Voci dal Bangladesh - 2002

p. Silvano Garello


Voci dal Bangladesh - 2002


Una Chiesa, due cuori

Da 50 anni i Saveriani in Bangladesh

Dhaka - 2002

Una sintesi dei 50 anni guardando al futuro

Da cinquant’anni i missionari saveriani operano in Bangladesh. I saveriani erano stati preceduti dai gesuiti, salesiani e missionari del Pime per l’attività di evangelizzazione nella vasta zona a sud-ovest del paese che allora si chiamava Pakistan Orientale. I cristiani erano 4.000; ora sono 28.000. Ma i missionari sono per tutti: la loro vita si intreccia con la vita di milioni di musulmani e di hindu. Con l’arrivo dei saveriani inizia la storia della diocesi missionaria di Khulna: "una diocesi con due cuori", spiega p. Silvano Garello, saveriano in Bangladesh e affermato scrittore.

Un cuore storico e un cuore amministrativo

Il cuore storico della diocesi è Jessore (70 chilometri a nord di Khulna), che ha accolto il pioniere della missione nel lontano 1855, mons. Antonio Marietti del Pime, e ne custodisce la tomba. Dal 1864, vi lavorano anche le suore di Maria Bambina. Qui sono arrivati i primi saveriani, per poi dirigersi in tutte le direzioni. A Jessore è sorto il centro catechistico nazionale, che prepara i leaders della comunità cristiana bengalese, iniziato da p. Marino Rigon e completato da p. Marcello Storgato. Nel mezzo di un giardino, la grotta costruita da fratel Leonardo Scalet con la Madonna di Lourdes che sembra guardare verso la prima casa religiosa saveriana, fatta costruire da p. Amatore Dagnino. Di fianco, sorge il Fatima Hospital, iniziato da fratel Lio Stocco e portato alla funzionalità attuale dal saveriano dottor Remo Bucari. Tra gli alberi, una grande croce segnala il luogo dove, durante la guerra di indipendenza, il pomeriggio della domenica delle Palme (4 aprile 1971), p. Mario Veronesi e altri sette cristiani furono fucilati da soldati pakistani.

Khulna rappresenta il centro direzionale, con la cattedrale dedicata a san Giuseppe, la casa vescovile, dove risiede il secondo vescovo della diocesi mons. Michael D’Rosario, due grandi parrocchie, la casa religiosa e il noviziato dei saveriani, la scuola tecnica, che prepara centinaia di giovani al lavoro. A Khulna risiedono ed operano anche altre comunità religiose: le suore Luigine, le suore e i fratelli di Madre Teresa, le missionarie del PIME, le suore del Movimento De Foucauld, la comunità benedettina di p. Carlo Rubini. E poi ci sono le grandi scuole di vario grado, la casa che accoglie i ragazzi di strada, la Caritas, la San Vincenzo, i centri di artigianato, le cooperative sociali...

Una breve sosta per riprendere il cammino

Il giubileo dei 50 anni di presenza è un’occasione per riflettere sulla nostra identità missionaria in questa terra del Bengala. Il contributo dei saveriani nell’evangelizzazione, nella produzione di letteratura cristiana e di strumenti per la catechesi e promozione umana, nel dialogo interreligioso e in nuove forme di presenza tra i non cristiani, è stato un contributo significativo e stimolante per tutta la chiesa del Bangladesh. Oltre alla diocesi di Khulna, i saveriani oggi operano anche nelle diocesi di Dhaka, Mymensingh e Chittagong (quattro delle sei diocesi in Bangladesh).

Dopo 50 anni di missione, sentiamo il bisogno di ringraziare Dio perché ci ha scelti per testimoniare il suo Regno in Bangladesh. Ma le stesse nostre opere ci invitano ad una revisione. Comprendiamo meglio, ora, la necessità di esprimere, nel nostro lavoro, un maggiore equilibrio tra azione e preghiera, tra dialogo e annuncio, tra sostegno economico e dignitosa autosufficienza, tra cura pastorale e urgenza missionaria. Soprattutto i laici guardano a noi con il desiderio di instaurare una collaborazione più intensa nell’attività missionaria, nei campi della spiritualità, dello sviluppo umano, della cultura e del dialogo.

Non esiste per noi il pericolo di restare disoccupati. In modo diverso dagli inizi, siamo chiamati ad essere i pionieri del terzo millennio, che intravedono in Asia il campo privilegiato

dell’azione missionaria della chiesa intera. Con la preghiera, chiediamo di poter godere della grazia di una nuova Pentecoste.

Eredi del passato e germi del futuro

Siamo eredi del passato e germi del futuro. Non possiamo dimenticarlo. Abbiamo fatto un lungo cammino, con tanti compagni di strada. Il senso del passato lo ritroviamo nelle storie di vita e nei cuori delle persone, molto più che nello opere compiute o nei monumenti di pietra.

Guardando la nostra storia, con i dati alla mano, possiamo ricordare che in questi cinquanta anni (1952-2002), hanno lavorato in Bangladesh 110 saveriani (98 sacerdoti e 12 fratelli) provenienti da varie nazioni: 91 italiani, 9 Messicani, 3 britannici, 3 spagnoli, 2 indonesiani, 1 statunitense, 1 brasiliano.

Ventisette sono i nostri defunti. Tra loro: l’uomo di Dio p. Veronesi; il tecnico dei pozzi p. Valeriano; il padre dei muci p. Serafino; l’apostolo dei Mandi p. Tonino; l’esploratore di vie nuove p. Sebastiano; la tigre della foresta p. F. Tomaselli... E’ misterioso per noi pensare che per molti di loro la vita si è conclusa presto, alla soglia dei 50 anni; per p. Marco Mattiazzi, travolto da un camion della polizia, a soli 30 anni! Sembra quasi che il Signore voglia toglierci le forze migliori, quando più grande è il bisogno.

Ma ecco che i primi giovani bengalesi rispondono alla chiamata missionaria entrando a far parte della famiglia saveriana. Uno studia teologia a Manila; tre hanno fatto la professione religiosa il 26 luglio scorso e continueranno gli studi in Italia e in Ciad (Africa). La chiesa nata 50 anni fa è cresciuta tanto da inviare i suoi figli ad annunciare il vangelo in altre nazioni. Il seme muore per portare frutti.

Sette saveriani sono sepolti in Bangladesh:

Benito Rota, Mario Chiofi, Mario Veronesi, Valeriano Cobbe, Tonino Decembrino, Sebastiano Tedesco, Rinaldo Nava

Evangelizzazione attraverso la stampa

Dhaka - 16 aprile 2002

Animazione missionaria della Chiesa locale e dialogo-annuncio nel mondo della cultura e delle religioni in Bangladesh

l. 1) Una realta' che interpella, ossia il contesto e le ragioni di un servizio missionario

Come missionario saveriano in Bangladesh mi sento al servizio della chiesa locale, che ha fatto proprie certe prioprita' pastorali (cfr. ultima lettera pastorale, 2002). Ma per fare che cosa? Ogni forma di apostolato missionario deve tenere conto di un preciso contesto umano in cui la chiesa si trova e del messsaggio che essa deve annunciare.Evangelizzare e' quell'attivita' per cui il Vangelo e' proclamato e spiegato, mediante la quale si risveglia la fede nei non cristiani e si alimenta la fede dei cristiani (cfr. Sinodo 1974).

Nel mio lavoro vedo queste due esigenze: sostenere e vivificare la testimonianza missionaria della comunita' cristiana aiutandola a scoprire la propria identita' e le proprie possibilita' di evangelizzazione. Questo lavoro naturalmente non va fatto dall'esterno ma interagendo con la comunita' stessa. L'altra esigenza e' quella di inserirmi nel mondo della cultura e delle tradizioni religiose del Bangladesh, cercando di fare insieme un cammino di reciproco ascolto, di tolleranza, di collaborazione, ossia di vivere il cosiddetto "spirito di Assisi".

Qui vorrei condividere cio' che ho imparato lavorando con la gente e non semplicemente cio' che e' frutto della mia ricerca e del mio gusto personale. Le mie proposte nascono dai suggerimenti che ricevo parlando con persone ordinarie e con coloro che hanno un certo interesse pastorale e missionario.

2) Alcune modalita' concrete del mio servizio missionario attraverso la stampa:

a) INSEGNARE A PREGARE MISSIONARIAMENTE: Rinnovare le forme della pieta' popolare con lo spirito missionario. Sto preparando dei sussidi che prendono in considazione queste due forme:

- il Rosario Missionario

- l'Adorazione Eucaristica missionaria

b) INSEGNARE A LEGGERE LA STORIA CON SGUARDO MISSIONARIO

Collaborazione con il Training Centre di Jessore che quest'anno concentra la sua attenzione, attraverso MONGOLBARTA , sulla storia della Chiesa. Il mio lavoro:

- evidenziare fatti, figure e metodi nella storia delle missioni

- insegnare a leggere il presente con occhi missionari

- Vita di s. Francesco Saverio

C) c) INSEGNARE A DIALOGARE ( COME SCAMBIO DI DARE E RICEVERE) con la cultura e le religioni del Bangladesh :

- Presentazione di Cristo specialmente ai musulmani: "Vita di Cristo" di Daniel Rops

- Presentazione di Cristo agli indu': " Vita di Cristo " di sr. Vandana

- Raccolta delle domande interreligiose e tentativi di risposte - in collaborazione con bro. Erick, Taize' .

- attingere alla spiritualita' dei non cristiani - in collaborazione con p. Marino Rigon, 10 temi di spiritualita' di R.Tagore

d) INSEGNARE AD APPROFONDIRE ALCUNI NUCLEI FONDAMENTALI DELLA VITA CRISTIANA :

- La vita cristiana, negli scritti del card. Newman

- Maria modello del discepolo ( revisione completa e approfondimento di un libro esaurito);

- Il messaggio di s. Paolo, meditazioni sui grandi tempi della vita cristiana e sulla sua ispirazione missionaria;

- Laici cristiani antichi e moderni ( 10 figure);

- Santi e beati dell'Asia

- Per i bambini: comprendere l'Eucarestia, il messaggio del Papa ai bambini

- Via della Luce, a complemento della via della Croce

- Formazione del cuore, spunti per i giovani

e) COLLEGAMENTI E COLLABORAZIONI

- Nel mio lavoro ordinario sono aiutato da mr.Sukhen e da alcune altre persone che hanno un certo interesse e competenza nello scrivere;

- All'esterno cerco di tenere dei contatti con giornalisti, scrittori, pittori e con il Bissho Sahitto kendro;

- Sono entrato a fare parte della commissione catechistica di Dhaka e lavoro con il gruppo che dovrebbe preparare i nuovi catechismi; mi presto a presentare il Nuovo catechismo e ad approfondire alcune tematiche;Insegno Catechismo ai nostri giovani aspiranti missionari saveriani;

- Come ministero ordinario sono collegato con la chiesa di s. Cristina e con la sottoparrocchia di Mirpur dirette dal PIME; mi presto per ritiri spirituali presso il Bethany Ashram.

Le regole della corsa missionaria

Dhaka - 13 agosto 2002

(ALLA LUCE DELLA RATIO MISSIONIS XAVERIANA)

S.Paolo, descrivendo il suo apostolato missionario, si esprime così:"Siano rese grazie a Dio, il quale ci fa partecipare al suo trionfo in Cristo e diffonde per mezzo nostro il profumo della sua conoscenza nel mondo intero" (2Cor.2,14). E subito dopo egli si chiede:"E chi è mai all'altezza di questo compito?' (2 Cor.2,16). In un altro passo s. Paolo, parla della vita cristiana come di una corsa (cfr. 1 Cor. 9,24), e sottolinea "che anche nelle gare atletiche, non riceve la corona se non chi ha lottato secondo le regole" ( cfr. 2 Tim.2,5 ).

La missione è una corsa con le sue proprie regole, che uno non può darsi da solo.Pensando a ciò, talvolta mi chiedo:"Sto forse correndo per conto mio? Sto dandomi un ideale missionario secondo la mia misura? "

Il cardinale Newman, commentando s. Paolo, scrive: "Non hanno alcun diritto del premio coloro che corrono per proprio conto, quando vogliono; o,sotto altri aspetti, a propria soddisfazione. Si fabbricano una religione tutta loro e hanno un'idea personale di quello che un

cristiano dovrebbe essere. E, qualora raggiungano quell'ideale di comportamento e di verità che si sono costruiti, non lo superano mai. Non si può mai dire di loro che "hanno terminato la corsa" (cfr. 2 Tim.4,7) perché, in verità, non l'hanno neppure cominciata. Oppure vi si avviano, ma poi svoltano in un'altra direzione sbagliando percorso. "Correvate così bene, dice s. Paolo ai Galati, e chi vi ha tagliato la strada, sì che non obbediate più alla verità?" ( Gal.5,7 ) (cfr. Sermons Bearing on Subjects of the Day, pp. 275-288).

Le parole di s. Paolo e lo stesso commento del card. Newman non le vedo come un monito "terroristico" nei riguardi della vocazione cristiana e missionaria, ma piuttosto come un invito a considerarne l'altissimo valore. Le espressioni "essere all'altezza" e "seguire le regole della corsa" mi parlano di un dono che mi impegna a tenermi sempre sotto lo sguardo di Colui che mi ha chiamato a dare una prova di fedeltà nell'amore. Per questo considero la RMX come un utile strumento di verifica e di animazione della mia fedeltà di missionario saveriano. Non vorrei cercare in essa ciò che basta per tranquillizzarmi sul minimo da raggiungere, ma piuttosto vorrei sentire in essa una proposta creativa che mi aiuti ad alzare il livello qualitativo di risposta alla mia chiamata missionaria ed a concentrarmi sulle "regole della corsa missionaria" nel contesto del Bangladesh.

Questo mio contributo di riflessione,offerto in stile narrativo, potrebbe essere riassunto in pochi slogans, quasi in pastiglie. Ma l'esperienza mi dice che è più difficile trangugiare una pastiglia che un passato di verdura. Rileggendomi, mi sono reso conto che almeno qualche lettore si troverà deluso nelle sue aspettative. Gli è che, forse, tra noi saveriani, circolano poche domande. Perciò leggendo quello che per me può essere interessante, qualcuno si troverà nella situazione di chi, leggendo le relazioni capitolari, si chiede:"Ora mi piacerebbe anche sapere quali sono state le domande rivolte al relatore". Ma i rapporti che riguardano i capitoli su questo ci lasciano con "i nostri" punti interrogativi.

Il cammino della riflessione e due premesse

La mia prima osservazione sulla RMX è semplice: questo distillato di riflessione e di esperienza missionaria verrebbe tradito alla radice se restasse fossilizzato in un documento. Non è sufficiente dedicarvi una pia lettura spirituale personale. Qualche frutto sarà ottenuto quando le varie comunità si confronteranno con essa per ripensare insieme la missione e per cercare, all'occorrenza, nuovi stili di vita e forme rinnovate di apostolato missionario. In tutti i casi, il miracolo non nascerà dalla RMX in se stessa, bensì dallo sforzo di ascoltarla insieme come contributo di tanti confratelli che l'hanno presa sul serio, come a dire, come qualcosa di più che una esercitazione di missiologia.

Tra i tanti stimoli della RMX vorrei sottolineare questi: 1) il coraggio del primo annuncio continuamente interiorizzato ed offerto in modo inculturato nello stile del dialogo; 2) la testimonianza di vita evangelica del missionario; 3)il rinnovamento della comunità religiosa alla luce della priorità missionaria; 4) il dialogo con la chiesa locale sul tema del nostro carisma specifico; 5) l'animazione e la formazione missionaria nella chiesa locale.

So che è facile dare consigli "disimpegnati", mettere in evidenza le cose che non vanno, come anche lasciare dormire le situazioni, piuttosto che coinvolgersi generosamente nel rinnovamento della missione.

All'inizio, vorrei richiamare due atteggiamenti che potrebbero essere considerati come preliminari alla revisione della nostra attività missionaria.

Il primo riguarda la presa di coscienza delle tensioni che accompagnano la nostra vita missionaria e dunque anche in Bangladesh. Si può vederle come tensioni apparenti o reali, ma bisogna pure fare i conti con esse. Per esempio: la tensione tra la vita comunitaria e l'iniziativa missionaria esterna; tra l'appartenenza alla chiesa locale e la fedeltà alla dimensione universale del nostro carisma (cfr.RMX,3); tra la continuità e la provvisorietà della nostra presenza (cfr. RMX,3); tra la fedeltà al passato e il discernimento dei segni dei tempi; tra il lasciarsi evangelizzare, ossia convertirsi e il proporre il Vangelo agli altri (cfr.RMX,9); tra il fermarsi su campi di lavoro precostituiti e cercare nuovi campi e nuove frontiere del lavoro missionario; tra il lanciarsi da soli e l'accettare di muoversi missionariamente con la chiesa locale (RMX, 19); tra una disponibilità generica al servizio e il convergere alla missione tutte le nostre attività (cfr.RMX,13); tra la contemplazione e l'azione; tra la differenziazione dei servizi e il coordinamento della varie attività; tra la disponibilità a stare in una stessa missione e la disponibilità a cambiare.

Prendendo atto di queste e di altre tensioni, siamo invitati ad accettare la complessità della missione stessa e di metterci in dialogo con i molteplici interlocutori che quotidianamente ci incoraggiano ma anche ci sfidano circa il nostro modo di fare missione.

L'altra premessa si riferisce ad un atteggiamento positivo di base, e cioè quello di cercare, nonostante tutto, nel paese e nella chiesa dei segni di speranza. Già il Papa Giovanni Paolo II, in preparazione del Giubileo del 2000, aveva invitato la chiesa a cogliere, valorizzare e approfondire i segni di speranza in campo civile ed ecclesiale. In Bangladesh e anche nella chiesa, le emergenze dettano legge, per cui si tende a dare poca importanza ad una lettura positiva della propria storia. È giusto che nei piani pastorali si parli di "guarigione" delle proprie infermità. Ma è solo l'atteggiamento di speranza che offre un senso di direzione all'esistenza e offre " motivazioni solide e profonde per l'impegno quotidiano nella trasformazione della realtà per renderla conforme al progetto di Dio" (cfr. TMI, 46).

Il poeta R.Tagore vedeva come causa della stagnazione sociale la "mancanza di speranza". Egli notava che "una società costretta ad esaurire tutte le proprie forze per difendersi, non riesce facilmente a evolversi" ('Società e Stato', 1904). Ora in Bangladesh, per molti giovani la prospettiva ragionevole per sopravvivere si chiama 'fuga dal paese. Ma mettersi in salvo non è ancora salvarsi insieme. Anche qualche saveriano sostiene come 'ragionevole che sia necessario ridurre il personale, dato che non ci sarebbe gran che da fare. Ma come si può lavorare per il Regno di Dio senza una prospettiva di speranza? Quali sono le linee della speranza abramitica in una terra come il Bangladesh?

La RMX al n.5 ci invita a rilanciare la missione discernendo i segni dei tempi. In Bangladesh la ricerca della dignità umana, della giustizia sociale e di una spiritualità che non sia di fuga dalla realtà sono altrettanti segni di speranza che interpellano tutti gli uomini di buona volontà e perciò anche la chiesa. Anche recentemente, in un articolo di fondo del quotidiano bengalese 'Jonokontho', un intellettuale sottolineava che la malattia che ora blocca il paese si chiama 'apatia', ossia una sfiducia diffusa circa la possibilità di trovare sbocchi positivi ad una situazione di povertà cronica, di corruzione e di violenza. Ormai, come la parola pace, anche la parola speranza non può più avere un contenuto intimistico e legato ad un gruppo particolare. La chiesa, anche per l'efficacia stessa della sua presenza, deve stringere un'alleanza con tutti coloro che riescono a vedere attorno a sé segni di speranza ed offrono ragioni di speranza.

1. Il coraggio del primo annuncio continuamente interiorizzato e offerto in modo inculturato nello spirito del dialogo

Se il nostro unico e comune obiettivo è quello di fare conoscere e far amare il Vangelo di Gesù Cristo, che rimane la perla più preziosa che possiamo offrire, ne consegue che la nostra presenza in Bangladesh va vista non solo come un'occasione provvidenziale di proporre il Vangelo, ma prima di tutto come una sfida a conoscerlo meglio ed a viverlo personalmente.

La RMX (cfr.n.55-56) opportunamente ci richiama che il primo annuncio esplicito "nasce da una esperienza di fede radicata nella contemplazione del Signore Crocefisso e tende a suscitare negli altri la stessa fede e lo stesso incontro". Subito dopo viene detto che bisogna "adeguare la vita personale e comunitaria a ciò che si predica", e non viceversa. Gli asiatici sono abbastanza smaliziati per scoprire se dietro le nostre parole ci sia o no un'esperienza spirituale che ci preme, così da essere il vero centro di interesse della nostra vita. Questo essere "scrutati" non deve farci paura, anzi deve suscitare in noi riconoscenza, perché da una parte esprime il desiderio che gli altri hanno del Vangelo e dall'altra può aiutarci nella fedeltà alla nostra vocazione missionaria.

Parlare di esperienza di Gesù e del Vangelo significa parlare di una spiritualità in costruzione permanente. Sul nostro visto bengalese ora viene posta la sigla "M", che significa "missionario".Ma questa sigla non può bastare a darci le nostre vere credenziali.

La creatività nell'annuncio nasce dal cuore e dalla mente.Solo ciò che ci fa vibrare, può far vibrare gli altri. Il "missionario", pur con la sigla "M," non entra in Bangladesh bello e fatto. Ecco perché sono interessato a diventare cristiano e missionario, ed accetto in me domande come queste: come posso scoprire il Gesù missionario da amare e da imitare?

Per essere migliore missionario, come dovrei meditare ogni giorno il Vangelo? Come posso dispormi all'attenzione e alla simpatia verso coloro che, vivendo con sincerità secondo i dettami della loro religione, si sentono attratti all'incontro con Cristo? Come scoprire concretamente nelle persone la "porta aperta" dallo Spirito Santo al Vangelo? (cfr.RMX,42). C'è

un modo missionario di pregare e di celebrare l'Eucarestia? Come posso incontrare il Cristo sofferente e glorioso nelle persone con le quali vengo in contatto? Posso andare dai poveri senza essere povero?

E qui non posso sfuggire all'esigenza dell'annuncio gratuito del Vangelo (cfr.2 Cor.l 1,7). L'interpretazione onesta di essa non è solo quella di non pesare economicamente sugli altri, ma quella di mostrare in me stesso che il dono del Vangelo ricevuto gratuitamente è in sé stesso abbastanza potente da impedirmi di usare il denaro ed altri strumenti umani come stampelle o stratagemmi per carpire il consenso della fede. La scelta di Pietro davanti alla porta del tempio di Gerusalemme è stata quella delle mani vuote di denaro e del cuore pieno del potere di Cristo. In un paese povero come il Bangladesh, l'uso dei soldi rappresenta un dilemma che non ha soluzioni magistrali univoche.Ma c'è' pur sempre una verifica delle scelte che facciamo. Finiti i soldi, abbiamo ancora degli amici? Aiutiamo i più poveri o i più furbi? Senza soldi, riusciamo a dare qualcosa di significativo che tocca il cuore della gente? Se nutriamo i corpi,riusciamo anche ad offrire il cibo dell'anima? Attorno a noi cresce il numero dei parassiti e dei clienti o il numero delle persone responsabili? Il nostro dare ci lascia liberi e rende liberi?

Suona strano che nei nostri incontri comunitari il tema dei soldi e dei progetti di sviluppo abbia una così larga parte, mentre le problematiche della evangelizzazione, dei contenuti essenziali da proporre, delle forme e dei metodi dell'annuncio abbiamo uno spazio così ridotto. Se lo si presuppone, forse significa che la cosa non ci preme più di tanto. S.Paolo è andato a Gerusalemme per "confrontare" il suo Vangelo con quello di Pietro. Ma non sarà che egli abbia esaurito in proposito tutte le legittime domande dell'evangelizzatore.

La chiesa in Bangladesh, fin dal suo primo piano pastorale del 1985, ha scelto tra le sue priorità l'inculturazione, come attenzione più viva alla cultura ed al modo di vivere e di esprimersi della gente per veicolare il messaggio cristiano.

Sulla scia del sogno del padre della patria Mujibur Rahman, che voleva ricreare il 'bengala dorato', anche la chiesa aveva sognato nuovi spazi di libertà nell'ambito dello stato secolare. Ma la proclamazione dello stato islamico ha ora reso più difficile la possibilità di esprimere, non dico una cultura cristiana, ma anche di riconciliarsi con le molte anime inscritte nella storia bengalese. Il buddhismo (44 - 700 d.C.) aveva portato in questa terra il senso della tolleranza, del rispetto per la comune umanità e della resistenza contro la natura avversa. L'induismo (700 -1100 ) aveva riaffermato il sistema della caste, ma anche aveva sviluppato il desiderio del sapere ed aveva gettato i semi di una religione di tipo devozionale che apriva le porte anche agli intoccabili. L'islam (1202 - 1759 ) è entrato nel sub-continente indiano suscitando adesione a motivo dei suoi principi di eguaglianza e di fraternità, ma anche in forza del movimento sufi, che esprimeva una religione libera dalle gerarchie e più legata alla guida di uomini spirituali. I colonizzatori inglesi (1759 -1947) hanno presentato il volto organizzativo ed efficiente del cristianesimo, ma non sono riusciti ad esprimerne la carica mistica così da far vibrare l'anima religiosa del popolo. Il cristianesimo è apparso come religione dello straniero, se non proprio anche dell'oppressore. Il periodo pakistano (1947- 1971) ha acuito la sensazione che anche la fraternità religiosa può essere dimenticata da chi è dominato da mire semplicemente politiche e economiche. La guerra d'indipendenza del Bangladesh aveva coalizzato la maggior parte dei bengalesi in un ideale comune di libertà nazionale e di emancipazione economica. Ma ancora una volta la religione della maggioranza, strumentalizzata a fine politico, divenne per così dire complice della inadempienza delle promesse siglate dal sangue.

In questa situazione, la chiesa riuscì a raccogliere simpatie (e invidie) per il suo impegno sociale a favore di tutti, ma non riuscì a dire una parola forte, pertinente alla vita di una società in crisi di trasformazione. L'esplosione demografica, la corruzione, il fondamentalismo, il ruolo emergente della donna, il lavoro minorile, l'educazione ai valori, la libertà religiosa, il riconoscimento pieno della identità dei tribali sembrarono temi troppo grandi da essere affrontati nell'arena di un dibattito nazionale. Perciò anche la scelta della testimonianza silenziosa non ha giovato alla chiesa per prendere in seria considerazione il dialogo con la cultura in generale e la religione dominante in particolare. Indubbiamente la chiesa non può lasciarsi guidare semplicemente dalle leggi sociologiche. Ma anche queste leggi hanno una sapienza da non sottovalutare. Renata Kocher dice:" Un gruppo muto sembra più piccolo di quanto è realmente".

In Bangladesh le iniziative sporadiche di dialogo non sono mancate e continuano, ma il tono generale della comunità risente di un rassegnato pessimismo che fa dire: questo paese non è per i cristiani! Senza il senso della missione, in che modo s. Paolo avrebbe potuto puntare su Roma? Se si pensa che l'essere nati in un certo paese porti con sé un marchio di "disgrazia" più ancora che di missione, allora Gesù non avrebbe dovuto consegnare ai suoi apostoli la mappa completa del mondo, ma solo una selezione accurata dei luoghi nei quali sarebbe stato più facile vivere secondo il suo Vangelo. Ma è anche giusto che ogni popolo veda le proprie difficoltà nel vivere la fede. Tuttavia non possiamo dimenticare che anche in Bangladesh ci sono tante persone di buona volontà (è il gruppo del 7000 di cui Dio parla a Elia) sostenitrici della possibilità di fare il bene, della libertà religiosa, del riconoscimento delle varie culture (tra esse quelle tribali).Ma qualche volta viene chiedersi se questi 7000 siano deboli non a causa del loro numero, ma a causa della loro disunione. La disunione dei "buoni" è veramente un cancro devastatore. Basta guardare la società bengalese, come la chiesa stessa, frazionata in tanti gruppi eh, pur avendo il nome cristiano, danno a vedere che non stanno lavorando per lo stesso edificio. È più facile volere essere delle casupole che delle pietre poste nell'insieme del grande edificio. E così, in Bangladesh come altrove, la chiesa divisa diventa insignificante e contradditoria.

Dato che le voci pluralistiche delle culture e delle religioni in Bangladesh spesso vengono messe a tacere, la comunità cristiana, dove è abbastanza forte, impara più volentieri la lingua degli affari, ma non la lingua , la cultura e la religione degli altri. Anche questo isolamento non è benefico. Il bengalese sgrana gli occhi davanti alla ricchezza , ma apre il cuore davanti alla conoscenza, specialmente quella che si abbevera ecumenicamente a diversa fonti.

Da vari anni un gruppo di protestanti si è prefisso di fare conoscere la Bibbia usando un tipo di linguaggio accessibile ai musulmani.

Questa iniziativa da alcuni è stata giudicata come strumentalizzazione, ma altri la vedono come uno sforzo sincero per capire l'altro e farsi capire.

I cattolici non possono chiedere di vivere in un'isola felice, distaccati dagli altri. I nostri servizi sociali impiegano fondi enormi ed energie umane notevoli. Come risultato si può notare anche il diffondersi di un certo rispetto. Ma io credo che la chiesa debba ripensare il suo ministero culturale in vista della creazione di una più profonda comunione di spiriti sulla base di valori comuni ed in vista di una più efficace evangelizzazione. La chiesa ha qualcosa di essenziale da dire ai concittadini del Bangladesh, ma deve impararne la lingua, usare i mezzi di comunicazione, creare strutture di dialogo culturale. Basti pensare che della capitale Dhaka non c'è una libreria aperta al pubblico che si proponga come centro di documentazione sul cristianesimo e come luogo di scambio culturale. È più facile costruire edifici, talvolta anche utili, che trasmettere i tesori della tradizione spirituale della chiesa, non dico solo quella occidentale ma anche quella orientale. È penoso che gli asiatici finiscano col credere che la specializzazione della chiesa stia nelle sue opere, di misericordia certamente, ma anche di autodifesa e di autoglorifìcazione.

Ma qui non bastano i gemiti di un missionario. Occorre uno sforzo globale. "È dovere di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi, con l'aiuto dello Spirito Santo, di ascoltare attentamente, capire e interpretare i vari modi di parlare del nostro tempo, e di saperli giudicare alla luce della Parola di Dio, perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venire presentata in forma più adatta" (Gaudium et Spes,44/1461). In Bangladesh fino a che punto ci siamo fatti aiutare non solo dalla cultura indù, ma anche dalla cultura e dalla religione islamica? Quale vantaggio può venire all'inculturazione, se nel seminario teologico il messaggio cristiano, per lo più, viene veicolato non nella lingua madre, ma in inglese? L'inglese non può essere un passaggio obbligato per imparare ad essere cattolici. La cattolicità deve inserirsi ed assumere una cultura per potere riesprimere in essa il messaggio cristiano. L'inglese va certamente imparato, ma guai a privare il cuore bengalese della possibilità di essere toccato dallo Spirito, proprio attraverso le vibrazioni della sua lingua, e di comunicare con gioia ed efficacia attraverso di essa le mirabilia Dei. Il giovane studente di teologia che, durante la sua iniziazione, non è stato positivamente aiutato nello sforzo di inculturazione forse che potrà essere idoneo a fare una catechesi, una liturgia ed un primo annuncio veramente inculturati? E questo vale anche per le varie lingue tribali.

La nostra RMX parla del dialogo che "fonte di arricchimento comune". Una verifica sul dialogo che facciamo ci obbliga a chiederci: in che cosa ci sentiamo spiritualmente arricchiti per il fatto di lavorare come missionari in Bangladesh? È una grande grazia dello Spirito poter incontrare un vero interlocutore nel dialogo religioso. Ma anche qui il Vangelo ci apre uno spiraglio:Chi cerca, trova. C'è qualcuno che viene a chiederci di pregare con noi o di imparare a pregare? C'è chi viene da noi per ottenere una luce ulteriore sul Vangelo, al di fuori di quella che può ricevere attraverso un'omelia? Ci sono dei non cristiani che ci invitano ad intercedere per loro? Abbiamo sperimentato un cammino di catecumenato che ci coinvolga personalmente?

Ma qualcuno può obiettare: noi siamo stranieri e ospiti presso questo popolo: lasciamo quindi che sia la chiesa locale a muoversi. L'impazienza non è una virtù missionaria. Ma nemmeno una rassegnata sonnolenza, per cui ci impegniamo in compiti che ci tengono indaffarati e lasciamo che, nei dettagli spirituali, le cose restino così come sono. Ecco il difficile: non tanto dire che in questo campo non c'è' niente da fare o che questo lavoro tocca agli altri, ma riscoprirvi il proprio ruolo.

Mettendo un limite alle mie riflessioni, passo ora ad un punto successivo.

2. La testimonianza di vita evangelica del missionario

Il tema della testimonianza di vita evangelica del missionario ci mette con le spalle al muro. Se l'annuncio del Vangelo, l'inculturazione, il dialogo e l'attività di liberazione e promozione umana ci mostrano in qualche modo la complessità della vita missionaria, la testimonianza ci riporta alla semplicità di una verifica radicale. La RMX ci, dice che "la contemplazione del Cristo missionario del Padre ci suggerisce il modo concreto di vivere il Vangelo. Posso riconoscere che le giornate più povere di contemplazione mi lasciano indeciso anche su ciò che devo fare concretamente. Ma lasciar suonare inutilmente questo campanello significa entrare in una routine, magari di fatica ammirevole, ma anche di risultati deludenti. Solo l'esperienza dell'amore gratuito di Dio ci può lanciare in un tipo di vita diverso da quello del mondo. Senza di essa, siamo predicatori con la bocca secca. Non si tratta di salire sugli alberi per predicare, ma semplicemente di imparare a camminare per le città e i villaggi come Gesù che attraversava Gerico: la sua unione costante con il Padre gli insegnava dove posare lo sguardo e gli metteva in bocca le parole dell'invito della grazia. Meditando sui vari incontri di Gesù, come sono presentati dal Vangelo, mi sorprende sempre di più la naturalezza con cui si svolgono. Gesù sa sempre prendere l'atteggiamento giusto, sa cosa dire e come dirlo e, nel caso, sa anche tacere.

Indubbiamente non deve essere una mia preoccupazione andare dai poveri "mimando" Madre Teresa di Calcutta. Io vorrei imparare invece la naturalezza evangelica, che è lontana sia dall'esibizionismo che dalla paura. Come potrò assumere lo sguardo e il cuore di Gesù Cristo che, mosso dallo Spirito, fa sempre ciò che piace al Padre e suscita il consenso dei piccoli ai quali è svelato il Regno di Dio?

Anche Madeleine Delbrel dice che " Gesù conosciuto, contemplato, imitato nel Vangelo diventa la rivelazione lenta e progressiva di quello che deve essere la nostra vita". Ma solo la forza dello Spirito ci rende capaci di collaborare con lui senza "vergognarci del Vangelo" (cfr. RMX,26).

Ora bisogna fare in conti con la tentazione quotidiana di abbassare in noi stessi il tono delle richieste del Vangelo, di cercare altre sicurezze diverse dal Vangelo (cfr.RMX,12), di accettare un tacito compromesso con chi non ha con noi il coraggio della correzione fraterna. Di solito si scelgono gli amici che amano la musica che amiamo.

Ma solo il ritorno costante al Vangelo ci rassicura che Cristo continua a chiamarci, invitandovi a percorrere una strada che non è al disopra delle nostre forze e fuori dal nostro segreto desiderio di felicità, dato che lo Spirito santo al quale egli ci ha affidati non ci abbandona mai.

Ecco che Gesù ci rimprovera perché vogliamo rimandare la folla o perché vogliamo intrattenerci con essa, quando sarebbe più opportuno ritirarci sul monte a pregare. Rimprovera la nostra poca fede che non gli permette di fare miracoli e non ci fa gettare le reti per la pesca. Ci segue con lo sguardo mentre scappiamo dai nostri impegni quotidiani.

11 ritorno al Vangelo ci dice che c'è' il perdono anche per il missionario infedele e pauroso, che ad ogni tappa della nostra vita missionaria ci può essere un rilancio. Io non conosco altro rimedio per ridare luce allo sguardo che si intorbidisce e slancio al cuore che si inaridisce o che ci porta a leccare le nostre ferite.

Ma mi sembra che la RMX (cfr.n.24) proponga un altro modo concreto per esprimere uno stile evangelico di vita:si tratta della pratica delle piccole-grandi virtù umane "tipiche del Conforti". Inviandoci in missione, Gesù Cristo vuole che usiamo a questo scopo tutte le risorse e le caratteristiche della nostra personalità. La missione si abbellisce anche con la varietà delle virtù umane di chi la compie. La missione ha bisogno della impetuosità di Pietro e dell'affettuosità di Giovanni che reclina il capo sul petto di Gesù. Non tocca a noi giudicare sulla variegata espressività dei doni che un missionario offre.Il carisma saveriano ha in qualche modo accentuato questa libertà di espressione da non soffocare, ma da coltivare come virtù.

La testimonianza personale di uno stile di vita ispirato al Vangelo ci deve rendere tolleranti e capaci di godere di tutto ciò che può rendere davanti agli altri un po' più luminoso e comprensibile il Vangelo. Un buon esercizio può consistere in questo: non tanto chiedere un riconoscimento per i nostri sforzi di onestà al Vangelo, ma cercare di capire gli sforzi per vivere "in santità e giustizia al cospetto di Dio" che gli altri compiono. E qui non ci sono solo i nostri confratelli, ma la comunità cristiana e la stessa comunità umana che ci circonda. Al termine della giornata, pur dovendo registrare delle sconfitte, la fede ci fa dire che in molti cuori il bene ha vinto e la verità e l'amore hanno avuto dei testimoni fedeli.

La missione non deve coltivare la 'pedagogia dell'eroe', ma la pedagogia delle cosiddette piccole virtù umane, che portano nei dettagli della vita il profumo delle virtù teologali. Ecco allora che non è difficile accettare dai non cristiani che vivono le beatitudini un richiamo alla fedeltà della propria testimonianza di vita, soprattutto nel campo dei nostri voti religiosi.

Anche il missionario non è esente dall'insidia di lavorare come una ONG. A parte coloro che sono ispirati da un forte idealismo, chi gestisce una ONG si trova al riparo dal pericolo di restare senza mangiare. La disponibilità del denaro, con tanto di conto in banca, può facilmente creare attorno a sé clientelismo, favoritismo e dipendenza. Portando le cose all'estremo, anche il potere di fare della beneficenza può rendere più difficile o meno convincente la testimonianza, perché, senza pensarci, si resta al centro di un grande movimento che non è privo di gratificazioni.In questo caso la "forza disarmata del Vangelo" diventa una formula molto oscura, almeno per i nostri interlocutori. Non è ingenuità chiedersi quale peso abbia la "voce economica" quando vogliamo valutare la nostra testimonianza missionaria.

Il vescovo filippino Benny Tudtud diceva:"La parola parlata è l'ultima risorsa nella comunicazione umana" Il Bangladesh mi ha insegnato a guardare con maggiore attenzione verso chi silenziosamente attende, serve, piange, sorride e ama. Devo piano piano riconoscere che questo tipo di testimonianza, se proprio non è un correttivo alla mia, nel piano di Dio non è meno importante.

Se da una parte mi chiedo che cosa avrebbe fatto s. Paolo in Bangladesh, mi chiedo anche quale sarebbe stato il ruolo missionario di Maria. Il Bangladesh nella sua storia non ci ha ancora dato santi e martiri da altari. Questo può creare una specie di complesso di inferiorità rispetto ad altre nazioni dell'Asia, come il Giappone, la Corea e la Cina che hanno avuto una ricca messe di martiri. Ma ogni testimonianza è opera dello Spirito Santo. E qui penso non solo ai confratelli che hanno speso una lunga vita in missione. Ma mi piace ricordare i confratelli del Bangladesh morti giovani, noi diremmo "capaci ancora di correre". Se anche l'invito a fermarsi è una chiamata, allora anche questo modo, umanamente parlando, persino "inglorioso" di concludere la propria parabola missionaria diventa esso stesso testimonianza (cfr.RMX,93). Qual'è la testimonianza migliore? Non siamo noi a deciderlo. Specialmente ad ogni ritorno in missione, salutando la gente nella chiesa del mio battesimo, percepisco sempre di più l'aspetto tipico della nostra testimonianza missionaria ad gentes, ad extra e ad vitam. Sono certo che la gente, per fede, la senta come un prolungamento della propria. Anche le promesse di preghiera che mi vengono fatte per sostenere la mia fedeltà le sento come un viatico.

3. Il rinnovamento della comunità religiosa alla luce della priorità missionaria

La RMX va rapidamente (forse troppo) all'invito di essere "consapevoli che la comunità in sé e per sé è già testimonianza missionaria e che il soggetto missionario più idoneo non è l'individuo ma la comunità" (n.19). E più avanti afferma che " i doni dei singoli confratelli sono una ricchezza, quando sono al servizio del carisma della congregazione nella varietà delle sue espressioni ed esigenze" (n.20).

Quando Dietrich Bonhoeffer si è trovato a dover preparare dei giovani pastori al ministero, egli ha sentito la necessità di meditare con loro i fondamenti cristologici e umani della vita comune.Forse la nostra educazione passata ha presupposto troppo questo aspetto, con la conseguenza di creare falsi dilemmi nella vita missionaria. Ecco allora il piccolo dramma continuo che logora le nostre comunità: il bisogno di ridefinirsi come missionari e come religiosi. Non è una buona teoria che ci manca, ma una buona pedagogia.

Si parla molto di"senso di famiglia". Ci viene ricordato che "il Vangelo crea rapporti nuovi attorno a Cristo" (RMX,29). Questo non è dunque appannaggio dei nuovi movimenti. "Recandoci a vivere, come stranieri e ospiti presso altri popoli, siamo segni e fermenti di quella nuova famiglia umana che tutto abbraccia" (RMX, 12,2). Ci viene detto che la comunità pluri-culturale porta in sé "una testimonianza di comunione che è annuncio in atto e segno evidente del nostro carisma" (n.33).

Si direbbe che la parte più conflittuale della nostra presenza missionaria abbia avuto dalla RMX insufficiente esplicitazione e soffra, non direi di poca teologia, ma forse di poca pedagogia.

Sappiamo tutti che, come routine, ci sono incontri comunitari e si stendono "progetti comunitari di vita", ma ci è difficile analizzare i motivi delle nostre insoddisfazioni al riguardo. Forse sarà perché, istintivamente, come accadde per il dottore della legge, la natura umana sfugge alla concretezza del secondo comandamento. Ma è proprio la comunità religiosa e missionaria che dovrebbe esserne una sua esplicitazione vivente ed attraente. Essa dovrebbe essere continuamente in grado di presentare questo ' passaporto collettivo ' dei discepoli di Cristo.

Con lungimiranza missionaria, Giovanni Paolo II nella sua lettera 'Novo Millennio Ineunte' lancia la chiesa in un itinerario di spiritualità di comunione, per fare di essa "la casa e la scuola della comunione" (cfr.NMI, 43-45). Egli non manca di indicare gli atteggiamenti pratici che bisogna acquisire. Il nostro beato Fondatore ha avuto la sua bella intuizione in proposito, sigillata nella Lettera Testamento. Il nostro passato saveriano ha raccolto frutti abbondanti proprio là dove c'è stato un maggiore esercizio di questa spiritualità.

Quali sono le condizioni per cui la nostra presenza divenga rivelazione e attuazione del piano di Dio, che vuole fare di tutta l'umanità una sola famiglia? Per attuare questo scopo missionario non si può sperare di prendere delle scorciatoie che mettano a tacere la legge della croce. La chiesa si presenta certamente come "esperta di umanità, ma questo non le toglie il rischio di essere fraintesa e combattuta, o anche di battere essa stessa delle strade morte perché riflettono uno spirito di ghetto, di autodifesa e di autosufficienza. Non possiamo sperare di essere, non dico accolti, ma di diventare strumenti di vera comunione fraterna senza il dono dello Spirito Santo che nella Pentecoste ha mostrato ciò che può veramente unire gli uomini: il riconoscimento della salvezza universale in Cristo, o almeno della paternità universale di Dio.

Padre Carlo De Foucauld è diventato "fratello universale" purificando il suo sguardo e il suo cuore davanti all'Eucarestia, impregnandosi di Vangelo ed esercitando la fede e la carità nei rapporti ordinari con i suoi Tuareg. Non pare che fossero che sue risorse economiche a convincere la gente del suo essere fratello di tutti, anche se esercitava le opere di misericordia che gli richiedevano denaro. Se bastasse il denaro per costruire ponti di fraternità, il Bangladesh non avrebbe più bisogno di traghetti per attraversare i fiumi. Il denaro ci fa ricordare che abbiamo un corpo, ma sarebbe un guaio se dessimo a vedere che per noi l'anima è una realtà che non ha delle esigenze almeno altrettanto urgenti.

Ma esistono o no "le sicurezze che ci da' il Vangelo"? Se non possiamo sperimentarle nella nostra vita, come sarà possibile convincere gli altri che si può scommettere o rischiare sul Vangelo? L'Asia non è solo e tutto Buddha e Gandhi. Anche in Asia e in Bangladesh c'è' chi adora mammona nelle forme più diverse. Non per questo, l'Asia resta sospettosa davanti alle proposte cristiane che non danno abbastanza credito ai valori spirituali. Il Vangelo non può permettere che l'uomo muoia di fame per mancanza di cibo. Per questo il giudizio sull'occidente ricco diventa sempre più severo, tanto che nemmeno il crollo delle Torri Gemelle attira su di esso una simpatia incondizionata. L'interrogazione dell'uomo e della donna dell'Asia va a toccare il senso profondo dell'esistenza, che nessun attivo bancario può offrire.

Una volta si diceva che in Giappone il cristianesimo soffriva di un complesso di inferiorità, dato che le credenziali offerte dai cosiddetti paesi cristiani venivano considerate come moneta svalutata. Ma ora anche il Bangladesh nei riguardi del cristianesimo ha le sue buone riserve mentali. I molti bengalesi emigrati in Occidente, in buona parte, più che uno 'shock da fede

sono stati colpiti da uno 'shock di materialismo pratico'. Questa però non può essere una scusa per non proclamare il Vangelo, anzi diventa una ragione in più per prenderlo sul serio.

I primi portoghesi, entrati nel Bengala circa 400 anni fa, hanno cercato i loro interessi materiali, ma hanno portato anche la fede cristiana. Ciò che mi sorprende è che, in 400 anni, non abbiamo un martire locale, e solo recentemente la chiesa ha avuto una Bibbia completa tradotta in bengalese. La chiesa è vissuta per lungo tempo ai margini della società, preferendo i villaggi alle città, e forse per questo non ha creato problemi. Ora più che mai la chiesa sente l'esigenza dell'inculturazione e del dialogo, proprio mentre avverte la sua inadeguatezza propositiva del Vangelo da parte dei suoi fedeli.

Senza accettare semplicisticamente la visione dei poveri che si aiutano tra loro, così come è presentata dal libro 'La città della gioia', certo che non è difficile ammettere che proprio la mancanza di povertà evangelica possa rivelarsi un forte ostacolo alla comunione. Anche i poveri si mordono tra di loro. Ma sta di fatto che ciò che dobbiamo difendere - strutture, comodità e privacy - ci può togliere l'energia e la fantasia necessarie per creare comunione e per fare missione.Non è il caso di spingere ad una concezione manichea del denaro. Il pericolo è di contraddire in noi stessi quella "eguaglianza" di cui parlava s. Paolo e di indebolire la nostra relazione con il Regno dei cieli. Entrando in alcune comunità, si avverte che le cose funzionano senza parlarne, senza campanelle, senza troppi luoghi riservati. Gli estranei si sentono in casa. I discorsi non sono solo di cortesia formale, ma aiutano a crescere. Qui si vivono le virtù che si possono chiamare 'coagulanti dei rapporti umani, sia nell'ambito spirituale che in quello interculturale e interreligioso.La RMX ci esorta a queste virtù:"Per questo dobbiamo coltivare uno spirito aperto, un atteggiamento di ascolto e di ammirazione verso l'altro e favorire le reciproche relazioni basate sul rispetto, la cordialità, l'empatia, il dialogo, che ci portino a stabilire contatti con le altre culture all'interno delle comunità e del ministero" (n.44). Grazie a Dio, anche in Bangladesh, non mancano queste comunità che si offrono come veri e propri laboratori di comunione proiettata alla missione.

Si sente dire: in questo settore ci vuole molto equilibrio.La comunità non deve essere certo una roccaforte della privacy, un luogo che ci permette di tirare la tenda, e nemmeno un permanente campo profughi, dove si esprime una carità un po' caotica. Ma l'equilibrio da trovare resta il lavoro incessante di una comunità che vede nella missione lo scopo primario della sua presenza. Questo principio deve pur avere le sue applicazioni pratiche, pur con il dovuto discernimento. Se avessimo qualche cosa da farci perdonare, proprio la nostra apertura missionaria agli occhi della gente ci attirerà simpatia e perdono.

Superata la fase dell'avere qualche cosa da nascondere e il pericolo che la nostra casa divenga semplicemente albergo, ristorante o parlatorio, non resta che da chiederci: su quali valori evangelici dobbiamo spingerci? Si sa che ogni scelta comporta dei limiti. Ma la comunità non può esimersi da una revisione continua del proprio stile di servizio (cfr.RMX,38). Per questo vanno sempre più valorizzati gli spazi e gli strumenti della vita comunitaria, superando il pericolo di una partecipazione spenta, abitudinaria, rassegnata al basso tono. Ogni comunità deve studiare attentamente quali sono le regole della corsa missionaria ad essa richieste e ad essa adatte, tenendo conto degli individui che la compongono e dell'ambiente circostante che ci guarda, ponendo certe aspettative su coloro che si professano "banditori del Vangelo".

Non si tratta di presentare le nostre case come le case dei perfetti, quasi delle nuove comunità di Qumram, ma pur sempre di persone deboli che cercano di vivere e di proporre il Vangelo. Non ci sono altre ragioni per la nostra presenza.

Se vogliamo essere comunità creative, coinvolte nella chiesa locale e nella società, in una parola "segno della famiglia di Dio", la stessa RMX ci offre degli spunti su cui interrogarci, come:

- coltivare gli atteggiamenti che esprimono presenza e amicizia;

- cercare di essere ponti tra le chiese e le culture (RMX,6), studiando insieme le vie e i metodi della missione;

- esprimere un modello di vita alternativo, tipico di persone consacrate al servizio di Dio e degli uomini;

- superare la contraddizione di vivere tra i poveri con le sicurezze dei ricchi (RMX,50), e cercare segni concreti di solidarietà che esprimono la nostra opzione dei poveri ed una certa partecipazione ai rischi della gente che ci circonda ( cfr.n.33);

- discernere sul pericolo del protagonismo a causa di progetti personali che esprimono il desiderio di autorealizzazione e non il servizio alla missione (RMX, nota al n.58);

- evitare di attirare la gente più per quello che abbiamo e facciamo che per quello che annunciamo (cfr.RMX,51);

- sostenerci con una preghiera che non sia di routine, ma sia rinnovata e creativa, evitando il pericolo di diventare ' maestri di preghiera ' per gli estranei e di lesinare un 'sostegno reciproco' nella preghiera comunitaria;

- esercitare il servizio dello scambio personale circa la nostra fede, la nostra missione e le difficoltà che ci mettono in crisi;

- vivere in senso conviviale le nostre differenze culturali, arricchendo la comunità di comunicazioni significative.

Nel suo grande ideale, mons.Conforti ci propone la comunità come famiglia, come una realtà da vivere e da costruire tutti i giorni. Il Concilio vede la famiglia come "un'eccellente scuola di apostolato", un luogo dove ad alta voce vengono proclamate 'le virtù presenti del Regno di Dio' (cfr Lumen Gentium,35/376). Se dunque, anche su questo punto, dobbiamo imparare qualche cosa dai laici, ciò non esime le nostre comunità dall'essere degli esempi di famiglie apostoliche. Anzi!

4. Il dialogo con la chiesa locale sul tema del nostro carisma specifico

Il nostro rapporto con la chiesa locale non è solo un fatto giuridico salvaguardato dalle "Mutue relazioni". È un rapporto spirituale con la chiesa incarnata in mezzo ad un dato popolo, come "segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unita' di tutto il genere umano" (Lumen Gentium, 1). Questo rapporto spirituale, e necessariamente profondamente umano, è sostenuto da varie dinamiche che anche la RMX cerca di individuare.

L'essere missionari 'in una chiesa locale ci impegna ad essere non predicatori vaganti, ispiratori magari di un movimento incentrato su se stessi e sui nostri programmi, ma fondatori di chiese nel senso paolino del termine. "Il nostro servizio alla missione comporta che con l'annuncio del Vangelo noi ci impegniamo a far nascere comunità cristiane là dove ancora non esistono o di introdurre i nuovi fedeli nella comunità cristiana locale, educandoli all'amore per tutti, perfino dei nemici" (RMX,69).

Inutile nasconderci che, soprattutto in quanto missionari stranieri, il rapporto con la chiesa locale non è indolore, proprio perché non si tratta di un rapporto astratto ma di un rapporto umano-soprannaturale.La volontà di non fare della missione un'avventura personale e la fedeltà alla propria vocazione missionaria non possono non creare tensioni. Ma come viverle in modo benefico per noi stessi, per la chiesa locale e la chiesa universale? "Il nostro inserimento nella chiesa locale deve essere sincero, responsabile e costruttivo, ma deve essere nello stesso tempo salvaguardata la nostra specificità che interpella e arricchisce la chiesa stessa" (RMX,8). Anche il Bangladesh, come ormai ogni chiesa locale, ha i suoi piani pastorali con le sue scelte prioritarie. Vivendo in Asia, non si può non tenere conto anche delle indicazioni che emergono dal Sinodo dell'Asia e dalla lunga riflessione della Conferenza episcopale asiatica. Si può dire che i documenti della FABC sono una miniera di tematiche missionarie.

L'esigenza di una conoscenza reciproca è indispensabile. Se, da una parte, la chiesa locale cerca di coinvolgerci nella formulazione dei propri programmi pastorali, si può dire altrettanto che i Saveriani vivano i loro capitoli anche come momenti di dialogo con la chiesa locale? Non basta presentare in inglese il distillato delle nostre discussioni e decisioni. Questa conoscenza solo passiva può portare alle tensioni di governi paralleli. Ognuno è geloso delle proprie autonomie, difese anche dal Diritto canonico. Ma se vogliamo un vero dialogo tra le parti, occorre crearci nuovi strumenti di ascolto e di confronto reciproco.

A volte la comunità saveriana delega il superiore a risolvere i conflitti e le incomprensioni che possono sorgere con i Vescovi. Raramente si realizza "quell'ampio ascolto del Popolo di Dio" auspicato dal Papa nella NMI. Il pericolo maggiore di andare per la propria strada non è tanto da parte della comunità diocesana, ma da parte della comunità saveriana. L'accordo completo su tutto non solo è difficile, ma forse anche impossibile e, diciamo pure, non sempre necessario. Ma c'è' sempre quel minimo comune denominatore che ci fa dire che, sia dalla parte saveriana che dalla parte diocesana, c'è' dialogo, collaborazione e pace. La storia ci dice che i conflitti lasciati irrisolti creano frustrazioni e sorprendono i semplici fedeli, se proprio non li scandalizzano.

Allora, che cosa fare? Parto da una mia, certamente parziale, comprensione di una affermazione espressa nella relazione del superiore del Bangladesh al XIV capitolo generale. Ivi si dice:"Chi vuole rendersi conto in che cosa consiste la missione per i Saveriani in Bangladesh questi non può limitarsi a visitare le parrocchie e le attività che in esse si svolgono. Questo primo dato mi sembra essere la conseguenza di un insieme di scelte ben precise quali:... l'avere privilegiato (da parte della Regione ) i carismi personali più che le scelte programmatiche, anche al punto che ci si ritrova a gestire alcune attività delle quali non si sa bene a chi affidarne la paternità (cfr. 'Missionari Saverianì, Relazioni al XIV capitolo generale, Circoscrizioni dell'Asia, pg.7). Questo modo di vedere le cose provoca in me un po' di sconcerto, perché mi sembra una dichiarazione aperta di disfatta programmatica proprio nelle situazioni che potrebbero creare conflitto. I nuovi arrivati in missione, e qui mi posso ancora sbagliare, si trovano davanti ad una comunità che non ha proposte proprie. C'è un mercato con varie offerte, più o meno allettanti. Il nuovo arrivato viene messo davanti o ad una emergenza da coprire o ad un progetto che può soddisfare i propri gusti. Capita perciò che le scelte capitolari possano venire disattese forse anche prima della pubblicazione ufficiale dei documenti. Mi riferisco, per esempio, alla direttiva dello studio approfondito della lingua e della immersione iniziale in un contesto parrocchiale, come preparazione graduale alla conoscenza della realtà sociale ed ecclesiale del paese. Forse questa "libertà" lasciata ai singoli può sorprendere la stessa chiesa locale, nel senso che il nuovo missionario, inconsciamente o no, pone le premesse o le barriere per le sue scelte future. Resta vero il principio offerto dalla RMX, dove è detto che "occorre perciò chiarire con la chiesa locale il senso del nostro carisma e cercare sempre nuovi cammini di annuncio del Vangelo a quanti ancora non lo conoscono" (RMX,75). L'espressione "nuovi cammini di annuncio del Vangelo" è allettante. Ma su di essi è richiesto un discernimento da parte di chi ne ha l'ispirazione, come da parte della comunità saveriana e della chiesa locale. Capisco che qui si può incorrere nei piccoli drammi di non essere compresi, sia dalla comunità che dal Vescovo. Ma, anche se difficile, diventa necessario confrontarsi, magari con la mediazione del superiore. Da bambino mi ha sempre impressionato la scritta che leggevo sui piloni della luce elettrica che si trovavano anche in mezzo ai campi:'Chi tocca i fili, muore'. Circa l'argomento di cui parlo, mi viene in mente il commento di un missionario non del tutto tradizionale: "Chi scappa dalla comunità, muore". Lungi da me dallo scoraggiare l'uso dei propri carismi missionari per il bene della missione stessa. Ma ho l'impressione che, quando la comunità perde la sua capacità propositiva di un piano missionario, che va pur riaggiustato a secondo dei cambiamenti, e perde la sua capacità di accoglienza critica delle nuove legittime proposte, sia di fronte alla diocesi che di fronte al paese, allora prendono risalto i cosiddetti progetti personali, che possono creare penose tensioni, senza parlare del pericolo che vadano a disperdersi come rivoli nel deserto. La storia ci dice che tante belle iniziative non meritavano questo destino. Gli è che la comunità aveva dato ad esse un'approvazione rassegnata o pro bono pacis. La pace di chi?

La chiesa locale ha preso coscienza del suo dovere missionario. Non direi però che, per questo, sia diventata gelosa dei missionari. Sta di fatto che per noi diventa più difficile "consegnare" il proprio carisma nelle mani della chiesa locale ed accettare di essere "scrutinati" proprio su di esso. Non si richiede certo una consegna sconsiderata, ma nello spirito del dialogo e del servizio. Ciò può essere ottenuto quando le due parti presentano con chiarezza la propria visione missionaria ed insieme, nel contesto locale, scrutano i segni dei tempi per meglio rispondervi insieme, evitando programmi contradditori o paralleli.

Ma ci sono i contratti tra le diocesi e i saveriani! A suon di contratto non si risolvono le difficoltà che nascono dalla vita che cambia. Le difficoltà arrivano anche senza cercarle. Come allora trovare soluzioni a situazioni stagnanti, evitando il pericolo di perdere persone valide per la missione perché si è lasciato troppo correre o si è stati troppo rigidi?

Con un po' più di comunicazione, mettendo il 'problema' non solo di fronte al Vescovo e al Superiore, ma anche alla persona interessata. Il chiarimento "a tre" su questioni conflittuali dovrebbe far parte anche dello stile delle visite della Direzione Generale alla missione. Forse qualcuno può sfuggire l'incontro, ma il proporlo è sempre un gesto di distensione.

L'aumento del clero locale e soprattutto delle suore in Bangladesh ha portato ad un ridimensionamento dei rapporti tra gli istituti missionari e la chiesa locale. Ma non ha ancora prodotto da parte degli istituti stessi un ripensamento creativo del proprio ruolo specificamente missionario in una nazione di 125 milioni di persone con una percentuale di cristiani che non supera 1T%. I Tribali del Bangladesh, come gruppi aperti al cristianesimo, possono avere un grande peso sul suo futuro. Essi già costituiscono più della metà della popolazione cristiana, ma la loro leadership non ha ancora avuto riconoscimento. Anche la

riflessione circa l'annuncio, la catechesi e la liturgia inculturate non hanno ancora un appoggio convinto, così che i Tribali stessi sembrano rassegnati ad un inesorabile assorbimento. Forse al riguardo, come missionari, potremmo avere un ruolo preciso. Ma la situazione politica e la nostra impreparazione ci impegna in tentativi alla sparpagliata.

La stessa esperienza tra i Rishi, un gruppo marginale dell'induismo che ha impegnato i saveriani fin dagli inizi, ci dice che solo la continuità può garantire dei risultati profondi. Ora, nella nuova fase in cui ci troviamo, forse è giunto il tempo di sottolineare di più la necessità che le nostre "uscite missionarie" non siano troppo legate ad individui generosi, ma coinvolgano laici, preti e suore locali in una missione che legittimamente devono sentire loro fin dagli inizi, e non solo al momento delle consegne.

Ma allora che cosa ci resta da fare? Oggi, neppure in Asia, lo specifico del nostro carisma, non ci viene più presentato quasi di forza dalle circostanze, ma va cercato insieme con spirito di discernimento e di dialogo con la chiesa locale. Ancor oggi c'è' il pericolo che il missionario lasci dietro di sé dei "monumentini" difficili da gestire. Non basta più individuare dei gruppi che esigono una presenza missionaria, fosse anche quello degli zingari, ma bisogna entrare con uno stile nuovo nella pastorale missionaria della chiesa locale. Non si tratta di vederci come 'specialisti della missione, ma come ministri del compito missionario di tutta la chiesa dentro una concreta chiesa locale.Qui sta il difficile. Perché le nostre vie missionarie abbiano un seguito devono sempre più impegnare operai locali. Ma capita che, come la firma in banca è l'ultima ad essere concessa, così anche la paternità delle vie nuove è la prima ad essere difesa.

Ma non c'è' via di scampo. Una chiesa locale non si sviluppa 'addomesticando o livellando* i carismi degli istituti missionari, e neppure lasciando ad essi via libera per timore di perderli. In conclusione, c'è da imparare un nuovo tipo di dialogo sulla base della visione di chiesa che ci è stata offerta dal Vaticano II...anche se da alcuni quelle pagine vengono considerate superate, proprio perché non sono mai state del tutto applicate.

5. L'animazione e la formazione missionaria nella chiesa locale

Ogni chiesa locale, nella quale lavorano i saveriani, si presenta con esigenze e possibilità particolari di animazione missionaria. La consistenza e la varietà del gruppi religiosi non cristiani, la sufficienza o meno del clero, la preparazione o meno all'apostolato da parte dei laici, i valori umani di base di una data cultura determinano il contesto dell'esercizio e della condivisione del nostro carisma missionario.

A parte ciò che è già stato detto circa la testimonianza personale e comunitaria, mi piace la sottolineatura della RMX fatta in apertura di questo tema:"In qualunque attività dobbiamo presentare il messaggio evangelico non genericamente, ma in maniera personalizzata, tesa a scoprire la possibile risposta che ognuno può dare al messaggio secondo le sue possibilità " (n.82). Secondo me, questa disposizione non va ristretta alla proposta vocazionale missionaria, ma va allargata all'invito a considerare ogni dono di Dio, e tra essi la fede, come dono da condividere.

La prima animazione missionaria viene fatta nel catecumenato. Se il cristiano non nasce missionario, significa che il nostro primo annuncio ha fallito su un punto qualificante del dono della fede. La fede non è un bene privato destinato a garantirci la salvezza personale, ma è anche una consegna di responsabilità della salvezza degli altri. Naturalmente l'animazione missionaria va prolungata nella catechesi, nella predicazione, nella costituzione dei gruppi parrocchiali, nella visita alle famiglie e ai malati. Si tratta di dare il senso della chiesa missionaria, senza il quale essa potrebbe essere una ONG o una società di assicurazione del paradiso.

Il contesto parrocchiale offre delle opportunità ricorrenti per informare sulla chiesa missionaria in Bangladesh e nel mondo, come per fare conoscere la storia delle missioni in Asia, con i suoi martiri, i suoi evangelizzatori, i metodi di proporre il Vangelo, le difficoltà e i successi. Per dare un senso di identità al popolo cristiano come popolo missionario, occorre informazione e formazione missionaria. Una lettura della Bibbia in senso missionario, soprattutto degli Atti degli Apostoli, la testimonianza dei santi e delle sante nella storia possono aiutare molto i cristiani a leggere i segni dei tempi per adeguarvi la propria risposta.

Anche la scuola può essere una grande palestra di universalismo. Il punto di partenza sta nell'educare al senso del ricevere con gratitudine e del dare agli altri con generosità. L'isolamento culturale umano rende più difficile anche l'accoglienza della rivelazione cristiana, perché può nutrire l'autosufficienza e il pregiudizio. Quando non sia possibile utilizzare la scuola in sé stessa, bisogna organizzare ambienti alternativi di educazione alla mondialità.

Ma il nostro compito di animazione della comunità locale tocca anche il punto vitale dell'educazione all'apostolato cristiano. I gruppi e le associazioni possono diventare luoghi di apprendistato dello spirito e del metodo missionario, piccole comunità che si aprono alla pratica del dialogo e della collaborazione interreligiosa.

Forse può costare il superamento dei bastioni che una comunità si è creata per difendersi proprio perché teme l'altro (musulmano o indù) come pericoloso, o se ne tiene lontano perché pensa di non avere niente da imparare da lui. In Asia la chiesa è un "piccolo gregge", una minoranza appena visibile. Per questo deve imparare ad attualizzare le parabole del lievito , del seme e del sale.

Come missionari l'esigenza di vivere il nostro carisma in modo coerente e attrattivo ci porta a costruire attorno a noi un clima nel quale si respira la gioia di essere tutti figli di Dio, fratelli e sorelle. Quest' aria di festa, che non può passare inosservata, diventa il profumo che attira soprattutto coloro che non sono prevenuti, primi tra tutti i bambini.

L'apertura alle vocazioni saveriane locali deve diventare sempre più una scelta cordiale sia da parte della nostra comunità saveriana come della stessa comunità locale. Ma non basta che le nostre case di formazione si sforzino di esprimere uno stile missionario negli ambienti esterni, negli studi, negli interessi pastorali, nel tipo di preghiera, nella animazione tra i giovani e anche nel contatto con i benefattori. L'animazione missionaria è efficace quando, pur nella nostra debolezza umana, si pone come problema missionario la penosa realtà delle nostre controtestimonianze.

Anche se giovani, i nostri candidati devono vivere in un ambiente di libertà, di creatività, di uso saggio dei beni, la cui giustificazione ultima sia sempre la missione. In un paese povero come il Bangladesh, l'animazione missionaria non può proporre "isole felici" come ambienti ideali per la formazione, né come specchietto per le allodole, né come riflesso dello standard di vita che vogliamo mantenere a denti stretti anche in missione.

La chiesa locale si mostra grata verso il nostro carisma quando vede che i giovani che ci vengono affidati acquistano maturità intellettuale, profondità di vita cristiana, capacità di comunicare il messaggio evangelico, libertà dai legami troppo coinvolgenti con la propria famiglia e generosità nel lasciare il proprio paese con l'intenzione precisa non di evadere ma di donarsi.

I futuri saveriani bangladeshi troveranno certamente forme rinnovate per vivere il nostro carisma. Ora hanno bisogno del nostro esempio,ma anche della nostra umiltà a lasciarci educare anche da loro. Sappiamo che i ricordi dell'infanzia incidono su tutta la vita. Non è il caso di diventare del "forzati del buon esempio". Basta che accettiamo i futuri e i presenti nuovi confratelli come un dono che Dio fa alla nostra stessa vocazione missionaria. Ora, camminando con loro, impariamo ogni giorno a mettere in pratica la legge della missione, che s. Paolo ha proclamato durante il suo congedo a Mileto:" C'è più gioia nel dare che nel ricevere" (Atti 20,35).

La grande regola della corsa missionaria può riassumersi in queste parole. Lo sguardo sul Crocefisso ce ne da' una conferma. E così pure ogni nostra partenza, ogni sforzo per accogliere nel nome di Lui il fratello o la sorella per un aspetto così diversi da noi, eppure per un altro aspetto resi così simili. Chi vive questa regola è già nel cuore della missione che continua quella di Gesù. È una regola che comprendevano anche i nostri bambini, cristiani, musulmani e indù, del villaggio di Noluakuri. Una regola che riassumevo in queste due parole: "Grazie!" e " Sii felice!"

Per farmi perdonare queste mie riflessioni, che peraltro ho condiviso volentieri, finisco con un piccolo episodio di vita missionaria. Dopo avere celebrato l'Eucarestia con una comunità di suore missionarie, cenando con loro, una suora europea uscì in questa confidenza:"Al termine della giornata, mi chiedo: Ho fatto tutto? Ho fatto bene? Ho fatto abbastanza? " La consorella asiatica, che vive con lei, commentò: "Di questo io non mi tormento".

Capisco bene che quanto ho scritto rispecchia l'Occidente ma anche l'Oriente che è in me. Ognuno prenda la parte che può essergli utile.