Schegge di Bengala - 2020

p. Franco Cagnasso

2020

28/12

Ponti - Rinascita

25/11

Maria - Bestiario - Aiuti

31/10

HotelSmarrimento

12/10

Denuncia – Land Grabber 

2/10

Deturpatori – Amore - Alimentazione 

7/9

Charles de Foucauld 

11/8

Camaleonte - Autarchia 

28/7

Nuova Zelanda - Canapa 

29/6

 Clandestini - Occasioni 

28/5

Canton Hall – Keralesi - Onestà 

16/5

Marcia indietro - Fuori 

30/4

Emergenza – Fanny man 

7/4

Non ero sola – Folle – Pensavamo…  

30/3

Ammortizzatori

2/3

Sorpresa – Lo sapevi? - Cugini

28/1

BRAC – Centenario 

198

Dhaka, 28 dicembre 2020


Ponti

Anni fa, per parecchi mesi, ebbi un incubo ricorrente: mi trovavo su un altissimo “ponte”, una fila di pali di bambù, uno dopo l’altro, appoggiati orizzontalmente su traballanti cavalletti di altri bambù piantati sul fondo del fiume; bisognava camminare in equilibrio su quell’unico bambù, appoggiandosi con una sola mano a un’unica “sponda” (sì, anch’essa di bambù e traballante). Grandi e bambini, persino vecchi, lo facevano con disinvoltura, ma a me era già capitato di “impuntarmi” a metà e non riuscire a proseguire, nè avanti nè indietro, mentre alle mie spalle la fila si allungava e quella di fronte, sulla riva, aspettava il suo turno e s’inquietava: vi muovete sì o no o no? Ne uscii anche  quella volta senza volare nell’acqua, ma nel sogno il ponte mi appariva ad altezza vertiginosa, lunghissimo, e io ero sempre là, accovacciato su un bambù che oscillava...

 

Se ne vedono ancora di ponti così, ma pochi ormai. Lo sviluppo del paese ha privilegiato le strade, e i trasporti fluviali di persone e di merci hanno perso importanza. Abbiamo ora ponti di ogni dimensione, e altri sono in costruzione. Il 10 dicembre scorso, a sud di Dhaka, una enorme chiatta speciale ha sistemato su pilastri l’ultimo di 22 tronconi in cui è suddiviso il nuovo ponte sul fiume Padma, formato dalla congiunzione del Brahmaputra che, entrando dal Nord, nella parte centrale del Bangladesh, si immette nel Gange, proveniente da nord-ovest. In questo modo il Bangladesh è suddiviso in tre quadranti: est, nord-ovest, sud-ovest.

 

Per passare dall’uno all’altro quadrante era indispensabile fare uso di barche, battelli, traghetti. Il primo che unì due quadranti (nord-ovest e sud-ovest) fu il ponte ferroviario sul Gange, costruito dai Britannici durante il periodo coloniale, e poi affiancato da un ponte stradale. Seguì, nel 2000, il ponte sul Jamuna (Bramaputra) che collega il quadrante est con il nord-ovest; cinque chilometri di lunghezza, opera realizzata sotto la responsabilità di ditte coreane, che ovviamente subappaltarono parte del lavoro ad altre ditte – anche italiane. Ne venne un grande beneficio per tutto il nord-ovest, ma in pochi anni i tempi di viaggio fra nord e centro si prolungarono di nuovo, perché le vecchie strade non reggevano l’aumento del traffico ed erano sempre più affollate, con ingorghi giganteschi... Si mise mano ai lavori sulla strada che, dopo anni di disagi enormi per i viaggiatori, hanno reso largo e comodo il tratto da Dhaka fino al ponte, e ora stanno facendo tribolare i viaggiatori del tratto nord, che si consolano sperando che un giorno tutto sarà finito.

 

Mancava il collegamento del quadrante est, con il sud-ovest, ma con il ventiduesimo pezzo sistemato il 10 dicembre scorso, ora fra le due sponde c’è un ponte lungo oltre sei chilometri. Mentre si aspetta con ansia che questo importante elemento di sviluppo diventi percorribile (entro la metà del 2022), ci si rallegra di questo successo ormai sicuro con un tratto di orgoglio tutto particolare. Si pensava infatti che il ponte sarebbe stato finanziato per 1,2 miliardi di dollari dalla Banca Mondiale e - al suo seguito – la Banca Asiatica per lo Sviluppo e la Banca Islamica per lo Sviluppo avrebbero contribuito ulteriormente. Ma quando, dopo varie revisioni, i preventivi dei costi aumentarono vertiginosamente, nel settembre 2011 si parlò di corruzione e la Banca Mondiale si ritirò; così fecero le altre, mandando in fumo la prospettiva di ricevere miliardi di dollari.

 

Il governo ebbe un sussulto di orgoglio. Un’inchiesta della Commissione Anti Corruzione del Bangladesh sostenne che non c’erano prove di reati, e la Primo Ministro Sheikh Hasina disse: “Vogliono che chiediamo l’elemosina, che continuiamo come porcellini d’India (sic). Andremo avanti con il progetto usando le nostre risorse”, e decise di procedere comunque, con le proprie forze. Sembrava più una sfida destinata a fallire che una scelta politica ragionata, ma Hasina ridusse i finanziamenti destinati ad altre grandi opere, affidò l’opera a due ditte cinesi, impose balzelli provvisori qua e là, emise speciali obbligazioni – e iniziò i lavori. Si fece anche un’inchiesta da parte della Banca Mondiale, affidata a inquirenti canadesi, che conclusero sostenendo che non c’erano prove di corruzione. Ma la discolpa non fece ritornare sui propri passi la Primo Ministro che non tornò indietro a chiedere aiuto. Quando la struttura portante è stata completata, ha commentato: “Volevo far vedere che possiamo farcela. E oggi lo vedono”.

 

 

Rinascita

Ainul era un commerciante, con moglie e tre figli, che gestiva anche una piccola fabbrica tessile. Musulmano praticante, partecipava regolarmente alle preghiere nella moschea, alle feste e alle attività della comunità islamica, considerava la vita di famiglia come parte del suo dovere, senza particolari difficoltà né entusiasmi. Ma ogni tanto si sentiva a disagio, sentiva – se interpreto bene i suoi pensieri – di partecipare ad una religione, ma non di comunicare con Dio; allora gli tornava alla mente una frase che la nonna gli aveva detto varie volte: se non hai un “guru”, qualcuno che ti guida personalmente, non arrivi a incontrare veramente Dio. Il “guru” è figura tipica di varie correnti dell’induismo.

 

Non aveva mai dato peso a quell’idea, ma alla fine decise che era ora di ascoltare la nonna, e si mise alla ricerca. In Bangladesh non mancavano i “pir”, membri della corrente islamica “Sufi”, spesso ispiratori e guide di gruppi di spiritualità che fanno capo a un santuario, alcuni dei quali sono noti in tutto il Paese. Ainul chiedeva aiuto per trovare un senso alle sue pratiche religiose. All’inizio ne fu deluso, ma la sua “sete” cresceva. Continuò a lungo a cercare finché, nel 2000, le parole di un “pir” riuscirono a toccargli il cuore e la mente, aprendogli una prospettiva nuova: non sono le pratiche religiose che ti portano alla fede, è la fede che ti conduce a cambiare vita e a pregare, e dà senso anche alle pratiche religiose, da vivere con devozione nella libertà. Con la fede, viene la coerenza della vita, il tuo rapporto con gli altri, e il passo determinante per dare senso a te stesso: arrendersi a Dio, completamente.

 

Ainul incominciò a cambiare, anzitutto cercando di rendere coerente il proprio modo di vivere, e - pur continuando nel commercio - giunse a vendere la fabbrica che gestiva, perché si accorse di essere tentato dall’avidità e dal praticare astuzie e inganni che sfruttavano gli altri. La moglie si risentì di questa scelta fatta senza nemmeno informarla, e dopo varie proteste iniziò uno sciopero della fame per costringere il marito a tornare “alla normalità”. Fu il figlio maggiore a intervenire: “Mamma, non vedi che papà è cambiato davvero? Ha pazienza con noi, vuole essere onesto, è sereno. Certo, ora non va più regolarmente alla moschea e la gente lo critica, lo hanno persino minacciato, ma preferisci che ritorni come prima?” La donna si persuase, e gradualmente anche lei, e pure i figli, presero la strada di Ainul.

 

Il quale non ha fatto l’iniziazione per diventare a sua volta “pir”, ma dopo questa esperienza di rinascita spirituale ha tessuto rapporti con tante persone di varie religioni, con cui condivide il suo cammino di uomo in ricerca, musulmano “libero” che si è consegnato a Dio. Quando sentì dire che non lontano da Dinajpur c’era un “pir” cristiano, dove molti andavano per consigli spirituali, si diede da fare per rintracciarlo. Abitava lontano, ma pur non trovandolo una prima volta, lo cercò una seconda e poi una terza, finché si incontrarono:era p. Enzo Corba, missionario del PIME da tanti anni in Bangladesh. Dopo una lunghissima conversazione dissero l’uno all’altro: “Sì, siamo fratelli”. Ne nacque un'amicizia profonda e dinamica che durò fino alla morte di p. Enzo.

 

Ainul ogni anno organizza una festa, a cui invita nella sua ampia casa gli amici che capiscono le sue scelte. Oltre cento persone trascorrono la notte intera insieme: condividono, pregano, mangiano, ascoltano, cantano. Celebrano il momento in cui le parole del “Pir” gli hanno toccato il cuore e cambiato la vita, facendolo passare da una religiosità arida, impostata su norme e osservanze, alla “resa” a Dio. Quest’anno hanno celebrato il ventesimo anniversario di questa conversione, che è stata per lui una rinascita.                                   

 

p. Franco Cagnasso

197

Rajshahi – 25 novembre 2020 

 

Maria
Poco più di trent’anni, credo. La vedo per la prima volta quando viene alla parrocchia per ricevere un piccolo aiuto, distribuito grazie ad una donazione del PIME. Poi mi cerca e mi rintraccia, e la cosa mi dà fastidio. È troppa la gente che sente dire meraviglie di quel padre straniero che aiuta tutti, in qualche modo riesce a farsi dare da qualcuno il mio numero di telefono, e s’aspetta, direi esige, che con questo tutti i problemi saranno risolti... La mando via più volte, dicendo che non posso fare nulla, ma poi riesce ad agganciarmi.  

         
Non è simpatica. Porta un velo sulla testa e la maschera antivirus; gli occhi grigi sono un mare di tristezza, smarrimento, paura; fissa a lungo, silenziosa, prima di parlare in modo aspro, che sembra aggressivo. Ha una grave infezione all’orecchio destro, che non ha mai potuto curare, con dolori che non la lasciano dormire, e l’orecchio sinistro è debole. Devo far ripetere più volte ciò che dice, lei non mi capisce, fraintende, si spazientisce... Era incinta del primo figlio, undici anni fa, quando il marito morì in un incidente e si trovò sola con il bambino, i genitori poverissimi, un fratello minore fannullone. Sono cristiani cattolici, vivono a Khulna, credo che appartengano al gruppo dei “rishi”, fuori casta indù, impuri e disprezzati scuoiatori di animali e conciatori di pelli. Giovane vedova affamata, venne con il bambino a Dhaka, trovando lavoro in una fabbrica di abiti; con lo stipendio e tante ore di straordinari manteneva tutti. Poi... ecco la pandemia: la fabbrica chiude, e ora Maria è qui, davanti a me, e disperatamente mi chiede di farla uscire dalla disperazione.    

   
Le do qualche cosa. Ritorna, insistente, noiosa; ma alla fine mi convinco che è seria. Vuole una macchina per cucire e quando le chiedo se sa fare la sarta mi risponde irritata: “Certo che lo so fare, ho cucito abiti per tanti anni, e non ho imparato?”. “E il taglio? e tutto il resto?“ “Anche taglio e tutto il resto, so quello che dico”. Mi do dello stupido perché so bene che finirà per confessare che non se la cava, ma prometto di procurarle la macchina e, come sempre in casi del genere, in poco tempo saltano fuori i “corollari”: macchina significa anche ferro da stiro, tavolino, coperta, orlatrice, filo, tessuti in abbondanza, anticipo per trovar posto in un ostello, e medicine per l’orecchio ormai insopportabile.
    

Mi stupisce invece perché, messo insieme l’indispensabile per iniziare, in brevissimo tempo si fa conoscere, e inizia a guadagnare. Ovviamente, con questo si sente autorizzata a chiedere di più, perché non può lasciare genitori, figlio e fratello alla fame, e perché le hanno detto che l’orecchio è in condizioni molto gravi, occorre uno specialista, probabilmente un’operazione. Mi telefona tre, quattro volte al giorno per chiedermi se sto bene, per implorare: non lasciarmi! Però il lavoro si avvia decisamente bene e qualche volta, quando ne parla, sorride un po’, quasi per dirmi: “Pensavi che non sarei stata capace, vero?” Non manca qualche bugia: “sì, le bugie dei poveri” mi spiegò una volta una poveretta che avevo accusato di aver mentito per farsi aiutare.
    

Una notte all’una, mi sveglia con una telefonata, piangendo irrefrenabilmente: mio padre ha avuto un ictus, è paralizzato in ospedale. Parte subito per Khulna; derubata mentre viaggia in autobus, non sa come far dimettere il padre: finché non paga il conto, niente dimissione, e il conto cresce giorno dopo giorno. Ritorna a Dhaka, lavora, paga. Ora le cose per lei andrebbero benino, ma non può sopportare il pensiero del papà affidato alle cure della mamma, anche lei malandata.
    

L’orecchio va un po’ meglio, il lavoro cresce, il ritornello rimane, insistente e angosciato: padre Franco, non lasciarmi, è la prima volta che trovo qualcuno a cui appoggiarmi...
       

Le spiego che mi assenterò per una decina di giorni: vado a Rajshahi alla comunità Snehonir. Mi telefona spesso anche là finché le rispondo irritato: piantala, lo sai che sono via, sto bene, non chiamare tutti i momenti! Due giorni di silenzio, poi di nuovo una chiamata notturna. È Padre Shamir, il giovane assistente della parrocchia di S. Christina, a Dhaka. “P. Franco – mi chiede - conosci una donna che abita a Kollanpur, è di Khulna, e fa la sarta?” “Maria?” “Sì, credo si chiamasse Maria. È partita questa mattina per Khulna, perché il papà si era aggravato. Lo ha visto in ospedale, lo ha fatto portare a casa, e poi... e poi è morta. Un ictus”.
       

Il padrone della stanza in cui viveva, saputa la notizia, subito sostituisce la macchina da cucire e il ferro da stiro, nuovi di zecca, con un’altra macchina arrugginita e fuori uso, e con un ferro da stiro malandato, e fa sparire le stoffe e gli abiti in lavorazione. Ai parenti che si fanno vedere consegna la macchina da cucire vecchia, e chiede due mesi di affitto per permettere di portar via le altre cose che appartenevano a lei, compreso lo scarso mobilio e il materassino su cui dormiva per terra... Loro non pagano, tutto rimane a lui.

       
“Maria, ho scritto questa scheggia per mostrarti che, anche se mi arrabbiavo con te, non ti volevo proprio abbandonare, e per dirti il mio rammarico perché non sono riuscito a farti vincere la paura. Ti ammiravo, e speravo tanto di riuscire a vedere nei tuoi occhi un poco di pace, di speranza. Pensavo alle parole di Gesù: Beati i Poveri, Beati coloro che piangono. Ora ti prego – sì, prego proprio te – di aiutarmi a credere in quelle parole.”
Mi hanno detto che è stata sepolta con un abito bianco.

Rajshahi, 25 novembre 2020

        

Aggiunta

Ho esitato a lungo se pubblicare o no la scheggia “Maria”, pubblicata subito prima di questa, perché molto, forse troppo emotiva e personale. Ma ho deciso per il sì perché esprime un momento autentico del Bangladesh come lo vedo e lo vivo.

     

Ma poi... sorpresa. Maria non si chiamava Maria, forse non faceva la sarta, forse il furto di cui mi aveva parlato non è mai avvenuto, forse le ricevute che mi ha mostrato e consegnato erano false, certamente il papà non ha avuto un ictus ma sta bene e – pur anziano – ancora lavora, forse è morta veramente: ho visto numerose fotografie della salma nella bara, e c’era pure l’abito bianco che mi ha commosso. Lo so che oggi si possono falsificare le fotografie a piacere, ma la notizia della sua morte non me l’ha data lei (avrei avuto qualche dubbio in più...) e chi mi ha parlato della faccenda non era parte in causa e non aveva interesse a raccontarmi di una finta morte.

    

Mi sono chiesto se dire a Bruno e a Giuliano – i fedelissimi curatori di Banglanews e anche della pubblicazione delle schegge – di non pubblicare questa scheggia; oppure se pubblicarla facendo poi finta di niente, tacendo sull’imbroglio per non fare la figura del... Ma ho scelto di pubblicare e di fare questa aggiunta: anche questo è Bangladesh, anche questa è missione, anche questo sono io.

     

Rimane il rammarico che questa  signora non abbia potuto fare l’attrice, rimane la preghiera per lei – che certo non ha vissuto bene la beatitudine annunciata da Gesù, ma spero si sia ora incontrata con la Sua misericordia. Rimane la fatica di discernere, capire, trovare le vie giuste per offrire un aiuto a chi ha davvero bisogno – e anche questa sedicente Maria aveva bisogno di aiuto: un bisogno di aiuto differente che mi dispiace non aver saputo cogliere.

Dhaka, 4 dicembre 2020

      

       
Bestiario
Pochi anni fa, buoi e bufali che trainavano carri o aravano nei campi facevano parte del panorama, come le barche a vela sui fiumi. Sono quasi scomparsi, capita di vederli occasionalmente, in zone remote. Quasi scomparsi anche i cavalli, piccoli e robusti, che stavano ai buoi come l’automobile sta al camion: trasporto più veloce e più leggero...
     
Numerose le mucche, dovunque ci sia un filo d’erba, oppure accanto a grandi mucchi di paglia di riso, che consumano pian piano: cibo magro e poco appetitoso che giustifica le dimensioni minute della mucca, e l’avara produzione di latte... Si stanno facendo avanti le straniere: olandesi e australiane soprattutto, di cui con incredulità si sente dire che producono oltre 20 litri di latte, però ci vogliono un sacco di soldi per comprarle, nutrirle, curarle: non si adattano facilmente.
   
Le capre sono tante e dappertutto, presenti anche – come vittime - alla festa del sacrificio di Abramo. Latte, niente; ottime per la carne, devastanti per le pianticelle; non temono la concorrenza delle pecore, poche, piccole, malandate e arruffate.
   
Maiali? Neppure parlarne: impuri e proibiti, oggetto segreto di tentazione per musulmani poco osservanti.. Ma apprezzatissimi da bengalesi cristiani e soprattutto da aborigeni: impensabile un matrimonio, la commemorazione di un defunto, una riconciliazione senza un maiale da spartire. Sulle discariche lungo le strade accanto alle città si vedono ogni tanto grandi branchi di maiali nerissimi condotti al pascolo da fuori casta indù.
   
Le galline, regine di aie e cortili, erano in concorrenza con le anitre, regine degli stagni, in coabitazione con occasionali oche. Poi è arrivato l’allevamento industriale, le galline hanno invaso i mercati, la loro carne è la più economica e insipida. Restano prestigiose le “deshi” (letteralmente “nostrane” – ruspanti) magrissime e durissime, ma saporite; e le “pakistani”, le cui caratteristiche mi sfuggono.
   
Quanto ai piccioni, anche molti medici dicono che hanno la carne più nutriente, ideale per i malati, permessa anche a chi ha il colesterolo alto.
   
Circa due anni fa sono apparsi per la prima volta gli sconosciuti tacchini. Un amico – pastore luterano - mi spiegò che per racimolare qualche soldo e pagare gli studi dei figli aveva accettato la proposta di una società che in cambio di una cauzione dava 15 pulcini di tacchino, più mangime e medicine, riprendendoli poi quando avessero raggiunto le dimensioni giuste, e pagando il servizio di aver accudito ai tacchini. Si stavano diffondendo, curiosità per tutti e specialmente per i bambini... finché la società scomparve, insieme con i soldi delle cauzioni. E in poco tempo scomparvero anche i tacchini...
   
Onnipresenti i cani, in città, in campagna, al nord, al sud, nei giardini, per le strade – bianchi e marroni, qualcuno bianco e nero. Vivono per conto proprio, sopportando con noncuranza la presenza di esseri umani sui loro territori; i gatti non si fanno notare, ma ci sono...
   
Zanzare? Tante: non solo quelle innocue, ma anche le tradizionali portatrici di malaria, rimaste nelle zone collinari nonostante le disinfestazioni radicali di qualche decennio fa, e si stanno diffondendo, tristemente famose e temute, quelle che trasmettono febbre dengue, e recentemente la cicungunia – che è ancora peggio. Meglio non parlarne...
   
     
Aiuti
Quando è stato chiaro che la pandemia era arrivata anche qui, e poche settimane di “lockdown” hanno sconvolto la vita di milioni di persone, il governo ha lanciato un progetto di aiuto su due fronti: dare “stimoli” ad imprese varie, grandi e piccole, e dare a 5 milioni di “ultra poveri” una donazione “una tantum” di 2.500 taka, circa 27 euro. A sei mesi dalla decisione risulta che è stata preparata una lista degli aventi diritto, ma con qualche problema: trecentomila persone – chissà come mai – hanno ricevuto più di un buono ciascuno; 3.000 impiegati governativi e 7.000 pensionati – che ultrapoveri non sono – sono entrati in lista. Il 69% degli elencati, finora non ha ricevuto la somma. Chi ha potuto presentare il suo buono (ottenuto legalmente o no) a qualche ufficio incaricato della faccenda, per ricevere la favolosa somma di 2.500 taka ha dovuto lasciare mediamente 220 taka di “mancia” all’impiegato che distribuiva. 

 

p. Franco Cagnasso   

196

Dhaka– 31 ottobre 2020 

 

Hotel

Hariful Islam, oggi imprenditore agricolo, era ancora studente universitario quando, nel 2009, pensò di far qualcosa per i poveri, e con un gruppo di amici, autotassandosi, incominciò a offrire pasti gratuiti. Jahid, circa 10 anni, ne approfittava spesso: mangiava e se ne andava senza troppo ascoltare le loro raccomandazioni di comportarsi bene, lavarsi le mani e così via. Ma un giorno si accorsero che il ragazzino, dopo ogni pasto, passava accanto ad un piccolo albero fiorito e lo dissetava con un poco di acqua. Fu una sorprendente scoperta che ispirò gli organizzatori a farsi pagare... con una buona azione: io ti offro un pasto, e tu fai qualche cosa di buono. Non ci crederete, ma funzionava.

     

Il discorso è stato ripreso con maggiore impegno in tempo di pandemia. Il gruppo “Youth For Bangladesh” (YFB: Giovani per il Bangladesh), formatosi attraverso Facebook, che conta oltre 250 membri, ha iniziato a tassarsi con 10 taka al giorno per ciascuno, per aprire e gestire un “Hotel Bhalo Kaj”, “Ristorante Buona Azione”. Con un camioncino elettrico portano pasti preparati e impacchettati nella zona accanto alla Stazione Centrale di Dhaka, distribuendoli ogni mezzogiorno, dalla domenica al giovedì; il sabato si offre invece la cena, e il venerdì (giorno della preghiera comune) l’Hotel si suddivide per distribuire cibo accanto ad alcune moschee. Chiunque desidera un pasto si sente chiedere: “Oggi hai fatto una buona azione?” Basta dire “sì”, e il pranzo è offerto gratis. Nessuno può dire: “No, ma pago”. Se è “no”, vai a mangiare altrove. Non posso negare che mi viene qualche dubbio sulla sincerità di tutti i frequentatori dell’Hotel, ma gli organizzatori lo sanno bene, e pensano che comunque il messaggio è chiaro, e vale la pena di mandarlo anche se qualcuno non raccoglie.

 

  

Smarrimento

Sila e Rakish si vogliono bene; dicono spesso che solo questo li consola da una povertà estrema, dolorosa. Sono musulmani, hanno due figlie, vivono al villaggio di Sila. Rakish viene a trovarmi e mi racconta smarrito: “Hanno violentato la figlia di un mio vicino di casa. Tutti sanno chi sono i colpevoli, ma loro vanno in giro tranquilli: sono i due figli di una “persona di rispetto”, e gli altri sono loro amici. Sila dice che dobbiamo far presto a sposare la nostra più grande...”. “Ma... quanti anni ha?” chiedo perplesso. “Ne ha 14, e in paese tutti  dicono che non c’è altro da fare”.

  

Pare che la pandemia abbia portato ad un forte aumento del numero dei matrimoni precoci, forse perché, non andando a scuola, le bambine corrono più rischi. La legge permette il matrimonio solo quando la ragazza ha compiuto 18 anni, ma una clausola, introdotta circa due anni fa su pressione di gruppi islamici conservatori, prevede possibili ”circostanze particolari” che rendono lecito anche il matrimonio precoce. Che cosa siano questa circostanze non è detto; non occorre fantasia per capire che si tratta di fuga della ragazza, ma soprattutto di rapimento e stupro. Il matrimonio “sistema tutto”, e “protegge”: l’idea rimane, anche se non pochi episodi di stupro includono un preludio con cattura e pestaggio del marito, che spesso è costretto poi ad assistere.

  

La lettura dei quotidiani da qualche tempo è impressionante: ogni giorno numerosi casi di stupro, in mille circostanze diverse: notte, giorno, villaggio, città, viottolo, autobus, fabbrica, stupratore povero e ignorante, istruito e ricco, parente, conoscente, sconosciuto, compagno di scuola o lavoro, da solo, in gruppo, a volte con torture sadiche e con la morte della donna, o bambina, o bambino. Non mancano gli stupri nelle madrasse (scuole coraniche), e abbiamo pure un prete cattolico in carcere con l’accusa di sequestro di una quindicenne.  Nella vicina India già da oltre un anno c’è grande fermento, dovuto ad alcuni episodi molto gravi, l’ultimo avvenuto con una donna fuori casta. Qui non siamo da meno, e anche qui una parte dell’opinione pubblica si muove.

 

Non è chiaro se si sta scoprendo una realtà finora accuratamente coperta ma in atto anche prima, o se c’è un effettivo aumento di questi episodi.  Aumento dovuto... a che cosa? Alla pandemia? A un imbarbarimento della vita sociale causato dalla massiccia,  rapidissima urbanizzazione incontrollata? All’effetto imitazione creato da pornografia disponibile ovunque, o dalla diffusione di filmati delle loro imprese messi in circolazione dagli stupratori stessi? Forse alcuni episodi sono in qualche modo la “risposta” del maschilismo alla sua messa sotto accusa? Fra i colpevoli ci sono numerosi membri della sezione giovanile del partito al potere; nell’ultimo caso, clamoroso perché le scene fatte circolare sono particolarmente feroci, il capobanda aveva iniziato la sua carriera di noto e indisturbato delinquente nella sezione giovanile del BNP, allora al potere, ed era passato all’Awami League quando quest’ultimo ha vinto: un delinquente e uno stupro “bypartisan”... Recentemente alcuni gruppi hanno organizzato una marcia da Dhaka a Noakhali, dove era avvenuto questo fatto clamoroso. Passando per la cittadina di Feni sono stati ripetutamente assaliti da giovani del partito Awami League, appoggiati dalla polizia – che proprio nello stesso giorno aveva organizzato raduni e marce in tutto il Bangladesh per sensibilizzare i poliziotti e per dimostrare la loro volontà di contrastare gli stupri.

 

Tutti d’accordo nell’invocare la pena di morte, che il 15 ottobre è stata approvata. Si parla di “far giustizia”, di “vendetta”, di “dar sollievo alle vittime” e si afferma che la morte è una “pena esemplare”. Non immagino che prima di “divertirsi” massacrando una ragazza, un branco o una singola persona assatanati valutino se rischiano l’ergastolo o la pena di morte. In un delirio di onnipotenza si pensano immuni da tutto. Inoltre, chi protegge gli stupratori facendoli sfuggire alla possibile condanna all’ergastolo... non li proteggerà più se c’è la possibilità di una condanna a morte? Se gli stupri sono tanti, le denunce sono molto meno; meno ancora le indagini, meno ancora i processi, sotto l’1% il numero delle sentenze. Qualcuno avverte che la definizione del reato va cambiata e precisata, perché spesso basta un particolare per passare dalla qualifica di stupro al “tentativo di stupro” – alleggerendo molto la pena.

Ma chi sa spiegare le radici culturali di un fenomeno del genere? È possibile cambiarlo a colpi di sentenze di tribunale? Di che cosa abbiamo bisogno? 

 

p. Franco Cagnasso  

195

Dhaka – 12 ottobre 2020  

 

Denuncia

È del 2013 il “Custodial death prevention act” (prevenzione delle morti in custodia), una legge che permette ai cittadini di denunciare la polizia nel caso che una persona arrestata muoia durante l’interrogatorio in custodia. Dopo sette anni, il 9 settembre 2020, c’è stata la prima sentenza in materia. Nel frattempo è cambiato due o tre volte il modo di morire in custodia: prima erano infarti in serie, poi tentativi di fuga, adesso scontri a fuoco... con un totale di centinaia di morti. Nonostante la nuova legge, mancavano però le denunce: chi voleva presentarle era prontamente persuaso a non perdere tempo, minacciato, se necessario aiutato a capire la concretezza delle minacce con adeguati interventi su di lui o lei, o sulla famiglia. Se proprio insisteva, semplicemente si diceva di no. C’era tuttavia un’eccezione, pendente dal 2014. Durante la preparazione di una festa di matrimonio, due informatori della polizia disturbano alcune ragazze. Rimproverati da uno degli organizzatori, telefonano alla polizia che si  precipita ad arrestare il “malfattore” Jonny, che si era permesso di richiamare il loro amico, e per buona misura porta via pure suo fratello Rocky, e alcuni altri. I due fratelli vengono legati a un palo e picchiati brutalmente, Jonny muore. Occorrono 6 mesi a Rocky per far accogliere la denuncia, e 7 anni, con incredibile tenacia, coraggio, spese per arrivare alla prima sentenza frutto di quella legge: ergastolo per i due informatori e un poliziotto, pene minori varie per altri.

 


Land Grabber

È una espressione inglese usata in Bangladesh per indicare chi ruba, occupa, invade terre altrui: un’attività molto diffusa, di cui sono spesso vittime le minoranze, ma non solo: un vero Land Grabber è di mentalità aperta, non fa discriminazione di religione, razza, cultura, sesso, età...Ultimamente il governo ha dato il via ad un grande progetto di sviluppo turistico, urbanizzazione, industrializzazione e compagnia nella regione di Cox Bazar (sud-est). Il progetto comporta l’espropriazione di vaste estensioni di terra, e i Land grabbers, professionisti e dilettanti occasionali, si sono messi al lavoro alla grande. Il sistema è semplice: si sceglie una famiglia povera che ha una casetta malandata e un pezzetto di terra. Si manda là un gruppo di persone per spiegare premurosamente che bisogna vendere la terra alla svelta, altrimenti il governo porta via tutto. Loro sono disposti a difenderli comprando la terra con un buon prezzo, senza far pagare i documenti di vendita che sono già pronti e completi: basta firmare, e ricevere subito in contanti 30 o 40mila taka. Un affarone! Se i poveracci esitano, dopo qualche giorno arriva un altro gruppo che distrugge la casa, porta via le bestie, e fa vedere che cosa farà il governo se non vendi. Nel giro di pochi giorni sono stati derubate in questo modo oltre 400 persone che, unitesi per protestare, hanno pure preso botte e si sono viste ridurre il “prezzo” che i Land Grabbers erano disposti a pagare. Alla fine, i “Grabber” (funzionari governativi, proprietari terrieri, giornalisti, politici), hanno venduto la terra al governo: un pezzo “pagato” 30.000 taka può spuntarne 300mila dal governo...

Nella zona di Modhupur (nord di Dhaka) ci sono ancora alcune aree forestali, entro cui (o ai cui margini) vivono da secoli gruppetti di aborigeni Garo, Bormon, Koch. Il governo del Bangladesh ha firmato vari documenti internazionali che regolano l’eventuale trasferimento delle popolazioni aborigene in altre aree, l’espropriazione delle loro terre, la deforestazione. Ma ha accuratamente evitato di riconoscere che in Bangladesh ci siano gruppi aborigeni: assolutamente no, ci sono soltanto piccole minoranze non meglio identificate. Per quanto riguarda le foreste, vietato abitarci e tagliare piante. Poche settimane fa, le guardie forestali di Modhupur arrivano all’improvviso sul terreno di proprietà di una donna Garo che vi ha piantato 500 banani, e sradicano tutto, perché quella piantagione viola la legge. L’accusa precisa è che la signora è una Land Grabber. In altre parole, si sarebbe arbitrariamente impadronita della terra che il governo ha portato via a lei. È esattamente ciò che avviene in tanti altri posti, specie (ma non solo) nelle zone collinari del sud. La novità sta solo nel fatto che la proprietaria è accusata di essere Land Grabber, e il Land Grabber – che normalmente è un privato di etnia bengalese - è il governo...

 

A Sylhet, che da qualche anno è sede di una diocesi, accanto alla casa del Vescovo, mons. Bijoy D’Cruze, c’è un vasto terreno destinato a scuole e ostelli che il Vescovo intende costruire e avviare gradualmente. Documenti di acquisto, carte, pagamenti, timbri, verifiche... tutto rigorosamente a posto, perché tutti sanno che la terra è sempre motivo di cupidigia e contese.

 

 Il Vescovo poi, ricordandosi che il governo vuol celebrare ecologicamente i cento anni dalla nascita del “Padre della Patria” Mujibur Rahman, facendo piantare in Bangladesh un milione di alberi, fa la sua parte, e mette a dimora 50 alberi nel suo terreno. Sarà per questo o sarà per altro, a questo punto un signorotto locale intrallazzato col partito al potere, si ricorda che tanti anni fa la terra era alberata, ed era sua, anzi del nonno (proprietario legittimo e con le carte in regola). Lo comunica al Vescovo, aspettandosi che costui – da buon cristiano – gli restituisca il maltolto con molte scuse.Ma purtroppo non succede. Allora lo aiutano a capire, andando con una banda a sradicare i cinquanta alberi. Distrutte le piante, ovviamente se ne vanno, mentre i danneggiati vanno dalla polizia – che arresta due presunti colpevoli. La notte seguente una grossa banda torna alla casa del Vescovo non per portar via i tronchi, ma per distruggere il distruggibile. Non ce la fa, perché qualcuno si sveglia prima che incomincino, avvisa, fa chiasso, arriva gente, e i rappresentanti del sedicente legittimo proprietario scappano. Una cosa è sicura: la faccenda non finisce qui. È una patata bollente che mons Bijoy D’Cruze – nel frattempo nominato arcivescovo di Dhaka -involontariamente lascia al successore, che finora non si sa chi sarà.

 

p. Franco Cagnasso  

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Dhaka – 2 ottobre 2020 

  

Deturpatori

I lavoratori che emigrano clandestinamente dal Bangladesh in cerca di lavoro, per lo più non hanno vita facile. Quasi tutti si sono appoggiati ad agenzie clandestine, o legali che fanno anche lavoro illegale: le quali li hanno persuasi che tutto è facile, basta pagare. Così partono facendo debiti e poi... documenti sequestrati, stipendi non pagati, nessuno cui rivolgersi, impossibile ritornare; per le “collaboratrici domestiche” botte, stupri, e anche morte. Le disavventure sono innumerevoli. Ci si è messo anche il Covid 19, che ha fatto licenziare migliaia di lavoratori rimasti – supponiamo – in un paese straniero senza soldi, né casa, né documenti, e tenuti alla larga perché sospetti portatori del virus. I paesi in cui si trovano cercano di liberarsene alla svelta e non se ne fanno carico; il Bangladesh fa finta di niente perché sono partiti senza documenti appropriati. Qualcuno di loro implora, poi protesta. In Vietnam, ad esempio, hanno organizzato proteste sotto l’ambasciata del Bangladesh, e alla fine ce l’hanno fatta. Ottantuno di loro sono stati messi su un aereo e poi tenuti in quarantena, dopo di che – finalmente... tutti in galera! Fanno compagnia ad altri 219 lavoratori ritornati nel giugno scorso da Qatar, Kuwait e Bahrain. Accusa? Mai presentata ufficialmente. Processo? Dopo che sarà chiarita l’accusa. Avvocato? Per che cosa, se non c’è un’accusa? Diciamo allora, usando un termine generico: quale è la colpa? Questa è chiara, chiarissima: hanno “tarnished” l’immagine del Bangladesh all’estero. Tradurrei “tarnished” con “macchiato”, o forse meglio con “deturpato”. Gente così fa fare brutta figura al Paese, e questo è un crimine – in Bangladesh. Meglio tenerli dentro. Per quanto? “Vedremo. Intanto, se ne stiano in carcere perché – ha scritto un pezzo grosso della polizia - se lasciata libera dopo la quarantena, potrebbe spargersi qua e là per il Bangladesh, e commettere crimini come furti, terrorismo, omicidi, anarchia.”  I carcerati per precauzione e per macchie sparse sulla loro patria, al momento (2.10.20) sono 416, tutti vittime collaterali della pandemia.

      

E chi li ha imbrogliati, tenendosi le ingenti somme sborsate da loro? Sembra che quelli non abbiano macchiato nulla...

 

 

Amore

Sono contadini di religione indù, abitano nella zona di Lalmonirhat, nel nord del Bangladesh. Sposati da vent’anni, hanno due figli. Da qualche tempo lei è spesso ammalata, e non si riprende nonostante le varie cure che fa, affidandosi a “kubiraj” (medici tradizionali) e a medici moderni. Ma una notte ha sognato. Il sogno le ha rivelato che per guarire deve portare in casa alcuni animali, fra cui un cavallo, un cigno, una capra e un elefante. La capra non è difficile da trovare, il cavallo costa un po’ caro, il cigno è una rarità possibile. E l’elefante?

      

Comprati gli altri animali, la coppia prepara diversi altarini davanti ai quali ogni giorno fa la  preghiera, con devozione. Ma la salute della signora non migliora. Alla fine, il marito decide: vende due terzi del terreno agricolo che possiede e si mette alla ricerca di un elefante. Dove lo trovi e da dove lo porti a casa sua, non lo so. Ma ce la fa, con l’aiuto di un giovane addestrato a guidare gli elefanti, che ovviamente chiede uno stipendio, più vitto e alloggio, e  assicura che addestrerà due giovani del villaggio a prendersi buona cura dell’animale. L’elefante non commenta, ma visto in fotografia sembra in piena forma e addirittura, direi, contento. Contento è pure il marito, perché la moglie sta  molto meglio e non nasconde la sua riconoscenza – e contenti i figli perché papà e mamma stanno bene.

 

La gente commenta: “Mai vista una cosa così!”. Si riferisce all’elefante, ovviamente; ma non pochi – pur senza dirlo - pensano all’amore.

 

 

Alimentazione

Durante i miei primi anni in Bangladesh, chi dal nord veniva a Dhaka, ogni volta si sentiva ricordare: “Mi raccomando, porta un po’ di pane”. Qua e là, infatti, nella capitale si trovava il penoso retaggio del colonialismo britannico che era un pane a cassetta mal cotto, molliccio e dolciastro, che noi italiani ci ostinavamo a desiderare come occasionale alternativa al riso, solo perché portava il pomposo nome di “pane”. I “chapati” (piadine) c’erano, buonissimi, ma... avevano un altro nome... Oggi il pane si trova quasi ovunque, è migliorato in qualità ma è sempre quello a cassetta: le favolose “baguette” che il colonialismo francese ha diffuso in Cambogia, qui non sono arrivate...  In città chi va al lavoro la mattina trova comodo mangiarne alla svelta due fette con una banana e un tè.

 

A proposito, mi hanno detto che il tè  è stato introdotto in Bengala dai Britannici, che lo distribuivano gratis nei villaggi per farne pubblicità, piacque e divenne la bevanda più diffusa. Le coltivazioni fiorirono, trovando qui, specie nel nord est, clima, posto e gente adatta alla produzione della foglia aromatica. Ma in questi ultimi anni si sta facendo strada anche il caffè, quasi sempre nella forma solubile. Si dice che il tè sia della classe popolare, il caffè della classe benestante... I coltivatori iniziano ad adattarsi. Il mercato del tè non ha crisi, ma diversificare è prudente: tè e caffè si stanno mescolando sulle colline del nord est, e nei “bar” di Dhaka.

 

Tornando al pane, che si fa con il frumento, ho letto che in 6 anni l’importazione di questo cereale è aumentata del 116%. Anche la coltivazione locale si è sviluppata moltissimo. Il frumento in alcuni casi  permette rotazioni nella coltivazione che coltivando solo il riso non sono possibili; permette quindi un più intenso uso del terreno; inoltre, la ricerca sta selezionando qualità di frumento coltivabili anche in terreni ad alta salinità – come nel sud. Infine, si ritiene che il frumento sia più adatto a chi soffre il diabete – malattia diffusissima in Bangladesh. Ciò che quasi non si vedeva 40 anni fa, ora viene prodotto, importato, consumato in misura crescente... e anche esportato. Sì, il Bangladesh esporta biscotti e prodotti vari da forno. Dove, non lo so, ma esporta.

 

p. Franco Cagnasso

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Dhaka – 7 settembre 2020  

 

Charles de Foucauld 
ATTENZIONE ! Questa non è una scheggia come le altre, ma la prima di una raffica di cinque, tutte sullo stesso argomento. Parla del Bangladesh solo verso la fine, ed è più un’autobiografia modulata sulla mia scoperta di Charles de Foucauld che una riflessione su di lui – come il titolo può far pensare. Elaborarla è stato per me un rifugio in questo tempo triste di persone impoverite, smarrite,umiliate che ci assediano, di bisogni senza risposte, di incapacità a gestire con pazienza situazioni inedite. E adesso, legga chi vuole...
   
***

 

Non ricordo come, durante il liceo incappai in alcuni scritti di Charles de Foucauld. Si trattava delle preghiere che annotava durante le sue adorazioni, certo non capolavori letterari o teologici, ma espressione del suo bruciante desiderio di un rapporto diretto e intimo con Gesù. La mia formazione scout mi aveva preparato a lasciarmi affascinare dal contesto: lunghe ore di preghiera nella notte del deserto, in solitudine, nella povertà di una casetta come le altre, mentre tutto intorno riposavano o vegliavano con le loro carovane nomadi arabi o berberi, tutti rigorosamente musulmani. Mi accorsi poi che a tradurre e far conoscere in Italia queste appassionate notti era un prete che conoscevo bene e che stimavo molto: don Giovanni Barra. Anche questo contribuì ad aumentare il mio entusiasmo. M’interessai all’insolita vita di Charles De Foucauld. Ufficiale indisciplinato dell’esercito coloniale francese, innamorato del nord Africa, linguista, sregolato, coraggioso e preciso esploratore clandestino del Marocco... Charles osserva molto la realtà che lo circonda, così diversa da quella in cui è cresciuto, e la fedeltà semplice dei musulmani, che cinque volte al giorno interrompono qualunque attività per rivolgersi a Dio pregando, lo tocca. Sono loro, indirettamente, ad aprirgli la strada per una revisione del suo agnosticismo indifferente e per scoprire il Dio di Gesù. Il salto nella fede avviene in modo sconcertante, e lo conduce ad una ricerca “spietatamente” radicale, focalizzata su un aspetto della nostra fede nella redenzione che allora, credo, era poco toccato. Charles voleva immergersi nelle pagine dei vangeli che non sono state scritte, quelle sui trent’anni di Nazareth, prima della vita pubblica. Cercava di vivere il tesoro quasi ignorato dell’incarnazione in sé stessa, come abbassamento, “svuotamento”, umiltà del Verbo di Dio. Usava molto la fantasia, immaginava la vita di Nazareth e modellava le sue giornate come pure le regole di una comunità che desiderava tantissimo ma non nacque mai, anche su queste immaginazioni. Quando scriveva che avrebbe fatto così e cosà “come Gesù a Nazareth” mi chiedevo irritato: “Ma chi glielo ha detto?” Intuivo però che la sostanza c’era, ed era tale da trasformare in dono e ricchezza qualunque aspetto e momento di una vita umana, anche umilissima e umanamente inutile. Se il figlio di Dio, a Nazareth, ha vissuto questa ordinarietà povera e ignorata, allora ogni essere umano può scoprire e credere che la sua vita è preziosa in ogni istante e in ogni aspetto, e che la sua dignità è infinita.
   
Charles fu ucciso da rapinatori nel 1916, accanto alla sua povera casa nel deserto. Fino all’ultimo inquieto, aveva cercato come e dove meglio far presente l’amore di Gesù, che voleva praticare fra i poveri del Sahara, diventandone amico nel rispetto della loro fede, ma anche nella chiarezza della sua fede cristiana, con il desiderio struggente di farlo conoscere. Un desiderio rimasto inappagato, un “fallimento” che viveva con sofferenza.
   
Presto Charles de Foucauld verrà proclamato santo. Da quando l’ho saputo, mi tornano con insistenza alla memoria ricordi e interrogativi. Fratel Charles è stato molto presente nella mia vita, e importante. Ma come e perché? E può dire qualche cosa, ora, alla comunità cristiana in Bangladesh?
   
Mentre – a circa 17 anni di età - gradualmente e disordinatamente facevo conoscenza con lui, sentii, per la prima volta, che la prospettiva di essere missionario mi attirava con forza, anche se mi spaventava moltissimo. Non fu lui direttamente a farmi venire in testa questa idea, fu un missionario degli Oblati di Maria Immacolata, mentre raccontava della sua esperienza in Laos; ma io pensai di accostare i “Piccoli Fratelli”, la congregazione religiosa fondata dopo la morte di Charles, basata sulla sua spiritualità. Lessi “Come loro”, del fondatore Renè Voillaume, e mi piacque molto. Esitai a lungo. Mi sembrava che le intuizioni, gli aneliti di Charles de Foucauld, tradotte in regole dettagliate e vissute in una comunità religiosa specifica venissero in qualche modo come ingessate. Una spiritualità bella, attraente, ricca di spunti ma espressa in un modello di vita apparentemente molto rigido mi sembrava non facesse per me. Mi intimoriva. La radicalità mi diceva molto, ma avevo bisogno di una strada meno precisa, anche se – speravo – ispirata da idee ed esempi che venivano da lui. Fidandomi di un prete che me lo consigliò, presi la via del PIME – con cui non avevo contatti, e di cui conoscevo solo la rivista “Le Missioni Cattoliche”. C’era forse, in questa mia scelta, una dose di vigliaccheria? Probabilmente sì...

 

Mentre studiavo teologia nel seminario del PIME, volli fare un mese di servizio con i “Compagnons batisseurs”, i “Soci Costruttori”, un gruppo o movimento di origine francese che organizzava giovani per dare una mano a costruire case per i poveri. Mi mandarono alla periferia di Lione, dove in pochi giorni mi ammalai. L’assistente spirituale, che si credeva psicologo, sentenziò che la febbre era dovuta alla mia tensione interiore perché non potevo seguire le regole del seminario, e perché mi trovavo in una comunità con ragazze. Si sbagliava. La tensione c’era, ma delle regole del seminario non m’importava nulla, e quanto alle ragazze, mi ci trovavo bene. Volevo capire: proprio accanto al cantiere dove cercando di aiutare i muratori dando loro parecchio fastidio, c’era una comunità di “Piccoli Fratelli di Gesù”. Mi accolsero dandomi un letto dove riposare e guarire alla svelta, come avvenne, e li osservai. Parlavano pochissimo. Tornati dal lavoro in fabbrica, pregavano, poi dalla microstanza in cui avevo il letto sentivo i rumori famigliari della preparazione della cena, dopo la quale pregavano ancora. Appena sfebbrato, pregai con loro una o due sere, fino a tardi: vivevano intensamente con gli uomini, e intensamente con Dio! Li stimai, fui loro grato, sentii che la semplicità della loro vita e del loro comportamento era attraente, ma non doveva essere solo per una congregazione, poteva influenzare, correggere, sostenere anche altri modelli di vita e di testimonianza.
 
Poi vennero altre esperienze, che direttamente non avevano a che fare con Charles de Foucauld, ma che vivevo in uno stesso contesto interiore di ricerca; desideravo un cristianesimo non ingessato in schemi ma desideroso di stare accanto a chiunque, per quanto diverso. Un mio compagno di classe, p. Leopoldo Pastori, aveva incontrato in Francia il movimento del “Prado”, preti che praticavano la meditazione del vangelo, cercando di coglierne insieme il significato per la vita di oggi. Chiedemmo al Rettore p. Carbone di lasciarci sperimentare questo metodo in seminario, e ci appoggiò. Il Vangelo non era solo da ascoltare commentato dalle prediche dei preti, o da analizzare a scuola, era da scrutare con amore, con semplicità, fiduciosi che avesse qualche cosa di bello da dire a tutti.
 
Cercai qualche cosa di bello anche a Taizé, il monastero ecumenico fondato da un pastore protestante, diventato popolare fra molti giovani in Europa. Anche là trovai un respiro di fede viva, che cercava l’essenzialità su strade non ancora battute. Nessuno dei monaci, originari da denominazioni cristiane diverse, rinnegava le proprie origini, eppure trovavano elementi comuni capaci di fondare la vita insieme, interamente donata, e un intenso lavoro di evangelizzazione specialmente nel mondo giovanile.
     
Nel travaglio di ricerca e iniziative che la chiesa in quegli anni stava vivendo, non mancava chi si appellava in modo superficiale, riduttivo e anche strumentale alla scelta missionaria di Charles De Foucauld. Quasi certamente ne parlava solo per sentito dire, facendone un presunto modello di rifiuto dell’annuncio cristiano, per valorizzare solo la testimonianza silenziosa, e “anonima”. Intuivo invece che il valore della vita di Charles de Foucauld non stava nel metodo, ma nella centralità di Gesù. Charles era stato profondamente radicato nella tradizione, ma capace di viverla con gesti e modi di vivere che parlavano anche a chi vedeva il cristianesimo come “un’altra religione”, o come un relitto del passato. Il cuore rosso che teneva cucito sul suo abito bianco con le parole “Jesus Caritas”, non era anonimo, e Charles era capace di rispettare pienamente i musulmani vivendo con loro in tutta la semplicità e chiarezza di un seguace di Gesù; voleva imitare Cristo a Nazaret, e la sua vita “parlava” dell’annientamento che il Verbo ha vissuto per essere totalmente con noi, e per rivelarci il Padre.
   
Da giovane prete, a Roma, andavo a pregare ogni tanto nella cappella delle Piccole Sorelle di Gesù alle Tre Fontane. Accanto al luogo del martirio di Paolo, e all’austera chiesa dei Trappisti, che vuole “proiettare” i fedeli verso l’alto, mi piaceva raccogliermi nella calda e avvolgente semplicità della struttura in legno e delle Piccole Sorelle che si alternavano nell’adorazione. Le suore mi presentarono ad un gruppetto eterogeneo di preti che s’ispirava a Charles de Foucauld per vivere il cammino di servizio alle loro diocesi. Ci trovavamo a meditare sul vangelo e sulla nostra vita, e fu un aiuto semplice e forte a cercare, nel ministero, anche la nostra umanità, a vivere la preghiera come ricerca e come dono ricevuto, prima che come un dovere; momento in cui esprimevo e accoglievo l’amore cui ho rinunciato con la mia scelta di celibe.

 

In quegli anni uscì il libro “Lettere dal deserto”, di Carlo Carretto. Ex presidente nazionale dell’Azione Cattolica, era entrato nella Congregazione dei Piccoli Fratelli, e il libro descrive la sua esperienza durante il loro noviziato, nel deserto. Mi aiutò a desiderare una fede che non cerca pubblicità, una visibilità che può diventare mondana. Mi rimase impresso il capitolo “La coperta di Kadà”: con il semplicissimo racconto di un episodio banale, ridimensionava “l’eroismo” del missionario, e m’insegnò, come aveva fatto lo scoutismo, a guardare le fatiche degli altri, prima di lamentarmi delle mie. Era un altro appello a interiorizzare il mistero di Nazareth, che illumina valori, stili e metodi compatibili con ogni modello di vita e apostolato. Il nascondimento non era una strategia, ma il bisogno di essere discepolo nel mistero della sua umiltà e della sua normale avventura di essere umano: una forma della sequela di Gesù.
 
Cacciai il naso anche a Bose, altro luogo di ricerca seria, e vi passai varie volte giornate interessanti e fruttuose di preghiera e ascolto. Cercavano di rinnovare la vita monastica, della cui tradizione sapevo ben poco. Anni dopo invitai Enzo Bianchi a predicarci gli esercizi in Bangladesh; ne fummo soddisfatti, grati, e lui disse simpaticamente: “Ammiro molto la vostra vita, ma non mi sentirei di viverla, non fa per me”. “È proprio quello che io penso di voi e della vostra vita” commentai.
   
Chiesi di studiare islamismo e arabo, e questo mi diede occasione di andare a toccar con mano un frutto “postumo” di Charles de Foucauld. Con p. Achille Boccia ci sorbimmo il viaggio in treno da Roma a Casablanca, in Marocco, dove ci aspettava P. Michel Lafon, che ci condusse subito a El Kbab. Michel era un prete diocesano francese, successore di un altro diocesano, Albert Peiriguère che, conquistato dalla spiritualità di Charles De Foucauld, l’aveva vissuta alla lettera in quella località dispersa e poverissima. Il suo eremo era nella parte alta, ai margini del villaggio, e le sue attività erano la preghiera, un semplice servizio di assistenza paramedica ai poveri, l’ascolto della gente. Si fece rispettare e amare; pur essendo tutti musulmani, lo consideravano il loro padre spirituale. Padre Lafon lo raggiunse e ne condivise la vita per qualche tempo, prendendosi cura di pochi cristiani stranieri che lavoravano in cantieri petroliferi a oltre cento chilometri di distanza. Quando Peyrigueère morì, rimpianto da tutti, Lafon rimase e ne raccolse l’eredità. Trascorremmo con lui un mese semplice e intenso di lavoro manuale, preghiera, lunghe condivisioni e scambi di idee. Ci orientò a praticare alcune “giornate di deserto”, particolarmente intense grazie all’ambiente naturale, sociale e spirituale in cui eravamo immersi. Eravamo andati anche con la speranza di praticare un poco l’arabo, ma scoprimmo che molti “arabi” del nord Africa sono in realtà berberi; a El Kbab si parlava il berbero...
 
Un giorno, guardando dall’eremo la grande vallata brulla e le catene di montagne che si susseguivano a perdita d’occhio di fronte a noi, P. Michel disse: “Ogni tanto ancora mi chiedo: che cosa faccio qui, unico cristiano per centinaia di chilometri? Celebro la Messa per questa gente: ecco la mia risposta.” “Anche noi possiamo celebrare per loro, da Roma” obiettai. E lui: “Certo, ma l’Eucaristia è un segno, e il segno deve essere percepito. Tutti quanti sanno che prego per loro, e sono contenti proprio perché sto con loro. Mi chiedono di farlo e mi ringraziano”. Ci comunicò alcune delle sue conversazioni con anziani pieni di fede, che gli dicevano con semplicità: dopo averti conosciuto non riusciamo più a pensare che voi andrete all’inferno perché non siete musulmani. Anzi, tu e io siamo amici: il primo di noi che andrà lassù, darà una mano all’altro per raggiungerlo e stare insieme...”. Suggerendo ai giovani che si confidavano con lui, di scrivere qualche nota su “I Ramadan della mia infanzia”, aveva raccolto interessanti testimonianze di tradizioni e devozioni che andavano scomparendo. Achille e io apprezzammo una biografia di P. Peyriguère che aveva pubblicato in Francia; la facemmo tradurre in italiano e pubblicare dalla EMI (1977) con il titolo “Una vita che grida il Vangelo”. Fu un flop editoriale...
   
Il periodo a El Kbab ci confermò nel desiderio di essere missionari soprattutto con la nostra presenza, e con la nostra umile ricerca di Dio che non è lontano da nessuna delle sue creature. In un certo senso gli scritti e le biografie di Charles de Foucauld avevano perso un po’ della poesia di cui li avevo circondati, ma avevano guadagnato in consistenza, erano diventati più veri. 

 

Poi arrivò la “destinazione al Bangladesh”, e prima di andarci volevo trovare il modo di mettere insieme intuizioni, domande, desideri che si incontravano e scontravano in me. Decisi di partecipare a un “Mese di Nazareth”, cui presi parte in una “Nazareth” decisamente improbabile: Galway, città sulla costa occidentale dell’Irlanda. Si trattava di un mese di convivenza, preghiera, riflessione, condivisione fra preti di tutta Europa, per lo più diocesani, che si ispiravano a Charles De Foucauld. Eravamo una trentina, eterogenei per provenienza, età, esperienze, ed ero il più giovane. Unico italiano, fecero a gara per farmi assaggiare le migliori birre dell’Irlanda, e mi misero in guardia dall’oceano “troppo freddo per un italiano, anche in agosto”. Mi tuffai “per difendere l’onore della patria”... uscendone a stento, mezzo congelato.
   
Non ci fu nulla di speciale, ma fu un’esperienza arricchente. Ciascuno di noi portava e condivideva la sua piccola storia personale vissuta con onestà, senza pretese, a volte confessando errori e riprese, o sofferenze interiori nascoste, dubbi e paure per cui cercava il balsamo della fraternità. Il riferimento a De Foucauld non era una venerazione “doverosa” come spesso si ha per i santi, ma il riferimento ad un un uomo che esprimeva in tanti modi la sua passione per Gesù che gli aveva dato un Padre, la sua voglia di farne partecipi altri, la sua fedeltà nei fallimenti e nelle delusioni. Nella sua storia, per tanti aspetti unica, trovavamo un poco di noi stessi. In modi diversi constatammo che ciascuno portava dentro di sé, senza ribellioni o contestazioni (come si diceva allora), un desiderio struggente di una Chiesa umile, vivace, capace di cercare il cuore degli uomini e delle donne del nostro tempo, innamorata di Dio e meno preoccupata di occupare posizioni di prestigio... Ricordo una condivisione che facemmo a partire da una confidenza scritta da Charles, che per un certo tempo visse a Gerusalemme facendo il giardiniere, portinaio e tuttofare in un convento. Quando usciva per andare a fare acquisti, i ragazzini del quartiere ritenevano matto quello straniero vestito con vecchi abiti, che faceva il servo delle suore: ridevano, lo prendevano in giro, gli lanciavano sassi. Charles si rallegrava di poter sperimentare un poco delle umiliazioni subite da Gesù.
 
Nell’autunno del 1978, salutati i nostri cari all’aeroporto di Roma, partimmo per il Bangladesh.Superati i controlli dei passaporti, Achille e io appoggiammo le borse per terra e ci guardammo: “Allora,finalmente si parte. Ma... che faremo?” Ci pensammo un attimo e la risposta fu: “Andiamo a cercare Dio in Bangladesh.”
   
All’aeroporto del Cairo, non so come, riconoscemmo fra i passeggeri in attesa Renè Voillaume, fondatore dei Piccoli Fratelli. Gli confidammo che cosa pensavamo e come ci eravamo preparati. Rispose sorridendo: “Vous êtez bien equippè”. Arrivati a Dhaka in piena notte, dopo un viaggio piuttosto travagliato e senza nessuno ad aspettarci, ci guardammo intorno smarriti, alla luce fioca di un lampione nella strada deserta: “Dio era qui prima di noi, e ci aspetta” ci dicemmo.
   
Sorprendentemente, dopo il mio arrivo in Bangladesh – ambiente islamico e povero – il mio riferimento diretto alla spiritualità di De Foucauld si affievolì. I primi anni furono pieni di shock culturali ed emotivi, dubbi, esperienze della mia debolezza e delle mie incapacità. Giocavo in difesa, cercando di sopravvivere in mezzo a situazioni senza soluzioni e domande senza risposte. Rimaneva però il desiderio di qualche cosa che andasse – almeno un po’ – oltre i modelli di missione che vedevo in Bangladesh, pur rispettabilissimi, e che avevano chiesto a molti prima di me una fede e un coraggio davvero grandi, a cui mi appellavo per incoraggiarmi. Dopo lo studio del bengalese e poco più di un anno di servizio come assistente in una parrocchia rurale, con p. Gianni Zanchi e P. Achille ottenemmo il permesso del superiore del PIME e del vescovo, e cercammo un posto a Bogra, una cittadina dove l’unico segno di presenza cristiana era un piccolo ospedale della “Church of God”, la cui direttrice, americana, non vide certo di buon occhio il nostro arrivo. Volevamo essere “una presenza” in un contesto urbano completamente musulmano e indù, cercando un modo di rapportarci con queste persone di altre fedi che fosse di amicizia e di testimonianza. Achille e Gianni – uno accostando famiglie con persone disabili, l’altro attraverso un po’ di medicina preventiva - riuscirono a creare una piccola rete di rapporti. Io che – grazie agli studi fatti – avrei dovuto accostare il mondo delle moschee e delle madrasse (scuole coraniche) mi trovai completamente spiazzato. Non avevo un’identità con cui presentarmi in modo comprensibile e accettabile, anzi, suscitavo sospetti; non avevo capacità di semplici contatti personali con sconosciuti... non trovavo punti di aggancio, una pista... Dopo due anni circa, Achille si ammalò e dovette recarsi a Hong Kong per cure impegnative, Gianni, eletto superiore dei missionari in Bangladesh, dovette trasferirsi a Dinajpur. Io mi identificai con una curiosa immagine biblica del profeta Baruc (6,69) quando, descrivendo l’inutilità degli idoli, dice che sono “come uno spaventapasseri in un campo di cetrioli (o di cocomeri, secondo la traduzione)”, che sta là e non combina nulla...
   
Alzai bandiera bianca, e il vescovo mi chiese di dare una mano al seminario intermedio, che allora si trovava a Dhaka e serviva le quattro diocesi del Bangladesh. Scoprii allora che esisteva una piccola “Fraternità sacerdotale Charles de Foucauld”, con alcuni preti bengalesi e stranieri che si riunivano periodicamente, ma non ebbi l’opportunità di frequentarli.
   
Ebbi occasione di conoscere don Andrea Gasparino, un prete di Cuneo che nel dopoguerra aveva avviato una “Città dei Ragazzi” per aiutare ed educare ragazzi poveri e sbandati. Cercando di dare una formazione e motivazioni solide ai volontari che lo aiutavano e ai ragazzi, don Andrea si era incontrato con la spiritualità di De Foucauld. Facendola sua, fondò il “Movimento Contemplativo Missionario Charles De Foucauld” che crebbe, e allargò sguardo e presenze da Cuneo fino all’Africa, America Latina, e Asia. In Bangladesh alcune Sorelle erano arrivate pochi anni prima, aprendo una piccola comunità sulle palafitte lungo il fiume che costeggia la città di Khulna. Venuto per visitarle, don Gasparino fu ospite del PIME a Dhaka, dove ci incontrammo e parlammo a lungo, trovandoci a nostro agio.

 

Seguirono 19 anni lontani dal Bangladesh. Al mio ritorno, nel 2002, venni assegnato al seminario teologico e cercai le tracce della “Fraternità Sacerdotale” che avevo conosciuto. Era cresciuta fino ad accogliere tutti i diocesani del Bangladesh, ma il riferimento a De Foucauld si era perso per strada. Ancora oggi la Fraternità esiste, organizza momenti di preghiera e formazione, stimola rapporti fraterni fra i preti, ma forse nessuno sa quale sia stata l’ispirazione iniziale. Che “dare il via e scomparire” sia il contributo maggiore che il prossimo Santo ha dato e ancora darà alla Chiesa e alla missione?
 
Il seminario dove vivevo non era lontano dalla piccola comunità delle “Blue Sisters”, come comunemente, qui in Bangladesh, sono chiamate le Suore del “Movimento contemplativo missionario” basato a Cuneo. Le frequentai, celebrando settimanalmente l’Eucaristia nella loro piccola cappella, che chiamai “La cattedrale di Cocacola”: Giuseppe Berto,un imprenditore italiano che viveva a Dhaka, e spesso veniva con la moglie Giovanna a pregare con noi, diceva che partecipare alla Messa in quella umilissima cappella fra le baracche del quartiere chiamato “Cocacola”, lo aiutava più che parteciparvi in una cattedrale.
 
La missione delle “Blue Sisters” – a quanto ho capito – vuole essere una presenza orante in mezzo ai poveri, e condividere la vita con loro: visitano gli ammalati, danno qualche aiuto quando ci sono difficoltà più acute; per coinvolgere vedove e donne molto povere, organizzano piccole attività artigianali, cose semplici, gestibili in casa, che creano rapporti. La mia situazione in seminario e la loro nella baraccopoli erano evidentemente diverse, eppure ci ritrovavamo con facilità a condividere problemi, dubbi, esperienze e fallimenti – oltre alla preghiera.
 
Presenti in Bangladesh ormai da oltre 40 anni, le “Blue Sisters” si chiedono a volte con molta pena perché il numero di ragazze bengalesi che si è unito a loro sia insignificante. La mia impressione è che anche per loro, come per Charles de Foucauld quand’era in vita, succede che chi le conosce le stima e ammira, ma non le imita. La Chiesa francese dei tempi di De Foucauld era impegnatissima nello sforzo di creare opere, soprattutto educative, che influissero sulla cultura e sulla società del Magreb. Capiva bene che non si trattava – almeno per il momento – di battezzare, ma pensava che occorressero opere qualificate, di prestigio per realizzare qualcosa di utile, per incidere sulla cultura, e per farsi conoscere. Bisognava, in qualche modo, avere un “di più” rispetto alle società locali, e non pochi pensavano che la diffusione della civiltà francese fosse in qualche modo parte della missione. Neppure De Foucauld fu completamente libero da quest’ottica. Che comunque, mi pare, rendeva meno recepibili le sue impostazioni spirituali e missionarie. I frutti vennero dopo...
 
La chiesa del Bangladesh è locale e non ha desideri di colonizzazione ma è infima minoranza. Non è perseguitata, si può dire che è libera, però, in quanto minoranza, deve comunque abbassare la testa molto spesso, ingoiare rospi, sentirsi emarginata o almeno ignorata. Forse anche per questo sente il bisogno di visibilità, s’impegna a fondo nell’organizzarsi, nel rendersi presente con qualche cosa che venga apprezzato. Non manca la preghiera, in alcuni luoghi i fedeli amano molto grandi e prolungate riunioni di preghiera,con canti e stili tradizionali in parte mutuati da denominazioni protestanti, o creati da loro; i pellegrinaggi attirano... ma la meditazione, e il silenzio di Nazaret sembrano non attirare. “Che cosa fate?” è la prima domanda che molti pongono alle “Blue Sisters”, e quando sentono una risposta che ritengono vaga, indefinibile, senza incisività, rimane, forse cresce la stima personale, ma non si sentono attirati. Questa è la sensazione che hanno anche i Fratelli di Taizè che hanno una piccola comunità qui da oltre cinquant’anni, ma ben poche vocazioni. Presenze infruttuose?
 
Mi pare che qui e ovunque la spiritualità di Charles De Foucauld non sia chiamata ad incidere nella chiesa come ha inciso l’omonimo di Charles, suo predecessore nella santità: san Carlo Borromeo, o come hanno inciso i monasteri di S. Benedetto, le attività di Ignazio di Loyola, le scuole dei Salesiani, gli Istituti missionari e tanti altri. Se il carisma fondamentale richiama il nascondimento di Nazaret, il suo silenzio che i Vangeli stessi non violano, allora chi si ispira al futuro nuovo santo deve, come lui, desiderare di vivere pagine che non saranno scritte, amare persone che nessuno conosce, pregare ore che nessuno conta. Ma chi mai ha contato le ore di preghiera di Gesù a Nazaret, o sulle montagne della Galilea e della Giudea? Come per Charles de Foucauld, i frutti verranno, in modi imprevisti e senza clamori.

 

***
 
Ecco, siamo arrivati alla fine della mitragliata di schegge. Concludo con una citazione in cui mi ritrovo: “Si diventa adulti dentro una vocazione quando si riesce a capire che la vita che stiamo facendo non è quella che volevamo fare, e nasce una profonda sensazione di infedeltà, una infedeltà che non è tradimento ma svelamento della verità della prima voce. Qualche volta, lungo questi fiumi, riusciamo anche noi a gridare a Dio "ricordati di te", per dirgli: "io non ce l’ho fatta a custodire la fedeltà del primo patto, ma tu devi essere fedele. E se tu sei fedele al patto con me non mi manca nulla, è un bel modo di invecchiare e di morire". Luigino Bruni, commentando il salmo 89.

 

p. Franco Cagnasso

192

Dhaka, 11 agosto 2020

 

Camaleonte 

Riprendo il filo di due “schegge”, “Canton Hall” e “Onestà”, apparse sul blog il 9 e il 28 giugno scorso. Parlano del mio incontro con il bengalese Shankar Hui (origini birmane), e dalla corrispondenza con l’italiano Giorgio Spinazzè, che hanno collaborato per 10 anni in una ditta di nome IKOS, tra l’altro, facendo in quel periodo amicizia con p. Angelo Canton. Come molte altre ditte, la Ikos faceva da “ponte”: dall’Italia partono ordini di acquisto di vestiario (magliette, camicie, ecc.), in Bangladesh si selezionano le ditte che le producano bene, in tempo, e a prezzo conveniente. Shankar e Giorgio si stimano molto, e mi hanno presentato con entusiasmo questa loro collaborazione.

Sento spesso lamentele sulla disonestà e la corruzione che imperversano in Bangladesh (varie volte in testa nella classifica dei “Paesi più corrotti al mondo”), e sull’affidabilità del personale: mali ritenuti inevitabili, a cui bisogna adattarsi se si vuole concludere qualcosa. Ma questi due amici “cantano fuori dal coro”. Shankar mi ha parlato della loro amicizia, nata qui lavorando insieme; Giorgio mi ha confermato che si è trattato di un’ottima esperienza nel campo della correttezza dei rapporti, con tutto il personale, e con industriali locali.

Incuriosito, ho invitato Shankar per una chiacchierata. Per quasi tre ore (compreso il pranzo al rinomato “Ristorante PIME”) mi ha fatto entrare in un mondo che non conosco, spiegandomi il lavoro che svolgevano. I particolari tecnici mi sfuggono, ma la sostanza penso di averla colta. Ho percepito l’entusiasmo con cui ha lavorato: i principi del loro lavoro furono esplicitati fin dall’inizio: onestà, dedizione, responsabilità, puntualità, disciplina. Vi aderì cordialmente, li praticò e li vide praticati quotidianamente.

Poi ho di nuovo interpellato Giorgio: “Le poche righe che mi hai scritto, e che ho riportato nel blog, sono estremamente positive. Il racconto di Shankar pure lo è, ma la positività fa un lungo percorso: Shankar è partito dal proposito fermo e convinto di essere onesti in tutto, e poi ha illustrato le non poche difficoltà incontrate per esserlo davvero, questo perché (e non me ne stupisco) c'è chi approfitta della fiducia che riceve, o addirittura ha come metodo e obiettivo quello di "fare il furbo". A quanto ho capito, Shankar è stato come uno "scudo protettivo" perché nel vostro lavoro e nei rapporti interni alla ditta non entrasse il veleno della disonestà. Ne risulta un'impressione meno ottimistica circa molti bengalesi, ma identica per ciò che riguarda la vostra esperienza, che è risultata vincente."

Ed ecco il commento di Giorgio: “Nel periodo dei 10 anni della Ikos, tutti i dipendenti (esclusi 2 disonesti che nel tempo non abbiamo tenuto con noi, come Shankar ha riferito), hanno accettato ben volentieri il codice di comportamento etico e si sono sentiti, secondo me, per la prima volta, responsabili del proprio lavoro e soprattutto autonomi e fieri di farlo in maniera così chiara e trasparente.(...) Non esistevano compromessi, da una parte richiedevamo ai fabbricanti qualità, dall'altra pagavamo loro e giustamente, un prezzo maggiore di quanto il mercato diceva.

I nostri ispettori dovevano solo seguire le linee guida chiare date, che erano:

- prima di tutto istruire e assistere su linea di cucitura il personale della factory, cercando da loro la massima collaborazione e dando loro il massimo dell'incoraggiamento

- poi chiedere soprattutto solo qualità dopo aver ben spiegato ogni dettaglio tecnico

Dovevano rispondere solo alla IKOS e non ad altri, sicuri che la Company avrebbe sempre provveduto a loro e in maniera anche premiante. Un ottimo team, affidabile e fiero, che ha sempre lavorato con molto entusiasmo e tanta professionalità.

Per quanto riguarda il mio rapporto con i titolari delle factories, anche questo fu buono.

Tutti musulmani e molto corretti, però qui scrivo, che secondo me si era verificato quello che io chiamo "effetto camaleonte".

Se la controparte (io) era di schiena diritta, loro facevano come il camaleonte, e cioè si disponevano a specchio, usando lo stesso linguaggio e comportamenti come esattamente li impostavo io.

Mi viene da pensare che forse per la prima volta, e forse con loro sorpresa, nessuno chiedeva loro un ritorno di commissione, solo per aver passato un grosso ordine.

Nè alcuno tirava troppo giù il prezzo, mettendoli così in difficoltà nel realizzare la qualità massima (nel tessile una percentuale di capi difettati è fisiologica, ma noi non accettavamo nessuno di questi capi alla fine, per questo pagavamo un prezzo corretto che considerava anche il loro "scarto").

Mi sono quindi sempre trovato molto bene con loro, e anche meglio di quanto ci si possa trovare, in affari, qui in Italia con contro parti simili.”

Un commento? Tiro acqua al mio mulino, dicendo che senza voler mettere etichette, pure questo è un modo di fare missione, cercando, testimoniando, collaborando con il Regno di Dio che è giustizia e fiducia. Congratulazioni ai due amici!

 

Autarchia

Sono cinque i missionari del PIME di nazionalità bengalese: il primo a entrare, p. Amal Gabriel, dopo un periodo in Costa d’Avorio è stato rettore del seminario teologico del PIME a Monza, poi Consigliere della Direzione Generale, e ora si sta preparando per ritornare in Costa d’Avorio; Fratel Joseph è da molti anni missionario laico in Cameroun; p. Biplob è nelle Filippine, p. Dominic in Papua New Guinea, p. Regan in Brasile. Non si può dire che siano un esercito, ma siamo ai primi passi. Seguono i seminaristi: uno sarà presto diacono, e altri sette continuano la formazione nel seminario internazionale di Monza. Il loro percorso ordinario prevede che studino filosofia qui a Dhaka nel seminario nazionale; poi continuano al seminario internazionale di Monza, dove anzitutto studiano l’italiano per un anno, poi un altro anno viene dedicato alla spiritualità missionaria e del PIME, con la sua storia, carisma, struttura. Infine, affrontano i 4 anni di teologia.

Due nostri giovani, Tijes (di etnia Mandi) e Shawon (bengalese), appena terminati i corsi filosofici, stavano scaldando i motori per andare in Italia, quando il Covid 19 ha voluto dire la sua: difficilissimo viaggiare e ottenere i visti, quindi niente Italia!

E allora? La direzione generale ha trovato una scorciatoia dicendoci: all’italiano penseremo dopo, ora cercate di organizzare il loro anno di spiritualità in Bangladesh, per non perdere tempo.

Ecco dunque che dal 15 agosto Tijes e Shawon fanno parte della nostra comunità a Dhaka, ma con un programma a parte tutto per loro, affidato al rinomato “team” Francesco Rapacioli, Piero Parolari, Brice Tambo e Franco Cagnasso. Intendiamo dimostrare che la spiritualità “autarchica”, prodotta a Dhaka, non ha nulla da invidiare a quella globale, internazionale, multilinguistica di Monza. Certo, con due candidati soltanto, l’interazione sarà meno ricca e interessante, ma affrontare temi complessi usando la propria lingua, invece di arrancare con le complicazioni dell’italiano, è un vantaggio non da poco.

Mentre Francesco, Piero, Brice e il sottoscritto hanno un’ottima occasione di rispolverare tante cose.

p. Franco Cagnasso

191

Dhaka – 28 luglio 2020

 

Nuova Zelanda

Caro padre Franco, in un scheggia di qualche tempo fa (per la precisione, 7 Maggio 2019), tu avevi espresso un'opinione decisamente positiva sull'operato del giovane Primo Ministro della Nuova Zelanda, la (non nominata) signora Jacinda Ardern, che andava al di là di un semplice elogio del modo con cui ella aveva saputo affrontare le conseguenze di un atto terroristico che aveva colpito cittadini neozelandesi musulmani.

La cosa mi aveva colpito, perché avevo letto articoli che descrivevano la signora Arden come uno degli alfieri del cosiddetto "Nuovo Ordine Mondiale" (fondato, tra le altre cose, su controllo delle nascite, ecologismo, distruzione delle identità nazionali, soppressione dei più deboli), sponsorizzato, tra gli altri, da George Soros e Bill Gates (non proprio dei poveracci), e d'altra parte è raro che tu parli così bene, in una scheggia, di qualcuno che non conosci di persona, e che per giunta non è neanche bengalese (o italiano). Avevo sperato, lo confesso, di essermi fatto un'opinione sbagliata su questa giovane politica, e che avessi ragione tu.

Oggi però mi è capitato tra le mani questo articolo ( https://www.ifamnews.com/it/hanno-ragione-gli-abortisti/) , che, tra le altre cose, parla di alcune delle convinzioni della signora Arden riguardo al (non) rispetto delle vite più fragili.

Forse i tuoi lettori dovrebbero conoscere anche questo?

Un abbraccio! Mario

Carissimo Mario, grazie per avermi scritto: da tempo mi sento a disagio perché non ho risposto alla tua ultima lettera, ricca di spunti: volendo farlo in modo completo, ho purtroppo rinviato fino a... non so quando. Ora mi arrivano le tue osservazioni su un altro argomento; te ne sono grato. Però sono anche sorpreso: hai letto la mia “scheggia” in un modo che proprio non immaginavo! Comunque, un esame di coscienza è doveroso: mi sono chiesto come mai ho dato un’impressione così lontana da quello che intendevo. Ho riletto la scheggia e non mi pare che ci siano affermazioni a sostegno delle idee di quella persona. La mia intenzione era solo quella che tu ben descrivi così: un semplice elogio del modo con cui ella aveva saputo affrontare le conseguenze di un atto terroristico che aveva colpito cittadini neozelandesi musulmani.

Sono andato oltre? Non intendevo. Per dissipare eventuali equivoci con altri lettori, spiegandomi meglio, riporto qui sotto la scheggia di cui si parla.

“Per qualunque cosa, c’è sempre un’altra prospettiva, e conoscerla fa bene.

Dopo questa profonda considerazione filosofica, vengo al punto. La giovane primo ministro della Nuova Zelanda, di cui ricordo il volto (un volto disastrosamente poco adatto a un politico, perchè dà la penosa sensazione che pensi prima di parlare…) ma non il nome, ha commosso il mondo, almeno il mondo islamico del sud Asia, dopo la tragedia accaduta a Christchurch, nel suo Paese, quando un fondamentalista cristiano ha ucciso in due moschee 40 musulmani radunati in preghiera e ne ha feriti 19. La commozione non viene dal fatto che abbia pronunciato nuove, più indignate parole per stigmatizzare l’accaduto, ma perchè:

– Non ha detto “vedremo, aspettiamo di capire, forse è un pazzo isolato, ecc.” Ha subito parlato di terrorismo. Non ha parlato di “musulmani” immigrati colpiti da un cristiano di nazionalità australiana, ma di “noi neozelandesi” colpiti da questo atto terroristico, usando in ogni intervento questo “linguaggio inclusivo” che evita il “noi e loro”.

– Ha fatto in modo che il nome dell’attentatore non venisse diffuso e il suo volto non venisse fotografato: un metodo intelligente e non violento per frustrare un narcisista come lui.

– Non si è presentata con l’atteggiamento del generale che arringa le truppe per sconfiggere il nemico, sicuro che “la vittoria sarà nostra…” ma come una persona sinceramente addolorata e preoccupata, che invoca il buon senso delle persone di pace, l’unità di tutti, e che fa subito approvare una legge per controllare meglio a chi vanno in mano le armi che si producono e vendono.

– Quando il presidente turco Erdogan – noto per la sua delicatezza e per il suo tatto (e qui aggiungo ora la spiegazione che questa valutazione su Erdogan è un’affermazione ironica...)– ha detto che avrebbe fatto introdurre la pena di morte in Nuova Zelanda perchè il colpevole venga impiccato, e che spedirà a casa in una bara chiunque accosti la Turchia con animo anti-islamico, lei ha risposto: “ Chiederò al mio ministro degli esteri di andare di persona a parlargli, per capire bene che cosa dice e perchè”

– Quando nelle moschee s’è pregato per i defunti, ha partecipato stando insieme ad altri, all’esterno, anche lei silenziosamente in preghiera, con il capo coperto.

A ben vedere, niente di straordinario. Ma molti musulmani si sentono assediati dalla “islamofobia” di chi vede solo il terrorismo di origine islamica, di chi ha paura dell’islam e tenta di isolarne tutti i fedeli, di chi non vede o non capisce comportamenti che polarizzano le differenze, colpevolizzano i musulmani e offrono pretesti per il terrorismo – che ha anche altre origini, ragioni e matrici. Perchè – si chiede qualcuno – dopo una strage in una scuola americana si parla di malato mentale, e dopo una strage in una scuola pakistana nessuno parla di far ricorso allo psichiatra?”

(NdR: Scheggia 173 - Prospettiva)

Fin qui, la scheggia, dove non trovo accenni ad altro che all’episodio cui mi riferisco, salvo qualche battuta ironica sul modo di presentarsi e di parlare in genere dei politici (in genere, di qualunque paese o partito). Provo a spiegare i miei Criteri quando ho scritto.

Punto primo: non sapevo e non so niente di questa signora, neppure di che partito sia. Avrei potuto trovare in internet il nome e notizie varie. Non ho cercato, anche per lasciar capire che non intendevo valutare la persona e la sua politica in generale, ma mi limitavo ad un fatto e alla reazione che ne è conseguita. Per di più, non so nulla neppure della Nuova Zelanda! E mentre ti ringrazio per avermi mandato un indirizzo dove potrei trovare notizie e valutazioni, ti dico sinceramente che non sono andato e non andrò a vedere. In questo periodo sconvolto dalla pandemia, l’assedio di poveri e impoveriti sempre più affamati e disperati si fa ogni giorno più pressante. Lotto per poter fare qualche cosa, ma anche per non lasciarmi prendere da angoscia e depressione a causa dell’impotenza che sperimento di fronte a tanta sofferenza. Invece di andare a vedere che cosa si dice di questa signora, ho pregato un momento per lei e per la pace. Non trovo il tempo e non m’intreressa sapere chi governa la Nuova Zelanda e come. Non mi sento in colpa per questo disinteresse, perché sono sicuro che le mie schegge, qualunque cosa dicano, non influenzano gli elettori neozelandesi... Se nonostante la situazione di tensione e pena profonda in cui mi trovo, scrivo ancora qualche scheggia, è perché mi aiutano per un momento a concentrarmi su altro, e in fondo mi rilassano.

Punto secondo: le schegge sono “di Bengala”. Questa scheggia parte dal Bangladesh, e riguarda alcuni articoli e commenti insoliti che ho trovato dopo l’assalto alla moschea. Se si fosse trattato della Francia o del Messico e del rispettivo primo ministro anziché della Nuova Zelanda, avrei scritto le stesse cose. Mi è scappata l’iperbole “ha commosso il mondo” che ho corretto subito aggiungendo “almeno il mondo islamico del sud Asia”, spiegando che “Mi aspettavo (qui in Bangladesh, ovviamente) reazioni furiose, lamentele sulla “islamofobia”, commenti che sottolineassero che l’assassino era un cristiano, nelle aree conservatrici anche appelli alla vendetta. Ho trovato invece reazioni nel complesso moderate, e soprattutto l’elogio del “linguaggio inclusivo” della primo ministro. Mi sono chiesto: dove e come? Ecco come: non ha detto: “Noi neozelandesi siamo rattristati da quanto è accaduto ai musulmani”. Come ho scritto nella scheggia: “Non ha parlato di “musulmani” immigrati colpiti da un cristiano di nazionalità australiana, ma di “noi neozelandesi” colpiti da questo atto terroristico, usando in ogni intervento questo “linguaggio inclusivo” che evita il “noi e loro””. Se è stata “furba” se era convinta non lo so, però è stata convincente per i lettori del Bangladesh che, di risposta, hanno modulato su toni di pace le loro reazioni comprensibilmente addolorate, e hanno per lo più evitato di ripetere che sono i soprusi e il terrorismo occidentali (e quindi, automaticamente, cristiani) ad alimentare le violenze di minoranze islamiche. Inoltre, ho apprezzato la sobrietà del linguaggio che ha usato in una breve intervista televisiva che ho visto durante un telegiornale. Di solito i politici (di qualunque partito e ideologia) cercando disperatamente aggettivi efficaci per esprimere indignazione: delitto efferato, inaudito, senza precedenti (!), inaccettabile, bestiale, ecc. ecc. e promettono rapide soluzioni del problema: neppure uno sfuggirà alla giustizia, saremo inflessibili, non vinceranno, ecc. Lei ha preferito un altro linguaggio (vedi sopra, la scheggia) e a me pare che abbia fatto bene. Il tono rattristato e pensoso, a mio parere, coinvolge e fa riflettere più che dichiarazioni bellicose. Anche la sua risposta alle minacce grossolane di Erdogan mi è sembrata appropriata. Un altro politico avrebbe detto: ci provi, e gli facciamo vedere noi... Lei ha detto: cercherò di capire perché parla in questo modo. Ecco: “cercherò di capire” è un’altra apprezzabile rarità nella politica urlata di oggi, dove quasi tutti vogliono mostrare di sapere tutto, di capire tutto, di avere le soluzioni già pronte per tutto, e rispondono prima ancora di aver sentito la domanda (o l’insulto...).

Più in là di questo io non intendevo e non intendo andare.

Punto terzo: pensavo e penso che anche se la primo ministro fosse la peggior politica del mondo e la più lontana dalle mie idee, nel momento in cui facesse qualcosa che ritengo giusto e che ha un effetto positivo qui in Bangladesh, sarebbe lecita una scheggia che dicesse: ha fatto bene. Ovviamente “ha fatto bene” in quella precisa circostanza e su quello specifico tema, non su tutto il resto di cui non parlo.

Tutto qui.

No, non tutto qui. Mi permetto di aggiungere che, forse, se fossimo tutti (me compreso!) più capaci di stare ai punti precisi di cui si parla, anche i nostri “dibattiti”, sia nella politica sia in ogni altro confronto di idee – anche all’interno della Chiesa - sarebbero più accurati e fruttuosi. La polarizzazione, l’immediata classificazione dell’interlocutore, che spesso conduce alla sua squalifica completa, non raramente anche gli insulti, non permettono di fare progressi, ma solo di ripetere urlando via via sempre più forte le proprie idee (penso a dibattiti televisivi e non solo, visti in Italia durante le vacanze). E con questo “predicozzo” di cui chiedo scusa, ti ringrazio di nuovo perché leggi con interesse le schegge e perchè mi hai scritto. Il Signore benedica te, i tuoi cari, il tuo impegno.

 

Canapa

La foglia, quando è ancora tenera, si cucina ed è un’ottima verdura, da fare invidia agli spinaci... È un arbusto elegante, dritto, sottile e piuttosto alto che cresce su terreni allagati (tipo risaie). In inglese è “jute”, in italiano “canapa”, in bengalese “pat " (“t” palatale, per favore...). Seminato fittamente, colma di verde intenso grandi estensioni pianeggianti: da oltre due secoli fa parte del panorama del Bengala, specialmente nella parte centro meridionale.

La coltivazione richiede cura, e fatica. Al momento del raccolto, immersi nell’acqua, i lavoratori tagliano gli arbusti alla base, legandoli in fasci che lasciano sul posto a macerare, diffondendo un caratteristico odore acre. Quando la fibra inizia a staccarsi dal tronchetto centrale, i fasci vengono “battuti” con forza, ripetutamente, sulla superficie dell’acqua, con un ampio movimento del torso e delle braccia, finché si separa completamente. Allora si fa asciugare disposta in sostegni sulla riva; poi, legata in grandi, pesanti matasse dorate, la portano a stabilimenti (“jute mills”) per farne corde, tappeti, tessuti grezzi, sacchi, ecc. Il tronchetto centrale, privato della fibra esterna, è liscio, leggero e fragile; con pazienza, donne e bambini lo dividono in pezzi lunghi circa 40-50 centimetri, mescolano sterco di vacca con pula di riso e appiccicano l’impasto intorno agli steli, facendo insoliti “spiedini”che espongono al sole. Ben secchi, costituiscono un ottimo combustibile per cucinare.

La Gran Bretagna, nel periodo coloniale, ha incoraggiato e diffuso la coltivazione della “jute”perché trovava qui clima e terreno ideali, e buoni mercati d’acquisto in varie parti del mondo. Si coltivava pure l’indaco, che cresceva molto bene in bengala e veniva usato per produrre coloranti; ma quando venne sostituito da altri prodotti sintetici, non ci fu più convenienza, e rapidamente la canapa ne prese il posto. Però anche per questo prodotto non è sempre andata bene. Ci fu una crisi al momento dell’indipendenza (1947) quando India e Pakistan si separarono: la canapa veniva coltivata nella parte che divenne Pakistan Orientale, mentre le fabbriche per la lavorazione si trovavano nella parte che rimase India, verso Kolkata: li separava il nuovo confine politico che fu ben presto chiuso. Fu crisi per gli industriali in India e per i coltivatori in Pakistan Orientale - poi divenuto Bangladesh (1971). Non so che cosa successe in India, ma in Pakistan/Bangladesh gradualmente crearono nuovi stabilimenti (jute mills) e gradualmente la crisi fu superata.

Ma arrivò il tempo della plastica e delle fibre sintetiche, che rapidamente diminuirono l’importanza e il valore della canapa. Questo fatto, unito alla concorrenza di altri paesi (specialmente Cina), ad una politica ondivaga e contraddittoria e a tanta corruzione, mantennero il settore in perenne situazione di crisi, anche se si produceva e si esportava, e la canapa costituiva, dopo il riso, uno dei prodotti principali del Bangladesh.

Ora le industrie ci sono, e la canapa ha perso importanza, ma ha ancora il suo posto nell’economia del paese. Fra l’altro, il Bangladesh ha creato centri di ricerca di tutto rispetto, che sperimentano, selezionano e diffondono qualità di canapa migliori, per produrre tessuti che facciano concorrenza alle fibre sintetiche e al cotone. Sono anche molti i prodotti artigianali a base di canapa, spesso sostenuti da Organizzazioni non Governative e da gruppi ecologisti, mentre alcuni paesi e ditte europei hanno creato corsie preferenziali per usare prodotti in fibra naturale, e quindi canapa, sia come componenti di alcune parti delle automobili, sia come borse per la spesa, sacche e altro.

Ma gli stabilimenti statali per la lavorazione della canapa non sono mai riusciti a far quadrare i bilanci. Per questo, a fine giugno il governo ha drasticamente deciso la chiusura completa di oltre venti “jute mill”, a partire dal primo luglio. Ai lavoratori fissi sono state promesse liquidazioni “dorate”, ai precari (alcuni continuano come precari da trent’anni...) nulla. A tutti, per altoparlante, è stato comunicato che devono sgombrare alla svelta le case dove abitano, di proprietà governativa; la polizia presidia le aree vicine agli stabilimenti; due sindacalisti sono stati incarcerati con l’accusa di atti di vandalismo commessi due anni fa durante una manifestazione per avere gli stipendi arretrati...

Commercianti, produttori privati, esportatori non sembrano troppo preoccupati: la parte gestita dallo stato non era più di grande rilevanza, e loro sperano di poterla assorbire, ridando vitalità alle proprie ditte che stavano vivacchiando. Quanto ai 25 mila dipendenti, sarebbe stato difficile trovare un momento peggiore per informarli che non avevano più lavoro né casa. Siamo devastati dalla pandemia e dalla miseria. Ci mancava proprio questo... 

p. Franco Cagnasso

190

Dhaka – 29  giugno 2020

 

Clandestini

La storia è apparsa a più riprese sui giornali, complicata e tutt’altro che chiara. Ecco la mia ricostruzione, approssimativa: qualcuno, certo un gruppo bene organizzato e compatto, mette insieme i soldi per affittare una nave e al confine fra Bangladesh e Myanmar vi fa salire forse un migliaio di Rohingya scappati dall’enorme campo profughi che li ospita a Cox Bazar, convinti di poter presto approdare in Malaysia e trovarvi un lavoro sicuro. La nave in Malaysia non ci va: si limita a far trasbordare oltre 300 Rohingya su un enorme barcone, salutandoli con un incoraggiante “arrangiatevi”, e prosegue per i fatti suoi. Il barcone resta in mare per oltre due mesi, senza riserve di viveri e acqua. Muoiono e vengono gettate in mare oltre oltre 150 persone. Poi una nave del Bangladesh li intercetta e li riporta al punto di partenza...

 

Ma questa storia  non ha fatto molto rumore: i Rohingya qui sono un tema da trattare con cautela. Invece la tragica morte in Libia di 28 cittadini bengalesi, uccisi per vendetta perché si erano ribellati all’imposizione di altri ricatti per ottenere l’agognato passaggio verso l’Europa, una certa eco l’ha avuta; ha persino costretto a dare un’occhiata, per vedere se – chissà mai – qualche responsabilità si possa trovare anche in casa propria. Non è stato difficile risalire all’agenzia cui questi emigranti si erano affidati, e scoprire quello che tutti sapevano, cioè che si tratta di una grossa organizzazione criminale che da anni guadagna montagne di soldi sul “commercio” di manodopera clandestina, quasi tutta diretta verso l’Europa via Libia. Qualcuno è stato arrestato e le attività dell’agenzia sono state bloccate.

   

Poi è saltato fuori (collegato o no, non lo so) un altro “caso”: il Kuwait ha incriminato e arrestato un deputato del parlamento del Bangladesh, il capobanda di un’altra simile organizzazione, che mandando in quel paese migliaia e migliaia di lavoratori clandestini, ha guadagnato cifre... di tutto rispetto. Ovviamente in collusione con politici e non del Kuwait.

 

 

Occasioni

Le informazioni di questi tempi sembrano limitarsi ad un tema presentato e ripresentato in tutte le salse. La BBC fa interminabili servizi con interviste-fiume a due o tre esperti per volta su coronavirus e obesità, coronavirus e comunicazioni, coronavirus e diabete, e pensionati, e bambini, e calciatori, e politica, ferie, sport, religione, contadini,  giornalisti, futuro, distanze, mascherine, artigianato, passato, sogni, e chi più ne ha...

 

Ma c’è anche altro: se il virus polarizza l’attenzione di tutti, come non cogliere l’occasione per sistemare qualche problema senza farsi  notare?

 

In Bangladesh, sedici “eminent citizens”, persone di varie categorie, conosciute e con una certa autorità morale, hanno firmato una lettera aperta in cui affermano che, per alcuni, si tratta proprio di un’occasione d’oro. Nei mesi di aprile e maggio è nettamente aumentato il numero di violazioni dei diritti umani, fra cui violenze sulle donne e sui minori, occupazione di terre, pestaggi di giornalisti, e specialmente attacchi a gruppi di minoranza. Nell’isola di Bhola, teatro di simili avvenimenti già mesi fa, la notizia falsa di una “offesa” all’islam ha scatenato attacchi su una decina di famiglie indù e l’arresto di un giovane come presunto autore dell’offesa. Nessun fatto realmente inedito, ma un intensificarsi di abusi già perpetrati in condizioni “normali”, quasi sempre rimasti senza punizione e senza recupero dei danni subiti, e a cui ora nessuno fa caso.

   

Aumentano le morti per il virus, ma non sono diminuite - anzi ho l’impressione che siano aumentate -  le morti per “fuoco incrociato”, eufemismo per indicare le uccisioni “extragiudiziarie”; e la mano delle autorità su chi muove critiche di qualsiasi tipo si è fatta pesante, fra l’indifferenza generale.

 

Pare che il lock down impedisca di dare, ma non di prendere. Molte scuole private e ostelli non hanno dato gli stipendi agli insegnanti, ma alla riapertura pretenderanno dagli studenti il versamento delle quote mensili arretrate... E sono oltre cento i funzionari del governo bengalese che hanno trovato il modo di prendere ingenti quantità di riso, patate, legumi, olio, sale, farina che il governo ha distribuito, ma poi hanno trovato insormontabili difficoltà a darle ai poveri e affamati cui erano destinati...

Anche il famoso “tampone” che dichiara se hai o non hai il virus, è occasione per far soldi: sono al lavoro alcune organizzazioni con medici e operatori sanitari vari che falsificano i documenti con la certificazione che non sei contagioso. Farsi fare un controllo autentico costa circa 1000 taka, un documento falso costa dalle 9 alle 12 mila taka. Come alcuni preferiscano la strada del documento falso nonostante il prezzo molto più alto, nessuno lo spiega. Ma forse non occorrono spiegazioni...

 

A Dhaka ci sono 3.394 aree classificate come “slum” – baraccopoli - con oltre 6 milioni di abitanti, complessivamente. Sono per lo più poveri o poverissimi, e fra loro il ricorso ai prestiti presso usurai è molto comune. Il virus che impoverisce tutti dà occasione agli usurai per pretendere garanzie (pegni) maggiori, e per alzare gli interessi. Mediamente, al momento, il tasso da pagare va dal 10% al 20% - mensile - della somma prestata. Tassi alti, certo, ma gli usurai hanno le loro spese: chi paga i picchiatori che devono persuadere i debitori a pagare? Chi punisce distruggendo la baracca e portando via tutto ciò che abbia un valore, anche minimo, per rifarsi del mancato pagamento del debito?

 

p. Franco Cagnasso   

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Dhaka – 28 maggio  2020

 

Canton Hall

Somor, uno degli studenti che vive con noi, mi avvicina perplesso: “Padre, c’è un tale al cancello che chiede di parlare con te. Dice che lo manda p. Canton.” “Chi?” “Padre Canton, mi pare...”  P. Canton ha lasciato il Bangladesh da anni, ed è morto in Italia anni fa. Sto per dire a Somor di mandare via l’ignoto imbroglione, poi... curiosità? Compassione? Desiderio di vedere che faccia farà quando gli dirò che il trucco non funziona? “Mah, vediamo. Fallo entrare.”

 

Aspetto in fondo al cortiletto mentre un tipo grassottello ma agile entra deciso; la doverosa maschera antivirus nasconde un sorriso che si coglie negli occhi... Gli ingiungo severamente di lavare le mani con il sapone, rito imposto a chiunque varca il cancello, prima di mettere piede in veranda. “Giusto, giusto...”, ed esegue. Riappare con le mani gocciolanti e si ferma osservando la dovuta “social distance”. Due convenevoli, poi parto all’attacco: “Ti manda P. Canton, vero?”. Mi guarda perplesso: “Mi manda p. Canton? Ma come... lei non lo conosce? È andato in Italia parecchio tempo fa e poi, poveretto, quattro o cinque anni fa è morto!”

       

Dopo pochi minuti chiacchiero con questo simpatico signore di mezz’età, bangladesci, buddista, con cognome forse cinese, come con un vecchio amico. Mi dice che per circa 10 anni era stato “Managing Director” di una ditta italiana, e che insieme al signor Giorgio, un italiano della ditta stessa, aveva fatto amicizia con P. Canton, che abitava proprio in questa casa. “Ci ha invitato a pranzo varie volte. Gli volevamo bene, era pieno di attività e anche di buon umore. Abbiamo visitato la chiesa che stava costruendo a Faucal, e siamo andati alla sua Messa... Siamo stati anche a Borni, dove aveva lavorato per vent’anni. Abbiamo saputo che a Borni vogliono costruire una “Hall”, un centro per incontri intitolato a lui. Il signor Giorgio , ora in Italia, desidera sapere se la notizia è vera e se il progetto si realizza, perché vorrebbe partecipare, offrendo un aiuto in memoria di p. Canton. Sono venuto a nome suo; avevamo collaborato molto bene e siamo rimasti amici.” Gli spiego che, per quanto ne so, la costruzione è fatta e finita, e il Centro funziona. Si assicura che io possa farla pervenire al Parroco di Borni, e poi mi consegna una bella cifra in contanti, “in onore di P. Canton”.

 

La “Hall” è bella, con tanto di fotografia di P. Canton sulla facciata; c’è persino un suo busto accanto all’entrata – fra il nuovo edificio e la grotta di Lourdes. Non lo do per certo, ma ho il sospetto che qualche anziano abitante di Borni, detta un’“Ave Maria” alla grotta, si scusi con la Ascoltatrice e si sposti poi subito davanti al busto del “loro” padre Canton per un’ulteriore raccomandazione: era specialista nel risolvere i problemi, e di un ferreo ottimismo. Non appariva un “santerellino”, ma era un cristiano e un missionario serio.

 

 

Keralesi

Fino a circa quarant’anni fa, dire “missionario” significava dire “occidentale”: tutti i missionari

in giro per il mondo erano originari dell’Europa e dell’America del nord. Con un’eccezione, i Keralesi.

 

Il Kerala è uno stato dell’India meridionale che ha parecchie originalità, rispetto agli altri stati. Ha una popolazione mediamente più istruita e benestante, abituata a muoversi e anche a trasferirsi all’estero, non ha divisioni di caste, ha avuto vari governi comunisti, anche quando il Congress Party dominava a livello nazionale, ha una minoranza cristiana consistente, che appartiene per lo più alla chiesa cattolica di rito Siro-Malabarese, con storia, tradizioni, riti, diritto propri. È una “chiesa apostolica”, che risale all’apostolo s. Tommaso, mentre il rito è stato elaborato con la chiesa di Siria; il rito latino è entrato più tardi, con i commercianti e missionari portoghesi, dando occasione a un penoso conflitto fra l’antica comunità locale e i nuovi arrivati. Ci sono santi e sante, monasteri, santuari, comunità religiose locali e venute da fuori. La chiesa del Kerala aveva un buon numero di preti e suore, e non pochi di loro andavano a svolgere servizio “fuori”. Si trattava di preti diocesani che si trasferivano in altri stati dell’India,in  diocesi bisognose di clero, oppure all’estero, e di religiose mandate da varie congregazioni. Sapevano adattarsi, nonostante il cruccio di dover lasciare il Rito Malabarese, cui sono molto legati...

 

Anche il PIME, negli anni sessanta, si accordò con alcuni vescovi dell’Andra Pradesh per accogliere come membri preti del Kerala - con l’intesa che avrebbero fatto parte del PIME, ma rimanendo a lavorare nelle diocesi dell’Andhra. Si formò presto un gruppetto di una dozzina di keralesi nell’Istituto; si sperava che, grazie a loro,l’Istituto avrebbe avuto una continuità in India, nonostante gli stranieri non ottenessero più il visto di permanenza.

 

Ma il Capitolo del dopo Concilio, nel 1971, valutò che trattenendo gli indiani in India avremmo trascurato una caratteristica originaria dell’Istituto, e opo un sofferto dibattito decise di chiudere l’esperienza. Gli indiani che erano già membri rimasero, e alcuni di loro accettarono  anche di essere destinati fuori dall’India. Uno, il caro amico p. Abraham Aykara, chiese il permesso e passò al St. Thomas Missionary Institute, di rito Siro Malabarese, fondato in quegli anni riprendendo quasi alla lettera le Costituzioni del PIME. Poi, nel 1989, il PIME aprì di nuovo le porta, ma con la clausola opposta alla precedente: non “con il PIME per lavorare in India”, ma “con il PIME per lavorare all’estero”. E oggi Keralesi e altri indiani, con il PIME, sono sparsi per tutto il mondo...

 

Della generosità missionaria della chiesa del Kerala si ebbe un assaggio anche in Bangladesh, grazie alle Suore della Carità (di Maria Bambina), che accolsero giovani keralesi e ne inviarono alcune nel Bengala, affiancandole alle italiane. Ripensavo alla loro storia il 20 maggio scorso, nella cappella del “Capitanio Convent” a Dhaka, durante la Messa funebre di suor Theonilla, keralese, 85 anni. Era venuta in Bengala (allora Pakistan) nel 1955, rimanendovi fino a oggi, e qui aveva pronunciato i voti definitivi. Anche durante la guerra (1971), pur potendo ritornare in India, rimase. Insegnante, aveva ricoperto diversi incarichi nel suo Istituto. Era una donna attiva, precisa, attenta e discreta, che trasmetteva un senso di serenità. Ho ripensato ad altre keralesi che conosco e sono ancora qui: suor Berchmans, con cui ho collaborato a lungo nel Centro Assistenza Ammalati di Rajshahi; ora, a Jessore, dirige l’ospedale S. Maria, in collaborazione con i Saveriani, accogliendo e organizzando gruppi di medici italiani che a rotazione offrono un prezioso  servizio a pazienti poveri. O suor Sandra, una esperta presenza di servizio all’ospedale St. Vincent di Dinajpur, con il PIME. E altre che ci hanno lasciato, come suor Teodora, apprezzatissima infermiera, e suor Pia, morta a Dinajpur a 100 anni di età. Era stata anche insegnante elementare di Khaleda Zia, poi divenuta primo ministro. A chi le chiedeva come fosse da bambina rispondeva con un sorriso malizioso: “Carina e buona, ma... capiva poco...” Come altre loro consorelle del Kerala, hanno saputo ambientarsi in Bangladesh dall’interno di comunità formate di italiane – in passato – e ora di bengalesi. Hanno espresso doti non comuni di leadership, di impegno, di testimonianza: missionarie convinte e affidabili. Quanto a suor Theonilla, a tutte le altre doti aggiungeva il “tocco” con cui sapeva offrire una tazza di caffè veramente speciale, insieme ad un sorriso buono e tranquillo. Grazie suor Theonilla!

 

 

Onestà

In una scheggia precedente, intitolata “Canton Hall”, racconto di un simpatico signor Shankar, con il cognome cinese, che mi cercava per conto di un suo amico italiano, il quale poi mi ha scritto qualcosa di interessante a proposito della sua esperienza in Bangladesh: non è comune sentir parlare in questo modo stranieri che hanno lavorato in questo paese. Con il suo permesso, pubblico parte della sua lettera.

 

“(...) Ho avuto nella mia esperienza di lavoro in Asia (10 anni in Bangladesh e successivi 10 anni in Cina), molte opportunità' di  conoscere il PIME e alcuni dei suoi missionari. Io sono di San Donà di Piave e ho frequentato molto in Hong Kong Padre Piero Zamuner, suo confratello, anche perchè lui originario di Noventa di Piave, che si trova a 5 Km da casa mia.

  

Mi ha fatto piacere che abbia conosciuto Shankar. Lui è buddista, di Khulna, di nonno cinese, e abbiamo intensamente lavorato assieme 10 anni. L'azienda, si chiamava IKOS allora, si è distinta in Bangladesh perchè aveva escluso come policy aziendale di mai assoggettarsi a qualsiasi atto di concussione ed ovviamente tanto meno di corruzione. E questo fu per tutto il periodo. E lo fu anche in Cina negli anni successivi.

 

Devo dire che per questo siamo stati molto apprezzati dal mondo del business (tutto musulmano lì), e mai avversati o messi in difficoltà. Io personalmente ho trovato molta correttezza nel rapporto di affari con gli industriali locali, e vorrei dire anche in maniera superiore che in Italia per quegli anni.

 

All'interno della nostra policy, il rapporto con i dipendenti fu eccezionale... quando terminai quel periodo di lavoro sentii dire... Sir, you didn't give us a job, you gave us the dignity... (Signore, lei non ci ha dato un lavoro, ci ha dato dignità...).

 

Ricordo che quando comunicai la nostra maniera di lavorare a un Direttore della allora Banca Commerciale Italiana, rimase incredulo, conoscendo lui il Bangladesh. Mi chiese di rilasciare un'intervista a dei funzionari della loro Banca, che in quegli anni stavano facendo uno studio su come diminuire/evitare la corruzione nei rapporti di affari. A loro sembrava impossibile, per me era e fu del tutto normale riuscire a lavorare all'interno di quell'etica.

 

Peraltro una piccola intervista la rilasciai anche a Padre Gheddo, credo nel 2001,  che ebbi occasione di conoscere durante una piacevole cena proprio nella Casa del Pime a Dhaka, e che poi fu pubblicata su Avvenire. (...)

 

In Bangladesh l'utima volta sono tornato in ottobre del 2013 per salutare Shankar. Mancavo dal 2003. Ho notato forti cambiamenti ovviamente, per certi aspetti non era più il Bangladesh che ricordavo, salvo i visi ed i comportamenti della gente più' povera ed umile.

 

Desidero manifestarle che non ho parole per esprimere il mio apprezzamento per quanto avete tutti voi fatto in Bangladesh, Paese così diverso da noi per cultura e religione, ma dove si tocca con mano tutti i giorni l'umano che risiede in ognuno di noi. Auguro anch'io a lei ogni bene, cordialmente e con molta stima. Giorgio Spinazzè”

 

p. Franco Cagnasso 

188

Dhaka – 16 maggio  2020

 

Marcia indietro

Pochi giorni fa ho scritto una lunga lettera a Bruno e Giuliano; su di loro si regge e vive Banglanews, fin dalla sua nascita. Mi sono complimentato ancora una volta per  Banglanews, che fin dall’inizio deve a loro la sua esistenza e il suo successo.

   

Ho aggiunto  poi – penso con loro sorpresa - che la lettura dei suoi ricchissimi contenuti, seguita dalla rilettura delle mie “schegge”, mi ha dato l’impressione che le cosette di cui queste parlano c’entrino “come i cavoli a merenda”, e quindi si sentano “come pesci fuor d’acqua”, rispetto a tutto il resto del materiale pubblicato. Ho scritto tante schegge (786 mi hanno detto loro), nel frattempo tante cose sono cambiate, e soprattutto a un lettore nuovo trovare i miei raccontini in mezzo a tutto il resto deve fare una strana impressione. Annunciavo dunque ai due cari amici che avrei ancora scritto una volta per congedarmi, augurando ogni bene al loro cammino, che spero lungo. - E invece eccomi qui, con la lettera che segue

    

Carissimi Bruno e Giuliano,

dopo avervi disturbato con le elucubrazioni della mia scorsa lettera, vi informo che... vado avanti come prima: peggio per voi...

 

Varie cosette mi hanno fatto ripensare, prima fra tutte la vostra osservazione, che “Noi non vediamo una disarmonia nelle Schegge ma un modo diverso di raccontare la realtà di vita di un paese a noi così lontano e così amato anche grazie a te.”

 

Davvero le schegge permettono a qualcuno di conoscere il Bangladesh e volergli bene? Ripenso alle motivazioni iniziali per cui avviai le schegge: parliamo molto in termini “generali”, per raccontare miserie o progressi; questo è non solo giusto, ma necessario, però – in fondo – inevitabilmente anonimo. Se smetto, Banglanews parlerà ancora, e molto bene, del Bangladesh, del suo cammino e anche del lavoro dei missionari, ma a chi racconto la storia di Sila? Ne ho già parlato in una scheggia, è la vedova che ha fatto operare d’urgenza la figlia e poi ha dovuto pagare anche per gli errori dei medici, che loro stessi hanno riconosciuto. Ora la figlia sta bene, ma la famigliola è stata sfrattata: ho voglia di dire anche questo... Lei, Sila, che cosa ci guadagna se io lo faccio sapere ai lettori? Nel suo libro “Un indovino mi disse”, Tiziano Terzani racconta di aver visitato in Vietnam una grotta in cui un gran numero di contadini vietnamiti vennero massacrati, e commenta più o meno così: il mondo non ne seppe nulla, e questo silenzio rende ancora più anonima, vuota, la loro sofferenza, passata senza lasciare tracce. Questa osservazione mi colpì. Capisco bene il sentire di Terzani: per il mondo quelle persone e quell’episodio orrendo non sono mai esistiti. Eppure io credo che – come scrive Ernesto Oliviero - “Nessuno può togliere a Dio l’eternità di ogni suo atto di amore”. In pochi anni quelle persone sono uscite dalla memoria umana, ma erano e sono nel cuore di Dio, la cui memoria non passa. Con Terzani io “sento” che l’uomo, per quanto possibile, deve sapere e ricordare, perché siamo chiamati ad essere un riflesso – anche se piccolo e pallido – del cuore di Dio: se vi parlo di Sila, e voi leggendo le volete bene, questo s’imprime nella misteriosa trama dell’universo. La Bibbia dice che l’uomo è come un soffio. Un soffio leggero e breve. Ma dice anche che è stato fatto “poco meno di Dio”; raccontare di Sila è raccontare di Dio, del suo amore che l’ha creata, di Cristo che ha camminato fra noi perché anche lei possa sperare. Ogni giorno sentiamo parlare di politici, di scienziati, di sportivi, attori... perché tacere di Sila e lasciare senza nome i poveri di questa terra, che il Vangelo chiama Lazzaro?

  

Vi confermo la mia impressione: Banglanews è ricchissimo di cose serie e documentate, e i miei pezzetti sono come il tema di Pierino letto durante il Congresso del G20. Stridono, e certamente qualcuno si chiede che cosa c’entrano. Ma anche Pierino è importante! Maria, a cui ho chiesto un consiglio, ha scritto “Banglanews mi è sembrato sempre molto oggettivo, puntuale e scientifico, una sorta di geopolitica con anima.” Se ha un’anima, ho pensato, e certamente ce l’ha, allora capisce anche le storielle da poco, nonostante lo stile sia diverso e stridente.

     

C’è ancora un motivo, non secondario, per cui non smetto: voi mi avete risposto molto gentilmente, dicendo che avreste comunque rispettato la mia scelta, Giuliano si è persino offerto di continuare il servizio sul Blog che è in Mondo e Missione. Ma ho avuto l’impressione che se lascio ora è come se vi “piantassi in asso” – e questo non ve lo meritate. Quindi la colpa – se continuo – va divisa fra voi e Sila... Andiamo avanti. Ciao. Franco

 

 

Fuori

Chiamiamolo con il suo nome, senza giri di parole: “senso di colpa”. E qualche volta “angoscia”.

 

Il “Covid 19” ci ha costretti a stare in casa. Ogni volta che telefono, una gentile signora mi raccomanda di lavarmi le mani, coprirmi la bocca quando arriva lo starnuto o il colpo di tosse (usare il fazzoletto, il tovagliolino di carta o il gomito - suggerisce), stare distante e soprattutto non uscire se non è necessario. E io obbedisco. Uscire è necessario qualche volta, per andare al mercato, per celebrare in una delle comunità di suore che stanno nella nostra stessa via, o per spedire un piccolo aiuto a qualcuno che ha avuto la fortuna di non sentirsi dire “no, non posso”. Una parola terribile, perché se è vero che non posso aiutare tutti, è pure vero che chi se lo sente dire avrebbe voglia di rispondere: “Ma io non sono tutti, io sono uno” – e dice proprio così, con altre parole...

 

Siamo 21 residenti e mezzo nella casa del PIME a Dhaka: Louis e Anselmo, due nostri dipendenti che risiedono qui, conoscono tutto e tutti, e danno una mano nella gestione della casa; nove studenti di college, cinque di filosofia; Alberto, missionario laico dell’ALP che studia il bengalese; p. Prasad del PIME, indiano, pure lui alle prese con la lingua (come per Alberto, naturalmente le lezioni sono a distanza, usando le diavolerie moderne che in questi tempi tutti apprezziamo); padre Brice del PIME, camerounese, che svolge programmi formativi per  giovani, p. Francesco e il sottoscritto. Il “mezzo” residente è Fratel Lucio, che ha la base in una baraccopoli ed è impegnato, con i suoi volontari, con i bambini di strada. Viene qui il sabato sera, sta chiuso in camera per evitare eventuali contagi a noi, riparte il lunedì in mattinata. Cerchiamo di servirlo per bene – ma certo non è difficile immaginare quanto sia entusiasmante un “week end” in “quarantena”...

Possiamo pregare e celebrare insieme, nel refettorio che è largo e ci permette di non stare ammucchiati come in cappella. Sono i giovani che cucinano, e se la cavano bene. Coltivano un minuscolo orto e allevano 10 conigli (uno ce lo ha mangiato una mangusta, e ora qualcuno sta cercando di catturare e mangiare la mangusta...), facciamo lezioni di inglese e di computer, e pure un cineforum. Luban non ama il cricket e ogni pomeriggio, per tre quarti d’ora, prende elegantemente a calci – da solo - un pallone bucato, mentre gli altri s’accontentano del cortile per far finta di giocare a cricket. Tutto bene, neppure si litiga...

  

Io, che ho vissuto in vari luoghi del Bangladesh, tengo quasi sempre spento il cellulare perché da tutte le parti arrivano chiamate sempre più accorate e insistenti, a volte arroganti, per lo più imploranti. Inutile spiegare che non posso aiutare tutti. “Sì, sì, dici bene che non puoi, ma io non mangio da due giorni...” Magari non è vero, sta esagerando per commuovermi. Però è sempre più verosimile.

Quando poi uscire “è necessario”, ( armati di mascherina, guanti, ecc.) balza agli occhi che giorno per giorno aumenta il numero di chi vaga per le strade mendicando,  spesso a gruppi: donne e bambini, anziani, ragazzi...

  

Per quanto umanamente si possa, senza dubbio noi siamo in situazione di sicurezza. Ma basta questo? È la domanda di ogni momento. Qualcosa facciamo, ma se pensiamo al numero di persone in gravissime difficoltà, gira la testa... Il cervello ci dice tante cose, per esempio: con un po’ di fantasia e di coraggio si potrebbe fare qualcosa; ma che cosa?... guarda che se anche facessimo molto di più, la situazione rimarrebbe praticamente la stessa... Verissimo, ma ciascuno di coloro che soffre non chiede di risolvere la situazione, chiede di stare un poco meno male. Chi chiede non è una “situazione” da risolvere, è uno – o una, magari con bambini a carico...

  

La strada sotto casa nostra, a causa del “lock down” (chiusura generale) è molto meno frequentata di prima, e la notte ora c’è quasi silenzio; ma non per questo si dorme meglio...

 

p. Franco Cagnasso 

187

Dhaka – 30 aprile 2020

 

Emergenza    

Non so quante siano, ma certamente non sono poche anche qui le persone di buona volontà che si organizzano, o collaborano con organizzazioni già esistenti, per dare una mano ad alleviare i tanti problemi che accompagnano la pandemia del Coronavid 19.

 

Ambulanze. A Chittangong le ambulanze sono diventate temutissime, perché si pensa che trasportino persone colpite dal virus: anche chi ha problemi gravi di salute e urgenza di ricovero (infarti, incidenti...), rifiuta di usarle, correndo a volte gravi rischi e disagi.Un privato s’è accorto del problema e ha messo a disposizione, a sue spese, quattro ambulanze che fanno gratuitamente la spola in città, garantendo di essersi tenute lontane dal virus.

 

Mietitura. In varie zone del Paese è tempo di raccolta del riso. Normalmente, lavoratori stagionali si recano in queste aree per la mietitura, ma quest’anno il blocco della circolazione ha reso i viaggi teoricamente impossibili, praticamente molto difficili e costosi, proprio mentre forti piogge fuori stagione stanno mettendo a rischio i raccolti. Molti giovani, spesso studenti delle aree interessate, si improvvisano contadini per aiutare gli agricoltori, così che il preziosissimo riso non vada perduto.

 

Condivisione. Nel mese di Ramadan, al tramonto si rompe il digiuno quotidiano con una piccola festa che è molto sentita e simpatica (iftar). Si condividono leccornie con parenti e amici, anche con vicini di casa e poveri. Quest’anno ci sono moltissimi nuovi poveri in più, per i quali ricevere cibo diventa questione di sopravvivenza. E ci sono anche più persone che vivono questo “valore aggiunto” del Ramadan: sperimentare, grazie al digiuno, le condizioni di chi patisce la fame, ed essere più generosi con loro – almeno al momento dell’iftar.

 

Bambini in strada. Fratel Lucio Beninati, Pime, ha chiamato a raccolta la “sua” associazione “Pothosisu seba songho”, che si dedica a “bambini di strada” a Dhaka, e anche a Sylhet. In questo periodo organizza per alcuni di loro distribuzioni di cibo in due zone della capitale. Dopo alcuni giorni, alla distribuzione per bambini si è aggiunta la distribuzione per circa 50 adulti, sperando di calmare l’irrequietezza – e il rischio di reazioni violente - di chi rimaneva a bocca asciutta. A Sylhet, anche il Vescovo ha preso parte ad una distribuzione.

 

Ficcanaso. Sono almeno venti i giornalisti minacciati, picchiati, o fatti arrestare perché hanno pubblicato notizie di abusi nella distribuzione di aiuti, sopratutto riso e altri alimentari, che dovrebbero essere dati gratuitamente, o venduti a “prezzi politici” ridottissimi, e invece “spariscono”.

 

Blocchi. Da ogni angolo si sente la lamentela: di aiuti qui non si parla... fanno promesse ma non arriva nulla... tutto è finito nei magazzini del sindaco... del prefetto... del parlamentare... e dei loro amici... siamo alla fame... Qua e là, alcuni hanno iniziato a mobilitarsi, organizzando blocchi su strade o incroci di una certa importanza. Finora queste iniziative si sono risolte pacificamente: arriva la polizia con qualche autorità che promette di provvedere, la gente si fida, il blocco è sciolto. Riusciremo a evitare violenze del tipo “assalti ai forni” di cui ci ha raccontato il Manzoni?

 

 

Funny man

Sembra che il virus non sia arrivato – finora - nel “Chittagong Hill Tracts”, area collinare nell’estremo sud-est del Bangladesh, sede di molti gruppi aborigeni che fino a pochi anni fa costituivano la maggioranza della popolazione. Tuttavia la proibizione di viaggiare, e l’ordine di rimanere in casa sono applicati anche là, e gli ostelli studenteschi hanno mandato a casa tutti. Mong Yeo Marma, fondatore e direttore dell’ostello “Hill Child Home”, che raccoglie 150 aborigeni in maggioranza Marma, ha scelto di non mandare a casa nessuno: molti dei suoi ragazzi e ragazze non hanno famiglia, o abitano lontanissimo: meglio rimanere insieme: l’ostello è abbastanza isolato e ha ampi spazi boschivi intorno.

Ma l’ordine di chiusura è arrivato quando Mong Yeo si trovava a 150 chilometri di distanza dall’ostello, per un’urgente necessità famigliare. Come ritornare? Ormai tutti i mezzi erano fermi, i servizi di trasporto bloccati, i controlli numerosi e severi. Mong Yeo, in ansia, dopo inutili tentativi di avere il permesso è partito a piedi, in piena notte. Ogni tanto un pezzo in riksciò, o su una moto, poi di nuovo a piedi, su un carro... quando lo fermavano, tirava fuori i documenti di identità, e poi l’arma segreta: le fotografie dell’ostello, dei ragazzi e – spiega, spiega – lo lasciavano passare. All’ottavo “Alt, che cosa fai in giro?”, dopo due ore di domande hanno fatto ricorso ad un ufficiale superiore, che è intervenuto di persona facendogli un interrogatorio severo e sospettoso. Poi ha controllato fotografie e documenti, “scoprendo” che c’era anche il passaporto, valido ma con i timbri di un unico viaggio all’estero, e questo estero è niente meno che l’Italia. “Sei stato in Italia???”. L’ufficiale passa ad usare l’inglese e gli intima di stare lontano perché certamente infetto. Mong Yeo fa notare che si è trattato di una permanenza di un mese, oltre 5 anni fa, e lo tranquillizza, ma lui s’incuriosisce: “Che cosa sei andato a fare in Italia per un mese? Non mi dirai che eri un turista!” Mong Yeo ricomincia a sperare, e spiega con entusiasmo che tutto quello che fa all’ostello è possibile perché gli italiani lo aiutano. Racconta del viaggio, di come sono stati gentili con lui, di come vogliono bene ai ragazzi anche se non li conoscono. “E questi amici lontani – aggiunge - non solo mandano aiuti, ma anche pregano per noi!” Poi prende coraggio: “È vero che stanno passando momenti terribili, per questo preghiamo ogni giorno per loro, più del solito. Se non mi lasci ritornare all’ostello, che cosa racconterò loro? Che non v’importa nulla dei bambini che loro aiutano?”. L’ufficiale pare perplesso, e Mong Yeo fa l’ultimo salto: “Io sono sicuro che tu capisci e mi lasci passare, ma non basta, ti chiedo anche di più: anche tu devi pregare per gli italiani!”.

“You are a funny man – Sei un uomo buffo” commenta l’uomo –e gli dà il via libera. Mong Yeo ringrazia felice, fa qualche passo, poi si volta: “Hai promesso di pregare, ricordalo!” “Va bene, va bene...”

 

p. Franco Cagnasso

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Dhaka – 7 aprile 2020

 

Non ero sola

Piena di energia, di attività e di sogni, aveva circa vent’anni quando un ictus l’ha costretta a un lungo coma, seguito da una ripresa lenta e parziale, che ha lasciato gravi menomazioni motorie e anche di comunicazione. È un’amica carissima, e mi ha scritto pochi giorni fa.

“Giovedì scorso tutti i vescovi si sono recati nei cimiteri per dire una preghiera a tutti quei morti che non hanno avuto nemmeno un funerale. Ricorreva spesso anche da loro l’immagine della solitudine , dell’assenza dell’affetto dei propri cari. Sì, solitudine, ma non abbandono.

Quando -anni fa - mi sono svegliata dal mio sonno durato una ventina giorni, mi sono trovata distesa in un letto, immobile –anzi muovevo gli occhi, la mano sinistra e le dita dei piedi -  e incapace di parlare. Dapprima non capivo perché non mi dessero carta e penna invece di passare un sacco di tempo a recitare l’alfabeto aspettando da me un cenno del capo ad ogni lettera giusta per la parola che volevo dire. Ci ho messo mesi prima di pronunciare la prima sillaba e anni per dire una frase con diverse parole.

I primi sei anni da quando ero stata male, ho caparbiamente voluto mangiare con la bocca. Non ti dico quanto tossivo e dovevo sputare e quanto tempo impiegavo. Ad un certo punto si è rotto tutto e per continuare a sopravvivere ho dovuto mettere un sondino. Ti confido questo perché ho vissuto dentro a un silenzio oggettivo. Sarebbe potuto venire anche il papa, ma mentre mangiavo non sarei mai stata in grado di comunicare. Con nessuno, ma con Dio sì. Mi era di enorme sollievo sapere che lui sapeva. Non dovevo spiegargli nulla: lui capiva. Nemmeno il medico più bravo avrebbe anche solo intuito la mia fatica.

E allora vengo a oggi. Ogni notte penso che potrei benissimo essere una di quei contagiati. Una di quelle persone che muoiono soffocate e sono sole. Sì sole, ma non abbandonate. Mi sarebbe piaciuto sentirlo dai vescovi. Non è il bel pensierino tratto dal catechismo; io lo so per certo. Questi sono gli strumenti per parare i colpi, che Dio ti dà e di cui ti ho parlato. Non ti fermare alla logica umana è il cieco nato che rende gloria a Dio, è l’esaltazione della croce, è un crocifisso che risorge…”

 

 

Folle

A seguito del blocco della circolazione e delle attività lavorative non essenziali per contrastare  la diffusione del coronavirus, in Bangladesh c’è stato intorno al 20 marzo un esodo di milioni di lavoratrici e lavoratori dalle aree industriali ai rispettivi villaggi. Ma il 4 aprile, mentre la polizia bloccava a chiunque l’ingresso in Dhaka, e perseguiva chi circolava senza motivi nelle città e in molti villaggi, altrove si sono viste scene tipo “andiamo al villaggio, arriva la festa”, con migliaia di persone stipate su traghetti stracarichi, camion presi d’assalto da passeggeri, centinaia di migliaia di rientri nelle zone di lavoro. Altro che “social distance”, distanza di sicurezza! Si era sparsa la voce che le imprese avrebbero pagato gli stipendi di marzo; alcune imprese avevano deciso di riaprire assicurando che avrebbero fatto osservare le distanze di sicurezza, alcuni lavoratori avevano ricevuto telefonate minacciose: il 5 si riapre, e se non ci siete, perdete il posto. Ma il 5... cancelli chiusi. Quasi tutti. Gli imprenditori – come chiunque altro in questo tempo – non sanno che pesci prendere, e quando alcuni hanno scelto di riaprire, le loro organizzazioni sono entrate in campo raccomandando di aspettare ancora. Qualcuno l’ha fatto, altri no, e non si sa che posizione abbia preso o prenderà il governo.

 

 

Pensavamo…

Vedova da pochi mesi, lavora come domestica in alcune famiglie; ha quattro figli, fra cui la seconda sta preparandosi all’esame di maturità – poi rinviato a tempo indeterminato. La ragazza improvvisamente accusa forti dolori all’addome; appendicite? Ricovero in uno degli ospedali governativi più grandi ed efficienti di Dhaka. Dopo due giorni, dicono alla mamma che è un caso molto grave, operano, asportano le ovaie, avvisano che ci vogliono soldi e tempo per analizzare il materiale. L’ammalata si riprende un po’, e la mamma non ha più mezzi per continuare le cure; la mandano a casa: torni per togliere i punti. Ritorna infatti, ma la ferita è in pessime condizioni, infetta: tolgono i punti, puliscono, e fasciano, rispedendola a casa: un po’ in ricksciò e un poco a piedi, visti i divieti di circolazione in corso. Altro tempo di attesa, “poi cuciremo di nuovo”.Ovviamente ci vogliono ancora soldi. La donna li mette insieme con miracoli che solo una madre può fare, e torna alla data fissata. Controllo, non c’è male. Prende coraggio; “Dottore, mi scusi, ma che cosa è successo a mia figlia?” Il medico si guarda attorno e le spiega in un sussurro: “Vedi che non ci sono medici qui intorno? siamo rimasti pochissimi. Quasi tutti si sono messi in malattia per paura del coronavirus. Abbiamo operato tua figlia come potevamo, stava davvero male, e pensavamo che sarebbe morta. Abbiamo chiuso la ferita in fretta, pensando che non valesse la pena dare altro tempo. Ma è andata diversamente: l’esame è negativo, tua figlia ha reagito, ora abbiamo sistemato la ferita. Mi dispiace, è anche colpa mia, ma devi capire...” “Capisco, ma la spesa in più?”“Niente da fare, si tratta di costi, e l’ospedale non può fare sconti...”

 

p. Franco Cagnasso    

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Dhaka – 30 marzo 2020

  

Ammortizzatori

Kakoli.- È una giovane hindu senza famiglia, con una bimba di 9 anni, e l’ex marito convivente con un’altra. Faceva la domestica in una famiglia, alloggiando nel loro appartamento. La famiglia si è trasferita e Kakoli ha trovato una stanza in affitto condivisa con due altre lavoratrici, mettendoci tutti i risparmi; ma era contenta, perché le suore hanno preso la bimba nel loro ostello, e una signora, cristiana, l’ha presa come apprendista nel suo piccolo “Beauty Parlor” (non so come si chiamino in Italia i luoghi dove ti risistemano un po’ la fisionomia – no, non a pugni, ma con creme e matite varie. Saloni di bellezza?) Poi è arrivato il coronavirus e il Beauty Parlor ha chiuso. La signora le ha dato a 250 taka (due euro e mezzo) dicendole che per ricominciare  aspettava tempi migliori; le due compagne di stanza se ne sono andate. La padrona della stanza ora la perseguita: la stanza è tutta per te, ora paghi tu per tutte e tre...

 

Prodip.- Magrolino lui, e magrolina la moglie, sono una coppia di persone molto semplici, buone e simpatiche, con quattro figli piccoli. Lui lavorava in una fabbrica di abiti che alle prime avvisaglie di crisi ha chiuso. Aveva fatto un corsetto di  meccanica anni fa, e allora s’è avventurato a prendere la patente per fare da taxista su un CNG, veicoli tipo Ape della Piaggio, attrezzato per passeggeri, con motore a gas compresso (Compressed Natural Gas = CNG). Ne affittava a giornata uno, tirando insieme i soldi per mantenere la famiglia. È andata bene per tre giorni, poi è arrivata voce che il virus s’era messo in pista. Il proprietario del CNG in poche ore lo ha (s)venduto e se ne è andato al villaggio. Prodip, con moglie e figli...

 

Mahmud.- Pur essendo vecchio (circa 45 anni) ce la fa ancora a pedalare sul rikscio, per mantenere la famiglia nonostante la concorrenza dei tricicli a motore e delle motociclette gestite da Uber. Chiuse le scuole a causa del virus, i passeggeri sono drasticamente diminuiti; poi è stato proclamato un lungo periodo di vacanza straordinaria obbligatoria, insieme con il divieto di circolare se non per casi urgenti e indispensabili, e i passeggeri sono scomparsi. Quasi. L’altro giorno – mi diceva – il padre di uno degli alunni che lui era solito trasportare a scuola (una corsa, 60 taka), verso il tramonto gli ha chiesto di portarlo alla scuola del figlio. Era il primo e unico passeggero della giornata. All’arrivo, gli ha dato 30 taka: “Non ti va? Benissimo, la prossima volta trovo un altro, che mi porta per 20 taka”.

 

“Ammortizzatori sociali” credo che si chiamino, i sistemi per cui chi perde il lavoro non si trova immediatamente sul lastrico. Qui non hanno un nome, perché non esistono.

 

Persuasione.- Anche nelle zone più periferiche e vicino alle baraccopoli, il divieto di circolare viene osservato abbastanza. Vista la gravità del problema e l’estensione di Dhaka, hanno chiamato l’esercito a pattugliare, e il sistema funziona; infatti sulle strade principali non si vedono veicoli né pedoni. Come mai tanta disciplina? I militari non sono autorizzati a dare multe, né ad arrestare, ma... “armira mare”, dice la gente, cioè “i soldati picchiano”: se trovano due, tre o più persone a spasso insieme, le pestano senza tanti complimenti.

 

Casi.- La televisione ieri ha annunciato con soddisfazione che da due giorni non si sono registrati altri casi positivi di coronavirus. Poi ha aggiunto, di sfuggita, che erano stati fatti test su 110 persone. In verità non molti, per una popolazione di 160 milioni di abitanti.

 

Soccorso.- In tante zone, in Dhaka e altrove, è iniziata la distribuzione di pacchi di cibo fra i più poveri, e di questo c’è davvero bisogno. La TV di stato mostra insistentemente funzionari, amministratori, e politici del partito al potere che si affollano per farsi riprendere mentre mettono i sacchetti in mano ai poveri. La voglia di farsi pubblicità è più forte della paura di trasmettersi il virus.

 

Italia.- Sono tanti che mandano messaggi e telefonano per chiedere come va in Italia, e per assicurare preghiere. È vero, parecchi dei casi di esami positivi al coronavirus sono stati attribuiti al contagio causato dal rientro in Bangladesh di persone che lavoravano in Italia; è anche vero che nei campi dei profughi Rohingya hanno proibito a cinesi ed europei di circolare, perché vengono additati come “untori” e correrebbero gravi rischi. Ma il buon nome dell’Italia in Bangladesh c’era e rimane, assieme a riconoscenza. Speriamo che le promesse di preghiere siano vere.

 

p. Franco Cagnasso 

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Dhaka – 2 marzo 2020

  

Sorpresa

“Ti saluto p. Franco, parto fra poche settimane.” Me lo dice con un sorriso suor Francesca, ed è chiaro che prevede la mia reazione di sorpresa: “Davvero? Ma perché?”. La domanda è legittima, perché Francesca è giovane, vivace, interessata a tante cose, ma è una suora di clausura, una categoria non abituata ad andare in giro. Francesca appartiene alle Clarisse Adoratrici, l’unica congregazione di contemplative presente in Bangladesh, con due monasteri: uno a Mymensingh, fondato negli anni ’30 da un altro monastero in India; lei appartiene al gruppo che da Mymensingh si trasferì per fondare il secondo, a Dinajpur, oltre 10 anni fa. Come mai di nuovo in partenza? Tace un po’ per tenermi in sospeso e gustare la sorpresa, e poi mi raccomanda: “Ancora non è ufficiale, e non devi dirlo in giro; vado in Polonia. No, scusa, un altro nome: in Kazakisthan”. “Dove?”. “Ka-za-ki-sthan: non so dove sia, mi hanno detto soltanto che là fa molto freddo, e che la lingua è difficile, ma io ho detto di sì e sono contenta...”

Proprio così, la piccola chiesa del Bangladesh, dove la maggior parte dei cristiani manco sa che cosa siano le suore di clausura, e che cosa facciano, va ad aiutare una fondazione delle Clarisse Adoratrici che ha un numero troppo basso di sorelle, in Kazakisthan. E non ci va solo suor Francesca, ma da Mymensingh va anche un’altra monaca, sua compagna di scuola ai tempi del liceo. Hanno fatto un giretto per salutare le famiglie, raccolto qualche maglia di lana, e nel frattempo la notizia è diventata ufficiale, quindi questa “scheggia” non viola il segreto... Sono pronte, e fra un po’ prenderanno il volo. A dire il vero, mi dispiace non aver più la possibilità di fare una bella chiacchierata con suor Francesca ogni tanto, ma ci mancherebbe proprio che sia io – missionario – a fare obiezioni. Già una giovane del suo gruppo etnico, i Mandi, è morta martire in Sierra Leone non molti anni fa. Ora tocca a lei portare in un angolo di mondo che neppure sa immaginare, la fede che le ha fatto scegliere questa strada di amore esclusivo e di intercessione per il mondo. Buon viaggio sorelle, vi ricorderò!

 

 

Lo sapevi?

Da una lettera di mio nipote, architetto: “Una mia collega è in contatto con il Bengal Institute for Architecture, Landscape and Settlements; proprio in questo momento l’architettura contemporanea bengalese è considerata una delle più promettenti. Ci sono alcuni progettisti giovani (professionalmente parlando) che stanno ricevendo grandi riconoscimenti internazionali (per esempio Marina Tabassum o Kashdef Mahbub Chowdhury), inoltre si tratta spesso di una architettura di qualità, che ricerca un rapporto con la storia, la società e il territorio.” Ne hai sentito parlare?”                                                                                                                                          Mmm, a dire il vero, se ci penso, mi pare che, sì, forse qualcuno; oppure non ricordo dove ho letto... No, mai sentito. Ma grazie per avermelo scritto: fa piacere!

 

 

Cugini

Per il secondo anno consecutivo, i missionari Saveriani in Bangladesh rischiavano di non trovare un predicatore che accompagnasse il loro ritiro spirituale. Cercando qua e là, sono incappati nel sottoscritto – ultima spiaggia. Ho colto l’occasione per “costringermi” a fare una cosa che da tempo desideravo, cioè approfondire un po’ il significato dell’affascinante preghiera di Gesù, il “Padre Nostro”, e trascorrere qualche giorno con i “cugini” saveriani, con i quali mi ero trovato bene guidando un ritiro parecchi anni fa (per la cronaca, sul profeta Elia). Così, dal 18 al 21 febbraio scorso ho inflitto loro le mie elucubrazioni, che hanno sopportato coraggiosamente. Abbiamo pregato insieme, scambiato qualche esperienza, gustato frutta e verdura del loro orto, superbamente coltivato da p. Marcello – che consideravo un intellettuale e invece... lo è, ma sa anche coltivare pomodori e fare marmellate.

Avevo 19 ascoltatori. Fra loro, un “outsider”, il missionario diocesano di Alba p. Renato Rosso, che ha nel cervello (o nel cuore?) un’insolita bussola, con la lancetta che infallibilmente si dirige verso  gruppi e gruppetti di nomadi di qualsiasi etnia; in qualsiasi posto si trovino, li scova: dalle Filippine, all’India, al Brasile, a non ricordo dove, ultimamente pure in Israele – e naturalmente in Bangladesh, dove i Saveriani gli offrono un “pied à terre”. La sua vita è per i nomadi ed è nomade pure lui.

E i Saveriani? Se ricordo bene, due sono messicani, uno bengalese, gli altri italiani – per lo più  “stagionati”, come noi del PIME. Potrei cavarmela dicendo che sono gli “omologhi” del PIME: noi nel nord ovest e loro nel sud ovest del Bangladesh. Storicamente, quando il PIME mandò il primo gruppetto di missionari in Bengala (1855), la Santa Sede ci aveva assegnato un territorio estesissimo, a ovest del Brahmaputra, che andava da Khrisnanagar, poco lontano da Kolkata, fino all’Assam, ai confini con il Buthan e il Nepal, e che era parte della colonia inglese dell’India. All’inizio, i missionari del PIME si interessarono agli hindu di lingua bengalese, e con tanta fatica aprirono alcune piccole iniziative, soprattutto scuole, e qualche comunità cristiana cattolica – magari attirando gruppetti già in parte evangelizzati da Battisti e Anglicani. Pian piano, nei primi 50 anni di lavoro si misero le basi di alcune parrocchie/missioni, tutte a sud del Gange. Ma verso la fine del XIX secolo si aprì un orizzonte nuovo, avviando contatti con gli aborigeni a nord del Gange, che si mostrarono aperti all’annuncio, e l’attenzione si spostò verso di loro. In pochi anni, nel 1927, venne fondata la diocesi di Dinajpur, nel nord ovest. Della parte sud si presero cura Gesuiti e Salesiani. Nel 1947 l’indipendenza dalla Gran Bretagna tracciò un confine di inimicizia fra Pakistan e India, tagliando quasi a metà il territorio missionario del PIME, e anche del sud dove, nel 1952, venne fondata la diocesi di Jessore, affidata ai Saveriani. I nuovi missionari lavorarono sulle basi lasciate dagli altri, PIME e post PIME, naturalmente facendo anche molto altro: missioni nuove e iniziative nuove. La diocesi spostò la sede nella città più grande della zona, Khulna, dove si trova ora. I Saveriani si dedicarono specialmente ai “fuori casta” conciatori di pelle, chiamati “Risci”, dedicando molte energie e ricerche a questo gruppo disprezzato e poverissimo. Fondarono un Centro Catechistico Nazionale, scovarono aborigeni anche nel sud, in particolare il gruppo Munda, si dedicarono a interessanti studi su vari temi, tutti in qualche modo collegati con l’argomento evangelizzazione e dialogo, con lo sforzo di entrare dentro e apprezzare la cultura di questo popolo. Sono loro che hanno fatto conoscere il premio nobel bengalese Robindronath Tagore in Italia, con eccellenti traduzioni. Andarono oltre la diocesi, nella diocesi di Chittagong, ma il lavoro nelle zone degli aborigeni nel sud est venne bloccato da disposizioni governative, che non permettono agli stranieri di operare in quelle regioni – e, ultimamente, neppure di andarci... Aprirono iniziative fra le donne più povere, fra i bambini di strada, una missione in diocesi di Mymensingh. A Jessore avviarono e gestirono il “Fatima Hospital”, in passato uno dei pochi ospedali decenti di tutto il Bangladesh; a Khulna l’originale iniziativa- realizzata con le Suore di Carità (Maria Bambina) - dell’ospedale S. Maria, dove gruppetti di medici italiani – soprattutto chirurghi – si recano a turno, curando e operando gratuitamente molte migliaia di ammalati poveri.  Con loro ho vissuto giornate ottime, insieme abbiamo sfiorato la bellezza e la profondità del Padre Nostro.

 

p. Franco Cagnasso 

183

Dhaka - 28 gennaio 2020

 

 

BRAC

20 dicembre 2019. Sul cancello di casa mi avvicina il nostro ex autista, attualmente noleggiatore del pulmino... ex nostro. Imbarazzato, mi mostra una fotografia che tiene nel portafogli  e dice: “È Fazle Hasan Abed, l’uomo più buono che io conosca. È morto oggi, poco fa.” E prosegue: “Ho lavorato come autista al BRAC, di cui era il presidente. Un giorno ci siamo trovati alla soglia dell’ascensore affollato, c’era posto per uno soltanto. Volevo lasciarlo entrare, ma mi prese per un braccio dicendo: entra tu, che sei autista e devi render conto se sei in ritardo,  io non ho questo problema e posso aspettare... Era fatto così.” Ha gli occhi lucidi; e sì che non è proprio un tipo dalle emozioni facili...

 

BRAC significa... Dal suo nascere, l’acronimo è rimasto uguale, ma il significato è cambiato più volte: da “Bangladesh Rehabilitation Assistance Committee”, a “Bangladesh Rural Advancement Committee”, poi... poi non lo so. Ma il BRAC è il BRAC, e questo in Bangladesh lo sanno tutti, anche chi non sa che è la più grande “Organizzazione Non Governativa”al mondo, fondata proprio qui e presente ora in 11 nazioni povere del mondo. Quando, nel 1970, un tifone spaventoso uccise trecentomila persone nel Pakistan Orientale (poi divenuto Bangladesh) e nel 1971 scoppiò la sanguinosa guerra di liberazione, Fazle Hasan Abed -  che risiedeva e lavorava a Londra - si diede da fare con altri emigrati per raccogliere fondi e mandare aiuti. Poi decise di fare di più: vendette l’appartamento, ritornò in Bengala e impiegò i soldi per avviare operazioni di aiuto alle vittime attraverso due piccole organizzazioni. In breve tempo si  fece conoscere per il successo delle sue iniziative, non clamorose ma accurate, spesso originali, e  affidabili. Dopo un disastro, o considerando situazioni di estremo bisogno, non si precipitava a distribuire coperte, medicinali e soldi: sembrava avere un’abilità speciale per cogliere le necessità di una determinata situazione e inventare soluzioni efficaci. A chi gli chiese come facesse, rispose: “Vado in un villaggio, mi siedo con le donne anziane, e ascolto quali sono i loro problemi: loro li conoscono”.

 

A Dhaka ci sono alcuni grandi negozi molto eleganti di abiti, artigianato e altro, la catena Aaron, frequentata da ricchi e da stranieri. Sono una delle iniziative del BRAC, avviata per dare sbocchi commerciali a prodotti artigianali vari, di qualità: dai ricami tradizionali al sapone al nim, dal “prêt-à-porter” ultima moda, ai soprammobili in bambù. È il BRAC che ha contribuito a diffondere la coltivazione del mais, adatto a periodi in cui il riso non viene coltivato, che ha fondato e gestisce scuole rurali di buona qualità, che sta diffondendo la produzione di latte e prodotti caseari, che ha avviato una banca al primo posto per affidabilità, una università seria, una scuola per infermiere di ottima qualità, che aiuta organismi per la difesa dei diritti civili... Già negli anni settanta, alcuni nostri giovani missionari si misero in contatto con il BRAC perché si occupava di alfabetizzazione di adulti, adattando alle popolazioni del Bangladesh il metodo creato da Paulo Freire in Brasile; rimasero impressionati dalla sua serietà. Il primo impegno all’estero del BRAC fu preso in un posto non precisamente facile: l’Afganistan, dove fra l’altro si è dedicato alla creazione di una università femminile.

La mente aperta di Fazle lo portava a cercare sempre: consigli, esempi, metodi, aiuti da qualsiasi parte; allo stesso tempo era noto per la prontezza e generosità con cui aiutava e collaborava con altre organizzazioni e iniziative non sue, quando ne vedeva la validità, senza monopolizzare o mettersi in mostra. Quando il BRAC era ancora ai primi passi, chiese aiuto alla Caritas, e per un certo tempo il missionario americano p. Timfu una specie di consigliere speciale. 

Il mondo delle ONG è accusato di essere corrotto e opportunista, e il continuo pullulare di nuove ONG qui in Bangladesh purtroppo conferma che molte  sono una copertura di interessi personali o di gruppi. Ma pare proprio che non sia il caso del BRAC, il cui fondatore comunicava come valori fondamentali l’integrità, l’onestà, l’umiltà. Tutti dicono che vivesse lui per primo queste virtù, anche quando divenne famoso, apprezzato, pluripremiato, membro di un’incredibile numero di commissioni e comitati internazionali, e si trovò in un giro di capitali impressionanti: soltanto il settore del microcredito BRAC gestisce tre miliardi di dollari ogni anno. Il BRAC, dicono i giornali, coinvolge in vari modi circa 200 milioni di persone. Devono essere state le donne di qualche villaggio a dirgli, pochi anni fa: “Mio marito lavora a Dhaka, ma non sa come mandarmi i soldi in modo sicuro...” La risposta è stata una iniziativa di “banca telefonica” che si è diffusa rapidissimamente in ogni angolo del Bangladesh: il suo nome “Bikash”, bianco e nero su fondo rosso, si vede ovunque, specialmente nei quartieri poveri delle città e nei villaggi remoti: dal marito che lavora alla moglie che aspetta i soldi per mandare il figlio a scuola, anche in un villaggio sconosciuto.

 

Finisco qui. Speravo che, scrivendo, mi venisse in mente il significato attuale dell’acronimo BRAC. Non è venuto. Dite che basta andare in internet per trovarlo? Bene, andateci; a me basta sapere che il BRAC è il BRAC, che ha fatto bene, con intelligenza ed efficacia, e può essere un vanto di questo Paese, che non è solo corruzione.

 

 

Centenario

Il 27 marzo 2020 ricorre il centesimo anniversario della nascita di Sheikh Mujibur Rahman. È considerato “padre” della patria perché alla guida del partito Awami League ne preparò il distacco e l’indipendenza dal Pakistan. Nel 1970, quando venne eletto con una travolgente maggioranza, i centri di potere del Pakistan  occidentale ne impedirono l’apertura, e lui venne deportato. L’indipendenza fu proclamata clandestinamente in suo nome, mentre era in prigione. Dopo 10 mesi di sanguinosa guerriglia, l’intervento dell’esercito indiano e la resa dell’esercito Pakistano, fece un ritorno trionfale e assunse la guida del nuovo paese come suo presidente per circa 6 anni. Fu ucciso il 15 agosto 1975 in un complotto politico-militare che aprì la porta a un lungo periodo di instabilità politica e violenze, di restaurazione di chi si era opposto all’indipendenza e alla secolarizzazione, di governi e dittature  militari. I ribelli dovevano essere consapevoli del fascino che quest’uomo, con la sua oratoria straordinaria in un paese che dà grandissima importanza alla lingua e alla retorica, aveva sulla gente, e della forza anche politica che i legami famigliari hanno in questa parte dell’Asia. Per questo, insieme con lui, si preoccuparono di massacrare ben quindici membri della sua famiglia e della servitù. Mancarono però una parte importante dell’obiettivo: due figlie di Mujibur Rahman erano all’estero per studi, e si salvarono.

 

La figlia maggiore, appena pensò di potercela fare, ritornò in patria e incominciò a tessere una paziente e lungimirante tela politica che la portò al potere una prima volta negli anni ’90 e poi di nuovo per 3 mandati consecutivi fino ad oggi nel nuovo millennio. Paziente, dicevo: Hasina si preoccupò di riunificare e consolidare il partito, accettando il gioco democratico e la competizione specialmente con il Partito Nazionalista del Bangladesh (BNP), fondato dal generale che  - pochi anni dopo la morte di Mujibur - si era proclamato presidente, e poi guidato dalla sua vedova Khaleda Zia, la sua odiata “arcirivale”. Fuori bersaglio nel 1975, Hasina subì vari altri tentativi di uccisione, scampando anche a due attentati particolarmente gravi in cui morirono decine di persone. La lotta ebbe vicende alterne finchè, poco più di sei anni fa, si inasprì in un braccio di ferro con violenze di ogni tipo sulle strade, dove il Partito Nazionalista si giocò praticamente tutto; Hasina tenne duro, il BNP per protesta si ritirò dalle elezioni, e quasi scomparve dalla scena politica: era iniziata la resa dei conti che Hasina aveva  atteso e preparato. Una serie di processi, da lei promessi e fortemente perseguiti, rispolverò i crimini di guerra del tempo della lotta di liberazione, concludendosi con la condanna a morte – prontamente eseguita – di tutti i capi del partito Jamaat, islamico e alleato del BNP, mentre quest’ultimo – assente dal parlamento ed esausto per l’impegno di una lotta feroce che si ritorse contro di loro - affrontava una tempesta di processi per corruzione.

 

Hasina, saldamente al comando, ne approfittò per riprendere in mano il filo del discorso rimasto interrotto con l’uccisione del Padre della Patria tanti anni prima, e poi contraddetto da tanti interventi – fra cui alcuni legislativi e anche di revisione delle costituzioni, intesi a ridare più spazio all’islam politico e ai filo pakistani. Ebbe l’intelligenza di non percorrere la strada, fin troppo facile, di disfare i provvedimenti di restaurazione e rimettere in piedi ciò che era stato demolito. Prese il discorso più alla larga, saldando, come ho detto,  i conti lasciati aperti dalla guerra, e poi impegnandosi in una politica di rilancio dell’identità del Bangladesh e quindi del ruolo di suo padre, Mujibur. Bongobondhu, “amico del Bengala”, così veniva chiamato dai suoi fedeli Mujibur, e la figlia si preoccupò di far capire a tutti che proprio lui aveva la chiave per creare un paese libero, democratico, di cui non dovessero aver paura neppure i più devoti islamici, che blandì con concessioni intese ad averne l’appoggio  e il controllo. Fino a dove ci sia riuscita o riuscirà non saprei dirlo, ma il tentativo è evidente. Hasina ha battuto sul tema della storia che ha condotto il paese alla separazione dal Pakistan, ha rilanciato una politica di amicizia (guardinga) con l’India, ha aperto le porte a investimenti di ogni tipo, promettendo tra l’altro un “digital Bangladesh”, e accompagnando un periodo di straordinaria crescita economica. Bongobondhu è il “santo protettore” il cui pensiero soltanto può garantire che questi successi continuino e vadano a favore del popolo. Tutto è nel nome della cultura bengalese, islamica, aperta e tollerante, modello mondiale di convivenza. Gli “aborigeni” sono cancellati dal vocabolario, si tratta di “minoranze” e basta, e del trattato di pace che oltre 25 anni fa pose fine alla loro guerriglia nel sud, ogni anno viene detto che bisogna avere pazienza e fiducia, perché presto tutte le clausole saranno realizzate.

 

I cent’anni della nascita di Mujib sono come il momento culminante di questa politica culturale che Hasina persegue tenacemente, mentre la “arcirivale” è in carcere e gli avversari sembrano allo sbando. Le strade sono già stracolme di fotografie di Mujib che tiene comizi, che sorride, che studia, che indica la strada, che stringe mani... un ministro ha proclamato tre mesi di preparazione all’anno di celebrazioni, raccomandando di dare alla preparazione il dovuto risalto ed entusiasmo, e un altro ha raccomandato che si tratti di entusiasmo moderato, per non esaurirlo tutto prima che l’anno celebrativo prenda il via. Vedremo.

                                     

p. Franco Cagnasso