ma ovviamente sono meno spettacolari, numerose, scomposte - e quindi catturano poco l'attenzione del giornalismo. Ci sono musulmani che rischiano (e perdono la vita) per la libertà religiosa e anche per Asia Bibi. Ma fanno poco chiasso. C'è pure – come dici tu e come si trova ovunque, in ogni paese, cultura, religione - chi non è d'accordo ma non vuol rischiare. Il tema dell'apostasia (che però non è il caso di Asia Bibi, condannata e poi assolta dall’accusa di blasfemia) è particolarmente delicato, perchè la condanna a morte dell'apostata è decretata dal Corano stesso, nell'interpretazione di molti, anche non radicali. C'è chi non la condivide ma non sa come "contraddire" il Corano e tace, chi la ritiene giusta perchè è un "troppo" che mette a rischio l'Islam. Qualcuno sostiene che questa condanna era legata ai tempi, quando Islam e stato coincidevano e quindi l’apostasia religiosa coincideva con il tradimento (durante la prima guerra mondiale – e non solo – i soldati italiani che lasciavano le trincee venivano fucilati); oggi dunque non sarebbe più così e quindi la condanna coranica dell’apostata non andrebbe seguita alla lettera... ma oggi però ci sono anche molti che vorrebbero tornare a questa unità/identità, e quindi niente clemenza per il traditore...

Tornando al Bangladesh, l'aria che tira è verso un Islam più conservatore e chiuso.

L'estremismo è accanitamente combattuto da chi ha la responsabilità politica oggi, e da chi ha ereditato il pensiero che ha portato all'indipendenza: si tratta di moltissime persone di ogni categoria, anche se, non si può negare, sembra stiano perdendo terreno, e devono fare concessioni che loro stessi non gradiscono. Bisogna tenere in mente che chi combatte più efficacemente l'estremismo (e per questo finora non ha preso piede) sono i musulmani stessi: se fossero soltanto cristiani, indù e minoranze etniche, avrebbero già straperso!

In sintesi: il rischio c'è, ma la speranza che il peggio non avvenga è forte e fondata.

Un saluto cordialissimo e una preghiera

p. Franco

      

p. Franco Cagnasso   

167

Dhaka, 8 dicembre 2018

 

Nostalgia

Lasciata la parrocchia e arrivato alla PIME House, ero ancora emozionato dalla sorprendente constatazione che pochi giorni prima avevo compiuto i 75 anni di età quando, mettendo a posto carte e pasticci, è capitato in mano un ricordo della mia ordinazione presbiterale, 1969. Mi ritrovai con il pensiero a quando ormai tutti i miei compagni “ordinandi”, eccetto io, avevano in mano le  tradizionali immaginette, e dicevo a me stesso: se le preparo e poi, all’ultimo momento, i “capi” mi dicono che è meglio per me scegliere un altro mestiere? Soldi buttati! Cautelosa avarizia, con un pizzico di fastidio: provavo fastidio a pensarci.

Alla fine arriva il “via libera” e vado in libreria a cercare qualcosa. Scelgo tre o quattro “immaginette” con fotografie e frasi che mi piacciono, anche se non hanno a che fare con il mio diventare missionario prete. Che cosa vi feci scrivere dietro, ve lo dico un’altra volta. Per ora

fermiamoci a questa che ho in mano: è la foto di uno svettante campanile, sullo sfondo di un cielo limpido e di una montagna aspra e rocciosa che si trova chissà dove. La frase è di Guy de Larigaudie, un autore che allora circolava parecchio fra gli scout: “Il mondo non è proporzionato alla nostra statura, e noi abbiamo talvolta il cuore gonfio di un’immensa nostalgia del cielo”.

La sceglierei ancora, ora che ho 75 anni?

Sì. Dice che io allora sceglievo – e ho poi seguito – una strada di impegno, servizio, opere, spirituali e non, ma tutto questo non era tutto, e non era neppure il centro; nel profondo, il senso dell’infinito che mi circonda e lo struggimento del mio limite, della mia “infinita” piccolezza non mi ha mai abbandonato. Ne ho nostalgia, un desiderio che sa di non potersi mai del tutto compiere, ma ha sempre bisogno di cercare, esplorare, andare oltre. Ha bisogno di sapere che non sarà mai assopito, che non si placherà. E’ la nostalgia del cielo che vivo quando parlo con un bimbo, quando ascolto un anziano, quando aiuto un povero o m’arrabbio con lui, quando guardo un albero, un filo d’erba, viaggio in mezzo alla folla, mi angoscio per una sofferenza, per un’ingiustizia, ascolto musica; quando mi risuona nella mente il singhiozzo – l’unico -  di mio padre mentre pregavamo accanto alla salma di mia sorella, morta a 26 anni di età; quando mi stordisco guardando il mare o le montagne, quando mi siedo a pregare, quando mi rallegro e mi diverto, sempre con un sottile senso di incompletezza, di caducità, il

bisogno di “altro”. La missione, per me, è stata soprattutto ricerca. Sempre con una grande, appassionata nostalgia.

Ora questo cielo si è inevitabilmente fatto più vicino, e io spero di toccarlo non per possederlo, non per mettermi tranquillo, ma per lasciarmi conquistare, possedere dalla  gioia sempre nuova e sorprendente di esistere, di vivere, di amare, di non essere appagato.

Sì, amo enormemente la vita, per questo desidero il cielo, e non finirò mai di desiderarlo e cercarlo.

 

 

Anniversario

Giorno più, giorno meno, il 4 dicembre scorso si era appena compiuto un anno da quando il Papa venne in Bangladesh, e proprio quel giorno l’arcivescovo di Manila card. Tagle si trovava a Dhaka, dopo una visita ai Rohingya effettuata nella sua qualità di  presidente della Caritas Internationalis. – A proposito, sapete che le Caritas nazionali si trovano in 165 paesi del mondo?

I cattolici bengalesi, che pur avendone uno loro, di cui vanno fieri, non sono abituati a bazzicare con cardinali, hanno interpretato la sua venuta come un’occasione per celebrare l’anniversario della venuta di Papa Francesco. Hanno messo in cantiere l’allestimento di un museo permanente della visita papale, e hanno organizzato per Tagle una riedizione delle danze caratteristiche dei vari popoli che formano la Chiesa in Bangladesh, e che avevano effettuato davanti al Papa. Quando dico “organizzato”, dico sul serio. Organizzare normalmente è un loro punto debole: si mettono in movimento quando ormai tutto dovrebbe essere già pronto, tengono con il fiato sospeso fino all’ultimo, sembra sempre che falliranno miseramente, ma poi riescono comunque a cucire insieme lo spettacolo, o qualunque altra cosa in programma. Questa volta, davanti al cardinale, tutto bene: i microfoni funzionavano, le luci si accendevano, le danzatrici erano pronte, harmonium e tobla (tamburi) erano accordati, le danze dei diversi gruppi si sono succedute in tempi rapidi, senza inutili, interminabili intervalli,  perfino la coreografia con il fumo alla fine è partita al momento giusto... Tagle deve essersi divertito, era in forma e ha parlato con l’immediatezza, e l’arguzia che lo caratterizzano e che fanno accorrere con un sorriso contenuti di valore.

Circola ovunque la battuta da lui fatta, che oggi non si deve più qualificare nessuno come “vecchio”, e neppure “anziano”: c’è chi si offende; bisogna dire “cronologicamente avanzato”... A  noi, cronologicamente avanzati, ha suggerito di guardare con fiducia ai cronologicamente giovani, chiedendo scusa perché stiamo trasmettendo loro un mondo pieno di divisioni e odi, ma incoraggiandoli a tentare di far meglio. Dire che i giovani sono ‘la speranza del futuro” è ovvio e banale, ma cercare di stimolarli ad avere fiducia e coraggio avendo anche noi fiducia e coraggio non è così ovvio.

 

 

Schifezze

Gli storici vanno avanti anche a colpi di riletture o revisioni, per nuovi elementi storici acquisiti, o perché cambia il loro punto di vista. Il Bangladesh non fa eccezione, e un bersaglio frequente di queste revisioni sono gli eventi del colonialismo raccontati da chi aveva perso e ora vuol dire la sua. Da questo punto di vista, la storia cambia, e non poco. A sentirla sembra nuova, e ha molto da insegnare.

Poi c’è anche qualche curiosità che sa di stupidaggine – come del resto si trovano anche nei giudizi di storiografi occidentali sui paesi colonizzati. Pochi giorni fa ho letto un lungo articolo che riassume un libro il cui tema è: come mai l’Europa ha conquistato il mondo?

La risposta viene da un autore cui piace viaggiare, e quando viaggia gusta le cucine locali. Gira e gira, un bel giorno arriva in Olanda, dove scopre una cucina orribile, e gli viene una voglia matta dei deliziosi piatti indiani o cinesi. Questa scoperta dolorosa lo fa riflettere sul passato. Formaggi verminosi, pesci puzzolenti... come facevano gli olandesi e altri nord europei a mangiare certe schifezze? Impossibile che ne fossero soddisfatti.  Però non avevano alternative: le spezie orientali, che rendono la vita più bella e i piatti più buoni, venivano da lontano, erano rari e costosi. Per questo, stomacati dal loro stesso cibo, decisero di andarsele a prendere, e cominciarono le conquiste. I poveri marinai olandesi morivano come mosche mangiando carne marcia e bevendo birre fetide durante  gli interminabili percorsi marittimi, ma tenevano duro, e la loro speranza tenace fece arrivare gli eserciti fino all’Indonesia, mentre

gli inglesi cercavano spezie (e magari, per buona misura, anche oppio) conquistando l’India e sottomettendo la Cina. Chiarissimo; ma allora come mai spagnoli e portoghesi andarono in America? Certo non perché disdegnassero le spezie, o la loro cucina fosse migliore, ma perché – come tutti sanno – Cristoforo Colombo sbagliò indirizzo: voleva arrivare in India più in fretta, e senza saperlo si ritrovò in America! Invece delle spezie trovò l’oro, e si accontentò di quello, che si rivelò un’attraente alternativa.

Per buona misura – aggiungo io – dall’America arrivarono patate, mais, pomodori e tacchini – indubbiamente bene accolti dalle massaie europee...

 

p. Franco Cagnasso 

166

Dhaka, 23 novembre 2018

 


Ricominciare

E’ dal 1855 che il PIME opera in Bengala, in una vasta area che nel 1947 – con l’indipendenza dalla Gran Bretagna - è stata divisa dal confine fra India e Pakistan Orientale, poi Bangladesh. Prima prevalentemente al sud e poi passati al nord, oltre il Gange, a partire dal 1900 i nostri missionari – a differenza di quelli appartenenti ad altre denominazioni cristiane - hanno operato quasi esclusivamente nei villaggi dell’attuale Bangladesh. L’attenzione alle città è emersa negli anni ’70, quando – subito dopo l’indipendenza - parecchi missionari giovani poterono entrare: pur senza esperienza, avevano il forte desiderio di trovare “vie nuove” per la missione... Qualcuno ebbe il permesso di stabilirsi a Dhaka, poi a Bogra, e vedere che cosa si poteva fare. Dapprima gli anziani videro la città come una scelta di comodo, un rifiuto delle faticose visite ai villaggi su carri da buoi lungo interminabili strade fangose o piene di polvere. Ma, negli anni ’80, l’abbondanza di manodopera a basso costo rese conveniente collocare in Bangladesh migliaia di fabbriche, e milioni di persone affluirono a Dhaka in cerca di lavoro. Fra loro anche molti tribali, e relativamente molti cristiani. “La nostra gente viene inghiottita dalla città” ci si disse, e così una scelta che prima lasciava dubbiosi venne accolta fra le “priorità” della nostra missione in Bangladesh.

Più si lavorava e più si trovava lavoro. L’arcivescovo mise a disposizione un terreno su cui costruimmo le strutture parrocchiali a piano terra, e la chiesa di S. Cristina al  primo piano, e a fianco la casa del PIME. Di là, lo sguardo si spinse lontano, dovunque si venisse a sapere della presenza di famiglie o singoli cristiani isolati, senza assistenza pastorale. P. Baio mise gli occhi sul nascente quartiere periferico di Mirpur, P. Speziale su gruppetti  sparsi di pescatori,

fabbricatori di cestini, o impiegati negli uffici di Manikgonj. Ne nacquero il sottocentro urbano di Mirpur, che diventava un enorme quartiere ancora oggi in espansione, dove lavorarono p. Gualzetti e p. Ballan, poi p. Martinelli, con la bella chiesa “Regina degli Apostoli”, e il sottocentro rurale di Utholi, non lontano dal Brahmaputra, entrambi formati da comunità eterogenee che richiedevano un’attenzione pastorale inedita per la chiesa del Bangladesh.

Nel frattempo, a Rajshahi – città storica sulle rive del Gange - p. Cescato aveva aperto un ufficio regionale Caritas, suor Silvia un piccolo centro per ammalati, e p. Ciceri iniziava a raccogliere tribali urbanizzati, per lo più sfruttatissimi, senza casa, senza impieghi decenti, senza scuola per i figli. In vent’anni di lavoro intensissimo, creava la parrocchia di Rajshahi, che comprende tutta la città e i dintorni, con nove centri su terreni scelti e acquistati da lui, dotati di cappella, scuola, servizi vari. Era un popolo, eterogeneo e non facile da amalgamare, che nasceva dal riscatto dei più poveri. Rajshahi divenne poi diocesi, ebbe la sua grande cattedrale, e ora in città ci sono due parrocchie, entrambe affidate al clero locale.

Niente parrocchia e niente strutture invece per i “pothoshisu”, i “bambini di strada” di Dhaka, cui Fratel Beninati si dedica da oltre dieci anni: ha creato una rete di volontari di ogni religione che, solo con le proprie risorse, dedicando tempo, affetto, cure a bambini e ragazzi che vivono in strada, imparano la gioia di donare.

Anche per Dhaka venne presto il momento di passare la mano: lasciammo all’arcidiocesi la parrocchia di s. Cristina e successivamente Utholi, puntando su Mirpur e su Kewachala, di cui p. Baio, ritornato da un servizio in Italia, accettava l’incarico, trasformandolo in pochi anni in

una missione completa di strutture, scuole, ostelli, sottocentri; ora è affidata a due preti diocesani.

Anch’io diedi una piccola spinta per scuotere la Chiesa locale, che sembrava non accorgersi delle nuove necessità e opportunità missionarie. Presi in affitto un appartamento a Uttora, a pochi chilometri dal seminario nazionale dove allora risiedevo, e avviai una piccola comunità cui – con l’aiuto dei seminaristi - offrivo catechismo, Messa, e momenti di incontro due volte al mese. Ora sono subentrati i Salesiani che possono fare molto di più e stanno organizzando una parrocchia, novità assoluta per Uttora!

A Mirpur intanto maturava un’altra idea: un centro che si dedicasse specialmente ai lavoratori, che orari di lavoro e turni tengono lontani dalle parrocchie. Si pensava anche agli ex alunni della scuola tecnica di Dinajpur, per dare loro un punto di appoggio quando vengono in città per trovare lavoro. Cerca, cerca, P. Gualzetti e Fratel Cattaneo trovarono un terreno a Zirani, 35 chilometri dalla parrocchia, nel cuore di un’area industriale in continua crescita. Lì crearono il “Centro Gesù Lavoratore”, che raccoglie un gran numero di operai e operaie di svariatissime provenienze, e da dove i missionari si recano in vari posti per assistere gruppetti di cristiani lontani. Vescovi e clero locale lasciavano fare, con un po’ di scetticismo. Poi incominciarono ad andare a vedere, e si convinsero che l’iniziativa era indovinata. Ora ci chiedono di realizzarla anche in altre città...

Ultima tappa, per ora, la consegna alla diocesi della parrocchia Regina degli Apostoli di Mirpur. L’abbiamo ufficialmente lasciata l’11 novembre scorso, con soddisfazione, riconoscenza e un poco di nostalgia.

E adesso? Ci guardiamo attorno: nella diocesi di Dhaka ci rimane soltanto Zirani? L’arcivescovo ci ha suggerito tre zone in cui potremmo ricominciare. Se ne avremo le forze, lo faremo presto. Anche Fratel Beninati ha affidato la direzione del “suo” gruppo e sta tentando di ripartire, forse a Chittagong.  Speriamo...

 

 

Elezioni

Cinque anni fa le elezioni parlamentari furono precedute da disordini gravissimi, con bombe incendiarie gettate negli autobus affollati, interminabili blocchi di ogni circolazione, e altre amenità del genere. Ma il partito al potere, Awami League (AL), non cedette di un millimetro, e organizzò le elezioni come le voleva. Il principale partito di opposizione, BNP, per protesta ritirò i suoi candidati, così AL s’impossessò del parlamento, pregando un terzo attore della vicenda, l’ondivago Jonota Party (Partito Popolare), di svolgere il ruolo di oppositore.

Cinque anni al potere senza opposizione organizzata hanno cambiato di molto il quadro politico e sociale. Siamo in pieno boom economico. I leader del principale partito islamico, Jamaat-ul-Islam, sono stati processati e impiccati per crimini compiuti  durante la guerra del 1971; la leader del BNP è in carcere. Condannata a 5 anni di reclusione, ha fatto ricorso chiedendo

l’assoluzione, e recentemente la Corte di livello superiore ha portato la condanna da 5 a 10 anni, mentre vari altri processi l’attendono, per altre accuse di reati. Ultimamente le retate di membri e leader del BNP non si contano più, le carceri sono stracolme di persone, soprattutto giovani, catturati per impedire manifestazioni e per intimidazione. In non pochi casi, la polizia ha denunciato per violenze persone residenti all’estero da anni, o a letto per sopravvenuta paralisi... 

Ma la gente sperimenta una pace relativa, la classe medio-alta apprezza la rapida crescita economica, e diversi servizi pubblici – soprattutto strade – sono in corso di miglioramento. A Dhaka enormi pali di cemento crescono a fianco o al centro di strade affollatissime: reggeranno la nuova lunga metropolitana sopraelevata, che si attende con curiosità e speranza.

Le opposizioni hanno creato una coalizione variopinta di idee e tendenze, promettendo che questa volta – qualunque cosa succeda – dalle elezioni non si ritireranno: un coacervo tenuto

insieme dalla paura. In tutto, la coalizione di maggioranza e quella di opposizione, più qualcuno che corre per conto proprio, contano 126 (centoventisei) partiti, molti dei quali ovviamente piccolissimi, e neppure registrati come tali;  si accodano ai partiti maggiori per ottenere posti come candidati.

Intanto, continua la caccia agli spacciatori di droga: oltre 400 persone uccise negli ultimi 10 mesi, in cosiddetti “scontri a fuoco” con le forze dell’ordine.

La data delle elezioni era stata fissata al 23 dicembre; le opposizioni hanno chiesto di rinviarla di un mese, la Commissione Elettorale ha rinviato di una settimana: 30 dicembre.

Severe norme a proposito della propaganda elettorale, emanate qualche anno fa, stabilivano fra l’altro che i cartelli elettorali dei candidati fossero solo in bianconero e di piccole dimensioni; niente colla sui muri. Ne seguì un periodo in cui, per le elezioni locali, sventolavano ovunque fogli con nomi, facce e simboli attaccati a lunghi fili sopra le strade, sui portoni, ai cavi telefonici, di internet, ecc.. Ora sono tornati i colori su grandi fogli appiccicati ovunque e – guarda caso – sono tutti della maggioranza, che può permettersi di non osservare le regole.

Come andrà a finire? L’opposizione sembra debolissima, ma alcuni sostengono che si è defilata per sfuggire ai maltrattamenti; al momento giusto verrà fuori dall’ombra e avrà l’appoggio delle innumerevoli persone stanche della corruzione e delle prepotenze. Le minoranze hanno paura.

 

  

Casalingo

Se qualche amico dall’estero viene a trovarci, siamo contenti. Addirittura deliziati se in valigia mette qualche salame, formaggi, e caffè. Si accettano anche cioccolato fondente e altre leccornie non troppo sensibili al caldo...

Volenti o nolenti, tutti devono effettuare la prima tappa a Dhaka. Così gustano le strade deserte se arrivano entro le cinque del mattino o partono alle 2 di notte, mentre gustano le delizie del traffico indescrivibile della capitale nelle visite che faranno durante il giorno – e non le dimenticheranno facilmente. Sbarcati e ritirate le valigie, qualcuno (di solito l’amico missionario che vi ha invitato) vi accompagna alla “PIME House” che ora, dopo qualche anno di sonnolenza per lo scarso uso, ha ripreso vita. Vi abitano i dodici giovani di college che cercano la loro strada nella vita, l’educatore p. Francesco, i giovani padre Brice (camerunese) e p. Papu che studiano il bengalese, quasi sempre qualche ospite che risiede con noi mentre studia, o preti diocesani di passaggio a Dhaka per vari motivi. Ma soprattutto, da qualche giorno in qua, chi viene ha l’inestimabile fortuna di incontrare il sottoscritto se, assentatosi per qualche ragione, non sta vagando in altre aree del Bangladesh. Sì, se non sono assente, sono io a fare “gli onori di casa”, perché sono diventato – o meglio – sto cercando di diventare “casalingo”, con il solenne titolo di “Rettore” della casa. Non penserete certo di scegliere la stanza che volete: no, decido io. Non mangerete all’ora che vi piace: dico io quando sono i pasti e quale il menu. Se vi manca qualcosa, avete il permesso di comprarvelo – ma nel caso non sappiate come fare, potete ricorrere a me – che troverò qualcuno a cui farlo comprare. Volete sapere se si può bere l’acqua del rubinetto? Vi darò informazioni precise e sicure.

Vi risparmio la lista delle mie incombenze: sto ancora imparando quanto sia lunga. Ma non temete, c’è sempre qualcuno a cui posso far fare quello che vi serve. Se poi volete dare una mano anche voi, penso che non mi opporrò.

Ma spero proprio che, come finora è sempre successo con i miei predecessori, vi troverete bene, si faranno interessanti chiacchierate, si scambieranno informazioni di ogni genere. E soprattutto, siate benevoli: sto imparando un nuovo mestiere.

  

p. Franco Cagnasso 

165

Dhaka, 7 novembre 2018

 

Vento

“Eccoli qua, gli eroi dell’India!”. Con un gruppo di 15 seminaristi del PIME che studiano filosofia, mi trovo alla stazione di Pune (India), spaziosa, pulita e quasi vuota per attendere il treno che ci porterà a Khandamala, sulla linea che da Pune scende a Mumbay. Là saremo

ottimamente ospitati dalle “Suore di Gesù e Maria” in un tranquillo posto di media montagna per alcuni giorni di ritiro spirituale. “Gli eroi dell’India”, come mi sussurra ironicamente uno dei seminaristi, sono due giovani che attraversano rapidamente l’ampia biglietteria, guardandosi con aria arrogante. Indossano la stessa maglia giallo-arancione. “Chi sono, i vigilantes?” domando. “Sì, si sono proclamati guardiani dell’induismo “autentico”. Hanno picchiato e anche ammazzato musulmani per aver macellato una mucca, hanno assaltato villaggi cristiani. Se dicono alla polizia di arrestarti, la polizia prima ti mette in galera, poi chiede loro quale sia l’accusa: la legge la fanno loro...”. Un altro seminarista che ascolta viene dallo stato di Orissa, e aggiunge che uno dei villaggi distrutti è molto vicino a dove abita la sua famiglia. Queste notizie le conoscevo, ma dieci giorni in India, un’occhiata ai giornali, qualche chiacchierata, articoli, discorsi, fanno capire che l’India dai mille volti, ritenuta tollerante, sostanzialmente capace di accogliere diverse religioni, tenendo una posizione che noi in Italia definiremmo “laica, ma non laicista o antireligiosa”, sta cambiando. L’induismo è apertamente usato come strumento per vantaggi politici, e per alimentare un nazionalismo integralista fino a pochi anni fa ritenuto in calo, quasi un residuato oscurantista. “O indù o fuori dall’India”, si sente dire, e i vigilantes non esitano ad accusare e portare in tribunale persone che si siano convertite ad altre religioni, o che predichino una religione diversa. Le divisioni di casta – proibite dalla costituzione - riemergono senza “censure”, alcuni stati stanno facendo di tutto per espellere dal loro territorio altri indiani, se provenienti da uno stato diverso... Non manca certo chi si oppone a queste tendenze: la reazione all’ondata di stupri e violenze sulle donne verificatisi in questi ultimi tempi, o più probabilmente venuti alla luce anche se in atto da secoli, è un segno che molti sanno anche rimettere in discussione tradizioni culturali e religiose non più accettabili. Ma l’atmosfera è tesa, e sembra irreale, di fronte all’enorme sviluppo economico, tecnologico, edilizio, nelle comunicazioni, ecc. che l’India sta vivendo. 

Il vento è cambiato, e c’è aria di bufera.

 

Aggiunta fuori tema: nella scheggia “Dove andiamo?” (1), di qualche settimana fa, ho fatto un riferimento alla guerra che ha portato alla nascita del Bangladesh, scrivendo che  è stata combattuta nel 1978. Errore grave! L’anno dell’inizio e della fine di quella guerra, e l’anno dell’indipendenza del Bangladesh, è il 1971. Chiedo scusa.

 

p. Franco Cagnasso  

164

Dhaka, 17 settembre 2018

  

Annibale

Veniva spesso in Bangladesh, prima per lavoro (prodotti chimici farmaceutici) poi, dopo aver conosciuto il PIME, per amicizia e per il suo interesse alla nostra missione. Non ricordo come ci siamo incontrati; per quale motivo fui io ad accompagnarlo a visitare alcune nostre missioni, e così avemmo occasione di conoscerci meglio. Fu allora che mi confidò un suo desiderio: far nascere, o dare un sostegno consistente ad un’opera a favore di ammalati poveri. Quasi per giustificarsi, spiegò: “La vita mi ha dato tanto, tantissimo, in tutti i sensi; anche economicamente ho avuto più di quello che avrei mai pensato. E poiché questo è avvenuto con il mio lavoro nella chimica farmaceutica, vorrei ora “restituire” aiutando qualcuno che è ammalato, e ha bisogno di medicine.” Aggiunse che un suo amico e collega molto caro sarebbe stato contento di unirsi all’iniziativa. Parlammo a lungo, più volte, esaminando varie possibilità. Visitammo insieme il “Centro Assistenza Ammalati” (CAM) di Rajshahi, gli raccontai la sua storia e descrissi il tipo di servizio che svolge, gli presentai le suore, e – poiché mi ispirava piena fiducia ed era competente - gli mostrai come teniamo l’amministrazione, parlammo di entrate e spese, di dipendenti e loro formazione... Imparai molte cose ed ebbi un bel po’ di ottimi consigli. Annibale ne parlò con il suo amico e insieme decisero: aiutiamo il CAM; subito acquistarono il furgone-ambulanza di cui avevamo bisogno. Mi disse che apprezzavano obiettivi e metodi del CAM: assistere ammalati poveri e smarriti nella giungla delle strutture sanitarie del Bangladesh, perché possano farne uso senza essere troppo sfruttati, sostenere i malati di tubercolosi con medicine, riposo, buon cibo, in un ambiente di fraternità e servizio. Gli piaceva pure che l’opera fosse nata e continuasse in collaborazione fra suore di Maria Bambina, PIME, e diocesi.

Per qualche anno fu “l’angelo custode” che scrutava i conti faticosamente messi insieme da suor Berchmans e da me, e ci dava sicurezza. Tornò più volte a visitarci: una volta gli scioperi ci bloccarono per una settimana intera al CAM, e non ci mancò il tempo per chiacchierare; era coinvolto in sostegno a missionari del PIME anche in Italia, Myanmar, Guinea Bissau... Gli chiesi altri consigli, a proposito dell’ostello per i Marma buddisti che da anni aiutavo, e andammo insieme a visitarlo. Ne fu entusiasta, toccato dalla loro accoglienza, e si persuase che il responsabile, Mong Yeo Marma, era una persona seria, di cui ci si poteva fidare. Aiutò anche loro e mi chiedeva spesso loro notizie.

Il terzo passo fu Snehonir, la comunità per “portatori di handicap” insieme a normodotati molto poveri e/o senza famiglia. Anche lì, “inchiesta accurata” su conti e amministrazione, seguita da una sentenza che mi consolò: sì, stai facendo proprio come un buon padre di famiglia, che guarda all’oggi e al domani con prudenza e buon senso... Fra questi giovani trascorremmo le nostre ultime giornate insieme, nel febbraio scorso, in occasione del “giubileo”: 25 anni erano 

passati da quando il primo bimbo, pochi mesi di età e paralizzato dalla poliomielite, era stato accolto dalle suore e dal parroco senza soldi, senza progetti, senza posto... proprio soltanto perché nessuno sapeva rispondere alla domanda: “Che ne facciamo del piccolo Robi?”. Annibale era presente quando ragazzi e ragazze, piccoli e grandi (qualcuno in carrozzella, con le stampelle, o non udente, o cieco...) si scatenarono in una danza che espresse fino a tarda sera la loro gioia di vivere, di essere insieme, di sentirsi liberi... Ci volle poco perché vincesse la naturale esitazione: anche lui salì sul palco, a danzare insieme a loro, in un girotondo che sembrava non dovesse finire mai.

Annibale voleva sapere, calcolava, prevedeva, metteva i puntini sulle i... ma non solo. Una sera parlammo del progresso della medicina in Bangladesh, e della chirurgia che compie “miracoli”, ma tutto a prezzi inaccessibili per la maggioranza... La mattina seguente, dopo la Messa chiacchieravamo in attesa della colazione, quando una donna dall’aria triste – una Santal -  venne a salutarmi: “Padre, ritorno a casa. Benedicimi e prega per me” mi disse. Era

venuta al CAM  per un controllo e aveva saputo che occorreva un’operazione al cuore. Ma con quali mezzi? Mentre se ne andava, Annibale mi chiese chi fosse e glielo spiegai. Rimase a lungo in silenzio, poi mi disse:  “Possiamo farcela, accompagnatela dal chirurgo”. Per Michael...

Gli avevo parlato di questo giovane Tripura che era arrivato all’università nonostante una povertà estrema, il papà alcolizzato, le invidie del villaggio... gli avevo trovato una borsa di studio, ma ora annaspava perché s’era messo in testa di far venire a Dhaka anche le sorelle e il fratello minore, di farli studiare, ma non ce la faceva. Gli dissi anche che non riuscivo a sbloccarlo dalla sua chiusura, da silenzi insopportabili, da decisioni avventate che lo mettevano nei guai: “A volte sono proprio stanco, ne ho abbastanza...” Annibale non disse nulla, poi mi scrisse da Milano: “Come sta Michael? Non lasciarlo, che cosa farebbe nella bolgia di Dhaka se non si appoggiasse a te? Abbi pazienza...” E la mia pazienza fu poi sostenuta dal suo aiuto perché anche le sorelle e il fratello potessero studiare.

Ci ha lasciati all’improvviso il 27 agosto scorso. Pochi giorni prima mi aveva scritto che – nonostante le restrizioni poste dal governo – sperava ancora di poter tornare con me a trovare i Marma, vedere i loro progressi...

Il mio primo pensiero fu per la famiglia, e per la moglie, di cui non mi aveva mai parlato a lungo, ma a cui tante volte si riferiva lasciando trasparire grande affetto e grande stima. “Le donne hanno spesso una marcia in più – mi disse una volta – come mia moglie...” Fu lei, Isabella, a darmi subito la notizia, perché Annibale parlava volentieri del Bangladesh. Ne fui commosso e ora penso che anche l’incontro con Annibale sia fra le tante cose belle che la vita ha dato pure a me.

 

 

Ultraricchi

Un’attenta lettrice mi ha scritto che le grandi opere in corso in tutto il Bangladesh, di cui scrivo nella scheggia “Dove andiamo? (1) richiedono tantissimi soldi: da dove arrivano?

Il suo sospetto è che la sorgente – paradossalmente – si trovi nel deserto, cioè in Arabia Saudita. Non sono un esperto e non so dare una risposta documentata. Però, prima di

abbozzare una risposta per localizzare la sorgente, faccio un cenno al punto di arrivo – che ovviamente non è uno solo. Include infatti un certo numero di persone il cui portafoglio (e

conto in banca) è stato attentamente scrutato, per farne una classifica. Gli “scrutatori”, che certamente hanno serie motivazioni scientifiche, appartengono a un centro di ricerca chiamato “Wealth-X”, situato a New York. Secondo loro, chi dispone di oltre 30 milioni di dollari “investibili” (quindi la casa in cui abitano, le auto personali, i soldi per comprarsi il gelato non sono inclusi...) può rientrare nella UHNW (Ultra High Net-Worth), l’elite degli “ultraricchi”. Sempre secondo loro, dal 2012 al 2017 il paese in cui il numero di persone che appartengono a questo “Olimpo” della ricchezza è cresciuto, in percentuale, più rapidamente, è il Bangladesh: 17.3%.

Sorpresi? Lo credo bene! Mi sembra di sentire la voce di cara amica che da anni mi aiuta tanto dall’Italia: “Ma sei matto? Non scrivere queste cose! Più nessuno ti aiuterà: ormai siete ricchi, è qui in Italia che siamo al disastro...”

La mia informazione dice pure che al secondo posto nella crescita percentuale viene la Cina, poi Vietnam, Kenya, India, Hong Kong... E in assoluto? Del Bangladesh non parla: presenta la lista dei primi 10, con in testa gli Stati Uniti (79.595 ultraricchi), seguiti da Giappone, Cina, e via via fino al decimo posto, dove si trova l’Italia.

L’Italia?

Sì. Così dice “Wealth-X”, con sede a New York.

Sono partito dalla domanda: la sorgente dei soldi quale è? Per la risposta, ci risentiamo alla prossima “scheggia”.

   

p. Franco Cagnasso

163

Dhaka, 17 agosto 2018

 

Capita
Capita che si sta bene attenti a camminare nel cortile della parrocchia, perché le abbondanti piogge quotidiane rendono scivolosissimo il cemento, arricchito – nelle zone più umide - da fanghiglia viscida. Poi alcuni ragazzi litigano e tu vai a vedere che succede, senza pensare alla fanghiglia. Caduta epica. Un gran mal di schiena che mi offre la scusa per lavorare meno e stare più a lungo sdraiato. E ritarda più del solito l’uscita delle schegge.
Un consiglio: in casi analoghi, non usate il riksciò, mezzo del tutto privo di molleggi e capace di far contare – anche a chi non ne ha voglia - tutte le numerose buche che rallegrano le strade...

 
   
Dove andiamo? (1)
Il Paese sta vivendo una crescita economica impressionante. Grandi opere pubbliche da tutte le parti: un secondo ponte sul Gange/Brahmaputra per collegare est e ovest anche al sud; allargamento strade di grande transito, centrale atomica ai margini degli ultimi resti della famosa giungla del Bengala con le sue tigri, metropolitana sopraelevata a Dhaka, nuovo aeroporto internazionale in programma; si parla anche di future “case popolari”... e molto altro.
Il parlamento ha vita facile, perché alle scorse elezioni l’opposizione non ha partecipato per protesta, e tutto è in mano a un unico partito.
A fine anno, o inizio 2019, si svolgeranno le elezioni parlamentari.
La capo dell’opposizione è in carcere per corruzione, ma per buona misura ha altre 25 o 26 diverse accuse che aspettano sentenza. Sono in carcere un buon numero di oppositori, anch’essi con diversi capi d’accusa. Manifestazioni di protesta? Ogni volta il permesso viene rifiutato per ragioni di ordine pubblico, e si reprime duramente chi tenta di scendere in strada. Permessi solo i raduni oceanici del partito al potere.
Nei mesi scorsi, gli universitari si sono organizzati per chiedere la revisione del sistema di quote riservate agli impieghi in posti pubblici. Attualmente il 62% dei posti è riservato ai “combattenti per la libertà” nella guerra del 1971: per tenere aggiornate le liste, ogni tanto si abbassa l’età che il candidato al posto doveva avere in quell’anno per aspirare ora al titolo di combattente. Siamo scesi a 12 anni e 6 mesi, ma si parla di abbassare ancora. Stesso diritto ai figli e ai nipoti dei combattenti. Poi ci sono le quote di varie minoranze. In pratica, fuori quota ci sono poco più del 10% dei posti. Il movimento “antiquote” – non violento - dapprima è stato snobbato; poi hanno iniziato a intervenire le “squadracce” (per gli italiani che conoscono la loro storia del XX secolo, non occorre spiegare di che si tratta). Poi la Primo Ministro spiazza tutti dichiarando che il sistema quote sarà completamente abolito; il Movimento esita, ma poi salta fuori che una sentenza dell’Alta Corte (o era la Corte Suprema?) tempo fa avrebbe sentenziato che queste quote non possono essere modificate. La Primo Ministro proclama di voler obbedire, il movimento riparte, tornano le squadracce cha vanno giù duro, appoggiate dalla polizia. La Primo Ministro, parlando d’altri argomenti, fa un accenno di invito ai giovani del suo partito a evitare “eccessi di zelo”. Naturalmente, il motivo della repressione è sempre uguale: il Movimento non è apolitico come dice, in realtà è contro il governo, e viene strumentalizzato dall’opposizione; anzi, un ministro dice che fa pensare ai terroristi. Uno per uno, in pochi giorni, i capi – studenti universitari senza passato politico – vengono arrestati, torturati, trattenuti in carcere, e si trovano sul capo una valanga di accuse. Il Movimento sbanda e si affloscia.
La campagna antidroga che era partita alla grande con oltre 250 morti ammazzati in pochi giorni, deve aver perso un po’ di vigore; ma i giornali più scrupolosi continuano a dare ogni giorno un angolino per dire che ieri altri 2, oggi 5, domani vedremo, presunti spacciatori sono stati uccisi. Di un famigerato capoccia, membro del Partito, il cui nome si trova in tante inchieste e relazioni della polizia, si continua a dire che “se risulterà davvero colpevole verrà senza dubbio arrestato”. Per ora pare che non sia risultato “davvero colpevole”. (continua). 

 

      
Finalmente
In Bangladesh le “vocazioni” sono asimmetriche: relativamente numerose quelle maschili, per diventare preti diocesani o religiosi (Santa Croce, Oblati di Maria Immacolata, Terz’Ordine Regolare di S. Francesco, Gesuiti, Salesiani... anche al PIME va qualche briciola), in calo quelle femminili, che contano parecchie congregazioni di origine straniera e tre di origine locale. Le Missionarie dell”Immacolata, qui note come “PIME Sisters”, hanno avuto una buona crescita, ormai le straniere sono uno sparuto piccolo resto; ma ultimamente la sorgente sembrava asciutta: da sette anni nessuna giovane pronunciava i primi voti. Finché, recentemente, le Suore hanno rispolverato i libri con la celebrazione liturgica, lucidato a specchio la chiesa parrocchiale di Mirpur, decorato in tanti modi, abbondato con fiori e collane di fiori, preparato per bene canti e danze, prenotato un pranzo con i fiocchi – tutto con il massiccio aiuto dei giovani della “Comunità formativa del PIME” (comunemente chiamati “seminaristi”). Poi, il 15 agosto, Cecilia, Happy e Merina hanno posto fine alla carestia, pronunciando i voti ed entrando nell’Istituto missionario. Auguroni! 

 

 

Dove andiamo? (2)

Ultimi giorni di luglio. Sul bordo della strada che mena all’aeroporto, una ventina di studenti delle superiori aspetta l’autobus. Il quale arriva, come sempre, per non perder tempo, non si ferma del tutto, e meno ancora sul bordo, ma in mezzo alla strada e costringe gli studenti a schizzare in avanti per salire. Arriva un altro autobus della stessa compagnia, come al solito sorpassa sulla sinistra (qui la guida dovrebbe essere sulla sinistra, quindi il sorpasso dovrebbe essere sulla destra), travolge i giovani uccidendone due e ferendone gravemente nove. I testimoni diranno poi che i due autobus, più un terzo, stavano facendo una corsa fra loro per raggiungere prima i punti di imbarco dei passeggeri. In un baleno la notizia corre fra le numerose scuole della zona e gli studenti s’infuriano. Bloccano la grande strada, vandalizzano bus e auto, picchiano alcuni autisti. Sembra una fiammata di rabbia come spesso ne avvengono, ma gli studenti dichiarano di averne abbastanza, e nei giorni seguenti inventano un’originalissima forma di protesta. Si distribuiscono in alcuni punti chiave di Dhaka e altre città, per dirigere il traffico secondo le regole. Fermano i mezzi, esigono di vedere le patenti e altri documenti, se non sono in regola fanno parcheggiare il mezzo e mandano a piedi l’autista (con i passeggeri); fanno osservare i semafori, rispettare gli stop... cose incredibili! Dapprima, quasi tutti sorridono, e la gente incoraggia i giovani, offrendo gelati e applausi. Il governo promette “punizioni esemplari” agli autisti indisciplinati, ma le leghe degli autotrasportatori non gradiscono e proclamano uno sciopero. Primi pestaggi. Tornano le “squadracce”, questa volta meglio camuffate per far finta di non essere chi sono. Attacchi, in qualche caso contrattacchi degli studenti – e/o degli infiltrati. Il governo  invita gli  studenti a tornare alla disciplina di prima (!?!); proclama anche una “Settimana del traffico” in cui gli agenti della strada faranno pubblicità alle regole e saranno severissimi. La Primo Ministro visita in ospedale i feriti – solo quelli del suo partito. Anche per questo movimento, accuse di strumentalizzazioni, diffusione di notizie false, e di post “provocatori” e antigovernativi. Ripartono gli arresti. La protesta si disperde e spegne. Il traffico torna “normale” e i morti si contano di nuovo come prima.

La diffusione di notizie false è reato punibile, da qualche tempo (la falsa testimonianza in tribunale non lo è...). Per criticare il governo, bisogna parlare di errori e comportamenti negativi. In altre parole, per criticare il governo bisogna diffondere notizie false – reato punibile. Ma perché inventare notizie false? Certamente perché “some vested quarters” (alcuni particolari ambienti) hanno interesse a farlo, interessi biechi. Anzi, non c’è dubbio che facciano parte di complotti per distruggere la democrazia e per fare spazio ai nemici della patria, quelli che si sono opposti all’indipendenza. Ma questo è inammissibile, e chi lo faccia, fosse pure un’attrice famosa che difende gli studenti, o un fotografo rinomato nel mondo, o un luminare degli studi legali, che ha combattuto per l’indipendenza, va duramente perseguito. 

 

 

15 agosto

“Buon ferragosto”, mi saluta al telefono un’amica dall’Italia. La deludo dicendo che qui – incredibile ma vero - il Ferragosto non c’è.

Non c’è, tuttavia  il quindici di agosto non è affatto un giorno qualunque: in Bangladesh è giornata di lutto nazionale, perché in quella data, nel 1975, il padre del Bangladesh, Mujibur Rahman, venne ucciso e con lui 14 parenti e persone del servizio. Le commemorazioni si fanno più solenni e organizzate ogni anno. Ma il 15 di agosto, il partito d’opposizione festeggia. Come mai? Non può non farlo – nonostante il dolore per la morte del 1975 – perché 74 anni fa in quella data nacque una bimbetta che divenne poi l’attuale capo dell’opposizione che, fra i 25 o 26 capi d’accusa per cui è in carcere da sei mesi, ha anche quello di “falsificazione della data di nascita”. Non sarebbe nata il 15, ma si sarebbe inventata quel compleanno per poter legittimamente esimersi dal dovere nazionale di essere addolorati e far festa con i membri del suo partito.

 


Vivibilità

Una delle tante agenzie che si preoccupano di compilare classifiche mondiali, ha dichiarato che quest’anno la città in cui si vive meglio al mondo è Vienna, seguita da Melbourne. La città in cui si vive peggio è Damasco, seguita da Dhaka. Non chiedetemi il perché, mi manca lo spazio per spiegarlo.

 

p. Franco Cagnasso

162

Dhaka, 9 luglio 2018

 

Primo luglio

La sera del primo luglio 2016, cinque giovani terroristi di matrice islamica assalirono un ristorante nel quartiere Gulshan a Dhaka, con la precisa intenzione di massacrare i non musulmani. Uno per uno, fecero ai presenti l’esame: recitare qualche versetto del Corano. Liberarono tutti quelli che sapevano farlo eccetto uno: un giovane di 20 anni che, essendo musulmano, e potendo recitare i versetti, volle rimanere accanto alle due amiche con cui si trovava. Vennero uccisi loro tre, insieme a nove italiani, sette giapponesi, e due poliziotti. La mattina seguente, una squadra speciale dell’esercito passò all’attacco, uccidendo i terroristi.

A due anni dalla tragedia, l’Ambasciata italiana ha organizzato una cerimonia commemorativa molto semplice, invitandomi a guidare una breve preghiera, che ora propongo come scheggia.       

“Viene l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio”. Nel Vangelo di Giovanni (16,2) Gesù pronuncia queste parole poco prima della sua stessa morte, inflittagli in nome di Dio, a difesa della struttura di potere religioso e del potere politico del momento. Esprimono un aspetto particolarmente sconcertante, e odioso, dell’avvenimento che ora commemoriamo: vite stroncate con ferocia da persone che dissero di agire in nome di Dio, e di volersi guadagnare così il paradiso.

Accanto ad esse, voglio richiamare, dal libro biblico della Sapienza, altre parole che  indagano sulla realtà ingiusta e assurda vissuta da innumerevoli persone lungo tutta la storia, vittime di tante forme di fanatismo sia anti-religioso (come quello cui fa riferimento la Sapienza), sia religioso, che ha spinto a infierire sui miti, su chi desidera opere di giustizia e di bene, su chi si rifiuta di essere partecipe della violenza e del settarismo.

 

La Sapienza si riferisce agli “iniqui” che dicono fra sé: “Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni... ci è insopportabile solo al vederlo” (2, 12a.14b); e ancora “Gli empi stringono con la morte un patto, perché sono degni di appartenerle” (1,16). Questa è la realtà di cui siamo parte e che non possiamo ignorare, anche se ci disturba profondamente, e fa paura. Realtà cui la meditazione biblica risponde: “Ma le anime dei giusti sono nelle mani di Dio... la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace... la loro speranza resta piena di immortalità (2,1-4).

Una speranza che si esprime e si attua nel nostro ricordo pieno di rispetto e affetto, e che può trovare base, forza e completezza nella fede nel Dio della vita, che si schiera dalla parte del giusto.

Il giusto, secondo l’insegnamento di Gesù, non è colui che si arrocca in una appartenenza religiosa “vera” piuttosto che in un’altra. E’ colui che si apre a relazioni di attenzione, rispetto. E’ colui che, anche se non lo riconoscesse come tale, incontra Dio nell’altro, specie chi è nel bisogno; è colui che offre cibo a chi ha fame, abiti a chi è nudo, dignità a chi ne è privato. Così insegna Gesù nella parabola del “giudizio finale”.

Il massacro di due anni fa si proponeva di creare paura, odio, inimicizia. La nostra riflessione e preghiera ci aiutino a sfuggire a questa trappola, rassicurandoci che queste vite distrutte non sono state vissute invano; anzi, ci incoraggiano a dare un senso alla nostra vita non sopraffacendo gli altri, ma accogliendoli.

Raccogliamoci nel profondo della nostra coscienza dove – è ancora il Vangelo che ce lo dice – abita il mistero di Dio, un Dio di pace, di vita, di amore. Chiediamo di non lasciarci allontanare dal desiderio di perseguire ciò che è pacifico, giusto e buono, nella speranza che questo sia un seme che continua a germogliare e a rinascere.

“Le tenebre non hanno vinto la luce”, leggiamo ancora nel Vangelo di Giovanni (1, 5).

 

Al termine di un breve momento di silenzio, pronuncerò il Padre Nostro, e invito ciascuno a seguirlo interiormente, così come si sente di farlo.

 

  

Saluti

I ragazzini che affollano e animano i cortili della parrocchia di Mirpur, scatenandosi intorno ad un pezzo  tanto entusiasmante quanto raro come il “calcetto da tavolo”, fiore all’occhiello del nostro parco giochi, provengono da vari ambienti, benestanti e poverissimi, da varie religioni, da vari gruppi etnici. Se in mezzo a un gruppetto vociante di loro passa un adulto – magari straniero – come salutarlo? In Bangladesh un saluto “universale” ci sarebbe: “adab”, ma è quasi caduto in disuso, e non tutti lo conoscono. I ragazzini cristiani “giocano in casa” e per loro un devoto “Jesu pronam” (onore a Gesù) risolve il problema. Per gli altri, la via più sicura è tacere. Alcuni sembrano addestrati a irrigidire il volto e guardare nel vuoto – meglio, guardarti con gli occhi vuoti – comunicandoti la gelida sensazione che tu non esista. E’ lo sguardo in cui si rifugiano le giovani donne, quando temono di essere fraintese se sorprese a salutare uno sconosciuto. Alcuni bambini buttano là un istintivo “assalamu aleikum” (“la pace sia con te” significa, ma quanti lo sanno?), a volte però con uno scrupolo a due facce: se lo sconosciuto che saluto non è musulmano, si offende? Oppure sono io che manco di rispetto alla mia religione salutandolo così?”. Un ragazzino m’ha chiesto il permesso: “Posso dirti assalamu aleikum?” “Nomoskar”, il saluto hindu, è abbastanza usato anche dai cristiani, per questo anche qualche musulmano lo tira fuori, in spirito di apertura interreligiosa; ma si usa con un certo impaccio... Per andare sul sicuro, meglio l’inglese: uno squillante “Good morning” non si nega a nessuno e non può turbare equilibri interreligiosi.

Però... per diversi pomeriggi sono passato accanto al calcetto da tavolo affollato di giocatori e aspiranti giocatori, salutato da un coretto di “good morning” cui rispondevo con l’aria di chi la sa lunga: “Si dice: good afternoon!”. Dai e dai, la lezioncina di inglese ha dato frutto. Ieri mattina passo davanti al calcetto e tutti insieme, sorridendo per la soddisfazione, mi fanno vedere che hanno capito: “Good afternoon, father!”

 

 

Ma non capisci?

-    Trentotto anni, due figli di 13 e 8 anni, un marito che le vuol bene ma è balzano quanto basta, e malaticcio, lavora quando ce la fa. Lei lavorava in una fabbrica di abiti, ma ha dovuto smettere perché non reggeva i ritmi. Un mese fa, emorragia cerebrale, con disturbi alla parola e all’equilibrio. Il marito si dà da fare in modo sorprendentemente affettuoso e anche efficace. Medici, ospedali, prestiti per pagare, colloqui con specialisti forse sorpresi dall’appassionato impegno di questo poveraccio ignorante e malandato. Poi la diagnosi si completa: aneurisma.

“Deve capire che bisogna unica speranza è l’operazione, e bisogna andare nel sud India, a Vellore”. Sarà vero? Spesso i medici scaricano i casi complicati promettendo miracolose guarigioni in India... Spesa minima 400.000 taka. Non se ne parla.

 

-    Quindici giorni fa, andando a scuola, scivola nel fango e si fa male ad una mano. Ha otto anni. Nell’ospedaletto del paese fanno i raggi, e trovano una brutta frattura.

Paracetamolo, poi i soldi sono finiti. La bimba piange. Dopo dieci giorni ritornano all’ospedale: “Ma non vi rendete conto che deve essere operata? Che cosa aspettate?”

 

-    Anche lui è stato ripetutamente sgridato, perché continua a lavorare e “non si rende conto” che ha i reni rovinati. “Sei tu la moglie? Che cosa aspetti a fargli fare un trapianto di reni? Altrimenti non si salva!”. La donna, che è madre di due figlie, fa le pulizie in una scuola e, a rotazione, in cinque famiglie, per mettere insieme circa 100 euro al mese, non può pagare la scuola per la seconda figlia. Quando le parlano di dialisi, riesce a farsi prestare i soldi per una,

che ridà un po’ di vita al malato. “Ma la dialisi non cura, non capisce che bisogna farla almeno due volte alla settimana? Anzi, per lui tre volte non bastano...” Così ogni tanto, quando qualcuno s’impietosisce e presta soldi, fa una dialisi e poi ricomincia l’attesa. Di che cosa? “Padre, ma per quanto tempo posso vivere in questo modo?”

  

p. Franco Cagnasso 

161

Dhaka, 29 giugno 2018

 

Coppamania

Recentemente, l’ambasciatore di Germania presso il Bangladesh è andato a Magura, località quasi sconosciuta del Bangladesh rurale. Voleva vedere di persona una bandiera tedesca lunga cinque chilometri e mezzo, portata in lunga processione da tutto il villaggio ed orgogliosamente esposta nel campo antistante la scuola locale. L’aveva confezionata un agricoltore per esprimere incrollabile fede nella vittoria della Germania alla Coppa del Mondo di Calcio. La Germania non ha vinto la Coppa del Mondo, ma la bandiera ha stravinto sulla bandiera argentina portata in processione con canti e inni a Feni pochi giorni prima, lunga solo un chilometro...La sera in cui la partita Argentina-Islanda si concluse con un sorprendente pareggio, il mio giovane amico Roby, amareggiato e umiliato, ha perso l’appetito ed è andato a letto senza cena. E non ha voluto sapere nulla di questa “Islanda” rompiscatole che non aveva mai sentito nominare fino alla drammatica serata in cui ha osato fermare l’Argentina... Stramberie isolate?

Centinaia di migliaia di bandiere di tutte le misure garriscono al vento del Bangladesh su tetti, staccionate, pali, alberi, biciclette, barche, negozi, nelle città, nelle campagne o avvolgono, sotto forma di magliette, innumerevoli toraci di bengalesi giovani e anziani. Per numero, stravince l’Argentina, seguita dal Brasile; molto rare le bandiere tedesche, rarissime le spagnole.

L’anno scorso, il Parlamento s’interrogò: esporre bandiere di altre nazioni offende il proprio paese? “Certo, è alto tradimento – sosteneva qualcuno – e va severamente proibito.” Ma prevalse una linea tollerante: visto che il Bangladesh non è entrato nella Coppa del Mondo, s’innalzino pure bandiere di altri paesi,  ma più alta di ciascuna sventoli la nostra. Infatti, qua e là si vedono anche bandierette del Bangladesh che fanno da cappello a bandieroni stranieri.

Le bandiere sventolano, e a terra volano sberle, o peggio. Ad oggi – 28 giugno – sono 13 i morti per violenze fra tifosi, quanti siano i feriti e ammaccati non lo so.

Qualcuno si chiede: che cosa spinge un bengalese a sostenere la squadra di un paese che non conosce e non sa dove sia, fino ad azzuffarsi e accoltellarsi con chi sostiene la squadra di un altro paese che non conosce e non sa dove sia? Basta dire che si tratta di un innocente, un po’ infantile passatempo nazionale?

Le risposte sono numerose e fantasiose quanto la sarabanda di bandiere.

L’agricoltore che ha venduto un campo per realizzare la bandiera superlunga, dice che era stato guarito da medicine omeopatiche tedesche, per questo tifa Germania. Ma qualcuno va indietro nella storia: le prime vittorie di Argentina e Brasile nell’era della comunicazione (anni ’70, mi dicono), con figure di spicco come Pelè e Maradona... fecero diventare simpaticissimi Brasile e Argentina, paesi lontani e sconosciuti ma capaci di suonarle sonoramente alle orgogliose squadre occidentali. Erano simboli che davano voce al bisogno inespresso di vedere a testa bassa chi di solito mi avvicina guardandomi dall’alto, e si ritiene maestro in tutto...

Ci sono anche risposte geo-socio-psico-ambientali. Il Bangladesh è terra di grandi fiumi, alluvioni, dedali di canali, tigri, cicloni, disastri naturali, poeti. I suoi abitanti sono abituati al rischio, sanno che spesso non ci sono rifugi, e hanno bisogno di simboli positivi rassicuranti, che assicurano successo. Non solo calciatori, certo, anche Muhammad Ali e Madre Teresa, Robindronath Tagore e il “Padre della Patria” Bongobundhu, fino a Zidane, Messi e Neymar. Anzi, non c’è neppur bisogno che il salvatore esista davvero: nel 1990 – quando la TV stava incominciando a diffondersi – una popolare telenovela raccontava le mirabolanti avventure di un personaggio dalle caratteristiche simili a quelle di Robin Hood: rubare ai ricchi per dare ai poveri. Quando la storia volse al peggio, e il protagonista venne condannato a morte, le masse si mobilitarono in processioni e manifestazioni di protesta perché si  cambiasse il racconto, e l’iniqua sentenza venisse cancellata.-

Ovviamente, non può mancare chi pensa che la risposta abbia radici storico-religiose. Il Bengala venne islamizzato sotto il grande impero dei Mogul, ma nella sua fase tarda, quando ormai le glorie originali dei lontani Califfati di Bagdad e di Damasco si erano spente. L’Islam venne portato da predicatori pii ma ignoranti, che convertivano i lavoratori delle loro terre, creando una “religione dell’aratro”. Esperti sentenziano che “atti di devozione irrazionale spesso si sviluppano in ambienti “moribondi” per stagnazione culturale” (Ahmed Sofa, The Mind of the Bengali Muslims, 1976).

Come mai i “dervisci” e i “pir” islamici di tanti secoli fa abbiano posto le premesse per arrivare alle bandiere argentine e brasiliane che sventolano sopra Dhaka, e ad innamorarsi perdutamente di calciatori di squadre sconosciute... non chiedetemelo perché non l’ho capito neppure io.

Più modestamente, l’autore dell’articolo da cui ho rubato queste notizie, verso la fine scrive che una conclusione si può trarre: il Bangladesh sta vivendo una spettacolare crescita economica, ma “la crescita economica non necessariamente si traduce in sviluppi socioculturali”. Insomma, il mondo è complesso, ma le cose semplici, chiare, appassionanti, indiscutibili fanno comodo; dite quello che volete, ma una cosa è certa e chi non la condivide non capisce nulla: il Brasile è onnipotente... la Francia fa schifo... Messi è un santo...

Forse una mentalità che non manca anche in Italia?

 

p. Franco Cagnasso                                   

160

Dhaka, 8 giugno 2018

  

Retata

Chiamiamolo “Alberto”. Dicannove anni, abita in una cittadina di campagna, oltre 150 chilometri a nord ovest di Dhaka, dove per molti decenni il PIME s’è dato da fare, passando poi la mano ai preti locali. Ha finito l’esame di “Intermediate” (equivalente al penultimo anno di liceo) e andrà al College, ma dopo due telefonate di contatto, prende l’autobus e viene a Dhaka per parlarmi: vuole diventare missionario del PIME. Come al solito chiedo di raccontarmi la sua storia e gli dico che ha un curriculum perfetto per diventare diocesano, o religioso di un altro istituto; ma perché proprio il PIME? Condisco la domanda con descrizioni macabre delle enormi difficoltà della vita missionaria... Il giovanotto non si scompone (che lo abbiano preavvisato?). Gli dico che così, su due piedi, nonostante la presentazione del parroco, non prendiamo nessuno: deve farsi due anni di College per conto proprio, tenendo contatti con noi e poi, se non cambia idea, magari viene in comunità. Si dice d’accordo e mi saluta. Va da alcuni parenti in città, verrà domani, domenica, per la Messa, mi darà la domanda scritta e dopo cena se ne partirà per il paesello. Invece...

Invece invita l’amico- chiamiamolo “Paolo” a pranzo dai suoi, e dopo pranzo escono insieme per andare a Messa nella chiesa di Tejgaon. Attraversano il quartiere di Karwan Bazar, grande mercato, baraccopoli, crocevia di tutto. Chiacchiera e cammina, vedono in lontananza un grande assembramento di poliziotti, centinaia, e gente che li guarda, e decidono di passare da un’altra strada. Ma...

Ma da 12 giorni il governo ha lanciato una campagna durissima di contrasto al commercio di droga di ogni genere. Dicono che ci siano 7 o 8 milioni di consumatori in Bangladesh, che i “boss” siano nella politica, che le mafie locali si combattono, che... insomma, come in tutti i paesi del mondo. Ma in Bangladesh, in questi 12 giorni sono morti ammazzati 72 “noti spacciatori”, tutti nello stesso modo: i giornali scrivono che si tratta di “omicidi extragiudiziari”. I politici però correggono: si tratta di “scontri a fuoco”. In piena notte, le loro bande attaccano pattuglie di polizia che rispondono al fuoco e, dopo lo scontro, trovano sul terreno, crivellato di colpi,  proprio lui e solo lui, quello che era ricercato e che tutti sanno essere un pericoloso delinquente... Oggi, tredicesimo giorno, siamo arrivati a 83 uccisi, in ogni angolo del Bangladesh.

Alberto e Paolo proseguono verso la chiesa sull’altra strada, ma ci sono altri poliziotti, che capiscono al volo trattarsi di pericolosi delinquenti. Li fermano e ammanettano insieme ad altri giovani per portarli alla stazione di polizia di Tejgaon. Si trovano in buona compagnia, centinaia di persone raccolte a casaccio, svegliate bruscamente nelle loro baracche dal sonnellino pomeridiano in questa torrida domenica di digiuno per il Ramadan...

Arriva il momento in cui possono telefonare a casa, e il papà di Paolo, nostro parrocchiano, si precipita a Tejgaon. Ore e ore di attesa, domande, telefonate, ricorsi a persone che ne conoscono altre, che possono parlare con altre, che possono intervenire... finché uno degli ufficiali dice: “Va bene, possono andare”. “Andiamo?”. “Sì, cioè no, un momento, vada da quell’ufficiale là”. Dieci minuti d’attesa, poi la domanda: “Che vuole?” “Mi hanno detto che questi due giovani possono andare, ma devo parlare con lei”. “Giusto, appunto, e allora?”. Il papà di Paolo sa benissimo che cosa significa “e allora?”, ma fa il tonto, così gli tocca andare da un altro, poi da un altro, poi finalmente salta fuori che con 25.000 taka per ciascuno, i due giovani risulteranno innocenti. Per fortuna c’è l’amico che conosce uno che è amico... ci vuol

tempo, ma alla fine ci si accorda su 5.000 taka ciascuno. Un bello sconto, perbacco! Solo 100 euro per portarsi a casa non solo il figlio, ma anche l’amico del figlio, tutti e due con la coscienza pulita. 

I politici dicono che l’opinione pubblica applaude, e l’inflessibile campagna contro gli spacciatori continuerà finchè sarà necessario.

Aggiornamento dell’8 giugno siamo arrivati a 143 morti ammazzati (circa), nonostante il ritmo abbia subito un brusco rallentamento dovuto al fatto che a Teknaf (estremo sud) abbiano ammazzato un leader del partito al potere, molto popolare e chiaramente “pulito” per ciò che riguarda la droga; era finito nella lista probabilmente per l’astuzia di un avversario politico, e qualcuno ha iniziato a protestare sul serio.

p. Franco Cagnasso    

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Dhaka, 17 maggio 2018


Promozione

La faccenda non sembra interessare molto il bengalese medio o, se preferite, l’uomo della strada, e nemmeno la donna, a dire il vero... Ma da mesi se ne parla su giornali, riviste specializzate, convegni, tavole rotonde, dibattiti, comizi: il Bangladesh sta per passare (forse il passaggio sarà completato nel 2024) dalla categoria di “paese sottosviluppato” alla categoria di “paese in via di sviluppo”, o da paese povero a paese a reddito medio-basso. In barba a

qualcuno – ha detto la Primo Ministro – che al momento dell’indipendenza (1971) sentenziò: “Il Bangladesh sarà sempre come un cesto sfondato: continui a buttarci dentro aiuti, ma non rimane niente”. Si trattava di Henry Kissinger.

Buona notizia dunque, ma con un risvolto. La promozione non è un complimento gratuito di cui compiacersi, o la decisione di usare un linguaggio “politicamente corretto”, incoraggiante. Nel complicato mondo delle relazioni internazionali di commercio, banche, esportazioni e importazioni, tariffe, tasse, esenzioni, privilegi, sanzioni... che possono essere frutto di accordi vari... a volte c’è anche una sezione dedicata ai “poveri”, cioè a paesi che entrano nella categoria da cui il Bangladesh sta per uscire. La qualifica infatti non è decisa a occhio ma (almeno così ci fanno intendere) in base a precisi parametri che riguardano il reddito complessivo e il reddito medio, la produttività, la soglia di povertà, il tasso di scolarizzazione, l’età e la durata media della vita, le risorse naturali e umane, la densità di popolazione, le infrastrutture, le riserve auree e di divisa estera, la bilancia commerciale... le alleanze politiche, e via calcolando. Fatti i conti, si colloca il paese in questione nella categoria che gli spetta e, nel caso sia la categoria più bassa, scattano alcune regole che dovrebbero favorirne la crescita. Per esempio, le magliette fabbricate in Bangladesh sono esenti da tariffe di importazione nei paesi dell’UE, così, dico a caso, i maltesi le preferiscono e ne comprano di più,

lasciando sugli scaffali le più costose magliette cinesi. Anche i tassi di interesse sui prestiti variano in base a queste classificazioni.

Tutto bene. Ma quando si fa un passo avanti, i parametri migliorano, e si sale alla categoria “superiore”, insieme a chi si rallegra ci sono – appunto – i fabbricanti di magliette (e molti altri), che invece si preoccupano. Si ricorre allora agli esperti, i quali sentenziano che ci sarà un crollo di produzione e tutti compreranno magliette vietnamite o birmane, oppure che bisognerà passare dalla manodopera non qualificata alla meccanizzazione provocando disoccupazione, o che occorre migliorare la qualità delle magliette così che facciano gola anche ai francesi nonostante il costo più alto. Ma altri insistono che tutto questo è acqua fresca, le infrastrutture, i trasporti, il sistema di credito sono la vera risposta al problema!. No, bisogna mettere l’IVA, o passare alla produzione di biciclette (richiestissime negli USA e a S. Marino) lasciando le magliette al Vietnam... Insomma, ce n’è abbastanza per rallegrarsi e per preoccuparsi insieme. Dicono.

 

 

Fratelli

Il PIME sta vivendo un “anno sulla vocazione missionaria laicale nel PIME”, dedicato ai “Missionari Laici a Vita”, comunemente noti come “Fratelli”, che sono laici, celibi, membri dell’Istituto a pieno titolo con impegno a vita. Ci sono sempre stati, fin dalla prima spedizione (più di 160 anni fa) verso l’attuale Papua Nuova Guinea. Allora piaceva chiamarli “catechisti”. Sulla loro vocazione e sul loro ruolo, da allora molte idee sono cambiate – come sono cambiate

sul laicato e la sua posizione nella Chiesa, sulla missione, sul modo di essere missionari, sui rapporti con le chiese locali (che agli inizi erano inesistenti nei luoghi affidati all’istituto), ecc. Il PIME, pur faticando a precisarne l’identità, ha ribadito che la vocazione dei Fratelli non è di seconda categoria, all’ombra di quella dei preti; è una vocazione piena e completa al servizio del Regno, e che laici (Fratelli) e preti devono lavorare fianco a fianco ciascuno con il proprio ruolo, quasi sempre identificato sul campo, meglio che nelle discussioni teoriche. Noi del Bangladesh abbiamo esperienze positive e stimolanti di presenze missionarie dei Fratelli, e vorremmo averne di più mentre, purtroppo, il loro numero sta calando. In occasione di questo anno, pubblichiamo in bengalese un libretto con la vita di alcuni di loro, per presentarli con i 

fatti più che con le teorie. P. Arturo Speziale – il “letterato” della nostra comunità – scrive queste vite, e io ho preparato l’introduzione, che lui tradurrà. Ho cercato di “contestualizzare” il tema, rispondendo alle domande che si sentono o si intuiscono fra chi conosce il PIME qui in Bangladesh. Poi, ieri sera, m’è venuto in mente che – perché no? – questa introduzione potrebbe essere una scheggia. Eccola. 

            

“Nel PIME ci sono anche i Fratelli?”

Ogni tanto noi missionari del PIME in Bangladesh sentiamo questa domanda, e ne siamo un poco rattristati, perché noi sappiamo che i Fratelli ci sono, la loro vocazione è molto bella, e il loro servizio missionario molto significativo. Abbiamo deciso di pubblicare questo libretto

perché vogliamo che tutti sappiano che: sì, nel PIME – fin dall’inizio – ci sono i Fratelli e i Preti, che hanno la stessa vocazione missionaria, per tutta la vita, per andare e lavorare specialmente dove Gesù non è conosciuto, dove c’è maggiore povertà o sofferenza, e dove la chiesa ha molto bisogno di aiuto. Noi speriamo che questo libretto aiuti tutti a capire la vocazione missionaria, e incoraggi molti giovani a venire con noi, a condividere la nostra vocazione missionaria come Fratelli Laici.

Fratel Massimo Cattaneo, missionario laico del Pime in Bangladesh, attivo nella "Novara Technical School" di Dinajpur.

Come mai i Fratelli del PIME sono poco conosciuti? 

Perché purtroppo non sono molto numerosi; ma c’è anche un altro motivo, che spiego con un esempio. Due missionari del PIME vanno insieme in un villaggio, dove uno di loro celebra la Messa; tutti lo vedono e capiscono che è un Padre. L’altro invece partecipa alla Messa insieme alla gente, prega con loro, riceve la Comunione, poi esce e chiacchiera, fa amicizia, lavora (forse aiuta i malati, oppure insegna, o aggiusta un motore rotto, o ripara le finestre della missione...) tutti lo vedono, ma subito non capiscono se è un tecnico, un visitatore, se ha con sé la famiglia, se è missionario e anche lui del PIME oppure no. Il Fratello svolge il suo compito

missionario non predicando o presiedendo la liturgia (dove tutti lo vedono e capiscono), ma soprattutto con la vita e con il suo lavoro, un lavoro che appare “ordinario”, che anche altri laici possono fare. Il Fratello però lo compie mandato da Gesù, nel nome di Gesù, per far

conoscere Gesù. Come Gesù a Nazareth, come Giuseppe che era falegname, come Maria che era donna di casa, il Fratello sta in mezzo alla gente e alla sua vita normale, ma con un cuore diverso, dona la sua vita, lavora per amore, è disposto ad andare nei posti più difficili.

Che cosa fa un Fratello del PIME?

I compiti di un Fratello possono essere tantissimi. Nel PIME ci sono stati e ci sono Fratelli che dirigono scuole tecniche, che si occupano dei bambini abbandonati e di strada, che assistono i malati come infermieri o come medici, che svolgono i compiti di “manager” di una missione, o di catechista, che insegnano, e tanto altro. In questo libro troverete alcuni esempi pratici della vita di un Fratello del PIME, ma ce ne sono moltissimi altri! Un fratello del PIME nel nord del Brasile ha insegnato disegno e pittura a ragazzi e ragazze poveri per oltre trent’anni, e moltissimi di loro hanno trovato lavoro. Fratel Pasqualino in India ha fondato una missione grandissima, con scuole, ospedale, abitazioni... era sempre indaffarato, sempre in mezzo alla gente, e tutti gli volevano bene. Fratel Colleoni a Hong Kong era amministratore della diocesi, e capo del movimento educativo degli scout di tutta la città. Fratel Brun, qui in Bangladesh, ha aiutato silenziosamente e fedelmente altri missionari, sostenendoli e facendo loro da aiutante, consigliere, compagno; la gente ammirava la sua semplicità, e spesso confidava a lui quello che non osava confidare al Padre. 

 

Il Padre è più importante! E’ meglio farsi missionario prete?

Qualche Fratello ha sentito questo consiglio: “Tu sei istruito, hai molte doti, è meglio per te diventare prete, perché vuoi fare solo il Fratello?”

 

Questa domanda rivela una mentalità molto umana, e non secondo il Vangelo. Se mi domandano: “ Che cosa è meglio: prete o fratello?” rispondo: “E’ meglio andare dove il Signore chiama, fare la sua volontà, non la tua!” Secondo il Vangelo il più importante è chi serve gli altri, chi è umile e sa di essere un “servo inutile”, ma svolge con gioia il compito che il Signore gli propone nel suo Regno. Dunque, se pensi di poter vivere con gioia la vocazione di missionario Fratello, e se la chiesa (i responsabili dell’Istituto) confermano che ne hai la capacità, segui quella via! Se pensi di poter vivere con gioia la vocazione di missionario prete, e se la chiesa (i responsabili dell’Istituto) confermano che puoi farlo, segui quella via! 

Il Vangelo si diffonde con parole e opere, ma soprattutto con la santità: servizio umile, sacrificio in unione con Gesù, amore, pazienza, tanta preghiera... In queste cose, padri e fratelli sono proprio uguali: uno non è più santo perché celebra la Messa, ma perché prende parte alla Messa (come celebrante o come partecipante) con fede e amore. Sbaglia chi pensa che per essere Fratello sia sufficiente una vita spirituale superficiale! Per essere missionari occorre cercare il Signore in tutta la nostra vita, e in questo non c’è differenza fra prete o fratello, o suora...

 

Chi mi aiuta a capire la mia vocazione?

Se ti sembra che il Signore ti stia chiamando alla vita missionaria, non decidere subito, da solo, che cosa fare! Prendi tempo, prega, confidati e chiedi consiglio, possibilmente a un missionario del PIME. Stai bene attento: non desiderare di farti missionario per ricevere stima, onore, lodi dalla gente. Qualcuno sogna di indossare la veste per essere onorato, di diventare prete per sentirsi chiamare “reverendo”, o di avere una considerazione speciale e un posto speciale perché è un Fratello... queste sono idee che ci mette in testa il diavolo, per rovinare l’opera di Dio in noi. Il diavolo vuole vederci orgogliosi, superbi, contenti di comandare sugli altri e di farci servire, e riverire. Ma questa non è la strada di Gesù! 

 

Incomincia subito!

“Io voglio fare il missionario... quando sarò missionario aiuterò i poveri, servirò la gente, insegnerò...”

Bravo! Ma questo è un pensiero per il futuro. E adesso, che cosa fai? Chi pensa al futuro ma non migliora il suo presente, è come uno che spera di avere un buon raccolto di riso, ma... non semina niente: non è possibile, il riso deve essere coltivato! Cambia oggi la tua vita, rendila più aperta agli altri, servi con gioia, condividi, prega, correggi i tuoi difetti, perdona e sii gioioso... vedrai che il Signore ti indicherà la strada: missionario fratello? Missionario prete? Tutte e due sono strade magnifiche, vicine vicine... anzi: sono la stessa strada percorsa con due biciclette diverse, ma viaggiando insieme!   

 

p. Franco Cagnasso

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Dhaka, 24 aprile 2018

 

Viaggio – 2

La mia ultima “scheggia”, “Viaggio – 1” si concludeva mentre chiacchieravo con alcuni ragazzini nella parrocchia di Satkhira in attesa che arrivasse il parroco. “Viaggio – 2” arriva con un insolito ritardo, ben più di un mese. Il viaggio è finito bene, e ne ho fatti poi altri due, ma proprio non riuscivo a continuarne il racconto.

Proprio a Satkhira mi aveva raggiunto la notizia che le condizioni della mia sorella maggiore Anna si erano aggravate: preoccupanti, anche se non di immediato pericolo. Poi, la mattina dell’8 marzo, una telefonata della mia sorella minore Mariateresa mi ha informato del suo “passaggio” proprio quella notte.

Tutto doveva continuare come prima: treni, autobus, nuovi incontri, conversazioni... la  sofferenza era come cacciata nel profondo, appoggiata alle poche parole sentite. Il mio viaggio era costellato di “flash” fatti di fantasie, domande, ricordi. Sforzo di partecipare: “Che cosa stanno vivendo in questo momento i miei cari?”, ricordi antichi e recenti, belli e tristi. Solo dopo vari giorni ho rivisto nella memoria il nostro ultimo saluto, come sempre un abbraccio sulla soglia della sua casa, con il marito Aldo al fianco: “Quando ritorni?” “Se tutto va bene, fra tre anni” “Non ci vedremo più”. L’aveva sussurrato anche altre volte, e come altre volte le ho risposto: “Non è detto, ma comunque l’appuntamento è lassù”. Sorrideva dubbiosa, chiedendo “Ci andrò? Me lo merito?” E io: “Non preoccuparti, il Signore ti vuol bene come sei”.

Ricordi di quando lei, la più grande, spesso si prendeva cura di noi tre “piccoli”: Franco, Mariateresa, Giorgio. Ricordi sfocati e teneri della seconda sorella, Carla, morta a 26 anni dopo molti anni di  malattia lunga, che ha inciso nel profondo di tutti noi. Mi sentii contento perché (pensate un po’...) la vigilia della consegna della tesi di laurea in lettere ero stato capace di aiutarla per tutta la notte a completare la battitura del testo con una Olivetti Lettera 22. Settembre 1962, due mesi dopo la morte di Carla; tutta la famiglia era  in pellegrinaggio ad Assisi. Con Anna guardai a lungo il crepuscolo sulla pianura ai piedi della collina e le dissi: “No, non vado all’università, voglio diventare missionario”. Mi sentii fiero perché – inconsapevolmente – ero stato io l’occasione del suo incontro con Aldo che, come lei e come me, era uno scout. Erano poi venuti insieme in Bangladesh nel dicembre del 2003. Mi tornavano alla mente tanti loro commenti sorpresi, gioiosi, pieni di domande o di pena. Le avevano fatto indossare un sari, ed era stata felice. Proprio il giorno di Natale venne a trovarmi Mong Yeo, un giovane Marma che stava tentando di mettere in piedi un ostello per far studiare ragazzi e ragazze del suo popolo. Si conobbero, e fu simpatia reciproca. Tornati a casa, interessarono la loro parrocchia, s. Lucia, a Bergamo, e ne nacque un’iniziativa ancora non conclusa, che permise il formarsi di questo ostello che ha educato e sta educando bene tantissimi giovani. Mong Yeo venne poi per una breve visita in Italia, e ne ricorda ogni istante, specialmente il calore con cui era stato accolto in famiglia: “Proprio come un fratello”. Qui la chiamavano “didi”, perché la presentavo come la mia sorella maggiore, e a lei piacque tantissimo.

Insieme a questa fantasmagoria (quante gite in montagna... lei faceva anche roccia, io no: avevo fifa...) di ricordi e di sentimenti, si intrecciavano, nel viaggio, i volti nuovi che incontravo, specialmente le famiglie dei “miei” giovani: persone semplici, contente che il figlio si stia orientando alla vita missionaria, ansiosi di sentirsi rassicurati: “E’ bravo, sta facendo bene”, tutti impegnati a pregare per i figli e per noi. A loro accennavo che la mia “didi” se ne era andata, ma lo facevo di sfuggita, per non metterli in imbarazzo e neppure rattristarli. Infatti, non so quanto ancora il viaggio continuerà, ma so che l’appuntamento è “lassù”.

 

 

Lieto fine

Dal 2003 – appena ritornato in Bangladesh dopo 19 anni di assenza – fino al 2011 sono stato incaricato di insegnare e accompagnare spiritualmente i giovani del seminario teologico nazionale del Bangladesh, in Dhaka. Mi occupavo anche dei numerosi stranieri abitanti nella zona (Banani), ma spesso si rivolgevano a me anche cristiani bengalesi... senza pastore. Pian piano li conobbi: abitavano nella zona nord di Dhaka, oltre l’aeroporto, nella “città satellite” di Uttora, e non sapevano dove trovare una chiesa per la Messa, un battesimo, un prete per  

sposarsi. o per chiedere un aiuto. Avevo un bel dire: “Andate alla parrocchia di Tejgaon!” Mi guardavano come parlassi della luna: Tejgaon è lontana, il traffico intensissimo e spesso bloccato, i trasporti costano... insomma, meglio rimandare il battesimo, il matrimonio, la messa... aspettando tempi migliori.

Così mi venne in mente di anticipare questi tempi migliori e prendere in affitto un piccolo appartamento a Uttora, Incoraggiato dal Rettore, e silenziosamente, educatamente considerato un donchisciotte da vari colleghi del seminario, misi gli occhi, a Uttora, su un appartamentino, la cui proprietaria, una distinta, attempata signora si chiese: “E’ giusto che io – musulmana – dia in affitto il mio appartamento a cristiani che ne faranno un posto di preghiera?”. La notte le portò consiglio, e decise di darcelo, a patto che promettessimo di pregare per lei. Promisi, e incominciai a trascorrrere qualche ora nell’appartamento due volte al mese, celebrandovi la Messa, facendo nuove conoscenze, interessandomi dei malati. Pian piano la voce si sparse, e la minuscola comunità crebbe, celebrammo feste, insegnammo il catechismo. Per avere qualcuno che facesse da custode diedi una stanza in uso ad una giovanissima coppia di strapelati, con bimbo e senza casa, musulmana lei e cristiano lui, rifiutati dalle rispettive comunità. Divennero famosi per le loro epiche zuffe, ma intanto mettevano su qualche chilo e tenevano pulite le stanze. Poi ci sfrattarono: vendevano la casa per farne un palazzone. Trovammo un altro posto che era come un fungo in una foresta:  circondata da incombenti edifici di dieci, quindici piani, era una casetta con un unico appartamento, ma in ottima posizione “strategica”. Diversamente dalla signora scrupolosa, il proprietario, non ebbe dubbi: conosco preti e parroci a Londra e mi fido, so che non mi sfascerete la casa. Fu l’inizio di un “miracolo”: pur di avere noi nella casa in cui sperava di passare la non lontana vecchiaia, per dieci anni non aumentò il prezzo d’affitto neppure di un centesimo!

La comunità prendeva in qualche modo forma, con cristiani venuti da tutte le parti del Paese, poveri in canna e ricchi, e anche non cristiani ansiosi di farsi battezzare sperando in qualche buon vantaggio economico, non importa se in moneta o in beni immobili, o lincenza di commercio, e via dicendo. Erano quelli che sprizzavano devozione da tutti i pori, e ancora oggi ogni tanto uno di loro mi telefona: “Padre, ma non mi conosci? Ma vengo sempre nella chiesa di Uttora! Sì, forse sono mancato qualche volta, però... ah, non ci vai più da sette anni? Beh, sai, ero molto occupato, ma tu però aiutami lo stesso...”.

 

Insomma, mi feci un’esperienza, ed ebbi pure una promessa del vescovo di allora: “Bravo, vai avanti ancora un poco, compro un terreno, tempo tre mesi e facciamo una parrocchia”. Il Vescovo morì piamente quattro anni dopo, e la parrocchia non c’è ancora.

Il suo successore, quando lasciai il seminario, accolse ben volentieri la notizia che alcuni amici italiani mi avevano promesso di pagare l’affitto finchè necessario, ed erano disposti a continuare anche se non ero più io l’incaricato. Sono rimasti fedeli fino ad oggi! L’incarico pastorale della piccola comunità venne affidato allo staff del  seminario, P. Louis se ne prese cura per bene, e io non ci misi più piede.

 

Poi, mentre anche il nuovo vescovo s’affannava invano a cercare un terreno a prezzi abbordabili, Uttora cresceva a dismisura, e cresceva pure la convinzione che “non ce la faremo”, come nei migliori western americani di una volta, “arrivano i nostri!”. I “nostri” furono i Salesiani indiani, che – non si sa come – misero le mani su un bel pezzetto di terra e in poco

tempo ci fecero una cappella con l’intento di costruire un seminario per i loro studenti di teologia. Il Vescovo, che in realtà è arcivescovo, e persino cardinale, non si lasciò scappare l’occasione e chiese loro di prendere la responsabilità della piccola comunità “di p. Franco” per

farne poi una parrocchia. Ecco perché domenica 25 febbraio alle 17 concelebrai su quel terreno, con il Cardinale e due salesiani, la Messa delle Palme, presente una piccola folla di fedeli, e alle finestre dei palazzi vicini, innumerevoli occhi spalancati e orecchie tese per vedere e sentire “che cosa fanno i cristiani”. Da giugno il signore che vive a Londra potrà riprendere

possesso della sua casetta, e io mi rallegro per il “lieto fine” della mia modesta, artigianale iniziativa pastorale, finita in ottime ed esperte mani.

E i due sposini che s’azzuffavano? Li ho rivisti volentieri, dopo qualche fatica a riconoscerli. Ora i figli sono due, grandicelli; lei ha voluto ricevere il battesimo, la crisi economica è superata, si sistemeranno altrove senza problemi. “Vi azzuffate ancora?” chiedo a ciascuno, separatamente. La risposta è uguale: “Sì, moltissimo, ma siamo felici!”.

 

p. Franco Cagnasso

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Dinajpur, 20 marzo 2018


Una breccia?
Foyzur Islam, un giovanotto di Sylhet, era da tempo irrequieto e preoccupato perché l’islam è in pericolo. Non solo per colpa degli infedeli, ma anche per il gran numero di musulmani che non seguono fedelmente le dottrine del “salafismo” (diffuso in Arabia), che aveva imparato in

una madrassa. Come restare inerti di fronte a questo orrore? Il 3 marzo scorso, tornando a casa in bicicletta dopo una partita al pallone, Foyzul nota un cartellone interessante: proprio in quel giorno, e proprio nella sua città, si tiene una manifestazione con la presenza del noto professore universitario Muhammad Zafar Iqbal, musulmano ma – come chiaramente rivelano i suoi “blog” - pericoloso nemico dell’islam. Un’occasione da non perdere! Foyzur torna a casa, fa la doccia, indossa una maglietta nera. Sa che cosa deve fare, essendosi “autoradicalizzato” bazzicando su internet, dove legge infiammati sermoni, e ha imparato come si può ammazzare una persona senza spendere troppo. Pochi giorni fa ha acquistato un coltello del tipo consigliato in un sito specializzato in materia; ora non c’è che da metterlo in tasca, riprendere la bicicletta e affrettarsi prima che termini la manifestazione. Partendo dal fondo, e facendosi strada tra la folla, si accosta al professore, fino a giungergli alle spalle. Attende un attimo, conta fino a 3 (suppongo) e lo pugnala. Malamente. Infatti il professore cade gravemente ferito ma non muore, mentre lui prende un sacco di botte dalla folla, soprattutto di studenti, inferocita. Lo conciano al punto che la polizia – pur non nota per le sue delicatezze - deve aspettare 10 giorni prima di poterlo interrogare. Alle domande risponde con arroganza, dichiarando di aver anche frequentato una palestra dopo aver letto che un “jihadista” dev’essere fisicamente in forma, e che non è affatto pentito dell’assalto, anche se fallito, perché: “sono pronto per qualunque risultato: lavoro per l’islam, io!” Alla fine, gli chiedono se si è reso conto che la folla non lo ha ammazzato soltanto perché il professore, ferito e sanguinante, mentre lo soccorrevano ha implorato che non lo picchiassero e non gli facessero del male. Foyzur tace per un momento, poi scoppia in un pianto dirotto, irrefrenabile, per una quindicina di minuti.
Il professor Zafar, dimesso dall’ospedale, ha detto che farà il possibile per incontrarlo, per potersi spiegare l’uno con l’altro.
Una mia domanda: quando mi chiedono che cosa pensano “i musulmani”, come reagiscono “i musulmani”, perché “i musulmani” sono violenti... io che cosa rispondo? Parlo di Foyzur, o parlo di Zafar Iqbal?    

 


Viaggio - 1
1 - S’incomincia ritornando. Armato di regolare biglietto con posto prenotato e prepagato, e accompagnato da due dei volonterosi giovanotti che vivono con me (Durjoy e Martin, per la cronaca) alle 22.30 del 28 febbraio mi presento alla biglietteria dell’autobus di super lusso con aria condizionata, sedili reclinabili, acqua minerale in omaggio, in partenza alle 23.30. Mostro il documento di viaggio aspettandomi un ossequioso: “Tutto bene, s’accomodi”. “Invece mi dicono: “No, il bus a Meherpur non va” “Come non va? E’ in ritardo? Ha un guasto?”. “La corsa è cancellata. Se vuole le diamo un posto su un autobus normale che va a Kustia. Le possiamo anche restituire la differenza.” “Ma io non devo andare a Kustia: arrivo alle 3 di notte in un posto sconosciuto per andare in un altro posto sconosciuto distante 80 chilometri?” Il problema sembra non turbare l’impiegato, che senza sprecare altre parole mi mette in mano il prezzo del biglietto inutilizzato. Dopo un’ora e mezza di frenetici tentativi dei miei accompagnatori, alla ricerca di un posto su qualche altro autobus che vada dove voglio io, torniamo a casa allo scoccare della mezzanotte.


2 - Giro al contrario. Ritento due sere dopo, e dopo aver riorganizzato il viaggio partendo dalla fine: prima tappa non sarà Meherpur, ma Satkhira, anche questo un posto nuovo per me, a sud di Khulna. Voglio visitare le famiglie di alcuni missionari, seminaristi e studenti del PIME. Questa volga parto, alle 22.15, e m’addormento per risvegliarmi parecchio tempo dopo a causa del troppo silenzio. C’è una fila lunghissima di autobus e camion che attendono il proprio turno per salire sul traghetto e attraversare il fiume Padma, poco a sud della confluenza di Gange e Brahmaputra. Passano cinque ore, mi riaddormento, e quando mi sveglio mi trovo dall’altra parte del fiume, in attesa che si liberi il pontile. Poi, finalmente, si sbarca e si riparte mentre il sole si dà da fare per scaldarci dopo il fresco della notte. Sfilano i campi di riso, la juta appena tagliata, canali, mercati e moschee, stagni grandi e piccoli tutti popolati di anatre e anatroccole, animali che mi mettono allegria. La strada è parecchio malconcia; alle 11 del mattino siamo ancora lontani dalla meta, e una telefonata m’avverte di non andare fino a Satkhira per poi tornare indietro: fermati a Kolaroa e qualcuno ti dirà cosa fare. Caccia al tesoro? Scendo in mezzo ad un bazar e mi guardo attorno perplesso per qualche minuto, quando un ometto in bicicletta si accosta e chiama: “Padre!”. E’ lo zio di un nostro seminarista, che contratta per me e per il mio borsone un posto su un motocicletta. Le motociclette/taxi da queste parti sono molto numerose; per fortuna il mio autista è fiero di dirmi: “Niente paura, sei vecchio, e la strada è akabaka (tortuosa), ma io vado adagio”. E’ vero, e si meriterà pure la mancia. A mezzogiorno sono alla meta: papà e mamma mi attendono ansiosi e l’accoglienza ricompensa ampiamente le fatiche del viaggio.
 

3 - Villaggi cristiani. A quanto capisco, in queste zone evangelizzate dai Saveriani a partire dagli anni ‘50, alcuni gruppi piuttosto poveri ed emarginati hanno formato le prime comunità cristiane: battiste, cattoliche e di altre denominazioni. Il villaggio che visito ha una minuscola chiesetta, ben tenuta, accanto a un gruppetto di case in terra, paglia e lamiere, con qualche parte in muratura; le cucine sono esterne, in terra. Gli anziani continuano il lavoro tradizionale, fabbricano cestini con strisce di bambù, mentre i bambini vanno a scuola e i giovani sono quasi tutti fuori, per studiare o per lavorare in città. Una realtà apparentemente immutata, ma in realtà in profonda e rapida evoluzione. Gente semplice, che spesso mi parla di quanto abbiano fatto per e con loro i vari missionari che hanno operato in queste zone. Una signora mi dice: “Siamo poveri e anche acciaccati, mio marito soffre di asma e io faccio finta di non averli, ma ho dolori un po’ dappertutto. Ma tantissime volte mi domando: come mai il Signore ci ha dato tante grazie e tanti favori? non riesco a trovare le parole per ringraziare, e continuo a stupirmi”. “In questi villaggi piccoli – chiedo – come vi trovate fra i musulmani?” “Da queste parti è molto forte il Jamaat-ul-islam, il partito islamista” “Dunque avete problemi? Vi sentite in

pericolo?” “Beh, problemi ne abbiamo ma non con i musulmani, li abbiamo fra noi che bisticciamo facilmente...”
A pranzo mi offrono, con il riso, un pesce tilapia, il più grosso che mai sia approdato sul mio piatto... “Deve mangiarlo tutto – raccomanda il papà - perché ho girato tutto il mercato per trovarlo...” Riposo e poi la mamma mi organizza un’altra tappa in motocicletta. Sale anche lei a far da guida, e a pochi chilometri visitiamo la famiglia di una suora del PIME. Avanti ancora, e arriviamo da una terza famiglia, di un ex seminarista, che ha parenti all’estero: lo si vede  dalla casa in muratura e da qualche comodità in più. Poi lei ritorna a casa, e io proseguo sempre in moto fino a Satkhira, che subito mi appare più grande e animata di come immaginavo. Alle 17 approdiamo alla missione, dove accanto alla chiesa ci sono casa dei padri, casa delle suore, ostelli per bambini e bambine, chiesa, locale per incontri e catechesi, campo di calcio... manca solo il parroco, che è andato a celebrare in un villaggio. Lo aspetto, chiacchierando con qualche marmocchio incuriosito... (continua)
       
p. Franco Cagnasso

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Dhaka - 17 febbraio 2018

 

Un grido

Arrivano la sera del 18 gennaio, frastornati per il lungo viaggio da Bandarban e spauriti per il caos della città. Da tempo si aspettava questo “picnic” dei ragazzi Marma, che desideravano incontrare i ragazzi della nostra parrocchia di Mirpur (Dhaka). Li hanno accolti, divisi in piccoli

gruppi, e guidati lungo i vicoletti affollati fino alla chiesa, senza che nessuno si smarrisse nella folla. Cena, una bella dormita sulla paglia (che fatica trovarla in  città!), e il giorno dopo la stanchezza era passata. Abbiamo pregato insieme, loro le preghiere quotidiane buddiste e noi la Messa, commentando la parabola del giudizio finale, quando il Signore non chiederà: “Di che religione sei?”, ma: “Mi hai dato da mangiare quando avevo fame, mi hai visitato quando ero ammalato?...”. E’ seguita l’attesissima visita allo zoo, che non è lontano e poi, dopo il pranzo in giardino, è arrivato il “pezzo forte”, a cui si erano preparati accuratamente: la “sanskritik onusthan” (celebrazione culturale). Canti e danze di varie tradizioni etniche e moderni, una non dichiarata competizione: fierezza per le proprie tradizioni, stupore per le altre.

Ad un certo punto, inattesa, si infila nel programma una scenetta semplice, ingenua. Due ragazze e due ragazzi interpretano una famigliola marma: papà e mamma che lavorano in foresta, i figli che studiano e aiutano, momenti di pace. Una mattina, andando a scuola, fratello e sorella incrociano un gruppo di bengalesi che amichevolmente chiede chi siano, dove abitino, che facciano... poi ciascuno prosegue per la sua strada. Ma i bengalesi non vanno a scuola,

vanno ad una stazione di polizia. Confabulano a lungo, spiegano, offrono soldi, escono con qualcosa nascosto in sacchi. La sera, quando la famigliola è radunata per la cena, il gruppo arriva, pesantemente armato. Sfonda la porta, picchia, trascina fuori mamma e figli, saccheggia, infierisce sul papà, dà fuoco alla casetta, e scappa. Un breve silenzio. I ragazzi e la mamma tornano e si gettano piangendo disperatamente sul corpo senza vita del papà.  A lungo. Poi il ragazzo s’inginocchia di fronte al pubblico e grida:  “Così noi andiamo avanti, ma quando, quando ci lasceranno la nostra vita?”.

Mi sconvolge: non sta recitando, sta piangendo davvero, sta lanciando a tutti un grido straziante, disperato, e con lui piangono molti dei ragazzi marma, fra lo sconcerto di tutti.

Poi riprendono canti, danze, gioia e risate.

Ripartiranno il mattino dopo, e speriamo che l’anno prossimo si possa ricambiare: i ragazzi di Mirpur andranno a Bandarban. Un picnic che ci ha dato molto.


Brontolone

Avremmo voluto celebrare nel novembre 2017, ma arrivò la notizia che il Papa desiderava venire a trovarci: non ci è parso gentile dirgli di rinviare, e abbiamo rinviato noi, scegliendo il 3 febbraio 2018 per festeggiare.

 

Che cosa? Nessuno ricorda esattamente, ma certamente sono passati almeno 25 anni da quando, nella missione di Rohanpur, un papà disperato consegnò alla parrocchia un bimbo di 4 mesi gravemente denutrito, la cui mamma era morta. Suor Gertrude, p. Baio e p. Mariano

decisero di tenerlo, sistemarlo e trovargli poi una mamma adottiva. Ma arrivato a 9 mesi lo colpì la poliomielite. Il bimbo, Robi, rimase completamente paralizzato dal collo in giù:

muoveva solo la testa. Iniziò una lunghissima, ostinata lotta di suor Gertrude, una bengalese della congregazione locale “Regina della Pace”, che con incredibile tenacia e anni di fisioterapia e cure, cambiò la situazione di Robi, che ora si sposta bene in carrozzella, gioca a cricket, ha completato un Master in economia. Mentre lui lentamente progrediva, altri papà o mamme, o parenti portavano i loro bimbi con qualche disabilità. La prima, Flora, anche lei colpita da polio, lavora ora in un progetto della Caritas per bimbi di strada. L’attuale comunità, che ha 43 membri, prese forma strada facendo. Vedendo con quanta naturalezza bimbi “normodotati” si

mescolavano con i “disabili”, si decise di dare spazio anche a qualcuno di loro, creando una comunità molto varia: maschi e femmine, con disabilità differenti o normodotati, gruppi etnici diversi, educando i più anziani farsi carico dei piccoli. Denominatore comune, la povertà; obiettivo comune, l’aiuto reciproco, la convivenza gioiosa e senza complessi, l’impegno di dare il meglio per costruirsi un futuro se possibile indipendente.

Negli ultimi 6 anni sono stato io a svolgere il ruolo di “chairman” di questa iniziativa, recentemente battezzata “Snehonir”, Casa della Tenerezza. Per questo mi informarono che si avvicinava il venticinquesimo anno dalla informale fondazione,che occorreva ricordare con la dovuta solennità. A me venne la pelle d’oca... Il Bangladesh ha una specie di “culto” per gli anniversari più svariati, da celebrare in modo solenne e pomposo, senza badare a spese e senza risparmiare elogi e paroloni. Un giorno sì e l’altro anche arriva un invito: secondo anniversario del battesimo del bebè, dieci anni dall’entrata in convento, quindici anni dalla laurea, sette anni e mezzo dall’incontro con il primo amore... dico sempre no, spiegando che se vado da uno dovrei andare da tutti, e non farei altro che commemorare... E ora toccava a me organizzare un giubileo? Feci di tutto per scamparla, minacciai il taglio dei fondi, studiai proposte alternative, “innovative” direbbe qualcuno. Ma le tradizioni, qui, contano – e molto: i membri dell’apposito comitato mi ascoltarono rispettosamente, e poi fecero a modo loro.

Per fortuna.

Arrivando a Snehonir qualche giorno prima della festa, mi colpì l’entusiasmo con cui i ragazzi si preparavano, senza stancarsi di provare e riprovare danze, canti, sfilate, storielle... sempre più eccitati e ansiosi, fieri di poter mostrare quello che sapevano fare. Ero contento, ma ho tardato a capire che stavo... convertendomi. Pensavo sempre meno alle spese e ai discorsi, mentre la loro gioia mi contagiava, anzi, mi conquistava. La sera della vigilia, dopo una bella processione eucaristica dalla casa dove abitavano prima a quella attuale, e un’adorazione in un piccolo campo da giochi dei nostri vicini, è arrivata la cena “piatto in mano”, dopo la quale è partita

una raffica di pezzi musicali che hanno trascinato tutti, uno dopo l’altro, sul palco appena allestito. La prima – c’era da aspettarselo – è stata Susmita, la più immediata nell’espressione dei sentimenti, poi il più piccolo, Sivajit che ha danzato per tre ore di fila sul palco con i suoi occhietti ciechi che sembravano prendere vita, e Urmilla, sordomuta, che seguiva a perfezione il ritmo, e via via tutti gli altri – a rischio di sfondare il palco. La festa è festa, ragionarci non serve... hanno trascinato su anche me, brontolone pentito, e ho respirato la loro gioia di vivere, di stare insieme, di sentirsi accolti, di voler bene, di muoversi, non importa se aiutati da una stampella. Il giorno dopo? Ancora meglio!  

 

p. Franco Cagnasso     

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Rajshahi - 15 gennaio 2018

     

Controversie fantasma 

Dal 1967, a Tongi, a pochi chilometri da Dhaka, ogni anno si svolge, il secondo più frequentato pellegrinaggio del mondo islamico, noto come “Biswha Ijtema” (raduno mondiale). Non ci sono strutture stabili, solo una grande area sulle rive del fiume Turag, dove tutto viene organizzato in modo estremamente precario e povero. I pellegrini – (si dice siano oltre un milione) sono pronti ad affrontare freddo, sete, scomodità per viaggiare, dormire, mangiare, lavarsi... tutto, per trascorrere tre giorni ascoltando sermoni di “Maulana” famosi venuti anche dall’estero,

pregare per la pace e per la diffusione dell’islam, vivere l’ardore e la fraternità del movimento di spiritualità “Tabligh Jamaat”, fondato in India nel 1927, che conta fra i 70 e gli 80 milioni di seguaci in 150 paesi del mondo. Il Bangladesh ne ha 15 milioni. Il pellegrinaggio si ripete due volte in due settimane, generalmente in gennaio, e ovviamente provoca non pochi ingorghi di traffico, blocchi, e altri inconvenienti – ma nulla di violento se non, qualche anno fa, vandalismi nella stazione di Tongi per i treni che non arrivavano. Già, i treni... in queste occasioni sono un boccone ghiotto per fotografi di costume: letteralmente coperti di persone attaccati da tutte le parti: sopra, ai fianchi e persino sotto i vagoni; ma anche mescolarsi, a piedi, nel fiume di persone, quasi tutti uomini che camminano spediti per chilometri verso la capitale dopo la fine dei tre giorni, è un’esperienza unica, che ha un suo fascino per il clima di fratellanza, zelo, gioia che si respira.Quest’anno però, qualcosa ha rischiato di andare storto. Non sapevo che al Tabligh Jamaat aderissero interi gruppi e movimenti, e fra loro tutta la lunga lista di “madrasse “Qawmi”, quelle ispirate e finanziate da paesi arabi conservatori, e dal movimento “Hefajat-e Islam”, che si è dimostrato capace di mobilitarne centinaia di migliaia di studenti e simpatizzanti per la “difesa” dell’islam – come dice il suo nome. Due giorni prima dell’inizio del primo “Ijtema”, il 10 gennaio, mentre l’aeroporto era già sotto pressione per l’arrivo di pellegrini esteri, s’è sparsa la voce che fra loro c’era anche il famoso predicatore indiano Maulana Saad, e che avrebbe parlato. La faccenda non è piaciuta a Shah Ahmed Shafi, capo di Hefajot-e Islam, il quale ha fatto sapere che Maulana Saad aveva recentemente pronunciato “affermazioni controverse” sul Corano e sulla Sunnah, e per questo non era gradito. L’aeroporto è stato subito bloccato da una folla immensa che non voleva lasciarlo uscire. Disagi e code inimmaginabili per quasi tutta la giornata, ma i manifestanti non mollavano, finché hanno saputo che Maulana Saad non poteva essere bloccato, perché già si trovava a Dhaka, e proprio nella sede centrale di Tabligh Jamaat, situata (tra l’altro) molto vicina alla cattedrale e alla casa dell’arcivescovo cattolico. La faccenda si complica: se bloccare l’aeroporto provoca grossi guai, bloccare quella zona di Dhaka per impedire al “controverso” di partecipare è peggio, una decisione foriera di guai pesanti. Interviene il governo, che in una riunione al ministero dell’interno persuade (così dicono i mezzi di informazione) Maulana Saad a stare zitto e non farsi vedere in giro.

Ma che cosa aveva detto di “controverso”? I giornalisti dichiarano di non aver trovato nessuno che lo sapesse o che fosse disposto a dirlo...

 

 

Memoria

Nei boschi di larici si trovano spesso grossi mucchi di aghi secchi che le formiche accumulano per farne i loro nidi. Da bambino era per me una tentazione irresistibile il rovesciare con un bastone questi aghi per sentirne il profumo e per vedere le formiche impazzite correre in tutte le direzioni... Questo “flash” di tanto tempo fa mi è tornato in mente il 7 gennaio scorso, quando ho rimesso piede, dopo anni, nella parte vecchia di Dhaka, lungo il fiume Buriganga. Cercavo l’antica chiesa armena, per partecipare ad una preghiera ecumenica organizzata dall’infaticabile fratel Guillaume, di Taizé, e mi pareva di essere una di quelle formiche frenetiche che s’incontrano e scontrano fra aghi di larice e colleghe di lavoro, agitandosi in mille direzioni... con l’aggiunta di rumori, fumi, urla degli altoparlanti pubblicitari o delle moschee, clacson, ambulanti, autobus stracarichi, borseggiatori, e persino carrozze a cavalli per il trasporto pubblico. Poi, di colpo, ecco la chiesetta, circondata da un muro da cui emerge

una cuspide bianca con una croce. Si entra, e pare di essere improvvisamente avvolti da una bolla di pulizia, nitidezza, silenzio, pace, ricordi. La chiesa risale al 1781, e deve aver avuto i suoi momenti di vita intensa; ma la comunità armena – formata per lo più da commercianti - da molti anni è scomparsa. Alcuni armeni di buona volontà, pur residendo in altri paesi, si interessano di custodirla, stipendiare un guardiano, visitare ogni tanto questa silenziosa testimonianza della loro storia travagliata. Tutto attorno alla chiesa, tombe, con lapidi adagiate sul terreno e scritte bilingui: armeno e inglese; c’è pure una frase in latino. Le solite espressioni semplici di dolore, di affetti che vogliono continuare oltre la morte, di speranza e fede, di fierezza. Molti i giovani, ma c’è anche la tomba di un uomo che “ha lasciato questa  terra dopo una lunga vita piena di attività alla veneranda età di anni 108, mesi 4, giorni 23”. Su molte lapidi, oltre alla data di nascita e di morte, viene indicata l’età, precisando anni, mesi e giorni di vita. Come in ogni cimitero, la visita diventa una silenziosa meditazione, resa più struggente dal fatto che queste persone non hanno nessuno qui che continui le loro tradizioni, ricordi le loro liturgie e le loro storie, li tenga in qualche modo in vita attraverso la loro stessa vita.

Sembrano essere stati inghiottiti dalla storia, e con loro, chissà quanti altri popoli grandi e piccoli, di cui non esiste neppure una piccola memoria.

Ci troviamo in 70 nella chiesetta, cristiani di varie denominazioni e gruppi etnici, a pregare guidati da fratel Guillaume e dal vescovo anglicano di Barisal. Ci sentiamo uniti specialmente ai cristiani armeni, e a tante chiese orientali sempre più incerte sul loro futuro e sempre più disperse. Ci sentiamo uniti fra noi, mentre uno sparuto gruppetto di nuovi cristiani della popolazione Bom recita il Padre nostro nella sua lingua sconosciuta a tutti. Siamo noi i custodi della memoria di una culla di Betlemme, di un messaggio pieno di speranza, di un condannato a morte crocifisso, di una tomba trovata vuota...

 

p. Franco Cagnasso