Pagine estratte dai libri - Una chiesa dei poveri sulla via della liberazione

p. Franco Cagnasso


Una chiesa dei poveri sulla via della liberazione




Intervista di p. Franco Cagnasso a p. Luigi Cocquio

Tondo, Filippine

Tratto da “Mondo e Missione” Novembre 1976






In copertina: Croce della chiesa di San Pablo Apostolo a Tondo



  1. Intervista di Franco Cagnasso a P. Luigi Cocquio

Pochi mesi fa, esattamente il 24 gennaio di quest’anno, p. Francesco Alessi, superiore della comunità del PIME, e p. Gigi Cocquio, parroco a Manila, venivano espulsi dalle Filippine. La stampa italiana ha dato un certo risalto all’avvenimento più di quanto avvenga normalmente in casi del genere e nelle Filippine si sono moltiplicate per lungo tempo le proteste da parte di varie comunità, di religiosi, sacerdoti e anche della Conferenza Episcopale. I motivi della loro espulsione sono stati indicati molto genericamente, fra l’altro in un documento che il Consolato delle Filippine ad Hong Kong ha diffuso per rispondere alle proteste di studenti cinesi della colonia inglese. I due avrebbero svolto attività anti-governative, diffuso materiale propagandistico, e si sarebbero «impegnati in atti politici che devono essere compiuti dai filippini, e non dagli stranieri», violando così le condizioni per la loro permanenza nel paese. In questo servizio speciale abbiamo raccolto da p. Cocquio il racconto di come viveva e come lavorava a Manila. Leggendolo, sì comprendono i motivi della sua espulsione molto più chiaramente che dai documenti ufficiali.

Abbiamo diviso la testimonianza di p. Cocquio in due parti: la prima descrive piuttosto l’azione «sociale», la progressiva presa di coscienza di un cammino che i poveri possono e devono compiere; la seconda presenta la crescita del Vangelo e della Chiesa in mezzo a questo popolo di poveri che lentamente scopre la propria dignità e rivendica i suoi diritti. Si tratta del racconto di un’esperienza, non di una riflessione teologica o pastorale, perciò non mancano interrogativi senza risposta e forse anche alcune discontinuità. Forse qualcuno potrà anche notare che non c’è molta «auto-critica»: possibile che a Tondo tutto quanto procedesse bene? Possibile che, lavorando con i poveri, non si facciano mai errori? Certamente non è questa l’idea di p. Cocquio! Tuttavia si può capire questo suo modo di presentare l’esperienza se si tiene presente che di critiche, da parte degli altri, non ne sono mai mancate e non occorreva che aggiungesse anche le sue. Chiunque inizia qualcosa di nuovo sa bene che deve affrontare sempre una raffica di osservazioni, alcune interessate, altre di chi è sinceramente in ricerca e vuol essere aiutato a capire. Questo «servizio speciale» perciò chiede di essere giudicato non sui punti e sulle virgole, ma sul nucleo essenziale di ciò che dice. Non andiamo a chiedere ai parrocchiani di Tondo se «prendono cibo con mani immonde» (Mc 7,5), ma se la loro fede in Dio è più viva e più operante.

L’avventura di Tondo, in un certo senso, è «finita male», perché quelli che tanto hanno contribuito ad avviarla sono stati allontanati; e soprattutto perché ora i due missionari espulsi sono convinti che alcuni rappresentanti della Gerarchia, che pure avevano mostrato con molti segni concreti di appoggiarli, sembrano poi averli abbandonati, forse lasciando prevalere «la ragion di stato». Certo, se questo è vero, è molto doloroso; ma basta questo a «squalificare» l’esperienza di Tondo, oppure a far perdere la speranza in un rinnovamento della Chiesa? Noi crediamo che non basti. Oggi a Tondo, ai posto di p. Gigi ci sono altri missionari del PIME che non sono lì per «restaurare» i vecchi metodi, ma che al contrario continuano sulla linea descritta in questo servizio speciale; inoltre, ci sembra che le reazioni e le difficoltà opposte ai rinnovamenti vadano viste nel contesto del lungo e difficile cammino della Chiesa postconciliare, e in particolare della Chiesa nelle Filippine, che si trova di fronte a problemi tutt’altro che facili e che è sollecitata da tendenze, esperienze, problemi molto diversi l’uno dall’altro e difficili da conciliare (cfr. «Filippine: una Chiesa si converte», in «Mondo e Missione», dicembre 1975). Infine, non ci sembra il caso di scandalizzarci degli eventuali errori e debolezze di qualche uomo di Chiesa, mentre ci sembra molto importante non giudicare né fare processi alle intenzioni a nessuno... nemmeno alle intenzioni di un Vescovo. A Tondo dunque, attraverso difficoltà, contraddizioni, debolezze e momenti esaltanti, sta veramente nascendo una Chiesa di poveri. Non un’altra Chiesa, ma la nostra Chiesa rinnovata profondamente.

2. I poveri scoprono che possono liberarsi

P. Luigi Cocquio con i ragazzi di Tondo

Sono passati ormai parecchi mesi da quando mi hanno espulso dalle Filippine: nel giro di poche ore, senza processo, senza possibilità di difendermi; senza lasciarci prendere nemmeno i documenti, hanno caricato su un aereo me e p. Francesco Alessi — che era superiore regionale del P.I.M.E. — scortandoci con discrezione, ma senza perderci d’occhio, fino a Roma. Da allora si sono fatte proteste e pressioni per il nostro ritorno, ma io sono ancora qui in Italia. Il nostro lavoro non si è fermato, perché la comunità nella quale ero inserito non si è lasciata prendere dal panico. Sono rimasti uniti, hanno continuato ad impegnarsi per una crescita umana e cristiana. Ciò che abbiamo fatto non è finito nel nulla, anzi continua; intanto io mi sento in esilio, sto attraversando il momento della «morte», necessaria per portare frutto... Anche per questo mi è difficile parlare della mia esperienza. Non sono un tipo da tavolino, che analizza i pro e i contro prima di agire o che sa “spiegare tutto con belle parole; credo invece che siano molto importanti i fatti, la concretezza. Non mi piace teorizzare, non ho la pretesa che quanto io ho vissuto sia valido per tutti e non voglio che si pensi che è mia intenzione fare da maestro. E poi, è molto facile essere fraintesi! Quand’ero a Manila ogni tanto scrivevo una lettera agli amici in Italia, ciclostilandola e mandandola a quelli che conoscevo meglio. Una di queste lettere è stata ripresa e pubblicata dal mensile «Missionari del PIME», andando a finire in mano a un mucchio di gente. Molti si sono scandalizzati, mi hanno chiamato fariseo, hanno trovato le mie posizioni estremiste e prive di carità cristiana... Non ho più scritto per molto tempo, perché ho capito che certe cose sono ben difficili da comunicare. Anche le idee maturano nell’esperienza e spesso chi non ha fatto lo stesso cammino trova strane e ingiustificate le idee che ne derivano. Qui in Italia, mi sembra, c’è l’abitudine di accapigliarsi sulle parole, c’è la capacità di spaccare un capello in quattro. Vorrei che quanto dirò ora non venisse analizzato in questo modo, perché non saprei difendermi. Intendo semplicemente raccontare ciò che ho vissuto, e che a me sembra valido. Solo così va letto questo «servizio speciale».

3. Ai margini della grande città

Tondo è una località nella baia di Manila, capitale delle Filippine. Si trova lungo il mare, nella zona nord della città, vicino al porto. E’ un ambiente splendido, con aria buona e bellissimi tramonti. Il territorio è stato bonificato dal mare, a partire da 25 anni fa, ed è diviso in tre zone; quella bonificata più recentemente (15 anni) si chiama «Magsaysay Village», ed è quella dove abitavo io. Ci sono tre parrocchie, una affidata agli Agostiniani Recolletti (un filippino), una ai Salesiani (italiani e spagnoli) e una al PIME (italiani e americani). Alcuni altri «dati anagrafici» di Tondo sono presto detti. Secondo l’ultimo censimento ci sarebbero a Tondo circa 30.000 abitazioni, con due famiglie ciascuna in media. Si calcola che ogni famiglia sia composta da 6-7 persone e il conto è presto fatto: vivono a Tondo dalle 300 alle 350.000 persone. Quasi tutti sono baraccati. Il problema dell’inurbamento a Manila è drammatico: continua ad arrivare gente da ogni parte delle Filippine e oggi la città conta 6-7 milioni di abitanti, di cui 1.200.000 baraccati. Ci sono 67 baraccopoli, alcune delle quali disposte lungo i fiumi (chiamati «esteros») e costruite su palafitte, oppure lungo le linee ferroviarie, oppure in terreni liberi del comune o del governo. Tondo perciò non è che uno, anche se il più grande, dei molti posti dove si ammassano questi immigrati in cerca di lavoro e di un futuro. E’ chiaro che su un numero così alto di persone ci sono anche degli approfittatori: conosco ad esempio un consigliere comunale di Manila che abita nella nostra parrocchia per non pagare le tasse e per poter tranquillamente svolgere i suoi traffici illegali... Ma questi sono pochi esempi. La stragrande maggioranza dei baraccati sono veramente bisognosi. Vengono dalle isole del sud (Samar, Cebu e altre) o dal nord, molto povero. In qualche caso si spostano in massa. Nella nostra parrocchia abbiamo molte persone di uno stesso villaggio che si è trapiantato. Come vivono? Più o meno il 25% è riuscito a trovare un lavoro fisso nelle industrie o in uffici pubblici; gli altri sono sempre alla ricerca di lavoro a giornata e di espedienti: scaricatori al porto, piccolo commercio di pesci e verdure; falegnami, pescatori, raccoglitori di carta e stracci... Spesso il lavoro non si trova anche perché manca un livello minimo di istruzione: oggi per avere un posto come operaio è richiesta la scuola superiore! Le abitazioni sono in legno e latta e fino a pochi anni fa non c’erano né acqua né luce. La casa è solo un posto per vivere più o meno comodamente, ma costituisce anche una linea discriminante sociale di grande importanza. Nella nostra parrocchia, su 45.000 abitanti, circa 15.000 non sono baraccati. Le loro condizioni economiche sono magari uguali a quelle degli altri, però hanno un appartamento popolare, oppure si sono costruiti una casetta su un terreno regolarmente acquistato. Sono in genere gli abitanti del vecchio quartiere di Tondo, e non immigrati recenti. Per gli altri invece (30.000) la casa è su terreno abusivo (squatters). Fra abusivi e non abusivi si crea subito una divisione, con il rifiuto di mescolarsi e di aiutarsi: sono due «razze» (!) diverse...

4. Denutrizione, malattie, ignoranza

A Tondo non ci sono casi frequenti di morte di fame, ma c’è tanta denutrizione. Una scuola di Manila ha svolto un’inchiesta concludendo che il 75% dei bambini soffrono di denutrizione cronica. Questo significa non solo che vivono sempre con il desiderio e la preoccupazione del cibo, ma che il loro sviluppo fisico e psichico è compromesso, sono spesso ammalati, svogliati a scuola... Appena tornato in Italia guardavo con stupore i cuginetti e i bimbi del mio paese presso Como, alti, pieni di energia, vivaci... e li paragonavo con i loro coetanei di Tondo. Bimbi della stessa età hanno una differenza di sviluppo incredibile!

La vita dei baraccati di Tondo è una lotta quotidiana contro la miseria, le malattie e l’ignoranza e i missionari condividono questa povertà

Nelle baracche con cibo scarso, acqua spesso inquinata, zanzare, sporcizia, le malattie intestinali sono facilissime. Nella parrocchia si trovano due dispensari medici governativi, che visitano gratuitamente ma non danno medicine, e un dispensario mantenuto dalle Suore Canossiane (due filippine e un’italiana), con un dottore, un’ostetrica e una infermiera; qui vengono distribuiti anche i medicinali. C’è poi nelle vicinanze un ospedale statale, ma come al solito le medicine bisogna pagarle. La scuola elementare è frequentata da ben 7.000 alunni ed è gratuita; molti ragazzi però non la frequentano regolarmente, soprattutto perché mancano i soldi per i quaderni e le penne. Tuttavia bisogna dire che anche fra gli adulti quasi tutti sanno leggere perché bene o male un po’ di istruzione elementare c’è stata “per tutti. Nelle Filippine le strutture scolastiche ci sono, il problema sta nella possibilità concreta di frequentare con profitto. Grosso modo mi pare che questo possa bastare per dare un’idea del «Magsaysay Village», una delle tre parti di Tondo, nella quale ho lavorato.

5. La politica al servizio dei più forti

Che si fa, sul piano politico e sociale, per trovare una soluzione ad una situazione così grave? Finché c’erano i partiti (il liberale e il repubblicano, con il sistema del bipartitismo come negli Stati Uniti, ma uno valeva l’altro e gareggiavano in corruzione e clientelismo) ogni tanto si vedeva qualche uomo politico che faceva regali e promesse per farsi eleggere e poi scompariva. Nel settembre del ’72 è stata però imposta al paese la legge marziale. Il palazzo del Congresso è diventato un museo e tutto il potere è stato concentrato nelle mani del Presidente Marcos. Il regime è quindi dittatoriale e conservatore, il metodo di governo non democratico ma autoritario: decisioni prese dall’ alto senza possibilità di discuterle, difesa ad oltranza dei privilegi delle famiglie più ricche ed influenti, impostazione dei problemi in chiave di prestigio e non di giustizia sociale.

Nel febbraio del ‘75 Marcos ha voluto dare una vernice di legalità al suo potere, indicendo un referendum, che gli desse la possibilità di restare presidente anche oltre il dicembre di quell’anno, data ufficiale di scadenza del suo mandato.

Una suora assiste dei bimbi ammalati

Ma non c’è stata possibilità di discutere su quel voto! Marcos ha minacciato la prigione a chi avesse boicottato il referendum; la Conferenza episcopale ha scritto una lettera chiedendogli di garantire la libertà di dibattito politico e di voto; alcuni superiori religiosi sono giunti più in là, invitando a non votare dal momento che il referendum appariva tutt’altro che libero. Non ci sono state reazioni dall’autorità, ma forse perché si sentivano sicure: tanto la gente aveva paura, le schede erano trasparenti, ecc. Alla fine, ci è stato detto che il 90% dei votanti era favorevole al Presidente, ma non è stato comunicato quanti sono quelli che non hanno votato! Ricordo questi fatti, solo per indicare una mentalità, un clima politico in cui certamente l’attenzione non è rivolta ai poveri, ai baraccati, e in cui non si è disposti a «offrire spazio» alla libera volontà popolare e alle rivendicazioni. D’altra parte anche prima, in regime formalmente democratico, i baraccati contavano soltanto come riserva di voti. Tondo, insomma, era dimenticata da tutti, un serbatoio di miseria e di sfruttamento, da tenere il più possibile nel silenzio e ai margini della vita della città e del paese.

6. La violenza dei poveri contro sé stessi

p. Bruno Piccolo tra le baracche

Il P.I.M.E. è andato a Tondo nel 1970, in occasione della visita del Papa. Durante il suo viaggio in Asia, Paolo VI si è recato anche a Manila ed ha molto insistito per andare fra i baraccati. Le foto delle baracche e delle famiglie visitate dal Papa hanno allora fatto il giro del mondo. In quell’occasione il Nunzio si preoccupò di fare qualcosa per i poveri di Tondo, e spinse uno dei nostri missionari, p. Bruno Piccolo, ad accettare l’incarico di parroco nella nuova parrocchia intitolata a S. Paolo (S. Pablo Apostl). Quindici giorni prima dell’arrivo di Paolo VI, p. Piccolo si trasferì lì. A mio parere si è trattato di una decisione affrettata e in quel momento la nostra comunità non era forse preparata ad affrontare tutti i problemi di una parrocchia del genere, dato che il P.I.M.E. era appena arrivato nelle Filippine. Comunque, bene o male, s’è iniziato e presto si aggiunse un altro sacerdote, p. Joe Vancio, americano. L’anno dopo arrivai anch’io. Il primo problema che ci ha colpiti incominciando il lavoro nella nuova parrocchia è stato quello dei rapporti fra la gente. Nella cultura del povero c’è la violenza: è una energia che non riesce ad essere incanalata verso qualcosa di costruttivo e nemmeno verso altri, e allora si scatena fra i poveri: frustrati, oppressi e violenti fra loro.

Bisticciano, si ubriacano, si feriscono e uccidono. I motivi sono rivalità fra bande di ladri, oppure anche ragioni banali, una gelosia, un’offesa, il desiderio di prestigio. I films più apprezzati sono quelli di violenza e crudeltà. La nostra parrocchia è divisa in sei «blocks», o quartieri, fra i quali al nostro arrivo c’era una rivalità fortissima e a volte spietata. Nessuno osava passare da un block all’altro, e talvolta per venire alla chiesa erano costretti a fare lunghi giri per evitare questo o quell’altro quartiere. Una volta alla settimana in media c’era un assassinio! Divisione e lotta dunque, non solo fra abusivi e non abusivi, ma anche fra baraccati.

7. Prime scelte, prime divisioni

La presenza delia Chiesa fra la popolazione di Tondo è molto sentita. La visita di Paolo VI durante il suo viaggio a Manila

Ci siamo subito chiesti dove andare ad abitare. P. Piccolo si era sistemato provvisoriamente in una casetta di due stanze fra i baraccati, poi si era trasferito nella zona più «benestante» in una casa acquistata dalla diocesi. La gente di là faceva pressione perché restassimo nel quartiere dei non abusivi, sistemandoci definitivamente fra loro. In genere infatti le chiese e le abitazioni dei sacerdoti vengono costruite in una zona bella e di lì poi ci si reca nei quartieri poveri per l’apostolato. Soprattutto ci preoccupava il fatto che, costruendo nella zona dei baraccati, avremmo dovuto anche noi rinunciare al titolo di proprietà della terra, diventare degli abusivi. Furono alcuni capi famiglia di Tondo a convincerci: «Non importa se non avete il titolo di proprietà — ci dissero —. Se costruite la chiesa in mezzo alle nostre baracche, sarà una garanzia perché non ci facciano sloggiare, ci darà la speranza di riuscire finalmente ad avere un terreno per noi!». Così nel 1972 abbiamo iniziato a costruire fra i baraccati, dove si trovava la prima abitazione di p. Piccolo. La gente del quartiere «bene» ha reagito molto negativamente, ha protestato presso il Vescovo e non s’è mai più avvicinata alla parrocchia. La crisi s’è aggravata quando abbiamo deciso di non celebrare separatamente, per i baraccati in parrocchia e per gli altri in una cappella nel loro quartiere: la parrocchia è una sola e l’Eucaristia si celebra insieme! Niente da fare, hanno incominciato a frequentare la Messa in un’altra parrocchia vicina, la chiesa del vecchio quartiere di Tondo, dove già si recavano in passato. E’ un episodio tutt’altro che bello, ma noi sapevamo che non era possibile «conciliare», perché stando da una parte, quelli dell’altra ci avrebbero rifiutati, e viceversa. Abbiamo scelto la parte più povera.

Ho già detto che probabilmente ci siamo trovati troppo presto nella difficile situazione di Tondo, infatti ci era difficile orientarci in quel mare di problemi ed impostare una pastorale adeguata.

Posso dire che ... abbiamo tentato un po’ di tutto! C’erano gli asili da tenere aperti e pagavamo alcune maestre perché vi lavorassero; abbiamo aiutato a riparare case pericolanti e a costruirne alcune nuove; per chi voleva dedicarsi al piccolo commercio di pesce o di verdure abbiamo prestato piccoli capitali senza interesse, in modo da permettere loro di iniziare questo lavoro; abbiamo organizzato degli incontri, dibattiti, conferenze sui problemi religiosi e sociali... ma ci sembrava che tutto finisse in niente. Se fai un’elemosina oppure offri un aiuto finanziario più consistente, ti ringraziano ma poi non si fanno più vedere. Qualcuno non riesce a restituire i soldi e si vergogna, altri diventano più ricchi, ma anche più egoisti; per loro c’era un miglioramento sociale, ma non cambiavano dentro, e le nostre iniziative non incidevano sugli uomini. Le nostre prime iniziative sono tutte fallite e anche l’aiuto ai più poveri non approdava a nulla. C’era veramente da scoraggiarsi, da chiedersi a che cosa valesse la nostra presenza nelle Filippine.

8. Chiesa in dialogo con la gente, specie con i poveri

Il brano che riproduciamo è tratto dalle «dichiarazioni e raccomandazioni della 1a Assemblea plenaria della Federazione delle Conferenze dei vescovi asiatici, svoltasi a Taipeh (Formosa) dal 22 al 27 aprile 1974. Testo nel volume «I semi del Vangelo - Studi e interventi dei vescovi d’Asia», E.M.I., Bologna 1975, pagg. 19-21.

Una Chiesa locale in dialogo con la sua gente significa, in molti paesi dell’Asia, in dialogo con i poveri. L’Asia in grandissima parte è composta di masse di poveri. Poveri non tanto di valori e qualità umane e di potenziale umano, ma poveri nel senso che a queste masse viene impedito l’accesso ai beni materiali e alle risorse di cui hanno bisogno per crearsi una vita veramente umana. E ciò perché vivono nell’oppressione, cioè, in strutture sociali, economiche e politiche che sono intrinsecamente ingiuste. Questo dialogo deve prendere la forma di quello che è stato definito «un dialogo di vita». Esso comporta una genuina esperienza e comprensione della povertà, privazione e oppressione che affliggono tanta nostra gente. Esso esige che si lavori non solo per i poveri (in modo paternalistico), ma con i poveri, per imparare da loro (e abbiamo molto da imparare da loro!) quali siano le loro reali necessità e aspirazioni, e perché essi siano messi in grado di identificarle, esprimerle e combattere per soddisfarle, trasformarle,trasformando le strutture e le situazioni che li costringono nella privazione e nella impossibilità di reagire. Questo dialogo conduce ad un sincero impegno e sforzo per far nascere la giustizia sociale nelle nostre società. Tale impegno a sua volta domanderà «un’azione e riflessione nella fede» attiva e organizzata (la cosiddetta «coscientizzazione»). E’ un lavoro che mira a cambiare e trasformare le strutture sociali ingiuste. In questo modo, gli emarginati e gli oppressi diventano effettivamente responsabili e partecipi nelle decisioni che determinano la loro vita, e perciò capaci di liberare se stessi. In questo modo, coloro che (coscientemente o no) mantengono queste strutture possono rendersene conto e forse convertirsi alla giustizia e alla libertà del’amore cristiano per i loro fratelli. Il Sinodo dei Vescovi del 1971, nel documento «La giustizia nel mondo», ha affermato che «l’agire per la giustizia ed il partecipare alla trasformazione del mondo ci appaiono chiaramente come di mensione costitutiva della predicazione del Vangelo, cioè della missione della Chiesa per la redenzione del genere umano e la liberazione da ogni stato di cose oppressivo». Noi riaffermiamo questo insegnamento perché lo riteniamo, ai nostri giorni, elemento essenziale della «predicazione della Buona Novella ai poveri». E’ nostra convinzione che Cristo stia lanciando un appello alle Chiese d’Asia proprio attraverso lo stato di privazione materiale del nostro popolo povero, come pure attraverso il suo enorme potenziale umano, le sue aspirazioni verso un mondo più pienamente umano e fraterno. Impegnandoci in questi compiti di giu stizia secondo lo spirito e le esigenze del Vangelo, constateremo che la ricerca della santità e della giustizia, l’evangelizzazione e, d’altra parte, la promozione del vero sviluppo umano e la liberazione non solo non si oppongono tra loro, ma costituiscono oggi la predicazione integrale del Vangelo specialmente in Asia. Ci ripromettiamo dì incoraggiare e sostenere continuamente e generosamente coloro che sono impegnati in questi compiti e coloro che crediamo aver ricevuto una chiamata speciale da Dio per identificarsi coi poveri, e lo faremo specialmente quando essi incontreranno nel loro lavoro difficoltà, opposizioni e fallimenti.

9. Convince soprattutto l’esempio personale

Testo dal comunicato finale del raduno regionale delle Conferenze episcopali dell’Asia orientale (Taipeh, Formosa, agosto 1973]. Dal libro «I semi del Vangelo - Studi e interventi dei vescovi d’Asia», Bologna 1975, pag. 34.

8. La solidarietà con i poveri ci porta a riesaminare la nostra personale posizione verso la povertà cristiana e il distacco dai beni materiali. Diviene convincente solo l’esempio di coloro che svolgono un apostolato nascosto ed efficace vivendo da poveri coi poveri. Essi sono profondamente ammirati e amati anche dagli atei. Questa è una eccellente maniera di accostare l’ateismo nella sua attuale forma asiatica: forse è la sola risposta valida alla diffusa opinione secondo cui la Chiesa cattolica è una religione che favorisce i ricchi, in contraddizione con quel segno di autenticità che Cristo stesso le ha dato quando ha detto: «Mi è stato dato lo Spirito del Signore; Egli mi ha mandato a portare la Buona Novella ai poveri, a proclamare la libertà ai prigionieri» (Lc. 4, 18).

10. Valorizzare l'esperienza degli altri

La parrocchia di S. Pablo Apostol, consacrata da mons. Carmine Rocco il Natale del 1972

Intanto, nel dicembre del 1972, il Nunzio Apostolico mons. Carmine Rocco benediceva la nuova chiesa, e nel febbraio seguente ci potevamo trasferire nella nostra abitazione fra le baracche. Decidemmo che per smuovere la situazione avevamo bisogno di aiuto, e ci rivolgemmo ad un organismo che già da tempo lavorava a Manila, anche se aveva suscitato opinioni molto diverse. L’«Institute of Social Order» dei Gesuiti, in collaborazione con il «Philippine Ecumenical Council for Community Organization», interconfessionale, teneva corsi di formazione per Organizzatori di Comunità (Community Organizers, c.o.). Alcuni di questi si erano messi a lavorare a «ZOTO» (Zone One Tondo Organization), svolgendo un’importante funzione di animazione. Il loro metodo era di andare ad abitare nel quartiere, visitare la gente, radunarli in piccoli gruppi, aiutarli a prendere coscienza dei loro problemi. Per la mancanza d’acqua, ad esempio, che veniva venduta a secchi, li facevano riflettere sul fatto che non è «normale» dover pagare per pochi litri mentre in città l’acqua scorre abbondante per fontane e giardini. «E’ sempre stato così», dicono i baraccati.

«Vediamo se si può cambiare», insistono i c.o., e propongono un raduno. Nell’incontro qualcuno suggerisce di chiedere l’acqua al municipio, ma altri sono sfiduciati, pensano che nessuno darà loro ascolto. Pian, piano, però emerge che, se si è numerosi e si sta uniti, forse qualcosa vai la pena di tentare. La gente vorrebbe scaricare sui c.o. la responsabilità di organizzare, di parlare, di protestare, ma questi rifiutano: vogliono che sia la gente stessa a toccar con mano che è capace di cambiare la situazione, E’ un metodo di coscientizzazione lento, che parte dalle piccole cose, ma che fà veramente cambiare la realtà sociale. Questi c.o., formati da enti religiosi, quasi sempre però lavoravano emarginati dalla comunità ecclesiale. I parroci, che spesso preferiscono l’attività assistenziale,, tradizionale, li consideravano dei mezzi sovversivi e li rifiutavano, sia a ZOTO come in altri ambienti. Il contrasto è sostanzialmente un contrasto di mentalità, di impostazione del lavoro sociale. Molti vogliono la promozione e il miglioramento sociale del povero, ma si spaventano quando il povero protesta, avanza dei diritti, prende in mano la situazione e la orienta come vuole lui.

p. Cocquio durante una funzione liturgica

L’accusa di estremismo non scatta solo quando ci sono episodi di violenza, ma anche quando si applica la «non violenza attiva» (che magari viene lodata quand’è applicata da altri che sono lontani, come Gandhi o Martin Luther King...). Nel Natale del 1971, ad esempio, l’allora Arcivescovo di Manila card. Rufino Santos rifiutò di finanziare un Centro sociale perché in esso erano presenti i c.o. Allora mille abitanti di ZOTO si recarono in cattedrale, portando ciascuno una busta con un centavo (circa 15 lire). Al momento dell’offertorio, tutti e mille portarono all’ altare la loro offerta «di protesta», mentre la presidentessa di ZOTO prendeva il microfono e spiegava ai presenti il significato di quell’ azione. Naturalmente successe un mezzo finimondo, il Cardinale interruppe la Messa, la notizia finì su tutti i giornali, con grave scandalo di molti.

11. Inizia un nuovo metodo, con una nuova mentalità

A noi sembrava però che, fondamentalmente, la metodologia dei c.o. fosse buona (a parte il giudizio su questa o quella singola azione), perciò decidemmo di ribaltare l’atteggiamento fin lì tenuto dai preti e di essere noi ad invitarli. Ne vennero sette, finanziati dal «Philippine Ecumenical Council for Community Organization», e si stabilirono fra noi. Erano quasi tutti giovani, celibi, si misero subito al lavoro con entusiasmo e noi con loro. Era la prima volta che queste persone collaboravano ufficialmente e senza contrasti con una «struttura» di Chiesa come una parrocchia. In breve emerse anche nella nostra zona il problema dell’acqua e un forte gruppo di baraccati decise di andare dal sindaco a chiederla. Scelsero i loro portavoce e rappresentanti (e spesso in questi compiti sono molto più abili le donne che gli uomini, almeno nelle Filippine) e poi discussero fra loro su com’era andata la dimostrazione, quali errori si erano commessi, che cos’altro si poteva organizzare e così via. In un secondo momento, ottenuta l’acqua, si discusse anche sui risultati di quest’azione al’interno del villaggio, del quartiere, delle coscienze dei singoli. Nel luglio del ‘73 si compì un altro passo avanti significativo: 70 leaders di Tondo si radunarono per una «tre sere» e alla fine nacque il nuovo consiglio pastorale, con i vari comitati: per l’elettricità, per l’acqua, la catechesi, la liturgia, la scuola.

L’operosltà della gente di Tondo si manifesta in vari lavori che però sono insufficienti a garantire un migliore livello di vita e superare lo stato di emarginazione sociale. L’evangelizzazione è un impegno di giustizia e di promozione umana

I comitati non erano stati suggeriti da noi, ma erano i parrocchiani stessi a proporli. Anche la costituzione del Consiglio pastorale non rappresentò però un passo definitivo, la creazione di una struttura immutabile; al contrario, presto si vide la necessità di cambiare impostazione, per rispondere meglio alle esigenze di tutto il quartiere. Ma di questo parlerò più avanti, ora forse è il momento di portare qualche esempio pratico della nostra azione a Tondo.

Proprio 15 giorni dopo la formazione del Consiglio Pastorale della parrocchia, capita una crisi del riso: in tutta la città il riso è introvabile, e la gente non sa più come cavarsela. Il governo organizza dei magazzini mobili, camions che si recano nei vari quartieri, protetti da militari dell’esercito, a vendere riso a prezzi calmierati. Ma a Tondo non si vede nulla: non siamo nemmeno segnati sulla carta geografica e nessuno si ricorda della nostra zona. Decidiamo di andare all’ufficio incaricato della distribuzione del riso. Raccogliamo firme, poi ci rechiamo numerosi in municipio. Arrivando là ci accorgiamo che molti altri stanno silenziosi nelle sale d’aspetto, con richieste a nome di questo o quel gruppo, ma ciascuno pensa a sé. Noi invece arriviamo in settanta, e andiamo dritto dritto nell’ ufficio del Segretario nazionale dell’ agricoltura. Un po’ di trambusto, poi spieghiamo in quale situazione si trovano le migliaia e migliaia di baraccati di Tondo.

Ne parliamo non solo con le autorità, ma anche con la dattilografa, l’usciere, l’uomo delle pulizie... Fatto sta che in due ore ci viene assegnato il riso e il nostro quartiere può tirare un sospiro di sollievo. I frutti di questa azione vanno oltre il riso ottenuto. La gente capisce che l’unità è una forza, ma capisce anche che per avere questa unità bisogna superare le antiche rivalità fra i diversi blocks. Il giorno dopo, i 70 che sono andati in municipio si radunano insieme a molti altri.

Per una volta hanno qualcosa di cui discutere e fraternizzare, nel ricordo di ciò che è stato fatto il giorno prima. Noi non abbiamo mai «preso di petto» le divisioni all’ interno del quartiere e fra i vari blocks, ma queste sono scomparse pian piano, in proporzione all’aumento degli interessi e degli impegni comuni.

12. L’ acqua e la terra: la gente si unisce

Analogo problema e analoga soluzione abbiamo trovato a proposito dell’acqua. In silenzio, senza disturbare e creare confusione, 70-80, fino a 90 persone quasi tutti i giorni si recano in comune a presentare una petizione per avere qualche rubinetto d’acqua nel quartiere e non essere più costretti a prenderla a pagamento dalle autobotti o dai carri o andare lontano qualche chilometro a prenderla. All’inizio c’è irritazione da parte delle autorità, ma poi il sindaco si decide a venire di persona per constatare come si vive a Tondo e resta stupito e scandalizzato! Ricordo ancora la data esatta: era il 4 agosto del ’74 e immediatamente il sindaco dà ordine di fare arrivare l’acqua fino alle baracche; pochi giorni dopo incominciano a funzionare i primi quattro rubinetti (ora sono 12). Per la inaugurazione, oltre al sindaco abbiamo invitato mons. Mariano Gaviola, il vescovo che la Conferenza Episcopale aveva incaricato di seguire il problema dei baraccati. Si svolge una liturgia, preparata dalla gente attraverso discussioni e riflessioni, poi il Vescovo sviluppa una riflessione teologica a partire dall’ esperienza concreta: l’acqua segno di salvezza, Gesù che afferma di essere l’acqua che può soddisfare la nostra sete di uomini, ecc.

La paziente attesa al rubinetto

Il problema dell'acqua, che nei quartieri delle baracche veniva portata a pagamento da autocisterne, ha rappresentato un motivo di coscientizzazione sociale e di unione in difesa dei diritti comuni. La decisa posizione degli abitanti di Tondo ha costretto le autorità a installare dei rubinetti nel quartiere.

Ancora un altro esempio può venire dal problema della terra, il più grave. Come ho già detto, Tondo è una zona bellissima, molto adatta per un quartiere residenziale o turistico. Inoltre, la bonifica era stata fatta certo non con lo scopo di creare una baraccopoli. C’è una vecchia legge, promulgata dal predecessore di Marcos la quale stabilisce che, nel caso il governo voglia vendere la terra, deve dare la precedenza a chi già l’occupa (cioè ai baraccati), cedendola al prezzo di 5 pesos al metro quadrato. Finora però il governo non ha mai voluto vendere, ma soltanto dare delle concessioni, con la clausola che, nel caso si faccia una ristrutturazione del quartiere, la gente deve sloggiare. Inoltre, il prezzo di mercato della terra a Tondo è salito a 150 pesos.

Tutto ciò, com’è facile immaginare, è causa di tensione e di preoccupazione continua e la gente ha sempre paura che vengano prese decisioni improvvise, senza tener conto dei loro problemi. Va bene ristrutturare un quartiere, ma coloro che già abitano lì hanno diritto ad una sistemazione conveniente e non vanno semplicemente allontanati oppure sistemati in zone lontanissime, dove anche il poco lavoro che si riesce a trovare a Tondo diventerebbe del tutto impossibile! La nostra prima azione su questo problema è consistita nella richiesta di essere ascoltati. La gente ha capito che non doveva restare passiva, sempre con la paura, semplicemente sperando che il piano regolatore rispettasse le loro esigenze.

Un ragazzo si reca a prendere l'acqua

Abbiamo invece creato un comitato formato da tre rappresentanti per ognuna delle zone di Tondo, e abbiamo detto alle autorità che avrebbero dovuto ascoltare anche questi rappresentanti, prima di prendere decisioni a proposito della nostra terra. Hanno accettato, promettendo di tener conto dei nostri diritti. Inoltre, quando siamo venuti a sapere che la sistemazione di Tondo sarebbe stata finanziata dalla World Bank, i nostri rappresentanti sono andati anche là. I funzionari della Banca (americani, inglesi e indiani) hanno partecipato ad un’assemblea nella nostra parrocchia ascoltando le precise richieste della gente: mandar via il minor numero possibile di persone, creare infrastrutture adeguate (fognature, luce, acqua, ecc.) e così via. Anche loro hanno promesso di tener conto delle nostre esigenze. Una bella differenza rispetto a quando si aveva paura ad andare in municipio per chiedere il riso...

13. Il «Consiglio della comunità cristiana»

Il riso, l’acqua e la terra non sono che esempi, ma azioni simili sono state condotte anche per tanti altri problemi: per l’elettricità, per la scuola, per le medicine, ecc. Non sempre abbiamo avuto successo, ma ogni volta è aumentata la partecipazione cosciente della gente, e anche si è approfondita la riflessione religiosa, di fede su questi fatti. La gente capiva queste liturgie perché partivano dalla vita del quartiere e perché non erano preparate e condotte solo dai sacerdoti, ma impostate in modo veramente comunitario. Intanto, pian piano, ci siamo convinti — come ho già accennato —, che il Consiglio Pastorale Parrocchiale era insufficiente, perché veniva ancora visto come troppo limitato al giro dei «fedelissimi» della parrocchia. Noi invece volevamo che diventasse più legato al quartiere, sentito da tutti come proprio. Nel maggio del ’74 più di cento animatori del Consiglio Pastorale e dei suoi comitati si sono incontrati con noi e con i rappresentanti di altri gruppi del quartiere per valutare insieme il lavoro svolto fino a quel momento, giudicare i metodi e i risultati, programmare il futuro. In quell’occasione abbiamo sciolto il Consiglio Pastorale come tale ed è nato un nuovo gruppo direzionale del quartiere, non totalmente indipendente dalla parrocchia, ma nemmeno più legato come prima. Nell’ ottobre dello stesso anno la gente ci dice che è arrivato il momento: iniziamo il «Consiglio della Comunità Cristiana» (chiamato anche «People’s organization»), che raduna tutta la popolazione del quartiere. Si chiama Comunità «Cristiana» perché a Tondo più o meno tutti si riconoscono cristiani e perché talvolta svolgiamo momenti di preghiera e liturgie anche a livello così generale; in realtà però non deve confondersi con la parrocchia, che costituisce una delle componenti di base del «Consiglio della Comunità Cristiana», la cui struttura è totalmente democratica. Io ad esempio facevo parte del Comitato direttivo, ma a titolo personale e non in quanto parroco, e senza diritto di voto: è la gente che deve decidere.

14. Tondo incomincia a dar fastidio

Questa nuova struttura, lentamente ha incominciato a collegarsi anche con organismi delle altre zone di Tondo, per dare sempre maggior efficacia alla nostra azione e per superare ogni tipo di divisione. Ma non mancavano i problemi. Anzitutto la parte «bene» della nostra parrocchia (non baraccati e non abusivi) ha rifiutato ancora una volta di unirsi ai baraccati e di entrare a far parte del Consiglio; inoltre i vecchi «leaders» politici e dei quartieri hanno sempre avuto contro di noi un’ostilità durissima. Prima facevano il bello e il brutto tempo, ma a partire dal nostro arrivo si son visti scivolar via di mano il potere dispotico: allora hanno lasciato da parte le loro ostilità reciproche per unirsi contro di noi. Abbiamo tentato di «recuperarli» invitandoli all’interno dell’organizzazione e proponendo per loro anche posti di responsabilità, ma non c’è stato niente da fare: abituati a comandare, era impossibile per loro accettare il gioco democratico e del rispetto degli altri! Così hanno incominciato ad accusarci di sovversione, di comunismo, di violazione della legge marziale, hanno detto che facevamo politica e fomentavamo la sovversione... E allora sono venuti i guai con l’autorità civile e militare. Alcuni giovani e alcuni responsabili del Consiglio della Comunità Cristiana sono stati arrestati. Nel ‘74 p. Alessi (superiore regionale del P.I.M.E. nelle Filippine, che appoggiava molto il nostro lavoro a Tondo) e io siamo stati chiamati una prima volta da alcuni generali, alla presenza di alcuni di questi vecchi capi di Tondo, che ci accusavano di sovversione. Hanno anche tentato di fare un po’ di «teologia», spiegandoci che i missionari e i preti in genere dovrebbero limitarsi a dire la Messa, pregare, spiegare il catechismo. Prevedendo questo, avevamo portato i Documenti del Concilio e alcuni Documenti della Conferenza Episcopale delle Filippine. Con calma, potevamo rispondere alle varie accuse dicendo: «Ascolta bene quello che dice la Chiesa e quello che devono fare i preti» e leggendo questo o quell’altro passo adatto.

Le industrie di Manila (nella foto è un saponificio) impiegano lavoratori di Tondo ma non rispettano alcuna norma di giustizia nei loro cofronti, neppure nei minimi salariali. Ogni forma di rivendicazione e considerata sovversiva e come tale punita

Erano profondamente stupiti! Per quella volta, come anche in seguito quando siamo di nuovo stati chiamati insieme con i capi del Consiglio, si è trattato di un incontro calmo e chiarificatore, in cui abbiamo precisato che il nostro lavoro non era «sovversivo» ma puntava semplicemente a sollevare i baraccati dalle loro impossibili condizioni di vita. Anche con il sindaco Ramon Bagatsing abbiamo avuto diverse discussioni e mostrava di capirci; qualche volta lui venne anche a colazione da noi. Ora però anche la struttura amministrativa di Manila è stata sconvolta: c’erano diversi municipi, ciascuno con un sindaco: tutti sono stati deposti, si è formato un solo municipio, affidato ... alla moglie del Presidente della Repubblica, signora Imelda Marcos! Amicizia e sostegno abbiamo incontrato pure in alcuni ufficiali e qualche impiegato civile, in molti sacerdoti, suore e alcuni Vescovi. La nostra parrocchia faceva parlare di sé e qualcuno veniva a trovarci per vedere come funzionava il nostro lavoro, soprattutto sul piano della comunitarietà.

15. Le nostre azioni «sovversive»

Ma qualche amicizia «in alto loco» era purtroppo insufficiente a «bilanciare» i timori, le inimicizie, le calunnie che il nostro lavoro faceva sorgere. Cerco di ricordare gli episodi principali che hanno suscitato reazioni nelle autorità, reazioni che sono poi culminate con la nostra espulsione. Il 27 novembre 1974 le tre zone di Tondo hanno organizzato una marcia di protesta, alla quale hanno preso parte circa cinquemila persone. Ceravamo anche noi della parrocchia (ormai parte a pieno titolo del «Consiglio della Comunità Cristiana», che aveva aderito alla manifestazione) e in quell’occasione sono stato fermato per alcune ore dalla polizia, insieme a p. Vancio. Nel febbraio del ‘75, durante la Quaresima, abbiamo svolto in città una Via Crucis all’aperto, impostata sulla sofferenza di chi patisce ingiustizie. Anche questo ha dato molto fastidio e ci siamo visti riprendere alcuni brani, letti durante la Via Crucis, come fossero brani di chissà quale rivoluzionario marxista. Erano passi tratti dai Salmi! Nell’aprile dello stesso anno abbiamo raccolto firme per la liberazione di un ex senatore dell’opposizione, Aquino, che da molto tempo è in attesa di giudizio (rischia la pena di morte) e che da venti giorni faceva lo sciopero della fame. Anche questa raccolta di firme è stato un capo di accusa contro di me. Il 12 giugno si è svolto un servizio ecumenico, con le altre chiese cristiane di Manila, in cui sono state lette dichiarazioni di operai, studenti, baraccati, a proposito della loro ricerca di liberazione. Erano presenti migliaia di persone, non solo di Tondo, e naturalmente abbiamo dato fastidio. Il 16 ottobre, sempre del ‘75, un Vescovo filippino, mons. Julius Labayen, si è recato all’ambasciata coreana per chiedere la liberazione di un poeta cattolico sudcoreano, in carcere sotto l’accusa di sovversione comunista (cfr. Mondo e Missione, febbraio 1976, pagg. 79-80). Mentre il Vescovo parlava all’ambasciatore, un gruppo di Tondo si è recato fuo ri dell’edificio dell’ambasciata, con l’intenzione di pregare per il poeta coreano. Siamo stati fermati e identificati (eravamo circa 150) perché le «adunate politiche» non sono permesse. Un fatto sintomatico di come si volesse procedere contro di me (pensavano che, eliminandomi, molto del lavoro di coscientizzazione sarebbe finito, invece non è stato così!) è quello dello sciopero alla distilleria Tondena, che si trova nella nostra parrocchia. Si tratta di uno stabilimento che dà lavoro a 800 persone, ma che ha un contratto regolare, con contributi sociali, soltanto per 300. Gli altri 500, ormai da 15 anni, vengono assunti per due mesi, poi licenziati, poi riassunti di nuovo, e così via, in modo che non si debbano versare contributi, assicurazioni, indennità, liquidazioni, né rispettare i minimi salariali. Alla fine dello scorso anno i lavoratori, stanchi, hanno deciso di iniziare una lotta per cambiare la situazione ed hanno chiesto l’appoggio del «Consiglio della Comunità Cristiana» (fra parentesi, mi sembra importante dire che nelle Filippine quasi sempre i poveri chiedono l’appoggio della Chiesa per i loro problemi di giustizia e promozione umana). Fra l’altro, in quell’ occasione, è stata celebrata una Messa nella chiesa di S. Cruz, con la partecipazione di oltre venti concelebranti, cinquemila lavoratori, molte religiose. La nostra parrocchia ha lavorato intensamente per sostenere questa lotta e in breve la polizia ha preparato un elenco di «sovversivi» facendomi l’onore di mettermi primo nella lista. C’è però un piccolo particolare da ricordare: la protesta dei lavoratori della Tondena e l’appoggio della parrocchia si sono sviluppati nel mese di ottobre, proprio quando io mi trovavo a Cebu, un’ isola che dista da Manila circa 600 chilometri...! Ma credo che la classica «goccia che fa traboccare il vaso» sia stato il problema di fondo, quello della terra. Da quando la situazione è in mano a Imelda Marcos, i guai e le preoccupazioni dei baraccati sono aumentati. Lei ha detto che vuole costruire il nuovo palazzo municipale proprio a Tondo, «proprio vicino ai poveri», ma credo che se verrà il municipio, i poveri dovranno sloggiare; inoltre ha fatto demolire molte baracche che si trovavano in riva ai fiumi, dicendo che erano pericolose in caso di inondazioni. E’ vero, ma questa gente non può venir sbalestrata di qua e di là: se vengono mandati via da una parte, bisogna pure sistemarli decentemente da un’ altra. Invece demolivano, caricavano quelle quattro assi e quattro lamiere su un camion e scaricavano il tutto a molti chilometri di distanza, dove i baraccati avrebbero dovuto ricominciare daccapo senza sapere dove trovare lavoro. Per questo, nel dicembre-gennaio del ’75-’76 tutti i baraccati di Manila si sono riuniti in un «Comitato dei poveri contro la demolizione», i cui 20 rappresentanti, insieme a quattro Vescovi, sono stati ricevuti da Imelda Marcos proprio pochi giorni prima della mia espulsione. Le strutture di questo nuovo organismo sono nate in un’assemblea di 600 rappresentanti delle 67 baraccopoli. Tutto questo evidentemente intralcia i piani dei «capi», abituati a decidere a tavolino senza chiedere il parere dei diretti interessati: si ha poi buon gioco nel dire che si tratta di «sovversione». E’ proprio stupido, agli occhi di un benpensante opporsi alla demolizione delle baracche; ma dentro le baracche ci sono delle famiglie, degli uomini che non possono essere trattati come cose!

16. Il Vangelo è un cammino di liberazione

L'uscita dalla Messa domenicale della vecchia chiesa di Tondo, una baracca di legno come la maggior parte delle case del quartiere

Ho già spiegato che all’inizio della nostra presenza a Tondo abbiamo tentato diverse strade per impostare il nostro lavoro e smuovere la situazione. Ora, dopo aver parlato prevalentemente dell'azione «sociale», vorrei dire qualcosa di quella più propriamente religiosa, anche se la divisione è un po’ arbitraria nel nostro caso, perché l’una e l’altra si intrecciavano continuamente. Per cercare di spiegarmi mi chiedo di nuovo: perché i metodi «tradizionali» non funzionavano? Altre parrocchie a Manila, fra cui anche le due che si trovano a fianco della nostra a Tondo, continuano con questi metodi e io non voglio affatto dire che stiano sbagliando. Per noi però si ripeteva sempre la stessa storia: radunavamo la gente, ad esempio, per una serata sulla Bibbia, di cui venivano letti e spiegati alcuni capitoli; la prima volta venivano trenta persone, la seconda venti, poi dieci... Predicavamo cercando di essere chiari e vivaci, ma ci sembrava di parlare nel vuoto. I cristiani di Tondo hanno un livello di istruzione minimo e un tipo di cultura totalmente diverso dal nostro che, volere o no, siamo impregnati dei modi di vita, delle immagini, dei problemi, dei sentimenti con cui siamo cresciuti in Italia o negli Stati Uniti.

Qualcuno di loro, con molta sincerità, ha avuto il coraggio di venirmi a dire: «Padre Gigi, non capisco proprio niente di quello che dici!». E sì che io non sono mai stato un «intellettuale» che usa paroloni! Abbiamo anche invitato dei teologi, gente esperta nella catechesi. Venivano, parlavano e poi chiedevamo ai presenti: «Che cosa avete capito?». Niente o poco più di niente. Allora pregavamo il teologo di spiegarsi meglio, di usare un linguaggio più facile; niente da fare, quello non riusciva ad esprimersi... Ridevamo tutti insieme, ma erano lezioni tremende per quelle persone, che poi mi hanno detto di avere imparato molto più venendo a Tondo che non studiando nelle biblioteche. Alcuni di loro, insegnanti e studiosi, adesso vengono spesso proprio per sentire le riflessioni della gente sulla Bibbia.

17. La Chiesa deve nascere fra i poveri

E’ stato proprio questo muro di difficoltà insormontabili che ci ha costretti a cercare qualcosa di nuovo, ma per fortuna l’intuizione è stata che non bastava inventare un’ altra metodologia più efficace, ma bisognava ricominciare con una diversa mentalità da parte nostra. Ci siamo detti che occorreva cambiare prospettiva: avendo fallito come maestri e come «soccorritori», bisognava diventare ascoltatori, fare comunità e crescere con loro, cercare insieme le cose di cui hanno bisogno. La nostra idea di fondo ce la siamo poi trovata ben esposta proprio nei Documenti dei Vescovi asiatici riunitisi a Taipeh (Formosa) nell’ aprile del ‘74 (cf. M.M., dic. 1975, pp. 639-640). In essi si spiega che la Chiesa deve avere un atteggiamento di condivisione con i poveri, per capire e vivere i loro problemi, affinché possano liberare se stessi dalle situazioni di miseria e di ingiustizia in cui si trovano. La nostra impostazione potrei sintetizzarla così: 1) Costruire la Chiesa fra i baraccati. 2) La Chiesa è la comunità dei credenti in Cristo. Ed è in Cristo che l’uomo viene liberato dal peccato e dalle sue conseguenze che l’opprimono. Ma fa parte di questa liberazione anche il dare una voce a chi non ce l’ha, perché possa esprimersi liberamente e indicare quali sono le angosce che lo opprimono. 3) La soluzione dei problemi della comunità non viene dall’alto, ma dalla comunità stessa che riflette alla luce della Parola di Dio e della esperienza cristiana. Ho già parlato dell’acqua. In una situazione simile, normalmente si cercano aiuti economici per scavare un pozzo o costruire un piccolo acquedotto. Noi abbiamo agito diversamente. Il risultato esterno è identico: l’acqua è arrivata e non è che noi ne abbiamo più degli altri. Però c’è una differenza interiore: impegnandosi per dare a se stessi l’acqua, gli uomini si sono sentiti più forti, più dignitosi, più capaci e consapevoli dei loro diritti. L’acqua non è frutto della beneficienza altrui, ma del proprio lavoro o della rivendicazione dei propri diritti. Oggi a Tondo gli «Organizzatori di comunità», di cui ho parlato all’ inizio, sono tutti del posto, ed hanno sostituito quelli venuti dall’esterno. Ne abbiamo 24 che lavorano a tempo pieno nella parrocchia.

18. La catechesi fra i ragazzi

p. Cocquio intona un canto durante un incontro parrocchiale

La catechesi è una lettura della vita alla luce del vangelo e la fede è anche un’espressione gioiosa cui partecipa tutta la comunità cristiana. p. Cocquio intona un canto durante un incontro parrocchiale La catechesi è una lettura della vita alla luce del vangelo e la fede è anche un’espressione gioiosa cui partecipa tutta la comunità cristiana.

L’attività religiosa è impostata sugli stessi criteri. Per la catechesi ai ragazzi, ad esempio, abbiamo 4 catechisti a tempo pieno che conoscono e visitano le famiglie, s’interessano anche dei giochi, della scuola e svolgono catechesi radunando tutti i giorni gruppetti di ragazzi in posti diversi: nelle abitazioni private, in chiesa, all’aperto, nei locali pubblici. Certo, per 25- 30.000 abitanti 4 catechisti possono far poco e i ragazzi che riusciamo a raggiungere sono poche centinaia, però si radunano tutti tre volte la settimana per 10 mesi all’anno e la loro azione si estende a macchia d’olio. La catechesi sviluppata in posti diversi aiuta molto a capire che non è qualcosa di specialistico, per iniziati, non si tratta di un fatto «dei preti» e di quei pochi che bazzicano in parrocchia, ma un problema e una proposta per tutti. Come metodo, seguiamo più o meno la linea della Bibbia, che è sempre aderente a temi pratici e concreti. Abramo e la terra promessa è un racconto che i ragazzi vivono: andiamo insieme a visitare Tondo e altre zone dove i baraccati temono di essere mandati via, si riflette sul fatto che Dio vuol dare una terra agli uomini perché diventino «suo popolo» e che bisogna impegnarsi, come Abramo, per raggiungerla e per aiutare chi non l’ha, rimediando alle attuali 24 distorsioni del piano di Dio... La Bibbia diventa vita. Un’altra facile riflessione nasce ad esempio dal fatto che Adamo dà il nome a tutte le creature. Gli uomini dunque sono chiamati a dominare le cose per il loro bene, hanno una dignità speciale nel creato.

Anche i bambini e i baraccati devono essere fieri di se stessi, non aver paura di parlare, desiderare di progredire e così via. La domenica, poi, si celebrano nell’Eucaristia le cose che i ragazzi hanno vissuto e imparato durante la settimana. Si fanno piccoli drammi, danze, canti, interventi preparati in precedenza dai ragazzi. Per aiutarli ad esprimersi c’è anche un giornaletto ciclostilato con le idee e le osservazioni dei ragazzi; esce una volta al mese ed è veramente interessante. Credo che questo sia un metodo di coscientizzazione del ragazzo, partendo non da un giudizio politico già formato, ma dagli elementi più semplici del Vangelo. Noi infatti puntiamo all’Evangelizzazione dell’uomo, ma non come aggiunta di qualche idea in testa e basta, bensì in modo vitale, incarnato nella realtà quotidiana dei ragazzi e degli adulti. Così il Vangelo diventa anche fermento di crescita umana.

19. Capire il Vangelo partendo dalla vita

Un gruppo di ragazze della parrocchia anima uno spettacolo

Per gli adulti, attualmente vi sono 12 gruppi di riflessione, per un totale di circa 250 persone che si radunano tutte le settimane nelle loro case, quasi sempre con la presenza di uno dei sacerdoti. Il metodo non è di partire dalla lettura, o dalla riflessione del prete, ma di iniziare dai problemi umani, per poi cercare delle indicazioni nella Parola di Dio; oppure di fare una «revisione di vita» su come abbiamo agito in questa o quella circostanza, per capire se e come abbiamo sbagliato o agito bene. Il nostro è indubbiamente un lavoro «di fermento» e non di massa. C’è nelle Filippine una pastorale di massa con grandi manifestazioni religiose e liturgiche. Noi non vogliamo abolirle, pensiamo però che si debba lavorare con cura e in profondità con le persone che sono realmente interessate e che possono diventare attive. Incontrarsi, parlare, aprirsi l’un l’altro, crescere insieme.

Il Vangelo diventa vita vissuta e acquista naturalmente una dimensione missionaria, ogni cristiano diventa cioè annunciatore per quelli con cui vive.

I gruppi di riflessione sono sorti come necessità di interiorizzare il lavoro che si fa. Noi abbiamo voluto coerentemente inserirci «alla pari» nella comunità dei poveri e nei loro problemi, perciò all’inizio non abbiamo impostato un discorso religioso esplicito, né spinto a formare gruppi di catechesi. Ma ben presto, sono stati loro stessi a fare la proposta di riflettere sulla Bibbia e noi naturalmente abbiamo aderito. Qualche sacerdote venuto a trovarci dall’Italia si è anche scandalizzato. Ci ha chiesto: ma dov’è la catechesi, dov’è la pastorale della parrocchia? Abbiamo risposto che queste cose non ci sono, ma sono nate e si sviluppano in maniera diversa. Il centro di tutto è un po’ la fedeltà ad un metodo comunitario. Adesione missionaria, ogni cristiano diventa cioè annunciatore per quelli con cui vive. esempio, per la celebrazione eucaristica, noi non stabiliamo: nei giorni feriali la Messa è all’ora tale, per poi celebrare magari sempre con le stesse quattro persone o anche da soli. A noi sembra più giusto dare grande importanza alla Messa domenicale, che è quella partecipata da tutti e per i giorni feriali rispondere alle esigenze della gente. Capita molto spesso che vengano a chiedere una Messa per un defunto, o per qualche necessità particolare, o per ringraziare. Qui in Italia vengono a «ordinare una Messa», lasciano l’offerta e tutto è fatto. Là invece diciamo: benissimo, prepariamo assieme a voi la Messa, che viene impostata sul «tema» per cui è richiesta e i partecipanti si impegnano a renderla più sentita con qualche loro preghiera, o con una scelta di letture, e altro. E anche se, così, non abbiamo la Messa quotidiana con l’orario esposto nella bacheca della parrocchia, non è forse questo un metodo più vivo e molto più valido dal punto di vista pastorale?

20. Vorrei crescere sana ma non posso

(Compito scolastico di una bambina di Tondo, Luzviminda Torres, 10 a.)

Vorrei ingrassare un po', però mi manca il cibo sostanzioso, perché quanto prende mia mamma non è sufficiente per noi fratelli e sorelle e non possiamo mangiare bene. Spesso non abbiamo da mangiare. D'altra parte, come può mia mamma guadagnare di più dal momento che non può fare altro che lavare e stirare? Lei non ha nemmeno finito le elementari. Un altro motivo per cui io sono magra e debole è perché noi abitiamo vicino al mare, dove molti vengono a fare i loro bisogni; noi viviamo in baracche e non ci sono gabinetti. L'odore della cacca infesta l’aria e invece di respirare aria pulita, respiriamo sempre la puzza. Un'altra puzza viene da una fabbrica vicina, puzza piena di veleni che mettono nei loro prodotti. Perciò molti di noi hanno i polmoni rovinati. Vorrei essere sana e più grassa, ma ora non posso.

21. La chiesa di S. Pablo Apostolo in Tondo

(Compito scolastico di una bambina di Tondo, Paulina Sebastian, 12 a.)

La chiesa di San Pablo Apostolo a Tondo è differente da tutte le altre chiese. Anche se è piccola, c'è un senso di fraternità e di aiuto vicendevole. Lo stile della chiesa è molto semplice. Ci sono lunghe panche, luci normali, senza statue e decorazioni. Non è come le chiese dei ricchi, dove ci sono tante luci e candele, poltrone soffici e cuscini dove ci si inginocchia, e tante pitture, marmi e oggetti scintillanti. Se guardiamo alla gente che va nelle grandi chiese, sono vestiti bene, con collane vistose, arrivano in automobile e danno anche l'offerta. E' vera questa devozione? Nella nostra parrocchia di San Pablo, la gente va in chiesa con le ciabatte che usano tutto il giorno e con i vestiti da lavoro, perché non hanno vestiti della festa. C'è anche chi porta i vestiti rotti e gli zoccoli. La loro elemosina sono poche monetine. Però questo non è importante.

L'importante è trattarci tutti da fratelli. Anche fuori della chiesa si può sentire il suono dei canti e delle preghiere recitate insieme. Nell’interno, di fronte c'è solo una grossa croce con dipinte scene della vita ordinaria dei poveri e questo crocione è diventato il segno della nostra speranza di aiutarci sempre l'un l'altro. Questa è la chiesa di San Pablo Apostolo a Tondo, la chiesa di noi poveri, il segno di Cristo in mezzo a noi.

22. Anche noi bambini dobbiamo formare la comunità cristiana

(Compito scolastico di una bambina di Tondo, Cristy Espineda, 12 anni)

Nel passato la gente qui a Tondo viveva disorganizzata, schiava di alcuni prepotenti. Senza accorgersi, erano diventati poveracci in tutti i sensi. Però adesso c'è un grande cambiamento. Noi siamo ancora bambini, però abbiamo già aperto gli occhi a quello che sta succedendo attorno a noi e ai diritti per cui dobbiamo lottare. Noi pure facciamo parte della società e abbiamo bisogno della giustizia. Sappiamo come si deve vivere da veri cristiani. Dobbiamo sempre aiutarci l'un l'altro e a questo modo potremo essere di buon esempio agli altri, specialmente a coloro che sono schiavi di se stessi. Noi siamo ancora piccoli, ma ci sentiamo di dire che se la gente si unisce può ottenere qualsiasi successo. Anche se le nostre menti sono piccole, capiamo già a che punto siamo e dove vogliamo arrivare. Quello che desideriamo è la salvezza di tutti. Perciò io invito tutti, anche i bambini, ad unirsi ai nostri sforzi, perché possiamo formare una comunità cristiana e il nostro amico Gesù Cristo, come pure coloro con cui viviamo, saranno contenti e felici assieme a noi.

23. I sacramenti, «segni» comprensibili

Mons. Gaviola, il «vescovo dei baraccati» nelle Filippine, in visita alla comunità cristiana di Tondo (al centro è p. Cocquio)

La domenica il criterio è uguale, ma naturalmente riguarda tutta la parrocchia e ci si prepara con la massima cura. Si «celebrano» gli avvenimenti della settimana, si prega per le cose che stanno veramente a cuore a tutti. Un’ora, o due ore per la Messa sono cosa normale, e nessuno si annoia. Ho notato con piacere che adesso i cristiani di Tondo pregano quasi sempre non per qualche piccolo interesse personale, ma per i problemi più gravi degli altri e anche di tutto il mondo. Non solo nella preghiera, ma anche nell’impegno sociale, all’inizio c’era scoraggiamento, poi si è passati all’ impegno per migliorare la propria situazione (avere la luce, le medicine, l’acqua...); ma ben presto gli orizzonti si sono allargati e oggi la parrocchia sa essere attenta, pregare e aiutare ben oltre i propri confini, giungendo fino ad interessarsi per chi è ingiustamente incarcerato in Corea, come nel caso che ho ricordato sopra. Credo che questo sia il segno di un progresso veramente entusiasmante in una concezione cristiana della vita! Per quanto riguarda gli altri sacramenti, cerchiamo di essere coerenti con l’impostazione generale della vita in parrocchia.

Il battesimo viene amministrato ai bambini solo se i genitori accettano di prepararsi e sono coinvolti nella comunità cristiana di fede e di azione. Questo sacramento infatti libera dal peccato attraverso la Grazia, immettendo in una comunità. Ora, fedeltà al battesimo significa credere, rinunciare al peccato e vivere comunitariamente liberandosi dall’egoismo e dall’individualismo e donando la propria vita per gli altri. Tutto questo deve essere ben presente e praticato dai genitori che chiedono il battesimo per i figli. Oggi i cristiani dicono: la Chiesa siamo noi, e lo dicono con convinzione; la parrocchia non è il luogo in cui ci s’incontra il sabato e la domenica, ma un centro di interesse e di attività quotidiano, dove tutti si sentono coinvolti e si trovano a casa propria. Il matrimonio anche richiede una preparazione, che culmina con la preparazione della liturgia. Gli sposi scelgono i testi e spiegano ai presenti come intendono la loro scelta di amore, invocando la grazia di Dio sulla loro unione. Non si tratta affatto di una liturgia «spontanea», anzi è preparata per mesi, insieme ai sacerdoti, in modo che esprima veramente ciò che gli sposi stanno vivendo, ed è preceduta da meditazione, preghiera, discussione. A me pare che in questo modo i Sacramenti siano davvero «segni» che parlano alla gente e non cerimonie schematiche e prive di vita. Certo, non tutti i parrocchiani sono d’accordo con questa impostazione e qualcuno vorrebbe tornare ai metodi vecchi, che sembrano più comodi. Ma noi pensiamo che non ci si debba spaventare di essere in pochi. Oggi le Filippine sono oppresse da una minoranza che è circa il 3% della popolazione; perché non si può sperare che un’altra minoranza (magari solo del 3%) possa innestare un processo di liberazione, rappresentare il fermento di rinnovamento dì cui hanno bisogno Chiesa e società nelle Filippine?

24. Superare una religiosità individualista

Vado avanti prendendo lo spunto da altre obiezioni che mi sono state mosse da amici (posso assicurare che obiezioni e critiche non mi sono mancate!). Qualcuno dice: beh, non avete fatto niente di nuovo, anche da noi ci sono i gruppi del Vangelo. Benissimo, non voglio certo dire che ciò che si fa a Tondo sia un’ esclusiva di Tondo ... Però credo che una differenza ci sia, ad esempio, tra i nostri gruppi e quelli che conosco qui in Italia, ed è nell’approccio, nel metodo: qui si sta più sul piano delle idee, della teoria, si discute sull’una o sull’altra frase del Vangelo per trarne delle conseguenze spirituali o pratiche. Da noi, come ho già detto, è il contrario: è la vita, sono i fatti che ci fanno andare al Vangelo per un confronto. A me sembra che i risultati ci siano e stanno proprio nella crescita della fraternità, del servizio, dello spirito comunitario. Il Natale dell’anno scorso è stato difficile: prezzi in aumento, povertà, incertezza per il futuro. Ho chiesto, durante un gruppo di riflessione: come hai trascorso il Natale? «Non avevamo niente da mangiare, la notte volevo fare un po’ di festa con i miei figli, ma non c’era nulla. Così abbiamo pianto un po’, poi abbiamo pregato e siamo andati a letto». «Allora è stato un Natale triste!». «No, affatto, è stato un Natale felice perché è il primo Natale in cui ci siamo incontrati fra amici, ci siamo voluti bene». A sentire cose del genere mi commuovo, come quando un amico mi regala una banana o una coppia di sposi poverissimi mi portano un po’ di frutta e io so quanto l’hanno pagata! Questo non è crescere in Cristo? Qualcuno obietta che la nostra impostazione comunitaria rischia di trascurare un po’ l’interiorità personale, la preghiera individuale, la crescita spirituale del singolo. Non voglio certo affermare che tutto sia perfetto e che non si debba tener conto di queste e altre osservazioni. Però bisogna collocarle nel contesto di Tondo. Là non c’è ateismo, tutti sono in qualche modo religiosi, tutti pregano, hanno la devozione per questo o quel santo. Però c’è molta superstizione, molto individualismo. Che cosa bisogna fare allora? Una tradizione locale, di origine spagnola, dava molta importanza al fatto di toccare le statue dei santi. Noi pian piano abbiamo capito che bisogna «toccare» i fratelli perché Cristo è più presente nei poveri che nella statua di un santo. Aprirsi agli altri, aiutarsi a vicenda, rinunciare a qualcosa di proprio ... per far questo ci vuole una vera liberazione dal peccato di egoismo, una crescita interiore. Ora la gente non viene più in chiesa per toccare le statue (anche se la devozione ai santi è rimasta e non abbiamo intenzione di «abolirla»), ma ci sembra che stia mettendo sempre più al centro della propria fede Gesù Cristo al posto di S. Antonio, o delle proprie esigenze personali di avere la salute, trovare un lavoro, ottenere una grazia... Con mons. Gaviola abbiamo fatto più volte riflessioni insieme a tutta la gente e ricordo che una aveva come tema: «L’organizzazione e la vita comunitaria come via alla santità». Nessuno si stupisce a sentir parlare di santità e noi preti non ci stupiamo che loro, considerati dei semianalfabeti, possano dire qualcosa di molto bello e importante sulla santità... Abbiamo raccolto in numerosi volumi ciclostilati gran parte delle riflessioni dei poveri di Tondo e non pochi teologi li hanno letti e dicono di avere imparato qualcosa.

25. Anche i preti devono convertirsi

E qui tocco di nuovo un tasto importante, cioè quello dell’atteggiamento del prete e dei «maestri». Atteggiamento interiore, autentico, non «strategia didattica». Noi abbiamo cercato di essere non i sapienti che hanno studiato e possono insegnare, ma gli amici. Un amico si confida e ottiene confidenza; perché l’altro si apra, si apre anche lui, dev’essere sincero fino in fondo, non nascondere nulla. Ci vuole una grande umiltà e anche del coraggio a vivere così. Si rinuncia a qualunque «difesa» che viene dal prestigio, ci si «smonta» e si capisce che siamo davvero, anche noi preti, dei poveri diavoli come gli altri. Se hai problemi di fede anche tu ti confidi e cerchi aiuto, se ti è difficile vivere il celibato non fingi di avere una sicurezza che non hai. Sì, è una fatica, ma lentamente scopri che puoi anche tu offrire qualcosa, nella misura in cui sai ricevere dagli altri... Oltre a questi aspetti interiori, intimi, ci sono anche quelli più pratici e «banali», ma non privi di importanza. Ad esempio la «gestione» delle cose della parrocchia e la nostra vita di povertà.

I preti della parrocchia vivono di offerte di amici e di doni spontanei della gente, la quale è ancora troppo povera perché si possa proporre una «tassazione» spontanea fissa. Sono generosi, ma non avendo niente per sé non possono certo mantenere gli altri!

Alle riunioni della comunità parrocchiale partecipano tutti e insieme si discutono e risolvono i problemi del quartiere

Le cose della parrocchia sono, appunto, della parrocchia, cioè di tutti. La jeep, ad esempio, è a disposizione di chi ne ha bisogno e nell’usarla non è detto che il prete, perché è prete, debba avere la precedenza sugli altri. La nostra casa è sempre aperta, a qualunque ora e per qualunque persona e anche il telefono è di uso comune. La gente sente queste cose come sue e se ne responsabilizza; per il telefono, ad esempio, ci eravamo accorti che le spese aumentavano un po’ troppo, allora ho deciso di mettere un cartello per invitare a versare 25 centavos per ogni telefonata privata.

Il Consiglio non è stato contento della cosa, perché l’avevo decisa da solo, e l’ha ridiscussa; alla fine hanno cambiato il cartello, alzando la «tariffa» a 30 centavos! Questo nostro sforzo di disponibilità e di condivisione è ampiamente ricambiato: tutte le case della parrocchia sono aperte per noi e potremmo essere sempre ospiti, a pranzo e a cena, dividendo quel poco che hanno. Non ho mai ricevuto doni di valore, perché non ho amici ricchi, ma doni importanti sì, tantissimi, perché frutto dell’amicizia: un po’ di cibo, una mia foto ritagliata da un giornale e incorniciata, un frutto portato da una vecchia mendicante... Noi non distribuiamo né pacchi dono né denaro. Quando c’è un problema non siamo noi a risolverlo, ma lo discutiamo insieme e poi vediamo come trovare i mezzi necessari: non ci sono i benefattori e i beneficati, ma siamo tutti nella stessa barca!

26. Non è vero che odiamo i ricchi!

Sono stato accusato più volte di mancanza di carità, di predicare un cristianesimo che, per aiutare i poveri, spinge all’odio verso i ricchi. Ci si è spaventati per qualche frase delle mie lettere, magari scritta di getto, sotto l’emozione di esperienze che toglierebbero la calma a chiunque. Come quella volta che una giovane di Tondo è stata rifiutata da tre ospedali ed è morta, o quell’altra che siamo stati fermati — io e alcuni amici sulla jeep — da alcune guardie private che non volevano lasciarci entrare in un quartiere residenziale perché eravamo «straccioni». Proprio così, non siamo stati fermati da un portinaio all’ingresso di un palazzo privato, ma da «gorilla» all’ingresso di un quartiere. In quei momenti lì, quando hanno appena offeso te e i tuoi amici, quando vedi morire la gente perché è povera... ti viene voglia di ammazzare qualcuno, di far esplodere mezzo mondo! Ma si tratta di rabbia irrazionale, inconcludente. Se non cambiamo noi stessi, dobbiamo ammettere che sono soltanto le circostanze esterne ad averci messo fra i poveri anziché fra certi oppressori, e se fossimo al loro posto ci comporteremmo come loro. La vera rivoluzione consiste nel cambiare l’uomo e il rapporto fra uomo e uomo. Di fronte a questi episodi, passato il primo momento di rabbia, facciamo una riflessione insieme, e comprendiamo che questa è la croce, una «morte» che ci invita a cambiare noi stessi perché possano cambiare anche gli altri. I nostri giovani l’hanno capito e l’hanno detto: il Vangelo dice di amare il prossimo perché è solo l’amore che veramente fa cambiare le persone, non la violenza e l’odio. Noi amiamo sinceramente anche i ricchi, desideriamo aiutarli. C’è il dovere per noi della «correzione fraterna»: se qualcuno pecca, dice Gesù, avvisalo. Un amore attivo, una non violenza costruttiva, che non subisce e non s’impone, ma lotta. Ti avviso che devi cambiare perché ti voglio bene e mi spiace che tu sia sulla strada sbagliata, e se tu non capisci, continuerò a dirtelo e continuerò a volerti bene. Le nostre manifestazioni sono sempre impostate così, sono precedute da una riflessione perché siano svolte coscientemente; non vogliamo cartelli offensivi e provocatori, ma dialogo, invito a riflettere. Qui però s’innestano altri due problemi importanti. Il primo è quello delle strutture. Noi abbiamo visto che alcuni «ricchi» hanno cambiato atteggiamento. Ho già parlato del sindaco e anche di altri. Però anche loro sono presi in un ingranaggio, in un sistema che non permette un rinnovamento profondo del loro modo di agire, per giungere ad una piena coerenza con i valori di amore e di rispetto in cui credono. Ecco allora che bisogna puntare anche ad un cambiamento delle strutture. Cambiare l’uomo e cambiare le strutture, sono due elementi inscindibili, che devono procedere di pari passo, intrecciandosi. Altrimenti, l’uno senza l’altro, saranno sempre insufficienti. Altro punto importante: parlando di «far cambiare i ricchi» non bisogna cadere in un errore che i cristiani, a mio parere, hanno commesso per lungo tempo. La Chiesa, cioè, predica da secoli la conversione dei ricchi, ci sono discorsi bellissimi dei padri della Chiesa, di papi, esempi di conversioni clamorose. Ma spesso questa predicazione è stata isolata. I preti andavano dai ricchi per invitarli a cambiare e... finivano per cambiare loro, lasciandosi strumentalizzare. Così la Chiesa è diventata spesso schiava. Che fare allora? Anche noi all’inizio andavamo dai potenti a protestare per le ingiustizie e a perorare la causa dei poveri; poi abbiamo visto che non dovevamo più andarci da soli, ma mandare i poveri direttamente e noi stare con loro. Non è più il catechismo o l’amicizia con il prete che farà cambiare i ricchi, ma saranno i poveri stessi ad aiutarli a cambiare, sono loro che li salveranno. Se la Chiesa è capace di vivere amicizia e amore con i poveri, i poveri diventeranno proposta di conversione per i ricchi!

27. Uniti alla Chiesa e ai poveri

Questo muoversi dei poveri, e noi con loro, anziché il darsi da fare per loro è veramente la novità in cui ho speranza, è ciò che ci differenzia da tanti movimenti politici che pure lavorano per un cambiamento di strutture, è la strada che la Chiesa dovrebbe percorrere (lo hanno detto più volte i Vescovi asiatici e non soltanto loro); ma è anche ciò che ci ha creato difficoltà sia nei confronti del governo che nei confronti di alcuni ambienti ecclesiastici. Molti cristiani e preti che vanno a lavorare fra i baraccati pensano di doverlo fare lavorando individualisticamente, al di fuori delle strutture ecclesiali. Credo che sia uno sbaglio. Bisogna vivere nella Chiesa, quella di oggi. Devo dimostrare che la parrocchia, con i suoi registri e tutte le cose in ordine, può cambiare e diventare strumento di liberazione e promozione umana integrale. Anche soffrendo, bisogna essere nella Chiesa e con i poveri. Noi abbiamo sempre molto cercato questa unità con la Chiesa locale, soprattutto attraverso il Vescovo mons. Gaviola, incaricato di seguire il lavoro fra i baraccati, e con l’arcivescovo di Manila mons. Sin. Ci si incontrava spesso, ci si spiegava per chiarire eventuali malintesi e per confrontare l’azione che svolgevamo. Molte volte a Tondo la celebrazione eucaristica è stata presieduta da Vescovi. Abbiamo sempre avuto l’impressione di essere approvati e appoggiati, anche se spesso ci invitavano alla prudenza, per timore appunto della nostra espulsione. Nello stesso tempo, restavo tenacemente attaccato alla mia comunità di Tondo. Una volta mi è stata fatta la proposta di lavorare a livello nazionale per coordinare l’azione della Chiesa fra i baraccati. Ne ho parlato ai miei amici, ma tutti mi hanno sconsigliato: perderesti i contatti con noi, con i problemi vitali, potresti dire tante belle cose ma non avresti alle spalle una comunità. Capisco che occorre anche un lavoro di coordinamento, ma non fa per me. Per la stessa ragione, non ho quasi mai accettato di andare a fare conferenze. L’esperienza di Tondo, come ho detto, era abbastanza conosciuta e gli inviti non mancavano. Una volta ho accettato di parlare ad una comunità di suore, ed ho spiegato subito che le avrei maltrattate: «Voi suore andrete tutte all’inferno — ho detto — perché volete avere informazioni sui poveri, ma non andate dai poveri...». Ho parlato a lungo, erano commosse,... ma non è cambiato nulla. Le chiacchiere lasciano quasi sempre il tempo che trovano. Da allora, quando mi invitavano a parlare, proponevo invece di andare tutti insieme a visitare il più vicino quartiere di baraccati. Quasi sempre le religiose vivono in cliniche, collegi per la borghesia benestante e non hanno idea di come vivono realmente i poveri. Così, guardando insieme la realtà, qualcosa mutava in loro. Alcune sono poi venute a trovarci a Tondo, hanno incominciato a trascorrere del tempo fra i baraccati, pur senza abbandonare il loro lavoro e la loro comunità. Hanno cambiato mentalità, svolgendo opera di sensibilizzazione. In qualche caso, tutta la comunità ha deciso di cambiare stile di vita e di lavoro e, naturalmente, non sono mancate difficoltà: divergenze di vedute fra religiose, timori da parte delle superiore, o addirittura sospetti e controlli della polizia, con qualche suora accusata di sovversivismo.

28. Camminare con il passo dei poveri

Ma il metodo è sempre quello: vivere, vedere, provare, muoversi insieme e non imporre idee o schemi. Fra i barraccati bisogna tener conto della loro realtà quotidiana ed è inutile spingere per una rivoluzione, che essi rifiutano se non capiscono, perché al di fuori della loro preparazione culturale. La nostra convinzione è che dagli uomini con i quali si è camminato insieme, deve nascere una «loro» rivoluzione fatta secondo la loro misura e non imposta dall’esterno. Ci sono troppi rivoluzionari che vogliono imporre al popolo un loro modello di rivoluzione, anche a costo di sostituirsi alla gente nella decisione e nella guida, avendo troppa fretta di giungere a cambiamenti esterni (magari anche molto giusti) ma senza camminare con il passo del popolo. Noi, anche dopo la legge marziale, abbiamo sempre rifiutato di darci ad una lotta clandestina, nascosta, di un piccolo gruppo. Quello che facciamo o che vogliamo fare lo discutiamo e lo diciamo a tutti, alla luce del sole, lo diffondiamo nei ciclostilati e siamo pronti a risponderne a chiunque. Non ci sono incontri segreti, fogli clandestini, e non prendiamo ordini da nessuno fuori dal nostro quartiere, perché la gente deve essere ben convinta di quello che fa. Quand’è convinta, diventa anche più forte e più capace di mantenere una posizione presa o di andare fino in fondo ad una lotta iniziata. Ma se questo atteggiamento ci distingue dai gruppi rivoluzionari di ispirazione marxista, ci crea anche difficoltà di fronte a molti ambienti di Chiesa. Molti preti e Vescovi hanno il loro modello di sviluppo e non intendono staccarsene. E’ quasi sempre un modello «assistenzialistico», in cui le decisioni vengono prese dall’alto e in cui il prete sa già prima quali sono i bisogni dei poveri. Allora si fanno le scuole professionali, i centri sociali, le cooperative, si raccolgono offerte per questa o per quell’iniziativa ma non si è disposti a rimettere in discussione i progetti già fatti, e tanto meno il proprio modo di vivere e di pensare. I poveri — si pensa — vanno aiutati a diventare meno poveri, o anche ricchi, ma non ci si impegna a fondo per modificare realmente i rapporti fra gli uomini, per creare una giustizia nuova; oppure l’impegno è solo verbale, a livello di predicazione, ma non incide e non si confronta con la realtà. E quando qualcuno (gruppi di cristiani, preti) inizia un lavoro veramente con i poveri, suscita molta paura. Perché? Perché la voce dei poveri diventa allora sempre più forte ed esigente; perché spesso i progetti che noi avevamo fatto e che ci sembravano tanto belli, si rivelano invece inutili o dannosi e vanno cambiati; perché il nostro prestigio, il nostro sentirci «benefattori», deve essere sostituito da una condizione di uguaglianza reale e anche noi finiamo per sentirci poveri, senza capacità di «fare il bene» più degli altri, senza progetti precisi che non turbino le istituzioni. Ma qui, invece di parlare io di un problema così complesso, lascio la parola a mons. Helder Camara, che in un’intervista ha espresso esattamente ciò che io penso ed ho sperimentato: «L’ingiustizia non è accidentale, inferta occasionalmente qua e là, ma strutturale, istituzionalizzata. E allora ci siamo risolti per un’educazione liberatrice, nel senso che, trovandosi più dei due terzi dell’America Latina in una condizione di vita infraumana, noi desideriamo creare possibilità per incoraggiare queste masse ad arrivare ad un livello di vita umano. Di fronte ad un tale impegno, c’era da aspettarsi una reazione dell’establishment, e difatti è venuta, molto forte e, malauguratamente, molto astuta. Coloro che ci combattono dicono che non combattono la Chiesa. Ah, no. Al contrario, si proclamano difensori della civiltà cristiana, veri cristiani e veri cattolici. Semplicemente, denunciano una “infiltrazione marxista ” nella Chiesa. Così il gioco è fatto. Questi signori si dichiarano in favore delle encicliche sociali, del Vaticano II, ma sostengono che vi è anche una maniera marxista di leggerne e interpretarne i testi e che questa va combattuta... Siamo di fronte ad una calunnia ridicola. La nostra non è un’interpretazione marxista: è la sola interpretazione possibile» (Famiglia Cristiana, 18 aprile 1976). Io non ho mai letto Marx o Lenin, invece ho letto e meditato molte volte il Vangelo. Ma mi hanno accusato di essere un comunista. Abbiamo fatto attenzione a non lasciarci strumentalizzare da partiti e partitelli politici... ma l’accusa è rimasta. Oppure, se non ci accusano di marxismo, ci accusano di imprudenza, di esagerazione, di andare troppo in fretta. Ma a noi sembra di non essere andati né troppo piano (come dicono alcuni rivoluzionari politici), né troppo in fretta (come dicono uomini di Chiesa): siamo andati con il passo dei poveri!

29. ...Anche se questo conduce alla croce

La voce dei poveri mette paura alle autorità, soprattutto quando sono dittatoriali, e le autorità fanno pressioni sui Vescovi, perché mettano a tacere la protesta. Allora, quasi sempre, se non si hanno le idee chiare e non si è fatta una scelta precisa, si finisce per cedere almeno un po’ e «salvare il salvabile». Dopo la nostra espulsione, ci siamo accorti che alcuni di coloro che ci erano sempre stati amici, anche fra i Vescovi, non hanno fatto nulla per impedire la nostra partenza o per farci rientrare. Probabilmente hanno «venduto» la nostra partenza in cambio di una maggiore libertà di azione per altri settori più moderati, meno «guasta feste», e per interessi economici. Noi comprendiamo la posizione di chi si è sempre dimostrato in disaccordo con il nostro modo di agire, come ad esempio il Nunzio, sempre preoccupato di salvare i rapporti diplomatici; ci è stato invece di amara sorpresa e motivo di sofferenza grandissima il «cedimento» di alcuni amici, come mons. Sin e anche mons. Gaviola. A differenza di altri, come il Vescovo Labayen, che ci hanno sostenuti a spada tratta, quelli hanno preferito il silenzio. Ci siamo chiesti: perché? Bisogna che la Chiesa si liberi sempre di più dalle preoccupazioni diplomatiche, da un’azione pastorale legata a beni e strutture che possono essere tolti e perciò possono obbligarci a compromessi per salvarli. Ma soprattutto bisogna che sia disposta a rivedere profondamente tutto il proprio modo di vivere per adeguarsi al mondo nuovo, quello dei poveri, che sta nascendo. Altrimenti, pur avendo tanta buona volontà e pur continuando a lavorare, la sua azione rischia di restare sempre a metà, sempre un po’ in ritardo, sempre poco incisiva nelle coscienze degli uomini. Quello che io considero un tradimento dell’appoggio che avevo sempre ricevuto è spiegabile, a livello umano, proprio così: finché non si fa totalmente la scelta di essere con i poveri, accettando che siano loro a creare la propria storia, verrà sempre il momento in cui ci si spaventa della loro azione e si fa macchina indietro, cercando di fermarla. A livello di fede, poi, credo che si tratti di accettare (con quanta fatica!) la realtà della croce.

A Tondo avevamo parlato più volte dell’eventualità di una nostra espulsione e ci siamo detti: se avverrà, bisognerà accettare anche questa sofferenza e se non potremo più vederci, ci incontreremo ancora in paradiso. Per me è l’esilio, continuo a pensare alla mia gente e so che loro pensano a me; ma per quelli che sono in prigione là a Manila è ancora peggio. Quando celebro la Messa penso alle celebrazioni a Tondo, alle riflessioni in comune, all’amicizia, all’Ostia spezzata in quattro e data a chi aveva il problema più grave del momento... questo è il Cristo che ci fa vivere, che «risolve» i nostri problemi facendoci andare avanti nonostante tutto.


Alcune immagini di vita quotidiana a Tondo

I giovani di Tondo hanno imparato a sentirsi uniti e ad operare insieme per il bene comune. E la Chiesa ha scelto di camminare con il passo dei poveri.


30. La Conf. Episcopale e il Superiore del Pime contro le ingiustizie e discriminazioni nelle Filippine

MANILA - Nonostante la protesta del Superiore Generale del P.I.M.E. e dei vescovi delle Filippine, c’è poca speranza che il governo di Marcos conceda ai due sacerdoti Francesco Alessi e Gigi Cocquio, espulsi con procedura sommaria il mese scorso, di rientrare nelle Filippine. Quando, il 24 gennaio scorso, il p. Alessi, Superiore regionale dei missionari del P.I.M.E., e il p. Gigi Cocquio, parroco di San Pablo Apostol tra i baraccati del Tondo, poco più di 5 ore dopo il loro arresto venivano imbarcati sotto scorta sul volo dell’Air France in partenza per Parigi e Roma, mons. Aristide Pirovano, Superiore Generale del loro Istituto, si trovava in visita ai confratelli impegnati nelle zone di guerriglia tra cattolici e musulmani all’estremo sud delle Filippine. Avvisato telegraficamente, mons. Pirovano potè raggiungere Manila col primo volo da Siocon solo la sera del 27 gennaio. Il giorno dopo, invitato a Baguio dove i vescovi filippini erano riuniti per le loro periodiche consultazioni, parlò a lungo con la commissione centrale della Conferenza Episcopale e con parecchi vescovi, sollecitando con forza dalla Conferenza stessa una chiara condanna delle ingiustizie di cui sono oggetto i baraccati di Tondo, e la denuncia dell’ingiustizia commessa contro i due missionari deportati senza che fosse loro concessa alcuna possibilità di difesa. Con una forte maggioranza (54 su 64) i vescovi filippini hanno approvato una mozione che rivendica alla Chiesa il diritto e dovere di parlare in difesa dei diritti conculcati del popolo e specialmente dei più poveri, e non solo in modo generico, ma denunciando le concrete ingiustizie in cui alle vittime è spesso negata la stessa possibilità di discolparsi. Mons. Pirovano si è anche incontrato col Nunzio Apostolico mons. Bruno Torpigliani ed ha visitato l’Ambasciata italiana, che ha presentato una protesta al governo di Manila per l’espulsione sommaria, ma non ha potuto ottenere di incontrare il presidente Marcos. L’atteggiamento elusivo del Commissioner of Immigration, di fronte alla insistente richiesta di prove delle colpe che avrebbero giustificato l’espulsione dei due missionari, lascia poche speranze che, persistendo la legge marziale, i due sacerdoti possano essere riammessi nel paese. Da parte sua intanto la Conferenza Episcopale ha deciso di svolgere una indagine autonoma sul caso dei due missionari del P.I.M.E. espulsi dalle autorità. C’è da augurarsi che la recente legislazione restrittiva delle attività sociali del clero e specialmente dei missionari esteri, contro la quale l’arcivescovo di Manila e altri vescovi protestarono già alcuni mesi fa, non porti ad altre espulsioni. (Agenzia AIMIS, 5.2.1976)