Articoli e lettere agli amici - 1996

p. Franco Cagnasso


1996


I missionari di fronte alla modernità

29 novembre

Evangelizzazione e modernizzazione in Asia

CUM Verona, 28/11 - 1/12/1996

Il taglio del mio intervento, che apre queste giornate di riflessione su "Evangelizzazione e modernizzazione in Asia" è di carattere introduttivo. Ci saranno tante domande, e ben poche risposte...

Mi colloco dal punto di vista non di un osservatore neutrale, di un ricercatore, ma di una persona coinvolta in un fenomeno nel quale vuole giocare una parte, e al quale è allo stesso tempo un poco estranea. Parlo infatti dei missionari, nell'accezione più comune del termine: missionari esteri. Persone che si sono "messe dentro" l'Asia, o un determinato paese dell'Asia, da stranieri e perciò con una storia, una mentalità, una capacità critica diversa; e tuttavia vogliono assumere la realtà di quel Paese per vivere e annunciare in esso la Buona Novella.

Hanno dunque una pretesa non piccola: figli di una determinata cultura, vogliono vivere e agire efficacemente in un'altra, portando e scoprendo i segni di una "novità" di vita evangelica che è insieme familiare ed estranea ad entrambe. Familiare ed estranea perché in entrambe ci sono frutti dell'opera dello Spirito, e frutti del peccato dell'uomo, della sua incapacità a salvarsi.

Ciò che dirò sarà tuttavia applicabile in buona misura anche alle Chiese locali, almeno per analogia e tenuto conto di non poche differenze. Sarà necessariamente generico, perché tutti sappiamo quanto l'Asia sia vasta e varia e perciò impossibile da racchiudere in uno schema. Sappiamo anche quanto sia vasto e indefinito il fenomeno della modernizzazione.

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Fenomeno al quale mi accosto senza pretendere di darne una definizione e nemmeno una descrizione. Assumo il termine nel suo senso "intuitivo", vasto, vario e ambiguo; il senso con cui tutti lo assumono nel vivere quotidiano: moderni sono l'aereo, il treno o la bicicletta - dipende dal tipo di sviluppo economico e tecnologico di un popolo. Moderni sono il viaggiare, l'emancipazione femminile, internet, le libertà individuali, il consumo, la musica rock, la democrazia, il nuovo e la ricerca del nuovo...

Modernità è l'ingresso del moderno nella vita della gente, in maniera più o meno massiccia e globale, rapida o lenta, e i mutamenti di mentalità, costumi, modelli di vita, scala di valori, leggi, esigenze, che ne derivano.

Parlando de "I missionari di fronte alla modernità”, bisogna rilevare anzitutto che prima di esservi "di fronte" quasi sempre essi vi sono "dentro".

Se occidentali, vi sono nati e cresciuti dentro; se orientali o africani l'hanno comunque incontrata presto, magari vivendo la tensione interiore profonda che caratterizza il passaggio di molte culture oggi, tensione che nelle singole persone può giungere fino a vere e proprie "schizofrenie" fra la fedeltà alla tradizione che viene per lo più dalla famiglia (anche dalla famiglia occidentale, in alcuni casi) e il nuovo che irrompe.

Curiosamente, per alcune culture il nuovo è rappresentato almeno in parte dal cristianesimo (mi dicevano alcuni confratelli in Costa d’Avorio che per la classe media e gli studenti sembra essere “moderno” chiedere il battesimo, anche se poi ad esso non fa seguito una pratica cristiana), per altre invece esso è tradizione ed è percepito come vecchio, passato, contrario alla modernità.

Possiamo trovarci di fronte al paradosso del missionario che fatica ad accogliere interrogativi e problemi della modernità all'interno della propria sfera culturale, e dell'altro canto è lui stesso agente di modernità nella società in cui vive e opera.

Un primo interrogativo che si pone è allora questo: sono i missionari consapevoli della loro propria esperienza di modernità?

Tutti diciamo che il mondo cambia, e a volte ne siamo spaventati; d'altro canto tutti in qualche modo vogliamo che il mondo cambi perché com'è certamente non ci soddisfa.

Mi chiedo: colui che propone il cambiamento sulla base della vita nuova in Cristo e dei valori evangelici come si colloca di fronte al cambiamento che irrompe nella "modernità"? Vangelo e modernità sono come cammini paralleli, che s'ignorano o pretendono ignorarsi, o due nemici, o due alleati?

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Mi pare che per lo più i missionari abbiano il desiderio di "usare" della modernità, facendo propri o introducendone elementi che ritengono validi, e cercando di tenere a distanza o limitarne altri che ritengono dannosi.

Essi sono spesso critici e insofferenti di certe tradizioni, ma percepiscono che - dopo che esse cadono o mutano rapidamente - la situazione "sfugge" di mano, e i primi a farne le spese sono proprio coloro che hanno contribuito al cambiamento. Ad esempio, non accettano certe condizioni di “arretratezza” tecnologica e scientifica e cercano di sanarle introducendo elementi di modernità (tecniche, organizzazioni, idee nuove) che innestano un processo di cambiamento economico, cui però fa seguito, o cui è collegata, tutta una serie di altri cambiamenti non previsti e a volte non prevedibili o non desiderati.

Ho l’impressione che di fatto la maggior parte dei missionari "usi" ciò che è moderno se lo ritiene buono e utile, ma con la mentalità di chi usa un rastrello o una penna: un puro oggetto utile di cui si può controllare tutto. In realtà si percepisce in maniera limitata che nessun oggetto è neutrale e nessun cambiamento è completamente programmabile e controllabile.

Ancora meno si può capire e calcolare come venga percepito il rapporto fra predicazione o testimonianza del Vangelo e modernità sia percepito.

Sappiamo bene come in molti paesi il cristianesimo e l'occidente siano identificati. Il colonialismo è ormai alle spalle di parecchi decenni e non ha più influsso diretto sulle nuove generazioni. Può averlo invece la percezione che i cristiani sono quelli che hanno costumi più "moderni" nel vestire, nell'istruzione, nel parlare, nei rapporti uomo-donna, nel difendere le libertà individuali, nel fare riferimento a una Chiesa "straniera" ecc.

Nella mentalità della gente - come del missionario - cristianesimo e modernità si mescolano e confondono, e le conseguenze di ciò non sono poche né piccole.

Bisognerebbe a questo proposito aprire tutta una serie di riflessioni, e per me di interrogativi a cui non so dare risposta; mi pare anzi che pure gli esperti non siano concordi nelle valutazioni.

La novità del cristianesimo, in che misura risulta essere portatrice di “modernità” presso i popoli in cui entra? Era “moderna” la Chiesa per la cultura e l’Impero romano? E in che senso? Certo non nel significato specifico che il termine ha oggi, tuttavia un’analogia può essere fatta.

Ancora: quanto la modernità della nostra epoca è autonoma, quanto invece è una variante secolarizzata (e magari anche percepita come anti cristiana) di quel processo che il cristianesimo ha avviato? Come un figlio che si emancipa e poi contesta i genitori...

Questioni analoghe potrebbero porsi per le altre religioni organizzate, che al loro formarsi hanno portato e fatto sviluppare rilevanti novità nelle culture che le hanno generate o accolte.

Il fenomeno del fondamentalismo che, di fronte alla modernità secolare, reagisce cercando di tornare alla tradizione anche in modo chiuso e restauratore, può far pensare che la carica di novità delle religioni sia un effetto iniziale che poi si attenua e sparisce con il tempo diventando poi una forza conservatrice e di sclerosi nella società.

Oppure questa è un’analisi superficiale e di corta veduta, perché le religioni (o alcune religioni) hanno capacità di interagire con la modernità “secolare” e quindi di essere ancora agenti di cambiamento con il loro rinnovato rimando al trascendente, la loro ricerca di Dio, di senso, di moralità, di legami sociali? Si tratta di istanze antiche e radicali a cui occorrono risposte nuove o rinnovate, e chi se non le religioni in rapporto dialettico con la modernità può rispondervi?

Tante questioni davvero vaste e a cui, come dicevo, non so rispondere, e come me la maggior parte dei missionari.

Il minimo richiesto è comunque che ci sia nei missionari, come nelle Chiese, prima di tutto una certa consapevolezza del fenomeno e dei problemi che sono ad esso collegati.

Essa permetterà loro di stare in guardia e di non diventare (troppo) strumenti inconsapevoli di ciò che non vorrebbero.

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Schematicamente, si possono configurare due "situazioni tipo" in cui i missionari in Asia possono trovarsi, in rapporto alla modernità.

1) Ci sono ancora, anche in Asia, aree e ambienti dove - come nel passato - il missionario è principalmente attore, agente di cambiamento verso la modernità.

Nelle culture tradizionali rurali, in gruppi etnici ancora abbastanza compatti, il missionario (straniero o locale) e la Chiesa locale portano il nuovo con la scuola, la medicina allopatica di tipo occidentale, proposte di nuove aggregazioni sociali (la parrocchia, la cooperativa), modelli nuovi di comportamento (scelta autonoma nel matrimonio, posizione della donna, partecipazione dei giovani ai processi decisionali); uso di strumenti moderni (mezzi di trasporto e di lavoro, comunicazioni sociali); la capacità di opporre una certa resistenza almeno culturale a regimi autoritari e a regimi imposti.

La stessa presenza del missionario e della Chiesa, con la “sorpresa” che suscita un modo di vivere diverso, è agente di cambiamento.

Ovviamente, le novità che porta non sono neutre, e provocano più o meno rapidi cambiamenti di valori sociali e personali.

La domanda che ci si pone in questo caso è classica, da moderno manuale di missiologia: quanto l'intervento del missionario "rispetti" le culture in cui viene effettuato, quanto provochi un mutamento positivo e controllabile, quanto sia invece causa di squilibri e di alienazioni.

2) Tuttavia, queste diventano sempre più questioni soltanto accademiche, perché la situazione ben più diffusa e comune è quella del missionario e della Chiesa "travolti" da cambiamenti rapidi e radicali portati da una modernità che irrompe e che non dipende da loro.

La televisione, l'industrializzazione, l'urbanizzazione, la scolarizzazione massiccia, gli sradicamenti dovuti a migrazioni influiscono sulle culture ben più incisivamente che le scuolette di villaggio, il catechismo, il dispensario medico.

Ben più incisivamente agiscono pure fenomeni politici come l'avvento del comunismo in Cina, del sistema democratico partitico in India, del modello marxista radicale in Cambogia, e anche - a mio parere - di certe forme di fondamentalismo religioso che non sono in realtà un trionfo o un ritorno della tradizione, ma una reazione al moderno con proposte in fondo nuove rispetto al modo di vivere e di pensare della maggioranza: si pensi alle imposizioni dei "taleban" in Afganistan o prima ancora a quali terremoti culturali hanno scosso l'Iran con la modernità portata dallo Shah prima, e con le leggi introdotte da Khomeini poi.

In questi casi, il problema del missionario si pone in termini nuovi e diversi. Non deve più domandarsi quanto la sua presenza e opera muti una cultura tradizionale, ma come collocarsi dentro un mutamento che comunque avviene, con lui o senza di lui.

Muta anche il discorso dell’Inculturazione o acculturazione del Vangelo: quale cultura?

Matteo Ricci e Roberto De Nobili, rispettivamente in Cina e in India, ebbero da faticare ad orientarsi, ma fatta la scelta fra Buddismo e Confucianesimo il primo, e all'interno della casta del Bramini il secondo, i punti di riferimento divennero abbastanza chiari e il loro divenne un cammino alla scoperta di culture omogenee, sostanzialmente compatte e bene articolate.

Oggi questi punti di riferimento non ci sono più.

Certamente la tradizione ha ovunque un peso, spesso consistente, a volte ancora dominante, però essa è incalzata da un mutamento che non si presenta organizzato e strutturato, come una proposta alternativa di pensiero, di sistema morale, di credo religioso, di modello di vita.

Che futuro hanno le esperienze di missionari (stranieri o locali) che s’immergono nello Zen, o che seguono i modelli degli “ashram” indù? Si tratta di scommesse sul futuro o di anacronistici tentativi di capire e accogliere una cultura che scompare?

Quando arrivò l'Islam, o successivamente quando arrivò il modello "cristiano" portato dall'Inghilterra, l’induismo ebbe a confrontarsi con una realtà tutto sommato compatta e definibile, almeno a grandi linee.

La modernità è invece inafferrabile e imprevedibile. E' noto che Khomeini temeva molto più il nemico "modernità" che non il comunismo ateo, proprio a causa della sua inafferrabilità: contro che cosa "combatto", contro il computer? contro la moda femminile? contro il cinema? contro la libertà di pensiero?

Nessuna di queste cose attacca frontalmente la religione e la tradizione, tutte però la erodono.

Soprattutto contro "chi" deve essere la battaglia? Non c'è un leader da abbattere né un esercito contro cui schierarsi...

La modernità può essere, e a volte di fatto è, identificata con l'Occidente, ma si tratta di una identificazione che regge solo parzialmente.

L'Occidente è oggi confuso e diviso, anche nella sua valutazione del fenomeno che esso stesso ha generato. Se paradossalmente l'Occidente cessasse di colpo di influire sul resto del mondo, credo che non per questo il fenomeno "modernità" si arresterebbe.

Ci sarebbe forse un rallentamento nella sua diffusione, ma si perderebbe anche una ricerca critica che bene o male in Occidente si va diffondendo, anche in nome dei problemi che il fenomeno crea a livello planetario.

E' l'Occidente oggi che dà all'ecologia uno spazio rilevante, ed è l'Occidente che abbozza una ricerca alternativa al capitalismo puro e semplice che ha spazzato via il marxismo almeno nella sua forma economicamente più ortodossa...

Se ne è stato l'iniziatore, e se mai ne è stato "padrone", oggi comunque l'Occidente non ha più il controllo o comunque il monopolio della modernità: il processo è avviato e continua per conto suo, nonostante le critiche e le ricerche alternative che nell'Occidente stesso si trovano.

Oggi l'Asia sta - da una parte accogliendo in modo spesso vorticoso la modernità; dall'altra cercando di realizzare questa accoglienza in maniera critica.

L'ha fatto il Giappone del secolo scorso e poi fino alla II Guerra mondiale, ma l'ha fatto e lo sta facendo anche l'India che ha cercato uno sviluppo controllato, limitando l'influsso esterno a ciò che riteneva il minimo indispensabile.

Cina e Sud Est asiatico, usciti dall'ubriacatura di una pretesa palingenesi - e quindi dall'illusione della radicale modernità marxista - cercano anche nelle loro tradizioni le risorse per affrontare la modernità con criteri loro propri, che evitino una resa alla cultura occidentale.

Ci sono indubbiamente, in questa ricerca, interessi di potere ed economici. Fa comodo ai governanti di Singapore dire "no grazie" alla Carta dei Diritti dell'Uomo con il pretesto che sono frutto di una mentalità occidentale che non interessa all'Asia.

Tuttavia la ricerca di una risposta alla modernità che parta da modelli e valori profondamente radicati nella cultura e nella tradizione di un popolo è non solo legittima, ma indispensabile.

Non si può semplicemente sovrapporre un nuovo che viene da fuori ad un vecchio che si conserva a fatica, e meno ancora spazzare tutto per asservirsi completamente ad una modernità selvaggia e puramente mercantile, come sembra avvenire in molte periferie urbane di tutto il mondo.

L'Asia che accoglie il moderno, ma lo rilegge nel proprio contesto, è il segno chiaro che esso non può più essere identificato con l'Occidente, ed è diventato invece una realtà planetaria anche se non omogenea…

Quale lo spazio del missionario in tutto questo?

Bisognerebbe anzitutto che fosse lui stesso a "fare i conti" con la modernità.

Ovviamente non è possibile schierarsi come in passato poteva avvenire, tra una religione e un'altra, un'ideologia e un'altra, proprio per il carattere indefinito e aperto che la modernità presenta; anche le comunità "alternative" più radicali ed elitarie spesso accettano elementi "moderni": che siano i contraccettivi o gli antibiotici, il telefono o l'aereo, è difficile immaginare una alternativa che davvero non si lasci contaminare per nulla.

Tuttavia esiste una minoranza di missionari che, insieme a teologi e a cristiani locali, conduce una critica radicale nei confronti della modernità. Essa avrebbe condotto l'Occidente al disastro perché lo ha disumanizzato; peggio ancora farebbe in Asia e in Africa, dove giunge come un corpo estraneo, viene assimilato troppo rapidamente e perciò produce risultati devastanti.

Poiché è antiumana, la modernità radicale è anche anticristiana, diffondendo una mentalità individualista, consumista, efficientista, competitiva e razzista.

Le società tradizionali, per contro, avrebbero avuto - secondo queste valutazioni - la capacità di proporre una vita umana più armonica e integrata.

Bisogna dunque che la missione proponga una specie di alleanza "trasversale" che passi tutti i confini religiosi e ideologici per raggiungere, nelle diverse culture e religioni, tutti coloro che sono disposti a combattere questi rischi gravissimi.

Come?

Proponendo società o comunità alternative che diano spazio ai valori tradizionali facendoli però evolvere verso la giustizia, la libertà, il rispetto, verso un "umanesimo" che abbia il senso del trascendente e non sia invece ateo o cinicamente agnostico.

La lotta è fra umanizzazione e disumanizzazione, e in questa lotta il contributo delle culture tradizionali asiatiche pare essere più determinante di quello che può essere offerto dalla fede cristiana e dalla Chiesa, sia perché queste culture sono profondamente radicate nella mentalità e nella vita dei popoli del Continente, sia perché il cristianesimo, oltre a essere straniero è gravemente compromesso con le pesanti contraddizioni della modernità com'è vissuta in Occidente e come viene vista nei cristiani "occidentalizzati" dell'Asia.

Occorrerebbe un "bagno purificatore" nelle spiritualità dell'Oriente e nelle culture popolari per giungere ad un Cristianesimo più autentico che possa, insieme alle altre fedi religiose o secolari, far fronte al rischio della distruzione non soltanto dell'uomo, ma di tutto il creato.

L'Asia da parte sua non è del tutto nuova a proposte alternative di questo tipo, basti a pensare a Gandhi e a Vinobha Bhave.

Il loro limite sta nella difficoltà, finora mai sormontata, di renderle esperienze di massa e non soltanto di élite. Spesso inoltre, come accennerò dopo, sono considerate ancora una volta come un bisogno indotto dall'esterno: ora che ci stiamo avvicinando al "progresso", vengono a dirci che esso fa male!

Se mantenute nel loro rigore iniziale, difficilmente queste proposte possono trovare udienza su larga scala, incidere su popoli interi; d'altra parte, quando tentano di uscire dal giro dei pochi "sperimentatori", rapidamente devono scendere a patti e a compromessi che affievoliscono la carica forte di contestazione e di controproposta.

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Tra il "no" radicale e il "sì" acritico, c'è tuttavia spazio per una scelta di orientamento: mettersi dentro la modernità come una circostanza da cogliere, un'occasione da valorizzare? oppure sottolinearne gli aspetti negativi, i pericoli?

Il coinvolgimento critico o l'alternativa?

A mio parere non c'è una risposta "cristiana" a queste domande. Penso anzi che la Chiesa debba fare spazio a tentativi che partono sia dall'uno che dall'altro presupposto.

Il primo presenta di più il rischio dell’inconsapevolezza, di lasciarsi condizionare e guidare dall'esterno, di non sapersi rifiutare alla "mondanità" e di cadere nel vortice della corsa al nuovo, al consumo, al tecnologicamente più avanzato che alla fine si rivelano privi di contenuto e deludenti.

Anche chi, in Occidente, rimprovera alla Chiesa di non essere sufficientemente moderna e avanzata, in ultima analisi si rivolge ad essa solo se e quando sente il bisogno di "valori" diversi da quelli che già trova nel proprio ambiente, e proposte che forse non riesce ad accettare ma comunque ritiene stimolanti e specifiche. Una Chiesa semplicemente allineata alla modernità non avrebbe più nulla da dire.

Il secondo, cioè il tentativo di creare "alternative", presenta il rischio già segnalato di fare operazioni di élite.. Operazioni che possono anche essere giustificate e utili quando sono volutamente marginali: una comunità religiosa contemplativa non pretende di "informare" la società. Si colloca sociologicamente al suo fianco e proprio con il suo stare "fuori" diventa proposta e stimolo a qualcosa di diverso e di nuovo.

Ma quando vorrebbero essere non più soltanto “testimoni colpevoli” del tempo e della società in cui si collocano, bensì concrete proposte di un altro modo con cui tutta la società andrebbe impostata, tutto diventa più complesso.

E' quanto abbiamo dovuto sperimentare in questi anni, quando ci siamo trovati nella possibilità di dare una mano alla rifondazione di un sistema universitario in Cambogia.

Già è stata una alternativa alla mentalità corrente proporre e ottenere l'introduzione di materie "umanistiche" quali la filosofia, la sociologia e la storia. Ma poi?

Il sogno di una università che realizzasse una ricerca filosofica radicata nella cultura locale e capace di confrontarsi alla pari con le culture esterne si è presto trovato davanti ad alcune realtà molto precise: chi dà da mangiare al filosofo? dove trovare le fonti per un cammino del genere? E quanto tempo e investimento richiederebbe il raccoglierle? Chi, in Cambogia, accetta di lavorare per riscoprire le proprie radici piuttosto che buttarsi sul nuovo? quanto di "moderno" è compatibile con una reale alternativa culturale? ...ad esempio, il computer...

C'è come una insopportabile frizione fra l'esigenza di un passo graduale, lento, riflessivo che permetta di assorbire e fare propria una visione alternativa della realtà, una capacità critica di ciò che dall'esterno viene insistentemente proposto, e l'irrompere delle "sirene" della modernità: denaro, efficienza, scambi, sviluppo tecnologico, velocità...

Di fronte alle nostre esitazioni, professori e studenti cambogiani ci hanno chiesto chi siamo noi per decidere che l'università di Phnom Penh non deve avere i computer.

Ancora una volta anche noi ci siamo interrogati se e quanto il nostro desiderio di proporre un cammino che a noi sembra giusto perché più rispettoso della loro cultura, più prudente sul futuro e più critico dell’Occidente non finisca per diventare una nuova, involontaria imposizione, una nuova sottile forma di colonialismo culturale..

Quale è oggi la cultura cambogiana, quella tradizionale, soffocata da decenni di avventure politiche e culturali devastanti, e di cui la gente pare non avere che una vaga coscienza? O quella che di tali decenni è frutto, ansiosa di confrontarsi con la modernità senza remore e controlli?

"Date a noi gli strumenti, e lasciate a noi di decidere che cosa ci serve e che cosa non ci serve"... Bisogna dire di sì, anche se l'esperienza pare insegnare che sono poi questi strumenti a diventare, in un certo senso, coloro che decidono e ad imporre uno stile, i bisogni, i valori?

Ad altri livelli, questo stridore si sente comunque. C'è un mondo che finisce, e forse è giusto che sia così. Si vorrebbe che finisse gradualmente, senza traumi, per dare al nuovo il tempo di rispettare l'uomo e farlo crescere. Ma quanto è possibile?

Quanto è lento il processo armonico di maturazione di un uomo, o di una cultura, e quanto rapide e traumatiche sono invece le trasformazioni che stanno avvenendo o incombono!

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Dovrei ora cercare di concludere, anche se temo di non saperlo fare in modo soddisfacente.

I missionari sono per lo più gente pratica, e anche travolti da interrogativi e questioni che richiedono studio e tempo, finiscono per chiedersi: d’accordo, ma intanto che cosa faccio? Quale atteggiamento assumo?

E’ in questo senso che offro alcuni spunti, molto semplici.

1. La modernità che irrompe, quale che sia il giudizio che diamo di essa, può e deve costituire l’occasione per riscoprire la novità più profonda e autentica del Vangelo.

Siamo infatti troppo abituati ad una religiosità e ad una Chiesa che si preoccupano di controllare tutto, di saper rispondere a tutto, di non portare turbamenti e di mantenere lo statu quo.

Ovviamente, non ogni cambiamento è buono. Tuttavia, la frenesia del cambiamento che accompagna il moderno che avanza, a meno che proprio vogliamo rifugiarci nel conservatorismo più chiuso, ci costringe ad un discernimento. Quel Vangelo che ci parla di “vita nuova” per il singolo e per la comunità dei credenti, e Cristo che è stato crocifisso perché intollerabile per l’establishment della sua epoca, non possono accontentarsi di fedeli che restano spettatori muti o smarriti o contrariati di un mondo che in qualche modo si rinnova.

Dove e in che cosa il Vangelo ci propone novità autentiche?

2. La risposta deve venire in primo luogo da un serio approfondimento della tradizione. La novità - è stato scritto - si trova scavando più profondamente in se stessi e nelle cose.

Approfondimento della tradizione cristiana ma anche di quella delle religioni e delle culture dell’Asia, con la loro carica di spiritualità e la loro esperienza dell’uomo.

Sì dunque allo Zen o agli Ashram o ad ogni altro accostamento serio delle realtà spirituali, religiose, culturali dell’Asia.

Saranno proprio coloro che più si lasciano affascinare dalla modernità che sentiranno il bisogno di cercare fonti diverse, più pacate e stabili, per rispondere alla sete del loro essere uomini - per quanto informatizzati e moderni.

Proprio l’esperienza della Cina, della Cambogia e del Sud Est asiatico, che hanno tentato di sradicare completamente il passato, sono lì a dimostrare che questo non è possibile, e che prima o poi ad esso bisogna in qualche modo ritornare.

In questo senso, vale anche la proposta di una specie di alleanza “trasversale” che vada al di là dei confini delle religioni tradizionali, per fare in modo che ci si ritrovi su un terreno comune, com’è stato l’incontro delle religioni per la pace ad Assisi.

3. Questo approfondimento non può però avere il significato di una paura del nuovo, di un cercare rifugio dalle sfide dell’oggi.

Anche se non sappiamo quale futuro ci aspetta, il cristiano cammina con la società senza cercare sconti e fughe. Bisogna “stare dentro”, e oggi “stare dentro” significa vivere questo fenomeno in gran parte difficile da analizzare e per certi versi radicalmente sconvolgente della modernità.

Ciò ha per i missionari e per la Chiesa locale significati anche molto precisi: orientarsi di più verso le grandi città e la cultura urbana; accettare la sfida del mondo giovanile così numeroso, in crescita tumultuosa e difficile da capire com’è oggi anche in Asia; entrare nel mondo dei “nuovi areopaghi”. Le forze sono certo poche, specie in Asia, ma quelle poche devono orientarsi bene. Non alleandosi ai ricchi e ai potenti, ma convincendosi che i poveri e la giustizia si servono sia stando accanto ai poveri, sia cercando di fare in modo che possano davvero usufruire di tutto ciò che il mondo moderno mette a disposizione.

4. Infine, la Chiesa dovrebbe continuare a dare spazio a modalità diverse di approccio al problema, perché esse a mio avviso possono completarsi, stimolarsi e aiutarsi a vicenda.

Le “comunità alternative” che alcuni missiologi e teologi propongono sono indubbiamente interessanti, con i limiti che ho brevemente ricordato. Esse sollecitano a non adagiarsi, a non lasciarsi omologare al moderno così come ci viene propinato dai potenti in politica, economia, cultura.

Non possono però pretendere di essere efficaci se si isolano e diventano “sette” di puri al riparo dai peccati della modernità. Occorre anche una Chiesa magari meno profetica, più “compromessa” e tuttavia immersa nel quotidiano di tutti. Una Chiesa che cerca di fare buon uso del sistema scolastico attuale, della medicina attuale, delle comunicazioni come sono organizzate, che dialoga con la politica come essa è - pur consapevole che queste sono tutte realtà profondamente ambigue o, peggio, dominate e controllate da forze che strumentalizzano l’uomo e ultimamente lo opprimono.

Non per approvare tutto ciò, ma perché questa è la realtà, e solo standoci dentro con la consapevolezza che essa non ci soddisfa e va mutata, e ascoltando il grido dei profeti che la rifiutano, ne condannano i gestori e ne consolano le vittime, si può cambiare davvero qualcosa - in attesa che Egli venga...

F. Cagnasso Verona, 29 novembre 1996