La tigre ingrata e altre favole del Bengala

p. Silvano Garello






La tigre ingrata

e altre favole del Bengala






Sommario


Prefazione

Non c'è forse paese al mondo così ricco di fiumi e di canali come il Bangladesh. Questo piccolo paese del sub-continente asiatico ha acquistato la sua piena indipendenza nel 1971. La sua storia e la sua cultura sono tuttavia plurisecolari e sono costituite da una gran mistura di sangue e di idee.

Le ricchezze della grande India hanno attirato popoli diversi, come gli Ariani, i Mongoli, i Persiani, gli Arabi e gli Europei. Come risultato, per usare un' espressione di Arnold Toynbee, la cultura indiana è diventata «plurale anziché singolare». Nella più vasta cornice della cultura indiana, la cultura bengalese non vi fa eccezione.

Gli enormi fiumi del Bangladesh, come il Gange, il Megna ed il Brahmaputra, trasportano un prezioso humus che, ad ogni alluvione, si sedimenta sul terreno. I contadini coltivano, in prevalenza, riso, juta, canna da zucchero. Le colline del Silhet sono state trasformate in giardini di tè. A sud c'è la grande foresta del Sunderbon, regno della tigre reale del Bengala. Seguendo i meandri dei canali che la intersecano, boscaioli e cacciatori vi si addentrano coraggiosamente. Purtroppo qualcuno di essi non fa più ritorno a casa. La famosa «mangiatrice di uomini» miete ogni mese il suo grappolo di vittime. Ho visto i segni della sua zampata sul fianco e sulla nuca di un boscaiolo cristiano di Chalna. Nel racconto di questo sopravvissuto ho capito qualcosa del rischio che questa gente deve affrontare per sopravvivere.

Eppure boscaioli e cacciatori, pescatori sui fiumi, contadini sui campi alle prese con la siccità o l'inondazione, donne e bambini di questo paese non riescono a frenare l'impero della meraviglia per la vita che ogni giorno si rinnova sotto i loro occhi al ritmo di sei stagioni.

La facilità del canto e la capacità di improvvisare un racconto costituiscono una delle prime sorprese per chi avvicina il popolo bengalese. In Bengala chi sa raccontare trova subito un uditorio. Qui la folla ed i cantastorie si attirano a vicenda, come per una simpatia irresistibile. Una festa, un pellegrinaggio o un mercato sono il naturale scenario per chi sa vendere mercanzie e parole.

Ma anche l'intimità della capanna, la veranda o il cortile diventano un palcoscenico su cui si alternano i narratori. Dopo il tramonto, indù, musalmani e cristiani estraggono con dovizia dal cesto delle loro tradizioni citazioni religiose, poesie, filastrocche, proverbi, indovinelli e soprattutto favole.

Fintanto che anche qui la radio e la televisione non copriranno le voci di chi sa raccontare qualcosa di interessante, si sentiranno ancora delle favole. Sarà purtroppo questione di tempo. Poi, anche qui come da noi, le favole si troveranno solo nei libri o magari in qualche cassetta registrata. Pure in Bangladesh si sta ponendo ora il problema di come salvare dall'oblio questa grande varietà di fiori di sapienza popolare.

Raccolte di favole

Le prime collezioni di racconti e di favole bengalesi risalgono ad almeno due secoli fa. Ricordiamo prima di tutto la data storica: 23 giugno 1757 la East India Company sconfigge il Nawab del Bengala. Da questo momento gli inglesi prendono piede in India. Come altri invasori, essi però non divennero parte della popolazione indiana. Tuttavia dall'interesse puramente commerciale per il paese conquistato essi passarono ben presto all'interesse culturale. L'eredità artistica dell'India non poteva lasciarli indifferenti. Come la Grecia, anche l'India ammaliò e conquistò i suoi conquistatori.

Nel 1784 William Jones fonda l'Asiatic Society of Bengal con lo scopo di promuovere la ricerca sulla cultura orientale. Iniziano le prime traduzioni dal sanscrito, l'antichissima lingua indiana in cui sono scritti molti libri sacri dell'induismo. Ed iniziano pure le ricerche di materiale artistico popolare, il cosiddetto folklore.

Tra coloro che più compresero l'importanza della cultura bengalese va ricordato il battista William Carey, che nel 1801 divenne professore di sanscrito e di ben goli al Fort William College di Calcutta. Utilizzando anche una precedente traduzione inedita fatta dai Gesuiti, egli pubblicò la prima traduzione completa della Bibbia in bengalese ed iniziò pure la stampa di un giornale bengalese.

La lingua bengalese si è formata attraverso grandi nomi, come Michael Dotto e Robindronath Tagore, i quali la resero duttile per la poesia, la prosa e la trattazione filosofica. Nello stesso tempo si è sempre mantenuto vivo l'interesse per la ricerca di materiale popolare, come proverbi, canti, poesie e favole. I grandi artisti si sono sempre ispirati a queste fonti popolari ed hanno incoraggiato lo studio del patrimonio culturale proprio del villaggio.

Nel 1869, G. H. Dumont, un ufficiale inglese, impiegato civile a Rangpur in Bengala, pubblicava una raccolta di «racconti del Bengala». Spintosi poi nell'Assam per altre ricerche, mori assassinato da alcuni banditi che speravano in un ricco bottino.

Nel 1883, un certo Lalbehari Dey, un indù che si era fatto cristiano, presentava una sua raccolta di «racconti popolari del Bengala».

Agli inizi del secolo, Daksina Ranjan Mitra Xajundar ci offre delle collezioni rimaste classiche, come per noi europei le favole di Andersen. «Thakur dadar Jhuri» e «Thakur war Jhuri» sono come i cesti dei nonni da cui c'è sempre qualcosa di buono da pescare.

Upendra Kishore Ray Choudury ci dà una bella serie di favole sugli animali intitolata «Tantunir bhai».

Più recentemente, in Bangladesh, Mansuruddin e Jashim Uddin hanno lasciato delle belle raccolte di favole di questo paese.

Per iniziativa della Bangla Accademy di Dhaka sono in corso altre collezioni e studi su un vasto materiale letterario ancora inedito.

Tipi e contenuti delle favole

Come si potrà notare, anche nella presente modesta raccolta essistono vari tipi di favola bengalese.

Prima di tutto ho cercato di tener presente i vari contesti culturali e religiosi. In Bangladesh convivono vari gruppi religiosi: i musulmani, gli indù, i buddisti, i cristiani ed anche coloro che seguono le cosiddette religioni tradizionali, come i gruppi tribali dei Shantal, dei Garo e dei Chakma.

Per questi gruppi religiosi la favola è sempre stata un veicolo espressivo privilegiato perché legato ad una cultura orale. Non si deve dimenticare che in Bangladesh solo il 25% è alfabetizzato.

I racconti popolari indù spesso si richiamano ai loro documenti religiosi, come i Puranas, il Ramayana ed il Mahabarotha. Non deve quindi sorprendere se si parla di reincarnazione e di destino scritto sulla fronte.

I racconti musulmani si rifanno agli hadish del profeta Maometto, alla classica raccolta di «Mille ed una notte» ed alla aneddotica moraleggiante.

I cristiani in Bangladesh non hanno ancora una vera e propria tradizione culturale. La tavola presentata nella raccolta («La conseguenza dell'invidia») è un rifacimento di un apologo che il mio maestro di bengalese ha sentito raccontare nella chiesa di Barisal.

Volendo tentare una qualche suddivisione dei vari tipi di tavole, si potrebbero ricordare:

- «golpo kotha » o «golpo kahini»:

sono favole imperniate sulla vita quotidiana ed i miti dei fenomeni naturali;

- «rup kotha, mojar kotha»:

queste favole hanno per protagonisti gli animali e sono spesso caratterizzate dalla comicità e dalla ricchezza di insegnamento morale;

- «brata»:

sono tavole per lo più a sfondo indù che richiamano complicati rituali e si intrecciano con le storie di Ram e Sita;

- «ballate»:

sono storie popolate da giganti, gente coraggiosa e bestie selvagge. Esse vengono raccontate alternando la prosa ed il canto, come nella tamosa storia di Rekha che si sente narrare nel distretto di Mymensingh.

La favola bengalese presenta i grandi temi legati all'ambiente ed alla vita quotidiana: le professioni, l'amore filiale, il sogno delle ricchezze, regni e principi, costumanze religiose e superstizioni. Spesso alla base c'è uno studio attento delle abitudini e delle caratteristiche degli animali. Non si parla solo di astuzia, ma anche di fedeltà, coraggio e generosità. L'insegnamento morale viene inserito con naturalezza.

Non mancano aspetti grotteschi e talora crudeli. Di questo non dobbiamo meravigliarci. Il canto, la poesia e la favola non riusciranno mai del tutto a far dimenticare l'aspetto duro della vita quotidiana, fatta di lavoro pesante e monotono, di lotta contro i prepotenti, di piccoli e grandi drammi familiari.

Anche se questo mondo ci sembra lontano, nella favola bengalese troviamo tante cose che ci parlano direttamente all'anima, ci fanno sorridere e suscitano in noi una profonda simpatia per questo popolo.

SILVANO GARELLO

La tigre cattiva

In quasi tutti i paesi del mondo le mamme o le nonne sono solite raccontare delle favole. Anche il Bangladesh non vi fa eccezione. Mi ricordo quando, la sera, seduti sulla stuoia attorno alla nonna, ascoltavamo le sue favole. A volte ci parlava della tigre feroce, altre volte del saggio sciacallo. Passando di capanna in capanna, capita spesso in Bangladesh di sentire queste storie.

Ascoltate ora la storia di una tigre cattiva.

C'era una volta, in un lontano paese, un re famoso. Egli aveva delle manie molto strane. Per esempio, egli aveva addomesticato vari tipi di animali che teneva rinchiusi dentro una gabbia' d'oro.

Un giorno il re si mise in testa di insegnare loro a parlare. Convocato il primo ministro, gli diede quest'ordine:

- Chiama a raccolta dei saggi che sappiano insegnare a parlare ai miei animali.

Il primo ministro rimase sconcertato. Preso dalla paura, osò ribattere al re:

- Mio sovrano, come faranno a parlare questi animali?

- Non voglio sentire obiezioni - replicò il re. - Tu pensa solo a chiamare questi saggi!

Per il primo ministro non c erano scappatoie. Fu costretto a chiamare esperti dai paesi diversi. La risposta superò le sue aspettative.

Giunsero dunque in gran numero, dal regno e anche dall'estero, esperti in varie lingue. Dieci di essi si offrirono subito ad insegnare la lingua a dieci animali. Dopo una fatica improba, riuscirono ad insegnare la lingua a queste bestie. Il re ne fu molto soddisfatto. Egli sommerse di regali gli esperti. Poi indisse una grande festa nella reggia e lanciò l'invito a re e principi dei paesi vicini.

Davanti agli illustri ospiti il re si esibì a rivolgere la parola ad una tigre rinchiusa in una gabbia d'oro posta proprio all'ingresso della reggia. A chi si avvicinava alla gabbia, la tigre diceva: « Salve! Fammi il favore di aprire un momentino la porta della gabbia ». A sentirla piagnucolare così, tutti restavano esilarati. Naturalmente, per paura, nessuno osava aprire la porta della gabbia.

Un giorno anche un povero bramino venne a godersi lo spettacolo. Questo bramino aveva un gran cuore compassionevole. Appena lo vide, la tigre si profondò in ossequi. Il bramino, un po' divertito, le rivolse la parola:

- Pensa come sei fortunata! Che cosa vuoi da me?

La tigre rispose:

- Maestro, per favore, aprimi la porta. Mi trovo qui dentro prigioniera da tanto tempo! Se mi apri la porta, mi accontenterò di fare solo quattro passi fuori all'aperto.

Il bramino aveva un cuore buono. Così, pensò: «Eh, sì, questa tigre deve starci proprio male in gabbia». Era più che naturale che la tigre volesse uscire fuori per un po'! Lesto, lesto, il bramino aprì la porta della gabbia. Appena la tigre si trovò fuori di gabbia, fece un bell'inchino al bramino, e gli disse:

- Maestro, ora ti mangerò!

- Che cosa dici mai? - il bramino replicò allibito -. Lo ho pensato di farti un favore liberandoti dalla gabbia, ed ecco che tu mi vuoi sbranare. Un comportamento simile non può essere giusto.

La tigre disse:

- Perché? Alla fin fine tutti si comportano così. Caro maestro, sai bene che non sono la sola.

- Ma è assurdo! - insisté il bramino -. Non ci si può comportare così... E sia pure: intanto vorrei interpellare due avvocati per sentire la loro opinione in materia.

La tigre accettò:

- Vediamo un po': Se gli avvocati ti daranno ragione, allora ti lascerò libero. Invece, se i testimoni diranno che io sono nel vero, sarò costretta a mangiarti.

Lì davanti c'era un cortile con nel mezzo una bella pianta di banian. Appena la vide, il bramino disse:

- Prendo questa pianta come difensore!

- Va bene - rispose la tigre -: prova a chiedere il parere del banian.

Il bramino si rivolse alla pianta:

- Fratello banian, ascoltami: secondo te, se io faccio un favore a qualcuno, forse che debbo aspettarmi del male?

Il banian diede la sua risposta:

- Proprio così, caro maestro. Non vedi la mia condizione? lo sono l'unico albero che sta in mezzo a questo cortile. Quando il sole picchia forte, io offro alla gente la mia ombra che la protegge dal calore eccessivo. Seduti sotto la mia ombra, tutti si godono il fresco. Poi gli stessi mi tagliano via i rami, mi strappano via le foglie per darle da mangiare alle mucche o alle capre. Guarda tutta questa gente che se ne va con i rami che mi ha tagliato.

La tigre, soddisfatta, disse ridendo:

- Maestro, ascolta bene quanto va dicendo il tuo difensore.

- Questo è uno - rispose il bramino -: proverò a chiedere ad un altro.

Ma, intanto, disse tra sé: « Che bel pasticcio! Adesso a chi potrò rivolgermi? ». In cima alla pianta c'era un uccello. Il bramino esclamò:

- Prendo per difensore quest'uccello.

La tigre si trovò d'accordo:

- Padronissimo: prendilo pure come testimone di difesa.

Il bramino domandò:

- Fratel uccello, ascoltami: se faccio del bene a qualcuno, devo aspettarmi del male?

- Proprio così, caro maestro, - rispose l'uccello -. Non vedi? lo me ne sto qui a cantare sull'albero, e così rallegro la gente. Alla fine delle piogge c'è in giro uno sterminio di insetti. lo li mangio, ed intanto libero la gente dal fastidio che recano. Come ricompensa, la gente cerca di uccidermi per mangiarmi.

La tigre era al colmo della contentezza. Ridacchiando di gusto, prosegui:

- Maestro, che cosa ti resta da dire adesso?

- Hai ragione, - ammise il bramino -. Ma chiediamo pure ad un altro.

- D'accordo, - rispose la tigre -; rivolgiti pure a chi vuoi.

Proprio in quel momento passava di lì uno sciacallo. Appena lo vide, il bramino gridò:

- Ecco il mio difensore!

La tigre annuì:

- E vada pure per lo zio-sciacallo come difensore!

Il bramino invitò lo zio-sciacallo ad avvicinarsi e così parlò:

- Saggio sciacallo, difendimi. Senti un po': aiutando qualcuno, può venirmi del danno?

Il saggio sciacallo rispose:

- Maestro, non ti capisco: spiegati un po' più chiaramente. Chi ha fatto il favore e chi ha fatto il dispetto?

Il bramino spiegò nei dettagli l'accaduto:

- lo ero venuto alla reggia, quando mi imbattei con questa tigre rinchiusa in una gabba d'oro...

Nel sentire come erano andate le cose, il saggio sciacallo sentenziò:

- Secondo il mio modesto parere, la faccenda è molto complicata. Se non vedo la gabbia e la reggia, non posso darti il mio responso.

I tre si spostarono vicino alla gabbia. Appena lo sciacallo vide la gabbia, disse:

- Ora ho capito cos'è questa gabbia e cos'è questa reggia... Riprendiamo il discorso: come sono andate le cose?

Il bramino raccontò:

- lo stavo andando alla reggia, e fu allora che vidi questa tigre in gabbia.

Il saggio sciacallo esclamò:

- Adesso mi pare di aver capito un'altra cosa: tu dunque ti trovavi dentro alla gabbia, mentre la tigre andava verso la reggia. E poi...

La tigre lo interruppe:

- Signor sciacallo, tu sei stupido del tutto. Ero io che mi trovavo in gabbia, e poi... Il saggio sciacallo intervenne:

- Mamma-tigre, ancora non ci siamo. La faccenda è così complicata che non mi entra ancora in testa.

- Macché complicata! - disse la tigre stizzita -. Non pensavo che tu fossi così stupido da non riuscir a capire una cosa così semplice. Sei stupido e basta: guarda dov'ero io.

Dicendo così, la tigre rientrò nella gabbia. Il saggio sciacallo, con un balzo, chiuse la porta.

Poi rivolto al bramino: « Maestro, finalmente ho capito tutto. Se mi vuoi ancora come tuo consulente, ecco ciò che penso: la tigre ha proprio ragione. Sappi che quando tu fai del bene a gente cattiva, anche allora puoi aspettarti del male. Maestro, tu certamente sei un uomo buono ed anche istruito. Ti basta poco per capire. In questo mondo ci sono molte persone cattive come mamma-tigre. Da costoro puoi sempre aspettarti qualche malanno». Poi il saggio sciacallo si rivolse alla tigre: « Mamma-tigre, io sono stupido... ma tu cosa sei?».

Detto ciò, si allontanò ridendo.

La conseguenza dell'invidia

Nel villaggio di Sundorpur abitava un certo Modhu. Egli non solo non cercava il bene degli altri, ma non riusciva nemmeno a sopportare che gli affari degli altri andassero bene. Era un tipo terribilmente invidioso. E per di più non navigava in buone condizioni economiche.

Un giorno, pregando, si rivolse a Dio in questo modo: « Dio, fammi star bene. Dammi tanti soldi e tanti servitori ». Per mesi e mesi, egli continuò a pregare Dio così; ma Dio non esaudiva la sua preghiera. I giorni passavano. Modhu insisteva nel rivolgere a Dio la stessa preghiera, senza però ottener risultato alcuno.

Per ordine diretto di Dio, un giorno alla casa di Modhu si presentò un angelo in veste di mendicante. Dopo aver chiacchierato insieme, Modhu gli raccontò il suo cruccio:

- Ho sentito che Dio è misericordioso. Se uno gli chiede qualcosa, l'ottiene senz'altro. lo però ho pregato a lungo, ma sono rimasto deluso. Dio non ha mai dato retta alla mia preghiera.

Dopo aver ascoltato il lamento di Modhu, il mendicante esclamò disgustato:

- Dio in verità è misericordioso e cerca il bene di tutti. Tu invece finora hai chiesto tutto e solo per te stesso, mentre per gli altri non hai chiesto nulla. Perciò Dio non ha potuto ascoltare la tua preghiera. Da questo momento, tu potrai ricevere da Dio tutto ciò che vuoi, ma sappi che il tuo prossimo riceverà il doppio di ciò che chiedi per te stesso.

Detto ciò, il mendicante si congedò dalla casa di Modhu.

Dopo che il mendicante se n'era andato, Modhu restò in silenzio a meditare sulle sue parole: « D'ora in poi otterrai tuffo ciò che chiedi! ». Benissimo, - pensò tra sé -, voglio fare subito la prova per vedere se ciò che mi ha detto il mendicante è vero o no ».

Rientrò lesto in casa, sbarrò porta e finestre, e poi chiuse anche gli occhi in preghiera: « Signore, dammi cento taka ed una bella casa ». Aperti gli occhi, rimase stupefatto: si trovò veramente in mano un pezzo da cento taka e, al posto della sua vecchia capanna tutta sconnessa, c'era ora una bella casa. Non era ciò meraviglioso?

Senonché il nostro Modhu aveva dimenticato le fatidiche parole del mendicante: « Tu otterrai ciò che chiederai, ma tutti i tuoi vicini otterranno il doppio ». Improvvisamente gli vennero in mente. Corse fuori di casa a vedere le abitazioni dei vicini. Che sorpresa! La loro casa era due volte più bella della sua. Andando più a fondo nella faccenda, venne a sapere dell'altro: tutti avevano ricevuto duecento taka. Modhu pensò: « Questo è terribilmente ingiusto! Non può essere che, rispetto a me, tutti abbiano ricevuto il doppio ».

Ma ormai che cosa poteva farci?

Egli si infiammò d'invidia. Seduto in casa, si mise a pensare in silenzio. Si dimenticò perfino di mangiare. Passò tutta la notte insonne indeciso sul da farsi. Finalmente esplose in un grido di gioia: « Ho trovato! Ho trovato! Adesso vi farò vedere il bello! ».

Sbarrò porta e finestre e si inginocchiò in preghiera in mezzo alla stanza tenendo gli occhi chiusi: « Signore, rendimi inservibili una mano ed un piede », pregò proprio così. Immediatamente gli si paralizzarono un piede ed una mano. Il giorno dopo, aiutandosi col piede ancora funzionante, riuscì ad uscire di casa, e così poté constatare che i vicini avevano mani e piedi paralizzati. Modhu, scoppiando dalla contentezza, pensò tra sé: « Questa volta, Dio, ti ho sconfitto! ».

Con tutto ciò Modhu non arrivò a saziare la sua invidia. Solo al pensiero che egli aveva una sola casa, mentre i vicini ne avevano due, sentì divampare in sé la fiamma dell'invidia.

Come impazzito, si diede ancora a pregare: « Signore, rendimi cieco di un occhio ». Aprì gli occhi e si rese subito conto che da un occhio non ci vedeva più. Uscito fuori di casa, venne a sapere che i suoi vicini erano diventati completamente ciechi. Modhu si sentiva colmo dalla gioia. Tornò a chiudersi in casa e si diede a battere le mani dalla contentezza.

Improvvisamente sentì che qualcuno lo chiamava. Aperta la porta, si trovò davanti quello stesso angelo in veste da mendicante. Entrando gli disse: « Modhu, io sono veramente un angelo. Come tanto tempo fa, anche oggi, per ordine di Dio, sono venuto da te. Tu sei irrimediabilmente invidioso. Tu non vuoi mai il bene degli altri, ma pensi solo a te stesso. Perciò Dio ti farà rimanere cieco per il resto della tua vita, mentre i tuoi vicini riavranno mani, piedi ed occhi in perfetta efficienza ».

Dicendo così, l'angelo scomparve. Modhu, comprendendo il suo sbaglio, chiuse gli occhi e scoppiò a piangere.

Amici alla prova

Ramlal e Samlal vivevano nello stesso villaggio. Samlal doveva intraprendere un lungo viaggio. Prima di partire, andò in casa di Ramlal e gli disse:

- Fratello, custodiscimi questa cassetta.

- Cosa c'è dentro?

- Un po' di soldi ed una coltre ricamata. Al ritorno me la riprenderò.

Ramlal prese in consegna la cassetta.

Samlal, la moglie, il figlio e la figlia andarono in pellegrinaggio a Benares. Dopo molti giorni, tornarono al villaggio e si presentarono da Ramlal. Gli chiesero:

- Fratello, restituiscici la cassetta.

Ramlal consegnò la cassetta.

Samlal l'aprì. E che cosa trovò? Un po' di carta bianca ed un vestito stracciato. Egli esclamò:

- È incredibile! Dove sono andati a finire i miei soldi e la coltre ricamata?

Ramlal scoppiò a ridere, e disse:

- Hai visto l'effetto del caldo e dell'umidità? I soldi sono diventati carta sbiadita e la coltre è stata ridotta ad uno straccio qualunque.

Samlal replicò:

- E sia pure. Va bene, fratello. Tu mi hai fatto un favore, ed io ti ho portato alcuni regali. Mandami tuo figlio: li consegnerò a lui.

Seguito dal ragazzo, Samlal se ne tornò a casa. Qui prese il figlio di Ramlal e lo chiuse a chiave dentro una stanza.

Intanto cominciò a piovere a dirotto. Cessata la pioggia, Ramlal si presentò a chiedergli:

- Dov'è mio figlio?

Samlal gli indicò una scimmia addomesticata, e gli disse:

- Ecco lì tuo figlio.

Ramlal cominciò ad urlare disperato. La gente del villaggio accorse. Ramlal spiegò come erano andate a finire le cose.

La gente del villaggio chiese:

- Samlal, cosa sentiamo? È mai capitato che un uomo diventi una scimmia?

Samlal spiegò:

- Cari fratelli, io avevo affidato i miei soldi e la mia coltre ricamata a Ramlal. Il caldo li ha ridotti in carta e stracci. Poco fa è piovuto: la pioggia ha cambiato suo figlio in scimmia.

La gente del villaggio scoppiò a ridere. Ma Ramlal corse subito a prendere i soldi e la coltre ricamata. Samlal pure restituì il figlio al padre.

Sorprese della preghiera

C'era una volta un giovanotto, figlio di un contadino, il quale faceva la vita da vagabondo. Non riusciva a combinare proprio nulla di serio. La casa paterna era per lui un albergo, dove sostava nelle sue peregrinazioni. La madre ed il padre erano ormai avanti negli anni. Per loro disgrazia non potevano far conto di un altro figlio maggiore che prendesse in mano le redini della famiglia. Il padre e la madre avevano questa ossessione: « Come potrai mandare avanti una famiglia? Un buono a nulla come te potrà procurarsi da mangiare? ». Usando espressioni del genere, ogni giorno i genitori cercavano di scuotere il figlio.

Un giorno egli pensò: « I miei genitori hanno proprio ragione. Sono diventato grande e grosso. Devo pur cominciare a fare qualcosa ». Fu così che, come per incanto, gli venne addosso sul serio la voglia di cercare lavoro. Ma con la fama acquistata di vagabondo, avrebbe trovato lavoro? Dopo aver cercato a lungo e in diversi luoghi, alla fine perse la speranza. Del resto egli non aveva nemmeno imparato a lavorare i campi.

Anche se non era più un ragazzino, al padre ed alla madre restava il dovere di insegnargli una buona strada. Ma come?

Pensa e pensa; improvvisamente, un giorno gli venne una idea allettante. Decise che, nella stessa notte, sarebbe andato a rubare nella casa del capo-villaggio. In quella casa c'era molto denaro in contanti. Non avrebbe mai più trovato un'occasione d'oro, come questa, di andare cioè di notte nella casa di un riccone.

Come aveva pensato, così mise in atto il suo piano. Il figlio del contadino, con un coltellaccio in mano, pian piano, si appostò dietro la casa del capo. Origliando di qui, poté ascoltare il capo-villaggio e la moglie che chiacchieravano tra loro. La moglie del capo diceva:

- Per quanto tempo ancora ci terremo in casa la figlia? Ormai ha l'età: bisogna che si sposi. Vediamo se riusciamo a trovare un buon partito.

- Non c'è bisogno di dirlo - rispose il capo -. Ormai ho esaurito tutta la mia inventiva nel cercarle un marito. Ad una ad una, ho passato in rassegna tutte le case della zona. Tutte famiglie per bene, ma nessun buon partito. Altre volte capita il contrario: si trova un buon partito, ma le famiglie sono un disastro. Adesso ho preso una risoluzione: sospenderò di proposito ogni ricerca. Affido invece completamente questa faccenda nelle mani di Allah, e me ne starò in casa ad attendere. Stiamo a vedere se egli saprà trovare un marito per mia figlia...

A queste parole la moglie scoppiò a ridere:

- Bella soluzione! Standotene a casa senza far niente, vedremo capitarci qui il giovanotto? E sia! Fa' come ti pare.

Il capo-villaggio disse:

- Ho deciso di far così: darò mia figlia a quel giovane che con più fedeltà farà la sua preghiera alla moschea. Non starò lì a giudicare se abbia o no altre virtù. Da domani comincerò ad osservare se c'è qualche giovane che viene prima di tutti a pregare e che, dopo aver fatto il suo 'namaj', quando tutti se ne sono andati via, sosta ancora in preghiera e solo dopo se ne torna a casa. Starò a vedere per tre mesi se avrà o no questa bella abitudine. Se quel giovane sarà capace di guadagnare, mi andrà bene; diversamente, sono disposto a mettergli a disposizione tutti i miei averi.

Il figlio del contadino era rimasto lì ad ascoltare la conversazione dei due vecchietti. Nel suo cuore brillò la luce di una nuova speranza. Infatti egli fece questa riflessione: « Alla fin fine questo non è un lavoro difficile. Si tratta appena di tre mesi: basta che io vada un po' prima degli altri alla moschea e che me ne torni a casa dopo gli altri. Pur di diventare il genero del capo-villaggio, il giovane cominciò a darsi anche a pratiche di penitenza.

I giorni passarono. Ogni giorno il figlio del contadino era sempre il primo ad andare alla moschea e l'ultimo ad andarsene a casa. Trascorse un mese. Ne trascorsero due. Mancava poco alla fine del terzo mese. Egli non dava tregua alla sua penitenza. Ormai lo si poteva vedere giorno e notte nella moschea a pregare con fervore straordinario.

Il capo-villaggio seguiva con visibile contentezza le pratiche ascetiche del figlio del contadino. Ma non gli era ancora capitato di invitarlo nella sua casa.

Quando gli fece la proposta, il giovanotto accettò. Dopo aver mangiato e chiacchierato del più e del meno, il capo-villaggio venne finalmente al punto, e disse:

- Era un desiderio che coltivavo da tanto tempo: poter dare a mia figlia un marito che fosse un vero uomo di preghiera. Dopo aver atteso per tre mesi, posso dire di aver raggiunto lo scopo. Tu vai alla moschea prima di tutti ed esci dopo di tutti. In questa zona non si trova un altro giovane che sia religioso come te. Accetta in sposa mia figlia. Sono pronto a darti tutto il mio patrimonio. Anche se non volessi lavorare, per il mangiare ed il vestire non avresti nessuna preoccupazione.

Il capo-villaggio si riteneva ormai sicuro che, a sentire una proposta del genere, il figlio del contadino avrebbe fatto un balzo di gioia. Invece, alla risposta del giovane, fu il capo-villaggio a cascare dalle nuvole. Egli disse pacatamente:

- Mi ascolti bene. lo ero un vagabondo e un buono a nulla. lo la ringrazio infinitamente per aver voluto scegliere come suo genero una persona indegna al pari mio. Forse avrei potuto essere felice nella vita, se avessi accettato la sua proposta. Invece, mi perdoni se devo confessarle che ora mi sento completamente immerso nel culto di Dio. lo non sento più alcun desiderio per i piaceri e per le cose mondane. Tuttavia l'assicuro che anch'io farò di tutto perché sua figlia possa trovare un buon partito. Abbia pietà di me.

Il consiglio del Rishi

C'era un grande santo che si chiamava Progiapoti (ossia farfalla). Sia tra gli dei che tra gli uomini non si trovava nessuno che potesse emulare la sua saggezza. Un giorno tre uomini, assetati di sapienza, si presentarono insieme a Progiapoti. Uno di loro era un dio, uno era un uomo ed uno era un demonio. Essi riverirono Progiapoti, toccandogli i piedi, e poi rimasero tutti e tre ritti di fronte a lui. Progiapoti chiese:

- Che cosa volete?

I tre risposero insieme:

- Un consiglio buono per la vita.

Il santo propose:

- Se volete ricevere da me una parola che vi sia di guida, prima di tutto dovete cominciare a praticare la vita celibe. In questo modo aumenteranno la forza e la chiarezza della vostra mente.

Quando sarete illuminati, vi sarà facile ottenere la sapienza. Cominciate dunque a vivere come « brahmachari ». Al momento opportuno vi darò il mio consiglio.

Secondo l'ammonimento del saggio Progiapoti i tre giovani cominciarono a praticare il nuovo sistema di vita. Passarono gli anni. Tutti e tre i discepoli continuarono ad osservare fedelmente il loro voto di castità.

Il dio che era tra loro aveva un carattere puro, perciò colse prima di tutti il frutto del suo ascetismo. Presentandosi a Progiapoti, gli disse umilmente:

- Maestro, ora dammi il tuo consiglio.

Progiapoti, reclinandosi verso di lui, pronunciò una sillaba: « D ». Nel sentire solo questa lettera dalla bocca del maestro, il dio restò stupito. Senza riuscire a dire una parola, cominciò a pensare: « Si tratta di un consiglio o di qualche cos'altro? Eppure dalla bocca del maestro non è mai uscita una parola che fosse senza significato o di scarso valore ». Pertanto si diede ad approfondire il significato della lettera «D».

Progiapoti, resosi conto della reazione del discepolo, gli chiese:

- Hai compreso il senso della parola che ti ho detto?

Il discepolo replicò:

- No, finora non ho ancora capito. Tuttavia cercherò in tutti i modi di scoprire da solo il significato del tuo consiglio.

Nell'udire la risposta del dio-discepolo, Progiapoti fu molto felice. Colui che con le sue forze cerca un po' di conoscenza, non resterà fino all'ultimo senza la luce della verità. Perciò il maestro preferì non dirgli nulla. Il discepolo restò in attesa di conoscere il significato del consiglio ricevuto.

Dopo averci riflettuto sopra a lungo, il dio-discepolo disse:

- Finalmente ho compreso il senso del consiglio ricevuto.

Progiapoti incalzò:

- Su, dimmelo: che cosa hai capito?

Il dio rispose:

- « D » significa: « domon koro: dòminati ».

Progiapoti gli replicò tutto felice:

- Hai capito giusto.

Il dio, dopo aver riverito Progiapoti, se ne tornò in cielo.

Dopo che il dio se ne fu andato, si presentò il discepolo-uomo. Anch'egli, come aveva fatto il dio, dopo aver riverito Progiapoti, chiese:

- Dammi il tuo consiglio.

Progiapoti ripeté di nuovo: « D ». Nel sentire il consiglio del Maestro, l'uomo restò molto confuso: Subito pensò: « Che strano consiglio! Potrebbe mai avere un significato? ». Ma poi cominciò a rifletterci sopra più seriamente. Dopo una lunga riflessione, disse:

- Maestro, nel tuo consiglio non c'è forse questo senso: « dan korte: donare »?

Progiapoti piegò lentamente la testa, e soggiunse: - Hai detto giusto.

Il discepolo, riverito il saggio, se ne tornò nel mondo.

Per ultimo arrivò il discepolo-demonio. Anche a lui Progiapoti propose lo stesso consiglio: « D ». Il demonio sperava di sentire dal « guru » una parola straordinaria o almeno una spiegazione profonda delle Scritture sacre. Nel sentir pronunciare solo la lettera « D », egli rimase di stucco. Poi ci pensò su molto. Ci doveva pur essere un significato particolare in quella lettera! Dopo aver fatto lunghe considerazioni, tornò a presentarsi da Progiapoti, e gli disse:

- Maestro, ho colto il senso del tuo consiglio: « D » significa: « doja koro: abbi misericordia ».

Sentendo la risposta, Progiapoti sorrise. E il demonio, soddisfatto, riverì il Maestro e se ne andò.

I tre discepoli dallo stesso sermone avevano colto tre significati diversi, tutti e tre esatti.

Gli dèi vivono in cielo. In cielo si trovano immersi in una gioia senza fine. Chi gode di troppa gioia può diventare pigro nel corpo e può perdere la purezza della sua anima. Il controllo dei sensi diventa così indispensabile. Per questo il dio-discepolo aveva compreso il senso del « D » pronunciato da Progiapoti come «domina i tuoi sensi ».

Gli uomini sono per natura avidi e bramosi di accumulare. Questa avidità è la rovina dell'uomo. La smania di accumulare accresce l'egoismo dell'uomo. Questi due vizi non portano a nulla di buono. Conducendo una vita ascetica, man mano che la mente si purificava, l'uomo-discepolo aveva capito facilmente che « D » significava « dan koro » ossia « dona ».

I demoni sono oltremodo crudeli. Nel loro cuore non c'è compassione. È loro mestiere torturare, ammazzare, derubare e fare cose del genere. Perciò il demonio-discepolo comprese che per lui « D » significava doia koro: sii misericordioso ».

Possiamo dire con sicurezza che queste tre parole d'oro circa l'autocontrollo, la generosità e la misericordia si trovano nelle Scritture sacre di tutte le religioni.

Il capriccio della ragazza

Ai piedi delI'Himalaia era sorto un « ashram », ossia un eremitaggio. In quell'ashram viveva un monaco di nome Oditto. Sulla sponda opposta del Gange, dove egli abitava, c'erano altri monaci.

Il monaco Oditto faceva ogni giorno il bagno nel Gange. Dopo il bagno, si fermava sulla riva a pregare. Un giorno il monaco stava facendo il suo bagno quando, improvvisamente, vide vicino a sé una topolina che veniva travolta dalla corrente. Il monaco, sentendo compassione per quella topolina in pericolo di vita, la adagiò su una foglia di banana. Poi, dopo il bagno, incominciò a pregare. Proprio durante la preghiera pensò di trasformare quella topolina in una ragazza. Praticando lo yoga, riuscì effettivamente a trasformare la topolina in una ragazza.

La moglie del monaco non aveva figli. Introducendo in casa la ragazza, egli esclamò: « Prendi in consegna questa ragazza come se fosse tua figlia ed allèvala». La moglie del monaco accolse la ragazza con grande gioia. Essa profuse su di lei tutte le sue cure materne, dedicandosi alla sua educazione.

Quando la ragazza raggiunse i quindici anni, la moglie del monaco si rivolse al marito:

- Non ti sei accorto come mia figlia si è sviluppata? E' venuta l'ora di trovarle un marito.

- Hai detto giusto - annuì il monaco -. In quanto padre al momento opportuno, è mio dovere far sposare la ragazza. Vedo anch'io che si è fatta matura. Bisogna trovarle qualcuno che la sposi, ma che sia al suo livello.

La moglie del monaco aggiunse:

- Il mio desiderio è questo: che la nostra figlia si sposi con il sole.

E il monaco ripeté:

- Adesso si tratta di interpellare il sole.

Il sole in persona si presentò, e chiese:

- Monaco, perché mi hai chiamato?

- Volevo chiederti - rispose il monaco - sempre nel caso che ti piaccia, di sposare mia figlia.

Poi venne il momento di chiedere il consenso della ragazza:

- Vuoi tu sposare il sole?

- Papà, - essa rispose - il calore del sole è per me eccessivo: non riesco a tollerarlo. Vedi un po' se puoi trovarmi un altro marito.

Sentita la risposta della ragazza, il monaco domandò al sole:

- Chi è più grande di te?

- La nuvola è più grande di me - rispose il sole -. Infatti, a suo piacimento, essa può oscurarmi.

Il monaco chiese alla ragazza:

- Vuoi tu sposare la nuvola?

- Papà, - rispose la ragazza - la nuvola è troppo fredda. Vedi un po' se puoi trovarmi un altro marito.

Allora il monaco chiese alla nuvola:

- Chi è più grande di te?

- Il vento - rispose la nuvola - è più grande di me.

Il monaco chiamò dunque il vento. Appena lo vide, la ragazza ribatté:

- Questo invece è troppo violento. Non riuscirò mai a star bene con lui. Vedi un po' se puoi trovarmi un altro marito.

Allora il monaco chiese al vento:

- Chi è più grande di te?

- La montagna - rispose il vento - è più grande di me, perché essa può ostacolarmi.

Il monaco chiamò dunque la montagna. Nel vedere la montagna, la ragazza esclamò:

- Papà, questa invece è troppo aspra ed incapace di muoversi. Non potrò mai andare d'accordo con un essere simile. Vedi un po' se puoi trovarmi un altro mariito.

Allora il monaco chiese alla montagna:

- Chi è più grande di te?

- Il topolino - rispose la montagna - è più grande di me.

Il monaco chiamò dunque un topolino. La ragazza, appena lo vide, provò una vampata di gioia. Per l'emozione il suo corpo cominciò a tremare. Dalla sua bocca uscirono solo queste parole: « Mi rassomiglia! Mi rassomiglia! ».

Riprendendosi, la figlia del monaco concluse:

- Papà, dammi questo topo come marito. Ti prego dunque di trasformarmi di nuovo in una topolina.

Il monaco, servendosi dello yoga, la trasformò in una topolina. Così il topolino e la topolina cominciarono a vivere insieme contenti e felici.

Il vecchio stupido e l'asino furbo

Un vecchio e suo figlio andavano a piedi, tirandosi dietro un asino. Un passante osservò: « Questa è bella! Hai un asino e te ne vai a piedi? Lui che è più giovane può camminare, ma tu puoi benissimo salire sulla groppa dell'asino ». Il vecchio montò in sella all'asino.

L'asino trotterellava. Un altro passante sopraggiunto esclamo: « Ma guardate! Il bambino se ne va a piedi ed il vecchio se ne va sulla schiena dell'asino ». Il vecchio chiese:

- Dimmi un po': che cosa debbo fare?

- Tu scendi, e lascia salire il ragazzo.

Il vecchio scese di groppa dall'asino ed il ragazzo vi salì.

L'asino riprese il cammino. Improvvisamente un altro passante fermò la comitiva. Anche questa terza persona volle dire la sua: « Ragazzo, prendi su anche tuo papà. Non vedi che tuo papà non resiste alla violenza del sole? ». Così il vecchio e il ragazzo si trovarono seduti insieme in sella all'asino.

L'asino continuò a camminare. Questa volta incontrarono un altro passante che li rimproverò: «Avete un bel coraggio a restar seduti in due sulla schiena di questo povero asino. Non vi vergognate? Smontate subito. Prendetevi sulle spalle l'asino! ».

Essi scesero. Poi il vecchio ed il ragazzo si caricarono sulle spalle l'asino. Allora colui che aveva dato questo bel consiglio cominciò a battere le mani ed a ridacchiare, dicendo:

L'asino è diventato più importante dell'uomo. Che divertimento! ».

Il vecchio ed il ragazzo lasciarono cadere per terra l'asino. Preso dallo spavento, l'asino cominciò a far piroette, dandosi poi alla fuga. Allora il vecchio rimproverò il ragazzo:

- Perché hai lasciato andare l'asino?

Il ragazzo si difese:

- Sei stato tu a lasciarlo andare!

Intanto l'asino era fuggito via.

I due se ne tornarono a casa. Qui videro l'asino che, conoscendo bene la strada, era giunto prima di loro. La gente del villaggio commentò: « Avete un asino che è più furbo dei padroni! ».

Il bramino e il re

C'era un bramino senza figli che aveva l'abitudine di presentarsi ogni giorno al palazzo del re. Ogni giorno, per un anno e mezzo, egli andava ripetendo questa frase: « La tua virtù è proporzionata alla tua liberalità ». Come ricompensa, egli riceveva una rupia.

Finalmente il re cominciò a rendersi conto che c'era ben poco vantaggio dare una rupia al giorno senza chiedere al bramino il significato della sentenza che gli faceva rintronare nelle orecchie. Il bramino tornò a casa e ci pensò su. Quel giorno il re non gli aveva dato nulla, anzi l'aveva minacciato di sacrificarlo alla dea Durga se non fosse riuscito a dargli una spiegazione convincente della sentenza.

Proprio quel giorno la casa del bramino fu allietata dalla nascita di una figlia. Appena uscita dal seno della madre, la bambina aveva sorriso, poi si era alzata in piedi a dire:

- Papà, perché hai una faccia così triste?

- A che cosa mi servirebbe - rispose il bramino - se te lo dicessi? Sei appena nata!

Ma la bambina insisté:

- Papà, raccontami la tua storia. Perché hai una faccia così triste?

Il bramino cominciò a raccontare:

- Ogni giorno, ormai da più di un anno, mi recavo nel palazzo del re per dirgli: « La tua virtù è proporzionata alla tua liberalità ». E così ricevevo una rupia. Oggi invece il re mi ha minacciato di sacrificarmi alla dea Durga, se non gli spiego il significato della sentenza. Ecco perché sono triste.

La figlia gli disse da andar a fare il bagno, poi ella stessa gli avrebbe dato l'interpretazione. Il bramino fece un bagno ristoratore e mangiò. Poi si presentò alla figlia per avere la spiegazione promessa. Ella gli disse di tornare alla corte e di rispondere così al re:

- Signore, due giorni e mezzo fa mi è nata una bambina: ella ti darà il significato della sentenza.

Il bramino andò dal re e gli raccontò tutto. Il re restò molto perplesso: « Sarebbe da sciocchi credere che una neonata possa dare spiegazioni del genere », pensò. Tuttavia fece mettere in moto elefanti, cavalli e soldati, e si avviò verso la casa del bramino.

Quando la bambina lo vide, si rizzò in piedi e sorridendo domandò:

- Chi sei? Perché sei venuto in casa mia?

- Sono venuto - le disse il re - a cercare l'interpretazione della sentenza.

Ella riprese:

- Se volessi, potrei dartela subito. Per ora ti voglio dire solo questo: a sud della tua città vive un rivenditore di olio che ha un bue rosso: quello ti darà la risposta.

Così il re fece rimettere in moto il suo seguito di elefanti, cavalli e soldati ed andò nella casa del rivenditore di olio per chiedergli dove tenesse il suo bue rosso che di solito girava la mola. L'uomo rispose:

- Sissignore, quel bue è mio e lo puoi trovare in quel campo.

Il re andò nel campo e gridò:

- Oho, signor bue, che cosa significa la sentenza: « La tua virtù è proporzionata alla tua liberalità »?

Il bue parlò piangendo:

- Signore, se volessi, potrei anche spiegartelo. Per ora ti dico solo questo: c'è un cespuglio di « sehara » ad est della tua casa: quella pianta ti darà la risposta.

Allora il re partì con i suoi elefanti, i cavalli ed i soldati e andò presso il cespuglio di « sehara » e chiese:

- Buon cespuglio di « sehara », dimmi qual è il significato della sentenza: « La tua virtù è proporzionata alla tua liberalità ».

Lo spirito della pianta di « sehara » rispose:

- Ascolta, o re, il significato del detto. Tu sei stato fatto re perché durante la tua esistenza precedente eri molto liberale ed eri dedito ad opere di bene. La donna che avevi in moglie era pura di cuore ed ora ha avuto la sua rinascita nella casa del bramino che non aveva figli, ed il bue rosso del rivenditore di olio era una volta tuo figlio. Dato che mi hai interpellato per ultimo, devo spiegarti il signicato della sentenza. lo ero una volta il figlio di tua moglie, ma il mio cuore si era inasprito con tutti fino al punto da non voler dare nulla in elemosina. Per questo sono stato punito a diventare lo spirito di questo cespuglio di « sehara »!

Dopo aver sentito ciò, il re se ne rientrò in casa. Il bramino riprese la sua visita quotidiana al palazzo; come prima, egli ripeteva la famosa sentenza e riceveva una rupia.

Il principe ed i saggi

La regina aveva dato alla luce un figlio. Una notte, secondo la tradizione, il Creatore si presentò per scrivere il destino del bimbo sulla sua fronte. La nutrice che vegliava di fronte alla porta chiese chi fosse l'ospite che voleva entrare nella camera.

- lo sono il Creatore del mondo - disse questi - e sono venuto a scrivere il destino sulla fronte del neonato.

La nutrice così parlò:

- Ti aprirò la porta solo se prometterai di dirmi che cosa scriverai.

Dio tentò a lungo di rifiutare; ma quando si rese conto che non sarebbe entrato se non passando sopra il corpo di lei, acconsentì. Questa aprì la porta e lo fece entrare.

Il Creatore si sedette accanto al letto per scrivere sulla fronte del bambino, usando la mano sinistra. Egli scrisse tre volte la stessa cosa, e cioè: « Questo bambino si sposerà a dodici anni e verrà ucciso l'anno dopo da un colpo di fulmine ». Prima di allontanarsi, il Creatore confidò alla nutrice ciò che aveva scritto, poi spari.

La nutrice allevò il bambino, lo avviò a scuola perché imparasse a leggere e a scrivere. Ma quando fu vicino ai dodici anni, solo a vederlo, ella non riusciva a trattenere le lacrime.

Un giorno il re la vide, e le parlò:

- Tu non hai avuto alcuna difficoltà nell'allevare mio figlio. Non capisco perché tu pianga quando lo prendi tra le braccia. Ti vedo piangere ogni giorno. Questo è l'unico figlio che ho. Dimmi se ti manca qualche cosa, ed io te la darò. Ma dimmi anche la ragione delle tue lacrime, altrimenti ti farò uccidere.

Ella rispose che sarebbe stato meglio per lui se fosse rimasto nell'ignoranza. Ma il re insistette nel voler sapere la verità. Così lei raccontò tutta la storia: come il Creatore era venuto quando il bambino aveva cinque giorni e che cosa aveva scritto sulla sua fronte. Nell'ascoltare ciò il re si senti agghiacciare dal dolore.

Di lì a non molto anche il ragazzo venne a conoscere la dura verità sul suo destino. Egli andò dal re ed esclamò: «Padre, sono venuto per dirti addio, dato che per me qui non c'è alcuna prospettiva di sopravvivere. Se riuscirò a scappare, me ne andrò in un altro paese, e poi un giorno tornerò ».

Prese un po' di denaro ed un cavallo, e partì. Viaggiò a lungo attraverso regni diversi, finché giunse il giorno destinato per il suo matrimonio. La sera di quel giorno egli aveva legato il suo cavallo alla radice di un albero ed aveva cominciato a gironzolare nei paraggi.

La figlia del re di quel paese stava per sposarsi. Vicino al luogo dove si era accampato era venuto il suo fidanzato per adornarsi. Questi aveva dato ordine alla portantina di fermarsi; poi si era inoltrato nella giungla. I servi attesero per un po di tempo, poi, impensieriti per il ritardo, cominciarono a cercarlo. Fu così che alla fine si imbatterono nel figlio dell'altro re. Avendolo preso per il fidanzato, lo portarono di peso alla portantina. Quindi lo condussero al palazzo e lo fecero sposare

con la principessa.

Nel frattempo il vero fidanzato, uscito dalla giungla, si accorse che la portantina ed i servi erano spariti. Entrato nel palazzo reale, chiese: « Chi avete preso al mio posto come marito della principessa? ». Il re non sapeva niente, ma ordinò che gli presentassero il giovane perché voleva vederlo. Il principe gli fece sapere che per quel giorno non poteva andare in udienza, ma che si sarebbe presentato il mattino successivo.

Alle tre del mattino, la principessa chiese al principe:

- Chi sei? Di dove vieni? Chi è tuo padre? Che stratagemma hai escogitato per sposarmi? Raccontami tutto.

Il principe le diede questa risposta:

- Stanotte non ti dirò nulla, perché devo allontanarmi di qui. Ti do questa lampada: se resterà accesa, io resterò in vita; se invece si spegnerà, sarà anche la mia fine.

Con queste parole egli si congedò dalla principessa e tornò sul luogo dove aveva lasciato il suo cavallo. Salì in groppa e cavalcò a lungo, finché raggiunse una foresta densissima dove non si vedevano che sterpaglie e liane. Vi si inoltrò, finché giunse ad uno stagno coperto di fiori di loto.

Alcuni santi ed alcuni saggi avevano scelto questo luogo come ritiro: qui di solito pregavano e facevano il loro bagno. Attorno allo stagno c'era molto fango. Ogni volta che andavano a fare il bagno erano costretti a passare sul fango. Vedendo ciò, il principe pensò: « Questo è certo un grosso inconveniente ». Decise così di ripulire lo stagno e di costruire una gradinata di pietra che giungesse fino al livello dell'acqua, in modo da risparmiare loro ogni fastidio. Ingaggiò un buon gruppo di

lavoratori che ripulirono lo stagno e costruirono la gradinata.

Quando i santi ed i saggi vennero a fare il bagno, nel vedere l'opera meravigliosa che era stata compiuta, furono oltremodo soddisfatti, e dissero:

- Quest'uomo merita di essere reso immortale!

Il principe udì quello che avevano deciso. Stendendo un velo sopra la faccia, egli si avvicinò loro a mani giunte, e chiese:

- Sono stato io a far ripulire lo stagno e a costruire la gradinata.

I saggi replicarono:

- Noi non abbiamo nulla per ricambiarti il favore. Tuttavia possiamo farti un dono: tu sarai immortale.

Il principe obiettò:

- Purtroppo io non potrò essere immortale perché il mio destino è già segnato: domani dovrò morire.

I saggi vollero informarsi su ciò che gli era capitato. Il principe raccontò per filo e per segno la sua vita. Essi insistettero:

- Vedrai che tu domani non morirai!

E si allontanarono. Il giorno seguente i saggi si diedero appuntamento allo stagno, e dissero al principe:

- Principe, vieni con noi.

Egli li seguì, ed essi si sedettero sul suo corpo.

Nel frattempo era giunta l'ora della sua morte. Era scoppiato un gran temporale con tuoni e lampi. Ma i saggi erano seduti sul corpo del principe in modo da coprirlo tutto. Così il fulmine non poté toccarlo.

Il Creatore era molto infastidito da questo stratagemma. Egli andò dai saggi, e ordinò:

- Lasciate libero il principe.

Essi chiesero:

- Perché dovremmo lasciarlo libero?

- Il principe è destinato a morire - egli rispose - con un colpo di fulmine. L'ora della sua morte è venuta.

Ma essi obiettarono:

- Non possiamo lasciarlo andare perché gli abbiamo garantito il dono dell'immortalità.

Sul momento il Creatore restò taciturno, poi esplose:

- Voi avete rovinato tutto. Come può esistere il Creatore dell'universo, il Brahma, se voi vi comportate in questo modo?

Essi risposero:

- Succeda quel che succeda, noi non permetteremo mai che al principe venga tolta la vita.

Il Creatore stabilì:

- Non volete dunque che gli venga tolta la vita? E sia!

Però lasciate scoperto un dito della sua mano sinistra: che almeno il lampo possa colpire quello, in modo che non muoia ma resti solo inconscio per un po' di tempo.

I saggi accettarono la proposta. Essi lasciarono scoperto il mignolo della mano sinistra del principe. Il fulmine lo colpì sull'istante ed egli perse i sensi, ma si riprese dopo un po'.

Alzatosi, salutò tutti i santi ed i saggi che gli erano attorno. Poi sali sul suo cavallo e corse da sua moglie. Ella chiese dove fosse stato e volle anche sapere gli altri dettagli di tutta la sua vicenda, come appunto aveva promesso nella notte del loro matrimonio. Così egli le raccontò tutto.

Al mattino presto egli andò alla corte del padre della sposa per narrargli la stessa vicenda. Il re rimase stupito e felice, tanto che accettò di buon grado di inviare la figlia ed il genero al suo paese sotto una buona scorta.

Ouando il principe arrivò in casa raccontò al padre le proprie avventure; il re fu molto contento di rivederlo dopo la lunga assenza. Affidò a lui l'amminsitrazione del regno, ed egli trascorse senza preoccupazioni il resto dei suoi giorni.

Un feroce castigo

In una città viveva un povero bramino. Questi era molto retto. Sua moglie invece era maliziosa e di cattivo carattere; inoltre aveva preso l'abitudine di spassarsela con degli amici.

Per loro cucinava tutte le specialità di cibo possibili. Bastava che il bramino si assentasse di casa, perché lei spalancasse le porte agli amici e si mettesse a servirli. Il bramino in verità spendeva la maggior parte del suo tempo fuori di casa: usciva di mattino presto, e tutto il giorno se ne stava a meditare lungo il fiume Brahmaputra; poi verso sera se ne tornava a casa.

Un giorno il bramino rientrò in casa un po' prima del solito. La moglie intanto aveva preparato diversi tipi di cibo. Vedendo ciò, egli si complimentò con lei, a disse:

- Per chi hai preparato tutte queste leccornie?

A dire il vero il bramino era ghiotto, per cui aveva subito pensato che la moglie avesse preparato per lui quella buona roba.

La moglie del bramino, nel vedere il marito così presto di ritorno, restò spaventata. Per non essere umiliata, rispose:

- Da un po' di tempo ero preoccupata per la tua salute. Ho promesso di fare un'offerta alla divinità perché tu possa tornare quello di prima. lo ho cucinato tutta questa roba appunto per mantenere la promessa: la offrirò tutta alla divinità.

Il bramino non rimase del tutto persuaso. Egli cominciò a pensare tra sé: « Di sicuro mia moglie me ne sta combinando una. Non mi pare proprio di star male! Lei sa che mi piace mangiare bene; tuttavia finora non mi aveva mai preparato un lauto banchetto come questo. E perché poi dovrebbe offrire questi cibi alla divinità? Bisognerà che ci veda chiaro in tutta questa faccenda ».

La moglie del bramino, dopo aver portato tutto quel cibo al tempio della divinità, andò a fare le abluzioni. In quel frattempo il bramino, per un'altra strada, era entrato nel tempio e si era nascosto dietro la statua della dea. Dopo il bagno, la moglie del bramino entrò nel tempio. Inginocchiatasi davanti alla divinità, cominciò a pregare così:

- Madre, ti prego di fare in modo che mio marito diventi cieco!

Il bramino, nell'udire ciò che la moglie diceva, comprese la sua macchinazione. Cambiando il tono della sua voce, sussurrò:

- Figlia, ascolta il mio consiglio: prepara per tuo marito del Cibo succulento. Vedrai che non ci metterà molto a diventare cieco.

La moglie del bramino pensò: « La divinità si è certamente compiaciuta di me ed ha ascoltato la mia preghiera ». Dal giorno seguente essa cominciò dunque a preparare per suo marito un buon assortimento di cibi prelibati. Il bramino trascorreva gioiosamente i suoi giorni. Un giorno si confidò con la moglie:

- La mia vista si è indebolita di molto.

Nel sentire ciò la moglie trattenne a stento dentro di sé la contentezza e rese grazie alla divinità. Prendendo all'esterno un atteggiamento addolorato, disse:

- Ora dovrò prepararti da mangiare molta più frutta e molti dolci. Vedrai che, mangiandoli, ricupererai la vista.

Il bramino, rendendosi conto del progredire del suo piano, si fece dentro di sé una bella risatina.

Alcuni giorni dopo, il bramino così parlò alla moglie:

- Ormai la mia vista se n'è andata del tutto: sono proprio cieco. Va' dalla dea e pregala perché mi ridoni la vista.

La moglie rispose:

- Corro subito a pregare.

Essa invece interiormente aveva una gran voglia di ballare dalla contentezza. Il bramino dentro di sé rise di gusto.

Il giorno dopo la moglie del bramino, convocati gli amici, disse:

- Adesso non dobbiamo più temere alcuna persecuzione. La divinità mi ha esaudita. Mio marito è cieco del tutto!

Il bramino era dunque cieco, e dunque non c'era più nulla da temere. Fu in base a questa rassicurante notizia che un amico della moglie del bramino, verso sera, si presentò in casa. Aveva appena messo il piede sulla soglia che il bramino, armato di bastone, si diede a picchiare tutti e due di santa ragione. Sotto quella gragnuola di bastonate la moglie del bramino e il suo amico finirono con l'accasciarsi al suolo, uccisi. Poi il bramino tagliò il naso alla moglie e lo buttò fuori sulla strada.

La prova di Giudhistir

Dopo aver vinto con l'inganno nel gioco dei dadi, l'eroe Giudhistir visse vagando di foresta in foresta. Con lui c'erano Bhinu, Orgiun, Nokul, Sohobed e Droupodi. Trascorsi dodici anni in un'enorme foresta, il loro esilio era ormai finito. Dopo di che restava loro da vivere un altro anno in un posto assolutamente sconosciuto.

Nel mezzo della foresta, in una capanna di frasche, viveva Ponciopandob. Era un luogo ameno, isolato e pacifico. Mentre si trovavano in quella località così piacevole, essi almanaccavano e discutevano su quale potesse essere per loro un luogo buono per restare sconosciuti.

In quel momento un bramino-asceta si avvicinò a Giudhistir. Ponciobandob lo riverì, dandogli un cordiale benvenuto; poi gli chiese per quale motivo egli fosse venuto. Il bramino rispose a Giudhistir: « Principe Giudhistir, nel mio ashram, vicino ad una pianta avevo messo la mia legna di orni che usavo per il sacrificio.

Un cervo, avvicinandosi all'albero si è impigliato con le corna in quella legna. Poi il cervo è fuggito nella foresta con quel fascio di legna. Voi dovreste aiutarmi a ricuperare quella legna. Fate in modo che il mio sacrificio non vada rovinato ».

L'orni è un legno speciale che serve ad accendere il fuoco. Nell'ashram di ogni eremita deve trovarsi disponibile per tutto il giorno il legno di orni. Di solito il fuoco sacro viene acceso sfregando quel legno su una pietra.

Uno dei compiti tipici del guerriero era anche la difesa dell'offerta sacrificale del bramino. Sarebbe stato un peccato per lui non compiere questo dovere. Perciò Giudhistir ed i suoi cinque fratelli, armati di arco e frecce, uscirono alla caccia del famoso cervo.

Ma dov'era mai questo cervo? Talvolta, notando l'impronta dei suoi piedi, oscillavano nella speranza. Subito dopo perdevano le tracce degli zoccoli del cervo ed infilavano un nuovo sentiero in piena foresta. Allora si sentivano afflitti dallo scoraggiamento. Tuttavia non potevano desistere dall'impresa e si ributtavano alla sua ricerca. Qualche volta riuscivano perfino ad avvistarlo da lontano. Ma il cervo era velocissimo: in un batter d'occhio balzava nel mezzo della foresta. Ormai era

così lontano da essere irraggiungibile anche da una freccia.

Cammina e cammina, i guerrieri sentirono i morsi della sete. Ma dove trovare dell'acqua in una foresta così fitta? I camminatori si fermarono ai piedi di un albero. Non avevano più forza di andare avanti. Giudhistir, vedendo la condizione dei suoi fratelli, si sentì stringere il cuore. Egli disse a Nokul:

- Nokul, va' un po' tu a vedere dove si può trovare dell'acqua.

Cammina e cammina, Nokul, trovandosi improvvisamente davanti a un grande stagno, ebbe un balzo di gioia. Finalmente poteva ristorare la sua gola secca dalla sete. Subito si slanciò a bere l'acqua. Vicino allo stagno c'era un enorme banian. In realtà quell'albero era un airone. Ma Nokul non poteva vedere l'airone. Era sul punto di bere l'acqua, quando quell'airone parlò:

- Questo stagno è mio. Ho il diritto di farti delle domande. Solo se risponderai, potrai bere dell'acqua. Ma se non mi risponderai, dopo aver bevuto, morirai.

Disobbedendo al richiamo dell'airone, Nokul si buttò subito in acqua e vi trovò la morte. Giudhistir, vedendo il ritardo di Nokul, mandò Sohodeb a prendere l'acqua. Anche questi, per non avere ascoltato la voce dell'airone, fece la stessa fine. Poi Bhinu e Orgiun, uno dopo l'altro, venuti a prendere acqua, e disobbedendo anch'essi all'airone, persero la vita.

Vedendo che nessuno era tornato dall'attingere l'acqua, Giudhistir cominciò a preoccuparsi. Gli venne di pensare che di sicuro Bhinu, Orgiun, Nokul e Sohobed erano incorsi in qualche incidente. Alla fine decise di andare personalmente sul luogo. Avvicinandosi allo stagno, Giudhistir si trovò davanti ad uno spettacolo agghiacciante. I suoi fratelli giacevano al suolo immobili, come il famoso Idro. I loro archi e le frecce erano sparsi qua e là al suolo. Nel loro corpo non c'era alcun segno di vita. Egli però non riusciva a capacitarsi come tutti insieme avessero trovato quel tipo di morte. Nelle tre regioni dell'universo non si poteva trovare nessun altro eroe che avesse avuto i suoi cinque fratelli sconfitti in duello. Tuttavia non era facile sapere come essi erano stati uccisi. Nel loro corpo non si notava neppure una minima scalfittura. Non poteva dunque trattarsi dell'azione di un assassino. Giudhistir, addolorato per i suoi fratelli, scoppiò a piangere. Improvvisamente si ricordò che forse gli emissari di Durgiodhon avevano buttato del veleno nelle acque dello stagno. Forse la loro morte era avvenuta per il contatto con quell'acqua avvelenata. Pensando ciò, egli fece per avvicinarsi ad esaminare l'acqua dello stagno.

In quel momento I'airone gli disse:

- Principe, questo stagno mi appartiene: senza il mio consenso, nessuno può attingervi acqua. Se non mi darai retta, capiterà anche a te ciò che è capitato ai tuoi fratelli. Basterà che tocchi l'acqua senza prima rispondere ai miei quesiti per trovare la morte.

Giudhistir gli chiese:

- Chi sei?

- Io sono Giokkho, - rispose l'airone -, il dio della ricchezza. Adesso però rispondi alle mie domande.

Giudhistir, con voce umile, continuò:

- Presentami le domande.

Il dio della ricchezza cominciò a fare le domande, e Giudhistir a rispondere.

Domanda: - Come si può ottenere la grandezza?

Risposta: - Attraverso l'austerità.

Domanda: - Chi, pur vivendo, non è vivo?

Risposta: - Quella persona che, in qualità di divinità, ospite, servo o padre di famiglia, non dona niente; anche se vive, si dovrebbe piuttosto chiamare morta.

Domanda: - Chi è l'essere più importante della terra? Chi è più alto del cielo? Chi è più veloce del vento? Che cosa supera in numero i fili d'erba?

Risposta: - La madre è la creatura più importante della terra. Più alto del cielo è il padre. Più veloce del vento è la mente. Più numerosi dei fili d'erba sono i pensieri.

Domanda: - Chi è l'amico dello straniero? Chi è l'amico del padrone di casa? Chi è l'amico del malato? Chi è l'amico di colui che è in pericolo di morte?

Risposta: - Il connazionale è l'amico dello straniero. Amico del padrone di casa è la moglie. Amico del malato è colui che lo cura. Amico di chi è in pericolo di morte è colui che lo soccorre.

Domanda: - Cosa c'è di meglio della ricchezza? Cosa c'è di meglio del guadagno? Cosa c'è di meglio del piacere?

Risposta: - Migliore della ricchezza è la conoscenza delle sacre Scritture. Migliore del guadagno è la guarigione dalla malattia, e migliore del piacere è la soddisfazione interiore.

Domanda: - Eliminando quali cose diventiamo amabili? Eilminando che cosa togliamo il lamento? Eliminando che cosa diventiamo ricchi? Eliminando che cosa l'uomo è felice?

Risposta: - Eliminando l'ipersensibilità diventiamo amabili. Eliminando l'ira togliamo il lamento. Eliminando il desiderio diventiamo ricchi. Eliminando l'avidità l'uomo è felice.

Domanda: - Chi è il nemico invincibile dell'uomo? Quale malattia non ha limiti? Quale persona è santa e chi invece non lo è?

Risposta: - L'ira è il nemico invincibile dell'uomo. L'avidità è la malattia che non ha limiti. Colui che aiuta tutti è santo, mentre colui che è crudele certo non lo è.

Domanda: - Chi è felice? Qual è la cosa più meravigliosa? Qual è la via giusta?

Risposta: - Colui che per campare non fa debiti e non ha bisogno di andare all'estero; colui inoltre che pur mangiando dei cibi semplici alla fine del giorno si sente soddisfatto, costui è felice. Osservando come ogni giorno ci siano molti che muoiono, uno è inclinato ad esclamare: questa è la cosa più meravigliosa! La strada battuta dai grandi uomini è quella giusta.

Il dio della ricchezza, nel sentire le risposte di Giudhistir, sentenziò felice:

- Le tue risposte mi sono proprio piaciute. Come compenso farò rivivere uno dei tuoi fratelli. Quale dei fratelli vuoi che ritorni in vita?

- Ridona la vita a Nokul - disse Giudhistir.

Il dio della ricchezza gli chiese:

- Perché, invece che a Bhinu e Orgiun, preferisci che venga ridata la vita a Nokul?

- Kusti e Madri - fu la risposta di Giudhistir - sono per me delle mamme ambedue. Tutte e due sono uguali per me. lo sono l'unico figlio sopravvissuto di Madri. Se Nokul rivivesse, sarebbe l'unico figlio sopravvissuto di Kusti.

Finalmente Giokkho rivelò la sua vera identità:

- Giudhistir, tu sei veramente devoto ed intelligente. Presentandomi sotto mentite spoglie ti ho messo alla prova. lo sono la « religione ». Sotto forma di cervo sono stato io a prendere la legna. Ora la restituisco: portala al bramino. E adesso guarda: tutti i tuoi quattro fratelli sono vivi. Inoltre voglio che tu mi chieda un favore.

Giudhistir, facendo riverenza alla « religione », pregò:

- Fammi questo favore: che per tutta la mia vita io sia fedele alla Religione.

- Ti sia fatto. Tu sarai un'incarnazione della Religione. Non c'è più bisogno che tu preghi per questo. Ti ho già concesso il favore richiesto. Ora va': troverai un rifugio sconosciuto proprio nella reggia di un grande re. Lì nessuno ti potrà fare del male, perché nessuno potrà mai sapere dove sei.

Dicendo ciò, la Religione disparve. Giudhistir, Bhinu, Nokul, Orgiun e Sohodeb abbandonarono la loro capanna di frasche.

La storia della tigre buona

Nel villaggio di Chondopukur, al limitare della foresta del Suderbon, in Bengala, viveva una famiglia di sette fratelli. Era una bella famiglia patriarcale, come si poteva trovare nel vecchio Bengala. La vita familiare scorreva armoniosamente regolata da antiche usanze e tradizioni.

La vecchia nonna, che era ancora in vita, era una signora dalla bella età di novant'anni. Stando alle regole, almeno in teoria, essa era ancora alla testa della famiglia. Essa era vedova. Per la sua età avanzata si era ritirata dalla responsabilità di dirigere le faccende domestiche di ogni giorno. L'unico suo figlio, padre di sette fratelli, era morto da alcuni anni.

Sua moglie era però ancora viva: benché spendesse molto del suo tempo nella « puja », cioè nel culto di Dio e delle varie divinità, essa restava la coordinatrice incontrastata di tutta la vita domestica. Giorno per giorno essa dava precise direttive alle sette nuore sul lavoro da svolgere. Tutto era regolato secondo una routine.

Una delle consuetudini di questa casa, come di ogni altra casa bene ordinata, prevedeva che le nuore sedessero insieme per mangiare, dopo che tutti erano stati serviti. Durante la giornata la pressione del lavoro era più forte, per cui esse cercavano di finire in fretta il loro pranzo per poi correre nelle loro stanze per prendersi un po' di siesta. Alla sera il lavoro era più leggero. Per questo si sentivano più sollevate e disposte a chiacchierare. Le sette nuore avrebbero chiacchierato tra loro senza fine. Le loro risate fragorose oltrepassavano le mura della cucina dove esse erano radunate per la cena. Ognuna di esse saltava fuori con una storia od uno scherzo, oppure si divertivano a prendersi gioco tra loro. Molte discorrevano dei propori genitori, dei fratelli o delle sorelle. Evidentemente esse sentivano la nostalgia della casa paterna. Questa per loro era la « sosur bari », cioè la casa del papà del loro marito, dove esistevano non poche restrizioni e formalità.

In una notte come questa, le sette nuore stavano conversando tra loro, traboccanti di buonumore. Esse avevano appena trascorso una giornata colma di emozioni. Era l'autunno bengalese, il mese di settembre, quando le grandi piogge erano appena finite e l'alternarsi di nuvolaglie ed acquazzoni o piogge incessanti erano ormai dei ricordi. Il cielo era tornato azzurro. La natura sembrava irradiare pace e gioia. I campi biondeggiavano di riso maturo. Il fiume Gange era gonfio. I dardi del sole giocavano sulle sue acque. In Bengala questa era la stagione della grande festa della Durga Puja.

Per celebrare la Puja era consuetudine che ognuno indossasse un vestito nuovo. In Bengala in questa circostanza ci si scambiavano regali, ma specialmente vestiti. I genitori erano soliti mandare « sari » nuovi alle loro figlie sposate. Anche per i ragazzi non sposati c'era in serbo qualche regalo. I ricchi distribuivano vestiti ai poveri che non potevano comperarseli o non avevano nessuno che glieli regalasse.

Un bel mucchio di regali era affluito in questa casa: i genitori di quasi tutte le nuore avevano mantenuto viva la tradizione. Per questo le donne erano eccitate e facevano i loro commenti sui vari doni. Con il regalo si era fatto vedere anche qualche parente.

La nuora più anziana disse:

- Come sono contenta di aver visto mio padre dopo tanto tempo! Non lo vedevo da un anno, e mi era sembrato un'eternità.

Poi chiese alla seconda nuora:

- Chi è venuto dalla casa di tuo padre?

- Questa volta - ella rispose - è venuto mia fratello maggiore. Ero emozionata nel rivederlo.

Così, una dopo l'altra, sei nuore avevano parlato dei loro parenti che erano venuti di buon mattino a portare i doni della Puja. Improvvisamente esse notarono che la nuora più giovane non aveva aperto bocca e che non era del tutto contenta. La nuora più anziana le chiese con gentilezza:

- Sorellina, perché sei così silenziosa questa sera? Non ci hai nemmeno detto chi è venuto da casa tua. Su. raccontaci qualcosa.

La nuora più giovane le lanciò un'occhiata furtiva. Poi le disse:

- Sorella, ma non sai che io sono orfana fin dall'infanzia? Chi potrebbe venire a trovarmi? Non ho né fratelli, né sorelle. Avevo solo uno zio, che però non si è fatto vedere quest'anno. Non so nemmeno se sia vivo o morto. Così non ho avuto né regali né visite. Ecco perché sono triste.

Capitò che proprio in quella notte una tigre girovagasse per le scure stradette di Chondonpukur. Essa cercava un po' di avanzi di cibo nel retro della cucina, e così poté seguire per filo e per segno tutta la conversazione in corso. La tigre sentì compassione per la nuora più giovane e si propose di aiutarla. Con questa intenzione si presentò all'ingresso della casa, e bussò alla porta.

Fu la vecchia suocera a sentire per prima, dato che la sua stanza era più vicina. Si alzò subito, un po' sorpresa che qualcuno bussasse alla porta ad un'ora così tarda. Aprì la porta, ed ecco che si vide davanti una tigre enorme seduta sulla sua coda. La povera donna cercò di gridare per chiedere aiuto, ma lo spavento era tale che non riuscì a proferir parola e quasi sveniva.

La tigre non le fece niente di male, anzi le disse:

- Begami, io non sono altro che uno zio della tua nuora più giovane. Con il tuo permesso, sono venuta a prenderla per tenerla in casa con me alcuni giorni. Se non ti dispiace, vorrei prenderla questa notte stessa e riportarla la prossima settimana prima che inizi la Puja.

La vecchia signora non sapeva che decisione prendere. Facendosi coraggio, esclamò:

- Sei veramente gentile nel dire ciò. Lascia però che prima mi consulti con i miei figli e la suocera. È questione di un momento.

La tigre accettò di aspettare. La vecchia corse nelle stanze dei figli e raccontò l'accaduto. Tutti allora si diedero convegno nella stanza della nonna per consultarsi sul da farsi. La vecchia nonna prosegui:

- Dato che ormai la tigre è qui, penso che non sia possibile oppone resistenza. Basterebbe che la irritassimo un po' per aizzarla ad azzannarci tutti. D'altra parte se accettiamo che la nuora più giovane vada con essa, al tutto peggio, ci sarà un'unica vittima. Meglio consegnare alla tigre una persona sola che tutta la famiglia.

I nipoti ritennero saggio il suo consiglio. D'altra parte non avevano altra alternativa che lasciare la giovane nuora nelle mani della tigre.

Così la suocera piombò in cucina a portarle la tremenda notizia. Tutte le nuore restarono sgomente al pensiero che una tigre era lì sulla porta in attesa della nuora più giovane. La povera giovane nuora cominciò a tremare dalla paura. Ma per lei non c'era scampo. Così dovette seguire la suocera che la accompagnò alla porta dove c'era la tigre ad attenderla.

La tigre le diede un'occhiata di simpatia e bisbigliò:

- Cara nipotina, sono venuta per prenderti con me in casa. Ti prego di sederti sulla mia schiena: chiudi gli occhi e tienti forte con le mani attorno al mio collo. Non aver paura, ché raggiungeremo presto la nostra casa.

La povera giovane nuora raccolse tutto il suo coraggio per non svenire. Fece come le era stato detto. Appena salita sulla schiena della tigre questa fece un grande balzo. La giovane nuora pensò che fosse giunta la sua fine. La tigre in quattro salti raggiunse la sua dimora, una specie di caverna in mezzo alla foresta. Solo allora la tigre ingiunse alla giovane nuora di riaprire gli occhi e di scendere dalla sua schiena. Senza proferire parola, essa eseguì l'ordine, pensando che ormai fosse giunta la sua ora. Di sicuro la tigre l'avrebbe mangiata.

Ma la tigre non aveva questa intenzione. Cominciò a scrutarla in volto, poi le parlò:

- Nipotina mia! Che cosa pensi del mio aspetto?

La giovane nuora si fece animo e rispose con voce tremante:

- Oh, zio! Il tuo aspetto è meraviglioso!

La tigre si sentì compiaciuta, e continuò:

- Che cosa pensi dei miei occhi? Non sono belli?

- La giovane nuora esclamò:

- Zio, i tuoi occhi sono come i petali del fiore d loto: sono molto attraenti.

- E che cosa pensi del mio naso, nipotina?

- Oh, zio, il tuo naso è affusolato e bello come un fllauto. Hai un naso veramente gentile.

- Che ti sembra del mio odore? Ti pare che puzzi?

- Oh, no, mio caro. Al contrario, io sento che dal tuo corpo emana un profumo dolce come quello del legno di sandalo.

La tigre non aveva mai ricevuto complimenti del genere. Immaginarsi se non era andata in sollucchero. Finalmente chiese:

- Cosa pensi della mia bocca? È forse troppo grande?

- Oh, zio, no di sicuro. Vorrei piuttosto dire che la tua bocca è piccola come quella di una sardina.

La tigre era immensamente soddisfatta delle varie risposte. Poi concluse:

- Tu sei veramente una buona ragazza dal cuore gentile. Mi impegno a proteggerti da ogni pericolo. Per questa notte puoi dormire qui tranquillamente. Domattina riceverai dei cibi prelibati ed altri doni che certo gradirai.

Il giorno dopo la tigre se ne andò sola verso il mercato. Appena i negozianti la avvistarono da lontano, gridarono: « La tigre, la tigre! », provocarono una fuga generale e l'abbandono dei negozi ricolmi di mercanzie. La tigre non sembrò dare importanza alla loro fuga. Passando da un negozio all'altro rimasto deserto, essa raccolse dolci, sari, gioielli, ornamenti ed altri regali per la giovane nuora. Quando non riuscì proprio a portare altra roba, se ne tornò indietro con la schiena carica

di regali.

La giovane nuora poté a stento credere alla sua fortuna. A parte la sorpresa di essere ancora in vita in presenza di una mangiatrice di uomini, ora lei si vedeva ricolmare di regali. Non sapendo the cosa fare, si profuse in mille ringraziamenti che resero ancora più felice la tigre.

Il giorno dopo la tigre riportò la donna a Chondonpukur. Prima di mettersi in viaggio, le parlò:

- E così, cara nipote, non hai più ragione di essere triste, anche se non hai parenti che ti vengano a trovare. Ci sarò sempre io a portarti i doni prima di ogni Puja.

La giovane nuora ringraziò ancora la tigre per la sua gentilezza. Poi la tigre la riportò a casa.

Le sue compagne furono sorprese nel vederla ancora viva. Esse avevano pensato che ormai fosse bell'e spacciata. Ma la sorpresa giunse al colmo quando la giovane nuora mostrò gli splendidi doni ricevuti dalla tigre. Tutti in casa esultarono per il lieto fine della vicenda. Solo la terza nuora, nel vedere tutti quei doni e quegli ornamenti, si infiammò di gelosia. E in cuor suo decise di giocarle uno scherzo per ottenere tutta quella bella roba.

L'anno successivo, prima della Puja, mentre le altre nuore erano impegnate a raccontare delle visite dei parenti e dei doni ricevuti, la ragazza gelosa cominciò con una bugia. Disse:

- lo non ho avuto nessuna visita e nessun regalo. Ho solo uno zio chiamato Beghomama, ma anche egli non si fa vivo dall'anno scorso.

Capitò che quella notte la medesima tigre stesse accovacciata al muro della cucina. Essa sentì tutto. Si presentò dunque alla porta e bussò. Anche questa volta ad aprire venne la nonna. Quest'anno però provò meno paura. La tigre disse:

- Sono venuta a prendere mia nipote, la tua terza nuora.

Quando la donna riferì a Sejo-bon, la terza nuora, qual era l'intenzione della tigre, ella fu felicissima e si mostrò pronta a partire.

Così la tigre portò Sejo-bon nella sua caverna. Qui le domandò:

- Mia cara nipote, che cosa pensi del mio aspetto?

- Oh, zio, - rispose Selo-bon - sembri proprio orribile.

La tigre si fece seria. Chiese ancora:

- Che cosa pensi dei miei occhi?

- Per carità! - Sejo-bon rispose -. I tuoi occhi sono spaventosi come palle di fuoco rotanti.

La tigre chiese ancora:

- E che cosa pensi del mio naso?

- È come una palla schiacciata.

- E com'è il mio odore?

- Oh, puzzi così terribilmente che vicino a te mi sento male!

La tigre questa volta si arrabbiò. Ma volle darle un'altra possibilità. Così le disse:

- Che cosa pensi della mia bocca?

- È larga come uno stagno - rispose prontamente Sejobon. - Forse puoi trangugiare un uomo o un animale interi.

Essa aveva appena finito queste parole che la tigre ruggì rabbiosamente. Aveva raggiunto i limiti della sopportazione.

Non aveva mai pensato che ci potesse essere una creatura così scorbutica ed egoista. Con un balzo le fu addosso e la divorò facendola a brani.

Guesta è la fine di Sejo-bon che non poté mai più tornarsene a casa con i doni che si aspettava.

Lo sciacallo ed il coccodrillo

Nel bel mezzo di un bosco c'era uno stagno presso il quale viveva un branco di cervi. In quello stagno c'era un coccodrillo ch'era solito afferrare un cervo quando esso si affacciava per l'abbeverata quotidiana. Per questo lo spavento aveva invaso tutto il brando.

Un giorno uno sciacallo che passava da quelle parti si rese subito conto del loro stato di all'erta e volle chiederne la ragione. Il capo-branco spiegò:

- Fratello, la storia che devo raccontarti è così triste che non vorrei neppure accennarne.

Lo sciacallo insistette a volerla sapere. Finalmente i cervi gli raccontarono come il coccodrillo si era presa la tremenda abitudine di afferrare uno di loro quando andavano a bere. Lo sciacallo rifletté:

- Vedo che siete indifesi. Vi do io una mano. Cominciate a dividervi in due gruppi ed andare a bere su due sponde opposte dello stagno. Quando il coccodrillo uscirà per afferrare quelli di una sponda, gli altri della sponda opposta potranno bere, e così non vi prenderà più.

Detto ciò, lo sciacallo si allontanò. La volta successiva, quando i cervi andarono allo stagno per bere, seguirono il consiglio dello sciacallo. Dato che il coccodrillo non poté afferrare alcun cervo pensò subito che doveva esser intervenuto lo sciacallo ad istruirli. Così gli venne addosso una rabbia tremenda ed una grande voglia di ucciderlo:

- Aspetta un po', sciacallo della malora, e vedrai se non potrò acciuffarti!

Due o tre giorni dopo, lo sciacallo venne a bere allo stagno. Appena il coccodrillo lo vide gli afferrò con decisione il piede. Ma lo sciacallo disse astutamente:

- È come un bastone, e può darsi proprio che lo sia. Mentre diceva così, lo lasciò andare. Lo sciacallo balzò fuori dall'acqua ed esclamò trionfante:

- Ce l'ho fatta a sfuggirti. Lo so bene che mi avresti anche ucciso e mangiato.

Sentendo ciò, pieno di furore, il coccodrillo uscì fuori dall'acqua, nell'estremo tentativo di agguantare lo sciacallo. Quel giorno però gli andò male. Battendo in ritirata, il coccodrillo si confermò nel proposito di ammazzarlo.

Il giorno dopo, mise in atto lo stratagemma: andò nella casa dello sciacallo, si nascose per bene e restò acquattato ad attenderlo. Verso sera lo sciacallo se ne tornò a casa e si accorse subito che il coccodrillo gli era entrato nella tana. Perciò egli si mise a gridare: « O casa di terra, hai qualcosa da dire? ». Il coccodrillo fece del rumore dal didentro. Lo sciacallo capì che egli era entrato in casa e che ora cercava di uscirne. Finalmente venne all'aria aperta e si diede ad inseguire lo sciacallo. Ma dopo qualche balzo, lo sciacallo si infilò tra due piante lì vicine. Il coccodrillo lo volle seguire. Per sua disgrazia fu intrappolato in mezzo, e così trovò la sua morte.

Il ministro ed il pazzo

Un pazzo si era accampato al bordo della strada di un villaggio e si era messo a scavare dei buchi in posti diversi.

Un ministro del Re si trovò a passare di lì e, attratto dallo strano aspetto del pazzo, gli chiese:

- Perché scavi buchi a fianco della strada? Non pensi che i passanti potrebbero mettervi il piede e cascarci dentro?

- Perché dovrebbero caderci dentro? - ribatté il pazzo -. Dopo tutto non li ho fatti nel mezzo della strada. Solo quelli che abbandonano la strada maestra e scendono ai margini corrono questo pericolo.

Il ministro gli chiese:

- Oual è la tua occupazione e dove sei diretto?

- lo non ho alcuna occupazione particolare - rispose il pazzo -. Vado a spasso nel regno di Dio: dove Egli mi mette, là io mi fermo e trascorro la giornata.

Indubbiamente la sua fiducia in Dio era straordinaria. Il ministro si sentì subito meglio disposto verso di lui e cominciò ad informarsi sulla sua parentela. Il pazzo disse che egli aveva un padre.

- Ma dove? - gli chiese il ministro.

- Perché dovrebbe essere con me? - fu la risposta.

Il ministro, vedendo che si trattava indubbiamente di un pazzo, provò a chiedergli:

- Vuoi venire a vivere nella mia casa?

- Che cosa dovrei fare? - chiese a sua volta il pazzo.

- Basterebbe - spiegò il ministro - che tu dessi un po' di acqua alle piante ed ai fiori. Con ciò ti assicuro vitto e vestito.

Il pazzo gli si avvicinò e confermò che accettava. Così egli andò a vivere nella casa del ministro.

Era accaduto che una coppia di uccelli aveva costruito il nido nel giardino del ministro. Un giorno la femmina vide che un'altra femmina saltellava accanto al suo compagno. Presa dalla gelosia, essa reagì con rabbia:

- Lascialo in pace!

L'uccello maschio intervenne:

- Per conto mio potreste tutt'e due venire a vivere con me.

La femmina non approvò per nulla questa proposta. Così ne saltò fuori una grande disputa, tanto che alla fine tutti e tre decisero da far ricorso al Re perché fosse lui a dirimere la questione. Si presentarono dunque alla corte, e rimasero lì ad aspettare. Quando la corte veniva chiusa, essi se ne volavano via.

In questo modo essi continuarono, avanti e indietro, per tre giorni. Finalmente il Re chiese al ministro perché questi tre uccelli comparivano ogni giorno alla sua presenza. Egli assicurò che non ne aveva la minima idea. Il Re insistette:

- Se entro domani potrai rispondermi, bene; altrimenti, ti farò spiccare la testa!

Il ministro, nel sentire quest'ordine così drastico del Re, andò nel suo giardino, e si sedette in un angolo a pensare con la testa fra le mani. Il pazzo, vedendo il ministro così depresso, gli chiese che cosa gli fosse successo. Il ministro non voleva dirglielo. Dopo tante insistenze, gli confidò la minaccia del Re che pendeva come una spada sulla sua testa. Il pazzo disse:

- Tutto qui il motivo della tua angustia? Ma io capisco il linguaggio degli uccelli!

Così il pazzo gli raccontò minutamente tutta la storia dei loro bisticcio, ed aggiunse:

- Qualora il Re decidesse che le due femmine continuino a vivere con l'uccello maschio, non hai che da alzare due dita, e gli uccelli voleranno via. Ma se decidesse nel senso che ognuno deve vivere con la propria legittima moglie, allora alza un solo dito. In questo caso vedrai che un uccello scapperà via subito e poi, dopo un po', la coppia se ne andrà via insieme.

Il ministro si rallegrò nel sentire ciò. Il giorno dopo andò molto presto nel luogo del giudizio, e lì vide i tre uccelli che aspettavano il loro turno. Il Re sentenziò:

- Oggi daremo il verdetto circa il caso degli uccelli. Sentiamo un po' la loro questione.

Il ministro gli ripeté ciò che aveva appreso dalla bocca del pazzo. Il Re restò allibito, e decise subito che l'uccello dovesse stare con una sola femmina. Il ministro alzò un dito ed uno degli uccelli volò via e, dopo un po', anche gli altri spiccarono il volo. Concluso il caso, la corte fu disciolta ed il Re lodò l'acume dei ministro.

Il ministro allora pensò tra sé: « Costui non è un pazzo ordinario. Se dovesse rimanere ancora qui, la storia giungerà alle orecchie del Re col risultato che io perderei la mia reputazione e ogni merito andrà a lui. Sarà meglio che lo uccida ».

Senza perdere troppo tempo a riconsiderare la questione, decise di mandare un ordine al boia perché eseguisse la sentenza. Mise per scritto l'ordine e lo consegnò al pazzo dicendogli di portarlo al boia.

Mentre stava portando la lettera, il figlio del ministro lo vide e gli chiese di raccogliergli un mazzetto di fiori. Il pazzo gli spiegò che prima doveva consegnare una lettera, e poi sarebbe tornato a raccogliere i fiori. Il figlio del ministro non volle ascoltare scuse e gli impose di raccogliere i fiori, mentre egli stesso avrebbe provveduto a consegnare la lettera. Così egli andò con la lettera e la consegnò al boia che, appena la lesse, lo mise a morte.

Dopo un po', il ministro si accorse che il pazzo camminava nel giardino di fiori, e gli chiese se avesse consegnato la lettera. Egli spiegò:

- Mio signore, vostro figlio mi ha imposto di raccogliergli un mazzetto di fiori: non ha voluto sentire scuse, sicché è andato lui stesso a portare la lettera.

Appena seppe ciò, il ministro si sentì schiacciare sotto il peso del dolore per la morte del figlio; e stramazzò a terra piangendo disperatamente.

Quando il pazzo si rese conto della macchinazione del ministro, gli spiegò:

- Mio signore, la prima volta che ci siamo incontrati io dissi: `Coloro che abbandonano la strada principale vanno a finire nel fosso'. Mio signore, tu hai voluto abbandonare la retta via e così sei andato fuori strada!...

Detto ciò, egli lasciò il palazzo e di lui non si seppe più nulla.

La moglie di Adi

In un certo paese viveva il figlio di un signore, chiamato Adi. Alla morte del padre, costui si era trovato in mano un bel mucchio di denaro. Ma Adi lo aveva sperperato presto ed era perfino arrivato a vendere la casa. Alla fine disse alla moglie: « Non ci resta più nulla! Che cosa faremo? Non ho nemmeno due 'anna'. Andrò dunque all'estero al servizio di qualcuno. I miei parenti non mi vedranno fare lavori umili, e così non proverò vergogna. lo dunque mi cercherò un lavoro. Ma anche tu dovrai darti da fare in mia assenza. Tua prima preoccupazione sarà quella di riacquistare tutti i giardini, le case e le altre proprietà che appartenevano a mio padre. In secondo luogo ti chiedo di darmi un figlio ». Detto ciò partì.

Il padre di Adi aveva preso in prestito del denaro da un tale per le spese del suo matrimonio. Costui si presentò alla moglie di Adi, e chiese:

- Dov'è Adi? Suo padre, che ormai è morto - e sia pace all'anima sua - mi ha chiesto in prestito del denaro per sposarsi. Adesso tocca ad Adi rifondermi il debito.

La moglie rispose che suo marito se n'era andato via lontano e che lei non sapeva niente di questo debito.

La moglie di Adi era una donna bellissima. Così quell'uomo pensò di sposarla in cambio della somma di denaro che gli spettava. Quel giorno stesso decise di fare una deposizione presso il Kotwal, ossia il capo della Polizia, dicendo come il padre di Adi gli aveva chiesto in prestito del denaro per sposarsi, che Adi era scappato via e che non rimaneva altro che la moglie, dato che il padre di Adi aveva speso tutto il denaro. In poche parole egli ora era in pieno diritto di prendersi la moglie del figlio. Ilì capo della Polizia gli disse che egli effettivamente aveva tale diritto su di lei e che anzi essa doveva presentarsi subito da lui.

Egli mandò un poliziotto con l'ordine di prelevare la moglie di Adi. Il poliziotto le disse: « È stata sporta querela contro di te: il capo della Polizia ti chiama a rapporto ». La moglie di Adi si pettinò, si mise i vestiti eleganti e andò con la portantina fino alla corte. Poco prima di arrivare sul posto, essa fece fermare la portantina e mandò a dire al capo della Polizia che essa non poteva apparire in pubblico e che quindi non poteva presentarsi alla corte. Non gli restava altro che andare da lei per discutere il caso.

Ricevuto il messaggio, il capo della Polizia andò verso la portantina e diede ordine: « Scosta la tendina e raccontami ciò che devi dire ». La donna aprì la tenda della portantina. Appena il capo della Polizia vide la moglie di Adi, fece tra sé il proposito di mandare fuori dai piedi l'accusatore e prendersela come moglie. Così egli disse all'interessato: « Torna da colui al quale hai prestato il denaro e fattelo dare. Dove si è mai sentito dire che si può avere una donna al posto del denaro? Gira al largo, mascalzone, perché qui non c'è niente per te! ».

Dopo aver allontanato quell'uomo, egli invitò la moglie di Adi ad andarsene in casa con lui. Essa rispose: « Non ho altri amici se non te. Dammi duecento rupie, e dopo aver pagato tutti i miei debiti verrò a casa tua. Quando ti manderò un messaggero o riceverai una mia lettera, allora sarai tu a dover venire in casa mia ». Prese le duecento rupie dal capo della Polizia e ritornò a casa. Qui diede subito ordine di riparare la casa del padre che ormai era in rovina.

Nel frattempo quell'uomo aveva fatto un'altra deposizione di fronte al Nazir, ossia al Giudice. Questi aveva convocato la moglie di Adi. Essa si mise dei vestiti ancora più belli ed andò con la portantina davanti alla corte del Nazir. Quando il giudice vide la sua bellezza ne fu affascinato. Ella gli disse: « Signore, io posso benissimo essere tua, dato che mio marito se n'è andato via: tu sei il mio unico amico ».

Nell'udire ciò il Nazir allontanò l'uomo ed invitò in casa sua la moglie di Adi. Ma essa rispose: Mio marito si è indebitato fortemente: prestami cinquecento rupie e, quando avrò pagato tutto, io verrò. Per ora, appena te lo farò sapere potrai venire tu stesso in casa mia ». Prese il denaro e se ne tornò a casa.

Dopo ciò quell'uomo pensò che ormai fosse inutile tentare con la gente del luogo. Fece allora ricorso al Wizir, cioè al ministro del paese. Il Wizir convocò la moglie di Adi. Appena la guardò in volto, il fascino che ne sentì fu tale che ebbe l'impressione di svenire. Anch'egli decise di prendersela in moglie. Prima di tutto tolse di mezzo quell'uomo e disse a lei che era pronto a sposarla. Essa replicò: « Mio marito è andato all'estero lasciando dei conti in sospeso. Se mi darai mille rupie pagherò i creditori e poi potrò venire in casa tua ». Preso il denaro, nell'atto di allontanarsi, aggiunse: « Restiamo intesi che tu potrai venire in casa mia appena te lo farò sapere ».

Il solito creditore, persa ormai la speranza di ottenere giustizia presso il Wizir, si rivolse al Re in persona che convocò la moglie di Adi. Essa indossò i vestiti migliori e si presentò al Re. Anche il Re fu attratto dalla bellezza della donna, tanto che in cuor suo decise di farne la sua regina. Come prima cosa diede ordine di espellere quell'uomo dal paese. Poi disse alla moglie di Adi:

- lo vorrei sposarti. Sei d'accordo?

Essa rispose:

- Mi sento altamente onorata della tua proposta di rendermi regina; ma mi sento responsabile dei debiti di mio marito. Se mi darai duemila rupie potrò saldare il mio debito e poi venire alla tua reggia.

Così il Re le consegnò il denaro.

Essa andò a casa e come prima cosa chiamò un falegname e gli fece costruire un guardaroba con quattro compartimenti da tenere nella sua casa. Poi invitò il Kotwal, il Nazir, il Wizir ed il Re. Al Kotwal disse di venire a mezzanotte, al Nazir per l'una, al Wizir per le due e al Re per le tre.

A mezzanotte in punto si presentò il Kotwal. La moglie di Adi lo trattò con molta gentilezza. Mentre erano intrattenuti a parlare, il Nazir fece sapere che stava per arrivare, il Kotwal chiese allarmato:

- E adesso che cosa faccio? Dove posso andare?

La donna rispose:

- Non ho nessun posto buono per nasconderti, a meno che non voglia metterti dentro il guardaroba.

Il Kotwal acconsentì:

- E sia, se questo è il posto migliore. Presto, chiudimi dentro!

Così la moglie di Adi ve Io rinchiuse dentro.

Arrivò il Nazir che si intrattenne con lei fino alle due. Ma ecco che giunse il Wizir e bussò alla porta. Il Nazir ne riconobbe la voce, ed esclamò:

- Trovami subito un posto dove nascondermi.

Essa disse che l'unico posto per nasconderlo era il guardaroba. Il Nazir accettò la soluzione: si fece legare e mettere nel secondo compartimento. Quindi lei invitò il Wizir ad entrare e lo fece sedere.

Un'altra ora passò presto, dato che lei si era messa a preparargli qualcosa da mangiare. Quando arrivò il Re, il Wizir si sentì venir meno dallo spavento; per cui accettò facilmente di essere posto nel terzo compartimento del guardaroba.

Quindi essa ricevette il Re con tutti gli onori. Stava preparandogli del cibo, quando lei uscì dalla stanza e ordinò ad uno dei servi di indossare i vestiti del marito e di mettersi a bussare alla porta non appena fosse pronto. Il servo, travestito alla perfezione, bussò alla porta. Il Re chiese chi fosse. Quando la donna rispose che si trattava di suo marito, il Re esclamò:

- Non posso restare qui: devo nascondermi.

La moglie di Adi rispose:

- Non ho che un guardaroba per nascondervi. E fate presto!

Così anche il Re andò o finire dentro il guardaroba. La moglie di Adi vi stese sopra una grande tenda, spense la candela e se ne andò a dormire.

Il giorno dopo, tutti erano sorpresi nel notare come il Re, il Wizir, il Nazir ed il Kotwal non erano apparsi in corte come al solito. Nel frattempo la moglie di Adi aveva mandato i suoi servi col guardaroba al mercato per metterlo in vendita al prezzo di quattrocentomila rupie. I figli del Re, del Wizir, del Nazir e del Kotwal si aggiravano per la città in cerca del loro padre. Giunti al mercato sentirono uno che gridava: « Vendo un guardaroba per quattrocentomila rupie! ».

Il figlio del Re disse: «Qui c'è sotto qualcosa. Nessuno potrebbe comprarla se non noi. Sarà bene che mandiamo subito a prendere i soldi ». Così fecero. Uno di loro prese in mano la chiave: aprì il primo compartimento e si trovò di fronte a suo padre. Gli altri tre fecero la stessa scoperta. In conclusione, tutti se ne scapparono via pieni di vergogna.

La moglie di Adì prese allora una banda di musicanti e cominciò a viaggiare di paese in paese, finché giunse nel luogo dove suo marito lavorava al servizio del Re. I cantori furono invitati a palazzo. La moglie di Adi restò a casa a custodire la sua proprietà. La compagnia di artisti fece richiesta al Re di mandare un servo di fiducia a difendere i beni della signora. Ora il Re non aveva altro servo di fiducia se non Adi; così mandò lui.

La moglie lo riconobbe, e gli disse: « Dove stai e chi è tuo padre? ». Egli le spiegò tutto, e così ella non ebbe più alcun dubbio: era proprio suo marito, anche se egli non era riuscito a riconoscerla. Essa lo chiamò in casa, e la mattina dopo diede ad Adi duecento rupie dicendo che non aveva più bisogno dei suoi servigi.

Dopo ciò, ella lasciò quel paese e se ne tornò a casa. Passò un po' di tempo ed essa diede alla luce un bimbo. Bisogna dire che mentre Adi stava con lei egli le aveva messo al dito un anello.

Circa un anno dopo Adi era tornato a casa ed aveva trovato la proprietà di suo padre quadruplicata. Vedendo però il bambino, avvampò d'ira. La moglie, costernata, spiegò:

- Signore, perché sei arrabbiato? Ho fatto tutto ciò che occorreva per compiacerti.

- Hai proprio fatto meraviglie! - Adi replicò -. lo sono stato fuori dal paese ed intanto tu hai avuto un bambino!

- Ma è tuo figlio! - lei ribatté -.

E gli mostrò l'anello.

Il principe rana

C'era una volta un re che aveva un figlio bellissimo. Un giorno il giovane principe andò in foresta per una battuta di caccia. Nella foresta il principe avvistò un cervo che si abbeverava ad uno stagno. Appena lo vide, si fece dare arco e freccia e lo colpì. La freccia aveva preso il cervo proprio nel cuore, cosicché con un gemito pietoso si accasciò a terra ucciso.

In quel momento, vicino allo stagno, assorto in profonda preghiera, si trovava seduto un eremita. Il lamento straziante del cervo lLo scosse dalla sua divina contemplazione. Si alzò dunque e si avvicinò al cervo per constatare che ormai era senza vita, abbattuto al suolo con una freccia conficcata nel cuore. In un impeto d'ira egli maledì il principe, e disse:

- Per il crimine che hai commesso sarai trasformato in rana e, come rana, spenderai la tua vita in questa pozza d'acqua.

Nel sentire la maledizione dell'eremita il principe si fece pallido in volto e cominciò a tremare dalla paura. Buttandosi ai piedi dell'eremita, egli invocò perdono e misericordia. Commosso dalle suppliche del principe, l'eremita alla fine disse:

- Bene, tu potrai ritornare uomo solo quando il calore del fuoco scotterà la tua pelle, e non prima di allora.

Detto ciò l'eremita se ne andò, lasciandosi alle spalle il principe che ormai era in realtà una rana che balzellava qua e là nella foresta circostante lo stagno.

Il principe-rana si trovò dunque a vivere nello stagno. Quando aveva fame andava a caccia di piccoli insetti e li mangiava. Passarono così alcuni giorni. Un giorno ci fu uno spaventoso temporale. Tutta la zona fu sommersa dall'acqua. Il principerana fu costretto ad abbandonare il suo piccolo regno ed andò a sistemarsi sopra una sponda rialzata. Qui trovò un ambiente più confortevole per viverci. Poteva vedere i volti della gente che veniva allo stagno per lavarsi le mani ed i piedi o per fare il bagno. Tutto ciò costituiva per lui una sorgente di grande gioia ed un bel diversivo.

Ora il re di quel paese aveva una figlia bellissima. Ogni mattina era solita avvicinarsi allo stagno per dare con le proprie mani il cibo ai pesci meravigliosi che vi guizzavano dentro. Una mattina, mentre la principessa stava dando da mangiare ai pesci mettendo come al solito la mano nell'acqua, il suo anello di diamante le scivolò dal dito. La principessa fece di tutto per ripescarlo, ma ogni sforzo fu vano.

Sconvolta per la perdita del suo anello preferito, si sedette a piangere sulla sponda dello stagno. Subito il re fu informato dell'accaduto. Egli venne di persona a consolare la figlia. Ma la principessa non voleva essere consolata. Finalmente il re decise di commissionare al suo gioielliere un anello di diamante, esattamente uguale a quello che la principessa aveva smarrito. Nonostante ciò, la ragazza continuava a piangere: essa voleva riavere il vecchio anello. Non si sarebbe allontanata dalla sponda dello stagno se non quando avesse riavuto il suo anello: questo era il suo fermo proposito.

Proprio in questo frangente il principe-rana uscì fuori dall'acqua, e disse alla principessa: « Ascoltami, principessa: il tuo anello si trova dentro al mio stomaco. Posso restituirtelo ad una sola condizione: che tu sia disposta a sposarmi ». La principessa aveva un desiderio così struggente di riavere il suo diamante che promise solennemente. La rana sputò subito fuori di bocca l'anello e lo consegnò alla figlia del re.

Riavuto il suo anello, finalmente la principessa se ne tornò a palazzo. Lì raccontò ai suoi genitori gli ultimi particolari della vicenda. Il re e la regina rimasero allibiti nel sentire una simile storia. Adesso che cosa potevano fare? La principessa era ormai in età da marito. Come avrebbero potuto i genitori interferire in questa faccenda? Se voleva sposare una rana, benissimo: era libera di farlo! Non era il caso di farle opposizione.

Così il matrimonio ebbe luogo e la rana venne a vivere con la principessa, naturalmente in qualità di marito.. Il principe-rana era pienamente soddisfatto della sua nuova condizione di vita. Talvolta si sedeva sul suo letto d'oro e chiedeva a sua moglie che gli massaggiasse dolcemente le gambe. Altre volte egli le chiedeva che con il ventaglio gli desse un po' di ristoro dalla calura.

Ma la figlia del re trovava tutte queste richieste un po' imbarazzanti. Tuttavia alla fine non le restava altro che accontentare il marito. Dopo tutto, per proprio volere essa era diventata la moglie di una rana. In tutti i casi essa era tutt'altro che felice.

Ciò non bastasse, le sue amiche la prendevano continuamente in giro. Appena la vedevano, si mettevano a gracidare come rane e le facevano le boccacce. Come conseguenza il suo carattere si era inasprito. La gentilezza e la simpatia che prima sentiva verso le rane se n'erano andate del tutto. In conclusione essa cominciò a complottare la morte del marito-rana.

Dopo alcuni giorni di macchinazioni, essa mise a punto il suo piano. Prese un vaso di terracotta e vi pose delle braci che covavano sotto la cenere, poi nascose il vaso sotto il suo letto. Essa aveva pensato che la rana, saltando qua e là per la stanza, prima o poi, sarebbe cascata dentro il vaso e sarebbe morta bruciata.

Capitò proprio così. La rana, balzellando qua e là, finalmente si avvicinò al vaso con dentro il fuoco. Il tempo che l'eremita aveva fissato per il compiersi della sua maledizione stava ormai per scadere. Non appena la rana si fu avvicinata al vaso il calore del fuoco bruciò la sua pelle. In un batter d'occhio, la rana si trasformò in un essere umano, un bellissimo principe.

La principessa fu sorpresa e felice oltre ogni dire. In realtà tutti furono contenti della soluzione di questa vicenda, tanto che a palazzo e nel regno furono indetti solenni festeggiamenti.

La tigre sfortunata

In un villaggio del Bengala viveva un uomo la cui pazienza era messa a dura prova da una volpe astuta. Di tanto in tanto questa volpe faceva una sortita nel suo pollaio e si portavia via un bel po' di galline. Alla fine questi decise di porre in atto un piano. Vicino a casa sua c' era una boscaglia: lì in mezzo nascose accuratamente una trappola. Ogni giorno egli andava sul posto per controllare se la volpe vi fosse caduta dentro.

Un brutto giorno la volpe si trovò proprio presa in trappola. Ma in quel momento nel villaggio si stava svolgendo un matrimonio. Tutti erano indaffarati nei preparativi per il matrimonio e nessuno si preoccupò di controllare la trappola per tutto il giorno. Così passò via una giornata e scesero le tenebre.

Davanti alla casa dello sposo tutti pensavano a divertirsi. Ci furono anche fuochi d'artificio e luminarie. Amici ed ospiti, membri della famiglia erano tutti impegnati nella festa.

Proprio allora una tigre fece furtivamente capolino fuori della giungla e s'imbatté nella volpe presa in trappola. La tigre per un momento stette ad osservarla, poi disse:

- Salute, maestro. Come mai ti trovi in questo brutto frangente?

- Devi sapere - rispose prontamente la volpe - che questa gente è proprio insistente. Ho detto loro di no per centinaia di volte, ma poi alla fine mi hanno convinta. In conclusione ho dovuto accettare di sposare la bella ragazza che abita in quella casa, anche se realmente non ne avevo gran voglia.

La tigre capì subito che quella era per lei un'occasione d'oro e che era da stupidi lasciarsela scappare. Essa disse con impazienza:

- Maestro, devi sapere che è da un po' di tempo che anch'io sto pensando di sposarmi. Ti dico anzi che mi sposerei oggi stesso, se trovassi una bella ragazza.

La volpe si rese conto che la tigre era proprio abbagliata dal pensiero di avere una bella moglie. Le sarebbe bastato poco per prendersi gioco di lei. Così la volpe si sporse in avanti e bisbigliò alla tigre:

- Stando così le cose, non ho nessuna difficoltà a lasciarti sposare la mia ragazza. Del resto la cosa mi andrebbe anche bene, dato che potrò dedicarmi con maggior profitto ai miei studi.

Non si sa se per riguardo al grande amore per gli studi manifestato dalla volpe o se per la propria gran voglia di sposarsi, fatto sta che la tigre non esitò nemmeno per un istante.

Essa volle sapere dalla volpe come poteva entrare dentro la trappola. La volpe chiese alla tigre di aprire la porta della trappola che era legata dal difuori. La tigre sciolse i lacci e, appena la volpe sgusciò fuori, vi entrò lei. La volpe allora chiuse saldamente la porta della trappola.

Dopo un po' tra la gente cominciò a circolare la voce che ai bordi della giungla una tigre era stata presa in trappola. Ci fu presto un accorrere disordinato di gente con bastoni, arpioni e pale. Vedendo quella gran folla, la tigre si rivolse alla volpe che le era rimasta vicino:

- Maestro, che cosa succede? Perché la gente corre verso di noi?

- Viene a dare il benvenuto allo sposo - spiegò la volpe - ed a fargli fare il bagno rituale. Non hai niente da temere.

Rassicurata, la tigre attese pazientemente che gli uomini le facessero fare il bagno riservato allo sposo. Appena giunti sul posto, essi accerchiarono la trappola. Uno di loro stuzzicò la tigre con una pertica. La tigre pensò che si trattasse di suo cognato che voleva scherzare con lei. Poi un altro uomo le puntò addosso una lancia. La pelle si lacerò, e sul punto della ferita cominciò a spillare sangue. A questo punto la tigre pensò che i suoi parenti stessero andando troppo avanti con i

loro scherzi.

In un attimo un altro fendente colpi la tigre da un altro lato. La tigre urlò dal dolore e protestò rabbiosamente: me ne andrò e non sposerò la vostra ragazza.

La volpe pensò tra sé che, dal come si stavano mettendo le cose, anche per lei quello non era più un posto sicuro. Così lasciando la tigre nelle loro mani, se la svignò indisturbata

In parti uguali

Questa è la storia di due fratelli chiamati rispettivamente Ibrahim ed Ali. Essi avevano perduto la madre quand'erano ancora piccoli e di recente anche il padre li aveva lasciati. Così dovevano dividersi la proprietà.

Il loro padre era talmente povero che aveva lasciato ai figli solo una mucca, una palma da datteri ed una coperta. La più preziosa di queste tre cose era naturalmente la mucca.

lbrahim, il fratello maggiore, era avido e astuto; mentre Ali, il fratello minore, era ingenuo e si fidava di tutti. Lbrahim rassicurò subito Ali che a ciascuno sarebbe toccata mezza mucca. Egli fece la proposta in questi termini: « lo ti lascerò la parte davanti della mucca perché è la migliore. lo mi accontento della parte posteriore ». Il giovane Ali fu contentissimo. Egli sentì perfino gratitudine verso il fratello maggiore perché gli aveva ceduto la parte migliore della mucca.

Così ogni giorno lbrahim mungeva il latte della mucca, ma se ne guardava bene dal darne un po' ad Ali. Egli elogiava il piccolo Ali e gli raccomandava di dare da mangiare regolarmente alla mucca. Al piccolo Ali faceva molto piacere sentirsi lodato. Egli si entusiasmava nel dare alla mucca erba sempre più buona, e così essa faceva più latte.

Così Ali dava da mangiare alla mucca ed lbrahim ne prendeva il latte. Ma un giorno un uomo saggio del villaggio riuscì a mettere il naso in questa faccenda. Il saggio disse:

- Ali, perché dai da mangiare ogni giorno alla mucca?

- Perché è la parte che mi appartiene - fu la risposta di Ali.

- Ma non ti piace il latte della mucca? - chiese ancora il saggio.

- Oh, ma il latte appartiene a mio fratello Ibrahim, - sospirò Ali -. Pensa che non me lo fa nemmeno degustare.

Il saggio soggiunse:

- Dunque tu fai tutto il lavoro, mentre tuo fratello si gode il latte. Sei proprio un ragazzo stupido.

Il piccolo Ali domandò:

- Ormai cosa posso farci? Purtroppo ho accettato di prendermi la mezza parte anteriore della mucca, per cui mi tocca darle l'erba da mangiare.

Allora il saggio si inchinò e gli bisbigliò qualcosa all'orecchio.

Il giorno dopo, come al solito, lbrahim venne a mungere la mucca. Il piccolo Ali, con un bastone, colpì la mucca sulla testa, così che essa si fece irrequieta e cominciò a muoversi qua e là.

- Smettila! Non posso mungere la mucca se continui a batterIa - gli gridò dietro lbrahim.

- Fa' pure ciò che credi con la parte posteriore e tienti pure tutto il latte. lo farò ciò che mi pare e piace con la mia metà che sta davanti!

lbrahim sospettò che qualche saggia persona doveva aver consigliato Ali. Perciò gli disse:

- Se smetterai di battere la mucca, ti darò metà del latte.

Ma Ali, fattosi ancora più furbo, aggiunse:

- Ora però devi anche aiutarmi a tagliare metà dell'erba che occorre alla mucca.

Il cattivo fratello lbrahim dovette arrendersi anche a questa richiesta.

L'altra cosa preziosa che i due fratelli condividevano era una palma da datteri. I contadini sono soliti fare delle incisioni nella corteccia della pianta per raccogliere il dolce succo che ne sgorga fuori goccia a goccia.

L'astuto lbrahim pensava, anche in questo caso, di giocarsi il piccolo Ali. Infatti gli aveva detto:

- Se tagliassimo la pianta in due, morirebbe. Non ci resta altro che condividerla, così com'è. Ma voglio essere onesto con te lasciandoti scegliere la parte che preferisci. Così potrai stare sicuro che non ti sto imbrogliando.

Ali disse:

- lo scelgo la parte più bassa.

- Benissimo - disse lbrahim -. Tu sei mio fratello minore. Dato che scegli la parte migliore, non posso rifiutartela.

Ali lavorò alacremente per prendersi cura della sua parte di pianta. Ogni giorno andava a prendere acqua e l'annaffiava perché crescesse più grossa e robusta. Intanto però il furbo fratello lbrahim aveva appeso un vaso di terracotta alla parte superiore della pianta. Ogni mattina egli raccoglieva un succo squisito che poi, una volta bollito, trasformava in zucchero dolcissimo. L'ingordo lbrahim, mangiando tante buone cose dolci, si era fatto bello grasso. Invece il povero Ali tirava

avanti col suo mal di schiena cuasatogli da tutti i secchi d'acqua che portava alla pianta. Ali dunque continuava ad annaffiare la pianta ed lbrahim a godersi il frutto finché, un giorno, il vecchio saggio fece di nuovo la sua comparsa da quelle parti.

- Sei stato preso in giro - disse il saggio ad Ali. - Ti sei cacciato in un altro imbroglio: a te il sudore del lavoro, mentre a tuo fratello il buon succo della pianta.

- Povero me! - esclamò Ali -. Anche se sono stato imbrogliato, ormai non posso farci più nulla. Del resto io stesso ho scelto la parte inferiore della pianta.

- Non essere così stupido. Usa il tuo cervello e rifletti - gli disse il saggio. Poi si piegò e sussurrò qualcosa nell'orecchio di Ali.

Quella mattina lbrahim, mentre era in cima alla pianta per prendersi il succo, ebbe una brutta sorpresa. Sentì il tonfo di una scure, poi sentì la pianta scuotersi. Guardò giù e vide suo fratello che con una scure tagliava le radici della pianta.

- Che cosa ti salta in mente di fare? - gli gridò lbrahim.

- Questa è la mia parte di pianta e ne faccio ciò che voglio - disse Ali continuando a tagliare.

- Se smetti di tagliare la pianta, ti darò ogni giorno metà del succo che ne ricavo - promise lbrahim.

Cosi Ali smise di tagliare la pianta. In seguito a ciò i due fratelli si spartirono equamente il latte della mucca ed il succo della pianta da datteri.

Restava però in sospeso un altro problema: come dividersi la trapunta ereditata dal padre? Anche questa volta lbrahim tentò di giocare il povero Ali. Egli disse:

- Questa trapunta non è molto larga. Tu la potresti usare durante il giorno ed io la userò durante la notte.

Ali si trovò d'accordo nella proposta: Anzi pensò: « Mio fratello maggiore mi vuole proprio bene. Mi lascia usare la trapunta tutto il giorno ». Ammirò la trapunta ricamata, la piegò e la distese per bene. Ma il sole era così cocente che non gli fu mai possibile usarla durante il giorno.

Alla sera lbrahim veniva a prendersi la trapunta. Egli se la buttava sopra ed al suo tepore dormiva sonni tranquilli fino al mattino. Il povero Ali invece non riusciva a chiudere occhio dal freddo.

Appena il vecchio saggio seppe che cosa stava succedendo, venne ancora una volta in aiuto al povero Ali. Come al solito, gli bisbigliò all'orecchio il suo buon consiglio.

La sera successiva, quando lbrahim chiese di usare la coperta, si arrabbiò. La trapunta era inzuppata d'acqua.

- Perché hai bagnato la trapunta? - gridò.

Il piccolo Ali rispose:

- Questa è bella! Non siamo d'accordo che io posso usare la trapunta di giorno come mi piace?

Così lbrahim ripeté:

- Bene, fratellino, non ci resta altro che condividere la trapunta durante la notte. Dormiremo insieme in santa pace!

E soggiunse:

- Fratellino, d'ora in poi non cercherò più di imbrogliarti!

I tre viaggiatori

Nei tempi antichi c'erano alcuni bei tipi che avevano l'abitudine di viaggiare da un luogo all'altro, accettando quanto la gente offriva loro per senso di ospitalità. Dopo questi viaggi, essi potevano scrivere libri sugli usi ed i costumi dei diversi popoli e paesi da loro visitati. Tra questi viaggiatori c'erano musulmani, cristiani, indù, ebrei, buddisti e gente di credenze diverse. Non per questo uno si mostrava meno rispettoso se aveva a che fare con qualcuno di religione differente.

Tre di questi viaggiatori si erano messi insieme per vedere un po' il mondo. Uno era cristiano, uno ebreo, ed il terzo musulmano. Un giorno, dopo una lunga camminata, avevano raggiunto una nuova località. Ormai si era fatta notte. Essi avevano i piedi gonfi e lo stomaco vuoto. Stanchi com'erano del viaggio, non riuscirono a trovare in tempo un rifugio per la notte. Ormai tutta la gente del villaggio stava dormendo. Così essi stesero una coperta ai piedi di una pianta di banian e si disposero a dormire.

Proprio in quel momento sopraggiunse una gentile persona che offrì loro dei dolciumi. Inutile dire che tutti erano affamati, ma che purtroppo quei dolci non sarebbero bastati a placare i morsi della fame di tre persone. Uno di loro suggerì: « Fratelli, intanto mettiamoci a dormire. Chi avrà il sogno più bello si mangerà i dolci ». La proposta era ragionevole. Tutti si disposero per dormire.

Quello era il tempo del Ramadan, cioè il mese in cui i musulmani digiunano dall'alba al tramonto. Poco prima dell'alba il musulmano sentì giungere dalla moschea l'invito alla preghiera. Egli si alzò di scatto, mangiò i dolci e copri il piatto vuoto con un fazzoletto.

Anche il cristiano e l'ebreo si alzarono presto e cominciarono a raccontarsi i loro sogni. Prima il cristiano disse:

- Ho avuto veramente un bel sogno. Ho sognato di volare in alto fino al quarto cielo. E qui ho parlato col profeta Isala.

L'ebreo aggiunse:

- Il mio sogno è ancora migliore. Un pavone venuto da non so dove mi ha preso su e mi ha portato in cima al monte Sinai. Lì ho potuto parlare faccia a faccia con Dio.

Il musulmano continuò:

- lo ho avuto un sogno veramente brutto.

Il cristiano e l'ebreo cominciarono subito a rallegrarsi, ed esclamarono:

- Va' avanti a raccontare.

- Fratelli, - riprese il musulmano - ho visto un demonio che si avvicinava. Prendendomi per il collo, gridò: « Alzati e mangiati tutti i dolci o ti rompo il collo ». Che cosa mai potevo fare? Così mi sono mangiati i dolci.

- Ma perché non ci hai chiamato ? - protestarono il cristiano e l'ebreo -. Noi avremmo potuto cacciare il demonio!

- lo vi ho chiamato - replicò il musulmano -, anzi ho urlato.

- Ma allora - essi chiesero - come mai non abbiamo potuto sentirti?

- Già - disse il musulmano -` come avreste potuto sentirmi? Uno di voi si trovava al quarto cielo e l'altro era sulla vetta del Sinai. Potevo ben gridare io! Come poteva la mia voce raggiungervi fin lassù?

Kisa Goutomi

In un certo paese viveva un personaggio ragguardevole che aveva molto denaro. Una mattina costui si accorse che tutto il suo denaro era diventato cenere. Questa scoperta lo rese terribilmente depresso, tanto che per il dispiacere smise di mangiare. Dopo un po' finì con l'ammalarsi. Un amico, venuto a sapere la causa della sua malattia, gli disse: « Non dovresti essere rattristato. Per molti anni non hai fatto un buon uso del tuo denaro. Non hai fatto altro che tenerlo in un mucchio. Per questo i tuoi soldi equivalevano già alla cenere. Dammi retta. Va' al mercato e vendi tutta quella cenere: di sicuro ne ricaverai qualcosa ».

Dando retta al consiglio dell'amico, il signorotto andò al mercato. I suoi vicini di casa, nel vederlo, cominciarono a dire:

- Hai perso la testa? Perché vendi tutta questa cenere? Tu non stai vendendo oro, diamanti o perle, ma semplicemente della cenere. Che cosa ti è successo?

- Adesso - rispose il signorotto - la mia ricchezza è tutta qui. Voglio vendere ciò che mi resta in proprietà.

I vicini, nel sentirlo parlare in questo modo, cominciarono a ripetersi tra loro: « Andiamo bene! Questo signorotto ha perso proprio la testa! ».

In quel momento, sulla strada passò una ragazza di nome Kisa Goutomi. Essa era molto povera e per di più era rimasta orfana. Kisa, vedendo il signorotto seduto sul bordo della strada, gli disse:

- Signore, perché stai vendendo tutto quell'oro, argento, diamanti e gioielli?

A queste parole, il signorotto restò sorpreso:

- Che dici mai? Dove sono l'oro, i diamanti ed i gioielli? Ti stai sbagliando: questa è tutta e solo cenere. Prima sì che erano oro, diamanti e gioielli. Adesso purtroppo sono diventati cenere. lo vendo né più né meno che cenere. Tu, per caso, vorresti comprare della cenere?

- No, signore, questa non è cenere. Guarda bene: questo è oro - e così dicendo Kisa mise in mano al signorotto un pugno di cenere.

La cenere, all'istante, si era mutata in oro. A quella vista il signorotto rimase a bocca aperta per la sorpresa. Egli pensò tra sé: « Kisa è certamente una divinità. L'oro ed i preziosi nelle mani degli altri sono diventati cenere; mentre nelle mani di Kisa Goutomi perfino la cenere diventa oro ». Alla fine egli era così felice che offrì suo figlio in sposo a Kisa.

Trascorsero alcuni anni. In una sera d'inverno, Kisa diede alla luce un bambino. Kisa si sentì inondare di gioia per quel bambino. Tuttavia, un po' alla volta, si avvicinarono anche per lei i giorni della sofferenza. Nel bel mezzo della notte suo figlio morì. Kisa si sentì spezzare il cuore dal dolore e dal pianto. Non riusciva a rassegnarsi al pensiero che anche per lei i giorni felici erano passati via così in fretta. Non riusciva a credere che Dio potesse essere così crudele. Perché Dio le aveva strappato via il suo unico figlio? Era mai possibile questo?

Kisa andò in casa dei vicini per chiedere una medicina per il suo bambino. I suoi vicini le dicevano:

- Kisa, tuo figlio è morto. Dio si è preso tuo figlio. Non rattristarti.

Kisa non riusciva a credere alle parole dei vicini. Dentro di sé essa ripeteva: « Ciò è impossibile ». A tutti coloro che incontrava per strada chiedeva la medicina. Tutti pensavano la stessa cosa: « Kisa ha perso la testa, è impazzita dal dolore ».

Kisa, col bambino in braccio, vagava di qua e di là. Dopo tanto camminare si sentì stanca e si sedette lungo la strada. Ecco che su quella strada sopraggiunse un passante. Kisa, visto il passante, chiese pure a lui la medicina. Il passante le rispose: « lo non ho alcuna medicina. Va' piuttosto dal Buddha inviato da Dio. Egli ti darà la medicina buona per tuo figlio ».

Kisa Goutomi si presentò dal Buddha. Piangendo, essa disse: - Signore, il mio unico figlio è malato gravemente. Abbi pietà di me. Guariscilo!

- Se mi porterai un pugno di grani di senape - rispose il Buddha -, io potrò guarire tuo figlio. Però deve essere preso da quella casa dove nessun bambino o bambina, nessun capofamiglia o nessun'altra persona di casa sia finora morta.

Kisa Goutomi passò di casa in casa. Il suo dolore muoveva tutti a compassione. Tutti erano disposti a darle dei semi di senape. Ma essa non riuscì a trovare nessuna casa dove non ci fosse almeno un morto da rimpiangere. In tutte le famiglie Kisa ricevette la stessa risposta: « Ahimè, il numero dei morti è più alto del numero dei vivi ».

Il disappunto di Kisa fu grande, tanto che si sedette ancora lungo la strada. Poco a poco si fece notte. Kisa vedeva in lontananza le luci della città. Le luci per un momento brillavano e poi improvvisamente si spegnevano. Di lì ad un po' scese una tenebra profonda. Allora pensò al futuro dell'uomo e comprese che la vita è come la luce: improvvisamente si accende e poi, un momento dopo, si spegne.

Quindi cominciò a riflettere: « lo sono tremendamente egoista. Quanti bambini sono morti! Anche il mio bambino è morto. Verrà il giorno in cui anch'io lascerò questo mondo. In questo mondo solo coloro che sono riusciti a rinunciare al proprio interesse hanno una vita di successo ».

Allora Kisa diede sepoltura a suo figlio e poi andò a rifugiarsi ai piedi di Buddha.

Il Buddha le aveva indicato la via della pace.

Oceano di bellezza

Nella città di Sobhotti viveva un ricco signore. La sua casa fu allietata dalla nascita di un bambino dalla bellezza incomparabile. Per questo venne chiamato «Oceano di Bellezza». «Oceano di Bellezza» in gioventù si era fatto ancor più bello ed aitante.

Un giorno, al mattino presto, Oceano di Bellezza vide un gruppo di persone che si dirigeva verso la città di Betjon. Egli chiese loro:

- Dove andate?

- Andiamo dal Maestro - essi risposero - a sentire dalla sua bocca le verità fondamentali.

Oceano di Bellezza si sentì incuriosito. Così decise di andare con loro dal Gothamo.

Oceano di Bellezza giunse dunque dal Gothamo. Il Buddha Illuminato in persona stava istruendo la gente convenuta da ogni dove. Nel sentire le parole del Buddha, Oceano di Bellezza pensò: « Una vita disinteressata come quella del monaco ha veramente valore ».

Finito l'incontro, Oceano di Bellezza si avvicinò al Buddha e gli chiese:

- lo vorrei essere iniziato da te alla vita monastica.

Buddha, l'Illuminato, rispose:

- Giovanotto, senza il consenso dei tuoi genitori io non posso introdurti alla vita religiosa. Va' prima a chiedere l'approvazione di tuo padre e di tua madre.

Oceano di Bellezza se ne tornò alla città di Sobhotti per chiedere il consenso dai suoi genitori. Costoro gli fecero da principio una feroce resistenza. Ma alla fine, dopo tanti tentativi, Oceano di Bellezza riuscì a strappare loro il consenso. Con l'approvazione dei genitori, Oceano di Bellezza fece ritorno alla città di Betjon.

Alcuni giorni dopo, Oceano di bellezza decise di portarsi a Goungiame per intraprendere la professione di mendicante.

Un giorno nella città di Sobhotti era in corso una celebrazione. Approfittando dell'occasione, anche alcuni monaci buddhisti avevano voluto andare in città. I monaci si diedero a mendicare di strada in strada. Nel vederli prendere l'elemosina, alla mamma di Oceano di Bellezza vennero in mente le parole con cui il figlio si era congedato, e scoppiò a piangere.

In quel momento, sulla stessa strada, passava una prostituta di nome Oncioli. Questa le chiese:

- Mamma, perché piangi?

La donna le svelò il motivo della sua intima sofferenza. Oncioli venne a sapere che il suo unico figlio aveva abbandonato la famiglia per farsi monaco e non era più ritornato a casa. A questo pensiero la povera mamma non riusciva a trattenere le lacrime.

Oncioli disse:

- Il dovere di un figlio unico è di pensare alla famiglia. lo farò di tutto per riportarti il figlio.

- Se ci riuscirai - la donna promise - io in compenso ti darò dei gioielli preziosi.

- Intanto dammi un po' di denaro. Mi metto subito all'opera per far sì che tuo figlio ritorni.

La prostituta, dopo aver ricevuto del denaro, andò a Goungiame, dove si mise subito alla ricerca di Oceano di Bellezza. Essa venne a sapere che, ogni giorno, Oceano di Bellezza mendicava lungo la via principale. Oncioli affittò una casa. Il giorno dopo, di buon mattino, si mise in faccende per preparare il riso con il curry. Allorché Oceano di Bellezza venne a mendicare alla sua porta, Oncioli gli offrì il pasto già pronto.

Passati alcuni giorni, Oncioli disse ad Oceano di Bellezza:

- Signore, accomodati nella veranda e mangia in santa pace questo riso.

Oceano di Bellezza mangiò con grande soddisfazione.

Lasciato passare un altro giorno, Oncioli chiamò i ragazzi vicini di casa ed offrì loro vari tipi di dolciumi. Poi, con voce suasiva disse loro:

- Quando vedrete arrivare in casa mia il monaco per prendere l'elemosina, voi cominciate a buttare per aria la polvere ed a gridare, io vi dirò di non sollevare la polvere; voi però non darete retta alle mie parole.

Il giorno seguente il mendicante Oceano di Bellezza ricomparve. Oncioli gli disse:

- Signore, i ragazzi di questo rione hanno il vizio di buttar per aria la polvere. lo ho fatto di tutto perché la smettano, invece fanno i sordi. Sarà meglio che tu venga dentro per prenderti il cibo.

Il mendicante accettò l'invito.

Il giorno successivo, appena giunse il mendicante, essa lo fece accomodare dentro la stanza. Poi uscì fuori, e parlò ai bambini:

- Adesso gridate per un bel po'. lo vi dirò di smettere, ma voi non date retta alle mie parole.

Secondo l'ordine di Oncioli, i bambini del rione cominciarono a fare schiamazzi. Allora Oncioli si rivolse al mendicante Oceano di Bellezza:

- Signore, qui il baccano è insopportabile. I ragazzi del vicinato si sono scatenati a gridare. Sapessi quante volte li ho sgridati, ma non c'è verso di farmi ascoltare. Forse è meglio che tu salga al piano superiore da dove si sentirà un po' meno tutto questo fracasso. Lassù potrai riposare confortevolmente.

Il monaco accettò la proposta.

Oncioli accompagnò il mendicante in una stanza, su fino al settimo piano. Il monaco si sedette sopra un bel letto con un grande baldacchino e la donna prese posto vicino a lui.

Mentre il monaco le era accanto, essa cominciò a sbadigliare. Ad un certo momento cominciò ad aggiustarsi il bordo del sari. Poi si mise in ordine i bottoni del giubbetto.

Intanto Oceano di Bellezza, senza mostrare la minima reazione, se ne stava seduto quieto. Vedendolo del tutto indifferente, Oncioli passò all'attacco:

- Signore, dopo tutto tu sei un bel giovane ed io sono una bella ragazza. È nella natura della gioventù divertirsi, mentre è nella natura della vecchiaia dedicarsi alla vita ascetica. Suvvia, formiamo insieme una bella famiglia. Quando saremo anziani faremo una vita da monaci.

Al sentire la proposta di Oncioli, Oceano di Bellezza si rese conto della situazione. Pensò tra sé: « Guarda un po' dove mai sono caduto. Che peccato ho mai compiuto! ». Ad Oceano di Bellezza vennero subito in mente le parole del suo Maestro:

« Nella passione c'è il peccato, e nel peccato c'è la morte ».

Proprio in quell'istante, lontano quaranta miglia, Buddha l'Illuminato si trovava seduto, circondato dai suoi discepoli. Improvvisamente egli scoppiò a ridere. Nel vederlo ridere, il discepolo Anondo gli chiese:

- Maestro, perché ridi?

Buddha l'Illuminato rispose:

- In questo istante vedo il discepolo Oceano di Bellezza che sta lottando per il suo ideale con una prostituta. Il discepolo Anondo gli chiese:

- Maestro, in questa lotta chi ne uscirà vincitore?

Buddha l'Illuminato fece un piccolo sorriso.

Il giorno dopo, mentre Buddha l'Illuminato si trovava con i suoi discepoli, si presentò Oceano di Bellezza a toccargli la polvere dei piedi.

Il discepolo Anondo teneva gli occhi rivolti al Buddha.

Il Buddha fece un piccolo sorriso.

La prova della fede

C'erano tre poveretti che appartenevano al clan di Boni lsrael. Uno di essi era malato di lebbra: tutto il suo corpo era una piaga da cui uscivano continuamente pus e sangue. Tormentato dalla sua malattia, non trovava pace nè di giorno né di notte.

In quella località viveva un tale che era calvo. Sulla sua testa non c'era neppure un capello; e per di più era anche senza barba, senza baffi e senza sopracciglia. Egli era lo zimbello di tutti. Ché cosa non diceva la gente di lui! Quando usciva per strada i bambini gli facevano le boccacce e qualcuno non esitava a lanciargli dei sassi.

Accanto alla casa di costui viveva un cieco. Egli era venuto a sapere qualcosa delle bellezze di questo mondo solo dalla bocca degli altri. Con i suoi occhi non poteva godere nessuna cosa meravigliosa. Era talmente depresso che se ne stava quasi sempre nell'angolo di una stanza. Se non avesse trovato l'aiuto di qualcuno non si arrischiava minimamente di muoversi.

Allah volle mettere alla prova la fede di questi poveretti. Per questo egli inviò dal cielo un angelo. L'angelo si presentò in veste di darvishio in casa del lebbroso, e gli disse:

- Vedo che il tuo corpo è tutta una piaga. Le mosche ti assalgono da tutte le parti. Di sicuro devi soffrire molto.

- Cosa posso dirti? - spiegò quell'uomo -. Certo che sto male. Finché camperò in questo mondo dovrò patire le pene dell'inferno. Preferirei mille volte la morte.

Il darvishio gli chiese:

- Dunque, che cosa vorresti per essere felice? Danaro, proprietà o qualche cosa d'altro?

Il lebbroso rispose:

- Dimmi un po' tu cosa me ne farei di queste ricchezze. Chi è tutto una piaga e che per il ribrezzo viene tenuto lontano da tutti, credi che potrà essere felice col denaro? È impossibile!

Il darvishio continuò:

- lo ho voluto solo rendermi conto quale fosse la tua più profonda aspirazione. Dunque tu vorresti un bel corpo ed una pelle pulita?

- Hai proprio indovinato - rispose l'uomo, esultante -. A parte ciò, che cosa potrei chiedere?

Il darvishio ripeté:

- Va bene, ti sia fatto!

Dicendo ciò gli passò delicatamente una mano sopra il corpo. In un istante le piaghe del suo corpo si rimarginarono ed il suo aspetto divenne come quello di un bel giovane. Nel constatare ciò, i suoi occhi ed il volto brillarono di gioia.

Il darvishio pensò: " Quest'uomo è stato guarito dalla sua malattia, ma adesso come può tirare avanti la sua famiglia? Bisogna provvedere a questo ". Perciò gli chiese ancora:

- Dimmi che cosa preferiresti avere.

- Per favore - rispose l'uomo - dammi una cammella incinta.

Il darvishio gli diede una bella cammella incinta, e gli parlò:

- Alleva con cura questa cammella. Essa potrà darti altri cammelli che ti permetteranno di vivere.

Dicendo ciò, se ne andò.

Anche il povero calvo passava i suoi giorni nel dolore. Ormai non sopportava più di essere preso in giro dalla gente. Egli provava una tremenda invidia quando guardava la testa degli altri che pareva un cespuglio con bei capelli neri. Per non dire dell'invidia che provava nell'osservare la barba ed i baffi del prossimo.

Il darvishio venne pure da lui, e gli disse:

- Nel vederti senza capelli e senza barba certamente non ti senti a tuo agio e ti rattristi.

- Occorre dirlo? - quegli rispose -. Ouando vado per strada muoio dalla vergogna. La gente che mi osserva mi ride dietro.

Il darvishio, andandogli più vicino, concluse:

- Va bene, fratello, non avrai più motivo di rammaricarti. Io ti libererò dal tuo cruccio.

Dicendo così, il darvishio passò delicatamente la mano sulla sua testa e subito spuntò un bel cespuglio di capelli neri.

Nel vedersi così trasformato, quell'uomo si sentì invaso da una gioia incontenibile. Tutta la scontentezza e l'acredine che si teneva dentro se n'erano andate. Il darvishio gli chiese:

- Ora vorrai anche qualche cosa?

- Vorrei una mucca - l'uomo rispose.

Il darvishio, dopo avergli lasciato una mucca incinta, se ne andò anche di lì. La mucca avrebbe costituito per quell'uomo un buon mezzo di sussistenza.

Al bordo della strada, seduto sotto una pianta se ne stava un cieco che chiedeva l'elemosina. Intanto si era fatta sera. Alcuni passanti gli avevano buttato una decina di poisa. In quel momento gli si fece dinanzi il darvishio, e gli chiese:

- Amico, ce la fai a mantenerti solo mendicando?

- Qualche giorno sì, e qualche giorno no - rispose -. Ma anche se non riesco, che cos'altro mi resta da fare? Ho mani e piedi a posto, abilità di lavorare, ma ho gli occhi che non mi giovano a nulla. Non posso andare in nessun luogo. Che cos'altro potrei fare per guadagnarmi un po' di soldi?

Il darvishio soggiunse:

- Se riacquistassi la vista, saresti felice?

- Quale fortuna più grande potrei avere - rispose l'uomo -, mio caro signore?

Il darvishio passò lentamente la mano sopra gli occhi del cieco e questi guarirono. Ora ci vedeva benissimo. Il darvishio poi gli chiese:

- Dimmi un po': che cosa preferisci avere?

- Una capra - rispose l'uomo.

Il darvishio, dopo avergli consegnato una capra bella e florida, lo lasciò.

Passarono alcuni anni. Per ordine di Allah, quell'angelo fece di nuovo ritorno sulla terra, questa volta sotto le semplici spoglie di un mendicante. Dapprima egli si presentò alla casa dell'ex lebbroso. Qui vide molti cammelli ed una grande varietà di animali domestici. Adesso l'ex lebbroso era diventato un personaggio ragguardevole in seno alla sua comunità. Il messaggero gli rivolse la parola:

- lo sono un povero mendicante. Tu, per misericordia di Allah, sei diventato ricco. Non sei forse colui che una volta era lebbroso? Vienimi incontro con un po' di denaro.

- Che cosa vai blaterando? - rispose quell'uomo -. Perché dovrei essere stato lebbroso? Che cosa dici poi delle mie ricchezze? È tutta roba che ho ricevuto in eredità.

Il messaggero Io interruppe:

- Mi sono reso conto che tu non sei per nulla riconoscente ad Allah. Una volta il tuo corpo era tutto una piaga e da tutte le parti ti assalivano le mosche. Tu eri un poveraccio che viveva d'elemosina. Ora dunque la maledizione di Allah scenda su di te. Per il resto dei tuoi giorni tu rimarrai lebbroso, come eri prima.

Il mendicante riprese il suo cammino, finché giunse alla casa di colui che era stato calvo. A costui egli disse:

- Ho girato invano di villaggio in villaggio. Non ho un becco di un quattrino. Almemo tu dammi un po' d'aiuto.

Ma anche quest'uomo aveva ormai dimenticato la sua condizione di un tempo. Non solo si era dimenticato del miracoloso cambiamento avvenuto nella sua situazione economica e nel suo aspetto fisico, ma si era dimenticato anche dì Allah. Infastidito dalle parole del mendicante, lo aveva cacciato via. Mentre si allontanava, questi lo apostrofò:

- Ingrato! La maledizione di Allah scenda sopra di te!

Alla fine il mendicante andò in casa dell'ex cieco. Egli era una persona veramente felice. Anche economicamente parlando stava bene. Non aveva alcuna preoccupazione per la sua famiglia. Il messaggero in veste di mendicante gli disse:

- Vengo da un lungo viaggio e mi sento sfinito. Sono due giorni che non mangio. Non ho niente. Per favore dammi ospitalità ed un po' di cibo.

Nel sentire la sua lacrimevole condizione, quell'uomo fu mosso a pietà. Lo accolse in casa, si prodigò a servirlo e gli offrì dell'ottimo cibo. lì giorno dopo il mendicante gli chiese:

- Dammi in carità una capra.

Nel sentire quella richiesta, l'uomo rispose:

- Guarda, puoi prendere tutto ciò che ti occorre. Devi sapere che io ero cieco. Per la gloria di Allah ho riacquistato la vista. Ouello che qui puoi vedere è tutto dono della sua misericordia infinita.

Davanti ad un discorso del genere, il mendicante si mostrò lieto. Poi, manifestandosi come darvishio, spiegò:

- lo sono un angelo. Per comando di Allah mi sono presentato nelle vesti di un darvishio per dare la guarigione a tre persone. Allah vi ha fatto felici tutti e tre. Per mettere alla prova la vostra fede, questa volta invece sono apparso in veste di mendicante. Purtroppo gli altri si sono rivelati ingrati, incapaci di riconoscere il bene ricevuto e perfino falsi. Essi non credono in Allah e si sono dimenticati della sua misericordia infinita. Per questo Allah non si è compiaciuto di loro e li ha privati della loro salute e di tutte le loro ricchezze. Tu invece sei un vero uomo di Allah. Tu hai fede in lui e non hai dimenticato l'ammonimento della sua infinita misericordia. Allah ti renderà ancora più felice e ricco.

Dicendo così, egli disparve.

L'uomo, chiudendo gli occhi: esclamò:

- Allah, abbi misericordia del tuo servo. Rendi stabile per sempre la mia fede in te!