Articoli e lettere agli amici - 2023

p. Franco Cagnasso

2023

15 febbraio

31 dic. - 1 gennaio

Lettera agli amici

Monza, Natale 2023


Carissimi Amici,                                                                                             

vi scrivo dal Seminario Teologico Internazionale del PIME, dove sono “approdato” l’anno scorso. Sapete bene che lasciare il Bangladesh è stato per me uno “strappo”; ma vivere in una comunità di sessanta giovani provenienti da dieci diversi Paesi è molto interessante, persino entusiasmante. Ogni persona che mi accosta per il servizio di “accompagnamento spirituale” mi offre l’occasione di un nuovo e sempre diverso viaggio umano e di fede.

         

Chi dava un’occhiata alle “Schegge di Bengala” (*), che pubblicavo su internet nell’omonimo “blog”, si è accorto che le “schegge” sono quasi scomparse. Vivendo in Bangladesh, la realtà quotidiana di quel Paese mi toccava direttamente, e quasi senza che io ci pensassi prendeva la forma di “schegge”; stando lontano, questo non avviene. Tuttavia, mi sento ancora parte di quel mondo, in cui ho vissuto per 25 anni e dove spero di ritornare. Ecco perché accenno qui alle iniziative affidate ora alla responsabilità di altri, ma in cui sono rimasto informato e attivamente coinvolto.

    

La più recente, chiamata Joy Joy, raccoglie una trentina di bambini e bambine con disablità mentale, e le loro mamme: trascorrono insieme la mattinata, pranzano, e sono riaccompagnati a casa nel pomeriggio, mentre venerdì e sabato alcuni volontari visitano altri bambini disabili nelle loro case. L’instancabile direttrice Naomi Iwamoto, missionaria laica giapponese, ha molta passione ed esperienza in questo campo; inventa ogni sorta di iniziative per creare un clima di festa e stimolare le capacità dei “disabili”. Valorizza la collaborazione delle mamme,  e suscita l’interesse di molte persone che, incuriosite e meravigliate da questa novità, scoprono che  occuparsi con attenzione e affetto di bambini “disabili” significa anche trovare gioia, e crea una familiarità di cui tutti  forse abbiamo desiderio. Naomi sa coinvolgere cristiani, musulmani, indù, animisti; commercianti e professionisti; studenti e agricoltori…

 

Nel mese di settembre ho ospitato l’amico Mong Yeo Marma, fondatore e direttore della scuola e dell’ostello “Hill Child Home”, dove oltre 140 ragazzi e ragazze ricevono istruzione e formazione dalla prima elementare fino alla classe decima. Collaboro con lui da molti anni, e sono convinto che sta facendo un ottimo lavoro per dare un futuro a chi non avrebbe altra prospettiva che  di andarsene (ma dove?), o di continuare a subire soprusi e ingiustizie senza potersi difendere. Cerco di sostenere Mong Yeo con il mio consiglio e con aiuti economici, ancora necessari, perché la maggioranza dei giovani che accoglie non può contribuire alle spese.

 

Suor Dipika, da tanto tempo “superiora” dei  quarantacinque ragazzi e ragazze della comunità Snehonir (Casa della Tenerezza), è stata trasferita altrove. L’hanno salutata in lacrime: sapeva creare un clima di collaborazione disciplinata, con molta attenzione per ciascuno, e con spirito materno. La sostituisce Suor Srity, anche lei della congregazione locale “Regina della Pace”. La comunità continua con stile e metodi ormai collaudati. Sono  parecchi i giovani e le giovani che,  grazie alla frequenza di scuole artigianali adatte alla disabilità di ciascuno vivono ora in autonomia, alcuni formando una nuova famiglia. Quasi tutti rimangono spontaneamente in contatto con la comunità e con le Suore e le insegnanti che la animano: segno che hanno ricevuto affetto e stima. Robi Hasda, che è stato il primo di tutti e senza saperlo ha dato il via a questa iniziativa, gestisce ora  un negozio di cartoleria con servizi di computer e internet. Speriamo che presto riesca a formare una sua famiglia.

Il non lontano S.A.C. (Centro di Assistenza Ammalati), molto provato dall’epidemia di Covid, si sta riprendendo. Gli ammalati che ne hanno bisogno (i più poveri e i più sprovveduti) hanno ripreso ad appoggiarsi alla Sezione Generale, che li guida nei meandri degli ospedali governativi, fra lunghe code, sezioni varie, esami, prelievi, e… imbroglioni, che promettendo di aiutarli, spillano soldi, e aumentano la confusione… Anche la Sezione per ammalati di tubercolosi accoglie di nuovo un maggior numero di pazienti, ospitandoli  per i primi due mesi della cura, che sono i più delicati; ma anche molto più a lungo e fino alla completa guarigione, se necessario.

 

I miei contatti continuano pure con tante persone non coinvolte in queste iniziative. Molti sono gli ammalati o gli studenti che non riescono a pagarsi tasse scolastiche, libri, spese di viaggi, e chiedono ancora aiuto; altri telefonano per amicizia, o per consigli nel loro cammino di ricerca e di impegno religioso o vocazionale. Grazie alla generosità di alcuni di voi, ho potuto dare un contributo molto consistente ad una somma raccolta per pagare il trapianto di un rene ad una giovane signora che ne ha necessità. Tutto era pronto, ma le condizioni della paziente sono peggiorate e i medici hanno rinviato l’intervento. Ci dicono che si può sperare di intervenire più avanti. Per ora tutto è  sospeso.

         

Ultima notizia: il tempo cerca di non farsi notare, ma trascorrre anche per me,  e gli 80 anni sono ormai un fatto compiuto. Chi è anziano mi capisce, se dico che stento a crederci – eppure è proprio così.  Per questo sono infinitamente grato a chi mi ha donato l’esistenza, il Padre che è nei Cieli e i miei genitori; con loro anche al bimbetto di nome Gesù che ha visto la luce a Betlemme, perché ha dato senso e gioia alla mia vita; e a tante persone con cui ho condiviso parte della mia vita – fra loro ci siete anche voi che mi leggete ora.

Grazie e buon Natale!

P. Franco Cagnasso

 

Seminario Internazionale PIME – via Lecco 73 – 20900 MONZA MB - Italia

cagnassofranco3@gmail.com


Per dirvi grazie

centropime.org/ - 16 maggio 2023 

Quando un incontro tra culture riesce bene è merito tanto di chi va quanto di chi accoglie. In questa lettera padre Franco Cagnasso ringrazia tutti coloro che hanno "fatto spazio" ai missionari nel proprio Paese, nella propria cultura e nella propria religione  

      

L’incontro con culture diverse, per quanto affascinante, può non essere facile. Affinché non si trasformi in scontro e conflitto, richiede curiosità, attenzione e pazienza, da una parte e dall’altra. Lo sanno bene i missionari, che dell’incontro con gli altri hanno fatto una scelta di vita.

Ma non diamo per scontato che le difficoltà e i meriti per la riuscita di un incontro positivo e arricchente stiano tutti dalla parte di chi va, del missionario “eroico” che sceglie di lasciare l’Italia, le proprie abitudini, lingua, cultura per andare a vivere con altri popoli e in altri Paesi.

Anche chi accoglie, ascolta e “fa spazio” ha i suoi meriti.

Questa bella lettera di padre Franco Cagnasso ci aiuta a riflettere a riguardo. Oltre ai lunghi anni trascorsi in missione in Bangladesh, padre Franco è stato anche, tra il 1983 e il 2001, superiore generale del Pime. E ha avuto così l’occasione di viaggiare e visitare diverse missioni. In questa lettera, il suo “grazie” alla gente che ha incontrato.  

Carissimi,

ho avuto tante occasioni per conoscervi quasi tutti, per incontrarvi (qualcuno anche più volte) e per essere vostro ospite. Mi attendono altri sei anni di servizio in Italia, e ho deciso di scrivervi, prima di incontrarvi nuovamente, come spero.

A chi sto scrivendo?

Sì, esattamente a voi. Non ai missionari, i quali sono già abituati a ricevere le mie lettere, ma alla gente delle tante parrocchie, scuole, ospedali, uffici, villaggi, ospizi, collegi, fattorie, strade, città dove i missionari del Pime lavorano. Non soltanto ai cristiani, naturalmente, ma a tutti, perché i missionari sono mandati a tutti.

Molti di voi non sanno leggere ma non importa, si facciano aiutare da chi ha studiato: non mancano, infatti, maestri e professori fra quelli che riceveranno questa mia.

Siete un po’ in tutto il mondo: dal Giappone, il “Paese del Sol Levante”, alle incantevoli isole della Papua; dalla modernissima Hong Kong alle infinite risate del Bangladesh; dalle montagne della Birmania alle savane dell’Africa; dal maestoso Rio delle Amazzoni fino a Detroit, capitale americana dell’automobile. Oltre, naturalmente, all’Italia e a tanti altri posti.

Perché vi scrivo?

L’altro giorno ho riletto il capitolo 10 del Vangelo secondo Matteo, dove c’è il «Discorso Missionario» di Gesù. È un discorso rivolto agli apostoli e io l’ho meditato tante volte, perché mi riguarda direttamente. Questa volta, però, mi sono accorto che parla anche di voi, e in modo molto chiaro.

Gesù, infatti, non ci manda certo a spasso o a vedere panorami e monumenti, ci manda da voi. Vuole raggiungervi, e ci incarica di farvelo sapere; si interessa di voi e dobbiamo dimostrarvelo con i fatti. Gesù sa bene che molti non accolgono il Vangelo, e che c’è persino chi perseguita i missionari e li uccide. Io, però, non mi rivolgo a loro (che nemmeno leggerebbero questa lettera!), ma a voi che accogliete i missionari, che siete “persone degne” (Mt 10,11) di cui possiamo fidarci, che ricevete la pace promessa dal Signore.

Non voglio farvi delle prediche, ma soltanto dirvi un bel grazie!

Lo faccio spesso quando visito le missioni e ho occasione di incontrarvi, e quasi sempre mi accorgo che ne rimanete stupiti: non pensate neanche di meritarlo.

Lo meritate invece!

Vado in una parrocchia alla periferia di Manila e vedo una splendida chiesa, un gran numero di gruppi e associazioni che funzionano per catechesi, aiuto agli studenti, sostegno reciproco fra i poveri, appoggio alle famiglie, evangelizzazione dei lontani, organizzazione delle feste, cura del canto e della liturgia… e dieci anni fa non c’era niente. Tutti dicono: «Che bravi i missionari del Pime, sono venuti qui e dal nulla hanno messo insieme tutte queste cose!».


È vero, sono bravi. Ma che cosa avrebbero fatto se non avessero trovato tante, tantissime persone disposte a riceverli, a collaborare, a dare tempo, energie, denaro, a fare comunità con loro? Poveri e ricchi, avvocati, professori, casalinghe e operai hanno aperto il loro cuore e le loro case ai missionari, ed è nata una Chiesa, quella fatta di cemento, ma soprattutto quella fatta di persone.

Bisogna dunque dire un bel grazie, una volta ogni tanto, anche a tutti loro.

A volte poi trovo una ragione particolare per ringraziarvi, la vostra pazienza.

Padre Giovanni s’arrabbia facilmente, e all’inizio vi ha spaventati, pensavate che fosse mezzo matto perché nella vostra cultura l’autocontrollo è importantissimo, lo si assimila fin da bambini, Eravate sconcertati, ma avete avuto pazienza, e pian piano avete capito che non è né matto né cattivo; vi vuol bene, si preoccupa per voi, vorrebbe che tutto fosse perfetto e per questo a volte perde le staffe, strilla, minaccia… Voi lo lasciate sfogare girando alla larga, aspettate che passi la bufera e continuate a stimarlo. Grazie!


E suor Luisa? È lì da trent’anni ma proprio non è dotata per le lingue e quando incomincia a parlare vi chiedete se sta usando l’italiano, l’inglese, la vostra lingua o il vostro dialetto. Ma poi, piano piano, si fa luce anche in quella sgrammaticata confusione di parole e voi riuscite a capire che cosa vuol dirvi, vi intendete, e arrivate persino a fare delle lunghe chiacchierate, mentre insegna taglio e cucito nel laboratorio della missione, e a confidarvi con lei quando avete un problema. Grazie!


Per non parlare della giovane coppia di volontari che è stata fra voi tempo fa. Sono arrivati pieni di buona volontà ed entusiasmo, volevano mettere a posto il mondo intero in tre anni. Sorridenti, pronti ad aiutare tutti, ma con una gran fretta di fare e una terribile ingenuità. Certi loro atteggiamenti poi vi lasciavano sconcertati: mano nella mano quando uscivano, carezze e sorrisi fra loro anche davanti a voi… Queste cose nel vostro Paese non si usano!


Ma li avete accolti, li avete lasciati fare, avete visto che sono simpatici, che hanno un grande cuore, che qualcosa di buono possono insegnarlo. Quando è nato il loro primo bimbo lo avete festeggiato più dei vostri stessi bimbi, e ora che sono ripartiti li ricordate con affetto e nostalgia. Grazie!

Ho detto prima che non mi rivolgo soltanto ai cristiani, e lo ripeto. Spero che anche voi buddisti, indù, musulmani, fedeli di religioni tradizionali possiate sentire il mio grazie. In molti posti infatti potreste benissimo cacciarci via, se voleste; invece ci fate spazio. Quanti di voi ci hanno insegnato le lingue, hanno aiutato a trovare un terreno per la chiesa o la scuola, hanno insegnato a rispettare i cristiani, hanno fatto amicizia! Qualche volta, certo, per interesse o per curiosità, ma spesso in voi si è realizzata quella parola di Gesù che dice: «Chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità vi dico, non perderà la sua ricompensa» (Mt 10,42). Quanti “bicchieri di acqua fresca” ci avete dato, e quante volte ci avete stupito perché, pur non essendo cristiani, avete rispetto per noi che considerate “uomini e donne di Dio”!

Potrei andare avanti a lungo, ricordando mille esempi ed episodi. Non voglio stancarvi e finisco, perché so che mi avete capito. Vi chiedo solo di continuare, vi saluto con tanto affetto e riconoscenza e, come ci raccomanda Gesù, a tutti rivolgo un saluto di pace.   




A cura di Isabella Mastroleo

responsabile Biblioteca Pime

La lettera di padre Franco Cagnasso è contenuta nel libro La missione comincia dal cuore (ed. Emi, Bologna, 1998). Scoprilo nella Biblioteca del Pime.

Sconfinamento

Monza, 15 febbraio 2023


Il 7 febbraio scorso, 60 studenti e 4 “formatori” (più il sottoscritto) del Seminario Teologico Internazionale del PIME, con sede a Monza, sono andati con mezzi vari a Crema per partecipare, nella cattedrale, ad una veglia di preghiera per il Myanmar. È seguita la celebrazione eucaristica, nel ricordo del Beato Alfredo Cremonesi, missionario del PIME ucciso in Birmania settanta anni fa, il 7 febbraio 1953.       

La Birmania (oggi Myanmar) non è il Bangladesh, ma spero che se qualcuno entrerà nel “blog” accetterà questo “sconfinamento” dal Bangladesh. La scheggia ha due parti: un profilo biografico del mio confratello beato, seguito dal testo dell’omelia che ho pronunciato la sera del 7 febbraio, a Crema.      

Cenni biografici da: Piero Gheddo: Alfredo Cremonesi, un martire per il nostro tempo. EMI, Bologna, 2003       

1902 - 16 maggio, Alfredo nasce a Ripalta Guerina (Crema), primo di 6 figli maschi e una femmina – A 11 anni entra nel Seminario diocesano di Crema. Durante gli anni di seminario attraversa un lungo periodo di malattia e grave deperimento. Nel 1921, contro ogni previsione, si riprende bene, e decide di farsi missionario; “forse anche martire” scrive.              

1922 – Alfredo è accolto a Milano nel Seminario Lombardo per le Missioni estere, che pochi anni dopo, fondendosi con il “gemello” Seminario Romano per le Missioni estere, prese il nome di PIME. È al terzo anno di teologia.          

La famiglia era in condizioni economiche buone, ma fu rovinata e ridotta quasi alla fame dai fascisti, che compirono una “spedizione punitiva” (1927) contro il papà, attivo e generoso membro dell’Azione Cattolica e difensore della democrazia; uomo intelligente, molto affiatato con il figlio. Il giovane Alfredo scrive bene e pubblica: racconti, versi, libri, commedie a tematica missionaria. Esprime il suo amore alla missione scrivendo; solo in un secondo momento ha pensato a sé come missionario.         

1924 – Alfredo viene ordinato presbitero nella chiesa S. Francesco Saverio (Milano); per un anno insegna al seminario minore dell’istituto, a Genova Nervi.        

1925 – 5 ottobre, riceve il crocifisso di partenza; s’imbarca a Napoli e arriva in Birmania dopo 25 giorni di viaggio. Vi resterà ininterrottamente per 28 anni.       

1953 - 7 febbraio - Viene ucciso da militari birmani a Donokù (diocesi di Toungoo) mentre cerca di proteggere un capovillaggio cristiano accusato di aver appoggiato i ribelli.          

La vita missionaria           

La decisione di farsi missionario era stata accompagnata dal proposito fermissimo di non tornare e non voltarsi indietro, per appartenere completamente alla missione, senza distrazioni e senza rimpianti, ma… poco dopo la partenza scrive: “Ho distrutto il mio passato… e allora perché oggi non sogno che il passato? (…) mi dà fastidio… ma non ne posso fare a meno. Cambiare rotta al mio pensiero ora è pretendere di deviare il Po, quando la piena lo rende turgido…          

Arriva a Toungoo (centro-sud del Myanmar) il 10 novembre 1925. Molto dotato e convinto, in otto mesi impara un poco di varie lingue locali, mentre si guarda attorno e scrive i primi commenti: “Posti incantevoli… gente pulita e ben vestita”; apprezza pure le varie opere delle missioni. Scrive: “questi Cariani e questi Birmani esercitano su di me un fascino meraviglioso. Mi piacciono, mi piacciono, mi piacciono…”       

Molta fantasia e progetti… chiede alla FIAT un aereo in regalo (senza ottenerlo…), ha passione per il teatro… “ho la testa che mi sembra un vulcano”. Rammaricato perché i Birmani non si convertono, avvia una “crociata di preghiere” per la conversione dei Birmani per mezzo dei Cariani. uno dei gruppi etnici del Paese…”. Pensando allo sviluppo sociale e al miglioramento delle loro condizioni di vita, avvia fra i Cariani una lega di mutuo soccorso; dà importanza all’istruzione, progetta una scuola tecnica, varie scuole…      

Dopo pochi mesi inizia le visite sui monti, anche in luoghi mai raggiunti dai missionari. Viaggia molto: a piedi, su sentieri scoscesi, restando fuori casa ogni volta per un mese e più; montagne ripide, caldo, zanzare – e malaria, la “tortura” che lo prostra fisicamente… Forzatamente medico di se stesso, si cura con pesanti e dolorose iniezioni di chinino. Vive momenti di rischio sia per i malanni, sia per le difficoltà dei viaggi.        

A un benefattore scrive: “quasi un mese fra i villaggi, e devo ripartire domani… Però il Signore sembra benedire queste mie fatiche, perché anche in questo ultimo giro ho avuto l’immensa fortuna di assicurare tre nuovi villaggi alla fede. Ma Gesù è grande, Gesù è buono!”.           

Stima e simpatia per la gente. “Guarda a questi meravigliosi cristiani. Battezzati da solo due o tre anni ma molto più ferventi dei nostri cattolici… Anche i catechisti… vita esemplare che mostra la bellezza della nostra fede, tengono il popolo unito, risolvono i loro problemi, conquistano nuovi pagani alla fede…”          

Alfredo viene trasferito più volte, anche in posti dove deve iniziare da zero, e spesso esprime il desiderio di avere qualcuno che risieda e lavori con lui, per condividere idee, fatiche, responsabilità, ecc. Ma due anni di esperienza con un missionario di carattere e comportamenti molto difficili e imprevedibili, con cui nessuno riusciva a stare, lo induce scrivere al Vescovo e chiedere di essere trasferito; Alfredo conclude però che, se ciò significa che il Vescovo manderà un altro, il quale a sua volta “soffrirà come me o anche più di me” è disposto a restare e fare del suo meglio.          

Nella tragedia della Birmania          

1937 - inizia un lungo e tormentatissimo processo di autonomia e indipendenza della Birmania, con ricerca dell’identità nazionale di un paese che è colonia della Gran Bretagna, formato da vari gruppi etnici spesso in lotta, e da varie religioni, con la presenza influente dei britannici, e di immigrati cinesi e indiani.            

1939 - Seconda guerra mondiale: dal 1940 gli Inglesi mandano in campo di concentramento molti missionari italiani, in quanto cittadini di una nazione nemica… poi distruggono ciò che può servire al nemico e lasciano la Birmania ai Giapponesi che conquistano tutto. Alla fine del 1943, l’Italia cambia alleanze e diventa nemica dei Giapponesi, che di conseguenza se la prendono con i missionari italiani; poi a loro volta distruggono tutto e si ritirano in Thailandia, per tornare in Giappone. Si formano in Birmania due partiti comunisti rivali, mentre truppe del partito nazionalista cinese, sconfitto dai comunisti di Mao, si rifugiano in Birmania occupandone alcune regioni del nord – dove si trovano ancora oggi in situazione non ufficiale di semi autonomia.            

1948-1952 - Rivolta dei Cariani, il gruppo etnico più sviluppato e coinvolto in politica, contro il governo nazionale che si sta formando. La ribellione è appoggiata da molti cristiani battisti, perciò comunemente si pensa che tutti i cristiani siano ribelli, anche i cattolici che in realtà da tempo sono in conflitto con i battisti, e per lo più non appoggiano la ribellione. I missionari fanno quello che possono per portare pace, soccorrere le vittime della violenza, calmare gli animi, salvare le opere delle missioni.       

Le guerriglie dei gruppi etnici contro il governo, e a volte fra loro, continuano, con momenti più o meno intensi, fino alla vittoria elettorale di Aung San Suu Kyhi, pochi anni fa. Riprendono con grande intensità coinvolgendo sia i birmani sia i tribali, con il colpo di stato militare del febbraio 2022.          

OMELIA      

Letture per la celebrazione Eucaristica: Is 52,7-10 – Gv 10, 1-16            

“Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annunzia la pace, del messaggero di buone notizie che annunzia la salvezza…” (Is. 52, 7). Con queste parole inizia la prima lettura che abbiamo ascoltato questa sera, tratta dal profeta Isaia. È un’immagine poetica simpatica, ma a dire il vero i piedi del nostro missionario certamente non erano belli. P. Alfredo non si lamentava mai delle difficoltà, però le raccontava nelle numerose lettere e negli articoli che scriveva ai suoi famigliari, agli amici, a pubblicazioni missionarie. Descriveva, tra l’altro, la sua vita di viaggiatore ed esploratore su e giù per montagne ripide, coperte da foreste, senza strade e spesso nemmeno sentieri… sempre a piedi, perché il cavallo costava troppo, e senza mai trovare un paio di scarpe adatte, costretto ad usare solo scarpe di pezza che non proteggevano da sassi e spine, e si laceravano subito lasciandolo a piedi nudi, quindi doloranti, pieni di escoriazioni e di ferite. Quando finalmente la famiglia riesce a mandargli un paio di scarpe da montagna di buona qualità, è soddisfatto e grato… ma gli durano meno di un anno.           

I suoi viaggi, spesso in luoghi del tutto inesplorati, erano a volte rischiosi… Alfredo narra che una volta lui e la guida persero l’orientamento e, dopo affannosi tentativi, si resero conto di essersi del tutto smarriti: il buio sarebbe presto calato trovandoli soli in una foresta montagnosa, impervia e piena di pericoli. Li salvò… il canto di un gallo lontano. “Se c’è un gallo, ci sarà pure qualche essere umano” pensarono, dirigendosi subito nella direzione da cui era venuto il “chicchirichì”; e arrivarono a un piccolo villaggio che li ospitò.        

Eppure è giusto dire che i piedi di Alfredo erano belli, perché lo portavano ad annunciare “la buona notizia” e “la salvezza” a tante, tantissime persone. Molti lo accoglievano con gioia, lo ascoltavano volentieri, si disponevano a conoscere Gesù e il Vangelo. Per questo non smetteva di viaggiare, e non si lamentava, anzi sognava sempre di fare di più… Già prima di partire per la missione aveva scritto: “Io desidero un apostolato pieno di sangue e di sacrifici, colmo di fiele e di delusione, senza l’egoistica soddisfazione personale: e laggiù è il mio campo”. Diceva con entusiasmo che voleva affrontare qualunque tipo di sacrificio e fatica per arrivare ai più lontani. E davvero è stato così.             

I sacrifici non erano causati soltanto dai viaggi. Era sempre a corto di soldi, con debiti, scuole, cappelle da costruire, stipendi ai catechisti, che stimava molto. Viveva una grande povertà personale: abiti, cibo spesso scarso e poco nutriente (riso bollito, con erba della foresta, scriveva), insieme a malattie che doveva curare da solo, come la malaria che lo perseguitava, e ad esaurimenti di forze che più volte lo portarono vicino alla morte, se non lo avessero salvato le suore... più con le preghiere che con le medicine – diceva.         

A tutto questo si aggiunsero la guerra mondiale, che in Birmania fece tantissimi danni, e poi la guerra civile, che fece soffrire tantissimi poveri, e costrinse lui a lasciare la sede della sua missione provocandogli grande dolore e smarrimento.      

Nel 1950 infatti, la sua missione venne occupata dai ribelli; due missionari, Mario Vergara e Pietro Galastri, erano già stati uccisi; Alfredo era nella lista… Molti decisero di rifugiarsi a Toungoo, e p. Alfredo andò con loro… ma fu una decisione di cui non si diede pace.        

Scrive al suo Vescovo: “Lei non può davvero immaginare come sia aumentata in me l’ansia, la brama, l’agonia di ritornare presto al mio villaggio per raccogliere la mia povera gente dispersa (…). È una tale ansia che toglie tutto il gusto delle altre cose. Mi pare di sentire fisicamente il dolore della mia povera gente e il loro cruccio e mi rimprovero per averla abbandonata. Quindi mi può perdonare se magari penso di fare delle imprudenze…”       

E alla zia suora: “Io sono qui, profugo senza più nulla, alla mercè della carità di tutti; e i miei (cioè coloro che erano rifugiati come lui) sono là nell’accampamento che guardano e sperano in me come al loro unico aiuto. Come faremo? Come vivremo oggi, domani e poi? Come potremo ricominciare la nostra vita? Penso ai molti della mia povera gente che sono ancora nelle mani dei ribelli. Ho bisogno di tante preghiere perché possa perseverare nella mia vocazione, perché il pensiero di dover ricominciare tutto daccapo, il pensiero di quel che mi aspetta nel prossimo avvenire, del come si troveranno i miei poveri cristiani, di come farò a far fronte a una situazione così disperata mi dà le vertigini. E se non fosse la fiducia nella provvidenza e nella bontà di Dio, si cederebbe subito alla tentazione che si fa ogni giorno più forte, di piantar qui tutto e di andare dove queste prove e preoccupazioni non ci sono più. È difficile la vita eroica… Mi affido alle tue preghiere e a quelle dei bambini. Il Signore ascolta tanto volentieri le preghiere dei bambini.”                 

Difficoltà, privazioni, sofferenze, eppure Alfredo è conosciuto come un uomo sorridente, sereno, di buona compagnia. Dove trovava la forza, le motivazioni per proseguire, e la serenità che lo accompagnava?        

Come P. Paolo Manna, Alfredo pensa che il successo della missione sia in proporzione ai sacrifici che si fanno. Se c’è da soffrire, ci saranno risultati, e quindi dobbiamo andare avanti con fiducia, senza tirarci indietro. Gli è familiare anche il pensiero della morte, in un orizzonte di fede. Nel 1938 scrive alla zia suor Gemma: “Adesso che ho visto il viso della morte tante volte durante l’invasione giapponese e durante questi tre mesi di malattia, non ho più nessun attaccamento alla terra e sento una gran voglia di consumarmi tutto e presto, perché venga presto il Regno del S. Cuore in queste terre. (…) Quando il Signore ispira questi sentimenti, non c’è più nulla che faccia paura. Tutto è bello, anche il dolore che ci prepara una corona più bella in paradiso” (…) Il peggio che mi possa capitare è di morire, e questo non è il peggio. Se anche avessi a morire sul campo è una cosa alla quale mi preparo da un pezzo…”        

La sua forza perseverante veniva senza dubbio dall’amore a Gesù, che è per lui veramente “la porta” di cui parla il Vangelo secondo Giovanni, ascoltato poco fa. Alfredo passa attraverso quella porta per raccogliere le pecore, come fa il pastore buono (e non il mercenario!) – e come il pastore buono, giunge a dare la vita per le sue pecore. Proprio così: entra con Gesù, per Gesù, attraverso Gesù; e come Gesù dà la vita per il popolo a cui è stato mandato.        

Il suo rapporto con Gesù e il suo amore per la gente, intrecciandosi e crescendo insieme, sostengono e motivano la sua preghiera e il suo servizio instancabile; allo stesso tempo, pregando e servendo il suo prossimo Alfredo cresce nell’intimità con Gesù e nella sua dedizione appassionata.       

Agli inizi della sua missione, parroco a Yedashè e procuratore delle missioni affidate al PIME, mentre si ambienta scrive a p. Manna: “Una cosa sola ho visto chiaramente, cioè l’impossibilità di fare qualcosa senza una pioggia straordinaria di grazie.” Si mette d’accordo con un’associazione di Torino che impegna 25 persone a pregare per lui; appena ne viene informato…si sente meglio: “Subito ne ho provato in me stesso effetti prodigiosi. Un ardore di fede, di confidenza, di amore mai provato finora, un desiderio di mortificazione nuovo, un desiderio insaziabile di trovarmi davanti a Gesù in preghiera.”        

Corrisponde frequentemente con Agnese, suora di clausura, alla quale nel 1937 scrive: “Ho sempre avuto un desiderio immenso di vita solitaria e claustrale. Mi è sempre sembrato bello e sublime vivere una vita di preghiera, di meditazione, di silenzio e di ritiro (…) Mi ottenga da Gesù la grazia di una intensa vita interiore, in modo che anche in mezzo ad una vita necessariamente dissipata, io mi abitui a trovare nel mio cuore la mia cella serena e segreta dove solo Gesù è ammesso (…) È un aiuto necessario ed efficace per realizzare la mia santificazione.”            

Da un certo momento, inizia a pregare anche di notte: riposa dalle 9 di sera fino a mezzanotte, poi va in chiesa a pregare per un’ora, per ritornare poi a dormire un’altra ora e mezza; e mezz’ora nel pomeriggio. Dice che non gli costa fatica, che in famiglia anche suo papà dormiva poco… ma sarà stata proprio una cosa facile e leggera?            

Dunque tanta preghiera, tanta fiducia, tantissimi sacrifici, e tantissima ansia di raggiungere sempre più persone, raccogliendole nel “gregge” di Gesù.        

Lessi per la prima volta la vita di p. Alfredo più di 10 anni fa. In questi giorni, mentre la rileggevo, sentivo che… stavamo diventando amici, ma allo stesso tempo si rinnovavano in me alcune perplessità: non sono forse cose belle, ma di altri tempi? Noi oggi non pensiamo alla missione in questo modo; quanto ai sacrifici, ci sembra proprio che nessuno li cerchi. Perciò ho deciso di fargli qualche domanda, per risolvere le mie perplessità che forse sono anche le vostre. Permettetemi di presentarvi questa immaginaria intervista.         

P. Alfredo, tu parli sovente, anzi, tu desideri vita molto dura, prove, sofferenze e sacrifici… quasi quasi ci prendi gusto. È così? Non ti pare di esagerare al punto di sembrare masochista? Noi parliamo della fede cristiana come gioia… In questi ultimi decenni, ben due papi (Paolo VI e Francesco) hanno scritto encicliche sulla gioia!         

Risposta. So che faticate ad accettare il nostro linguaggio e il nostro pensiero su queste cose. Anche oggi, quando vi viene consegnato il crocifisso per la partenza, leggete la preghiera di P. Mazzucconi in cui tra l’altro si dice: “beato il giorno in cui dovrò soffrire molto… più beato ancora quello del martirio.” Lascia che ti comunichi un mio dubbio: sì, lo dite, ma… ci credete?         

Nel vangelo secondo Giovanni, Gesù ha detto che ci unisce a sé “perché la vostra gioia sia piena”: questo non lo dimentico! Dunque avete ragione voi, Gesù è venuto per salvarci dalla sofferenza, non per farci soffrire. Ma ha anche detto che il Figlio dell’uomo sarebbe stato insultato, umiliato, crocifisso e ucciso, suscitando le proteste di Pietro – e le nostre… Non solo, ma ha insegnato che per seguirlo bisogna prendere la croce e portarla, che bisogna perdere la propria vita per salvarla; e ci ha avvisato: “vi mando come pecore in mezzo a lupi…”. Vi sembra facile?            

Allora, cerchiamo la gioia o i sacrifici? Non ci sono dubbi: la meta è la gioia, e la gioia piena. Sacrifici e sofferenze non sono lo scopo. Però, attenzione: non cercate le scorciatoie che non ci sono! Guardate a Gesù: è lui che dobbiamo seguire, e quanto più si ama, tanto più si è pronti al sacrificio per la persona amata. Nella fede, sappiamo che la morte non è la fine, ma l’inevitabile passaggio verso la vita piena, di felicità eterna. Questa fede ci fa accettare i sacrifici vissuti per gli altri, per amore, sicuri che questo amore ci dà gioia oggi, e ci riempirà di “gioia piena” domani. Io, pure in mezzo a tanti guai e sofferenze, ero un uomo – come dite voi – “realizzato”. Ho accettato e vissuto sacrifici molto grandi, non lo nego, a volte li ho anche desiderati, ma perché volevo raggiungere tanti, tantissimi, per presentare a queste persone, spesso cariche di sofferenze di ogni tipo, Gesù e la sua gioia, e per donare loro a Gesù che le ama!       

Nei villaggi dove avevo predicato si diceva: “Eravamo sempre in guerra fra noi, i missionari ci hanno portato la pace”. Questo sì mi colmava di energie, e il fatto di aver sofferto per arrivare a questa pace, rendeva la gioia ancora più viva!!       

È vero, p. Alfredo, pur facendo moltissimi sacrifici, a coloro che incontravi non davi l’impressione di essere una persona corrucciata e dura… Ma devo farti ancora una domanda.

Tu parli a volte dell’evangelizzazione come “conquista”, o scrivi che avevi “preso nella rete” quelli che accettavano l’invito ad ascoltare il vangelo. Sinceramente, queste parole ci disturbano, ci fanno venire in mente la Russia che conquista l’Ucraina, o una religione che ci prende in una rete e toglie la libertà, e tu sai che noi oggi vogliamo soprattutto la libertà. Come la mettiamo?          

Risposta. Io ho accompagnato alla fede cristiana tanti, ma non facevo il “proselitismo” che Papa Francesco giustamente non vuole. Ricordi? Mons. Gobbato, ultimo vescovo del PIME a Taunggyi - che nella sua vita aveva battezzato tantissime persone - ha confidato una volta proprio a te che tutte le mattine pregava il Signore di tenerlo lontano dal proselitismo. Io non annunciavo il vangelo per sentirmi forte, per attirare ad ogni costo, per aumentare di numero le “truppe” della chiesa, per mio interesse… Io pregavo e prego perché molte persone si aprano ad accogliere il dono dell’amore di Gesù, il dono più prezioso che un essere umano possa ricevere. Avevo l’ansia di annunciare perché il vangelo è la cosa più bella che avevo, e giorno dopo giorno vedevo che – nonostante la debolezza umana – il Vangelo migliora molto la vita delle persone, dei villaggi, dei popoli. Quanto ad “essere presi nella rete”, è un paragone che usa Gesù, per spiegare che il Regno dei Cieli è come una rete piena di pesci, buoni e cattivi, e non bisogna scandalizzarsi, perché non ci sono realtà soltanto buone o soltanto cattive. D’altra parte, la libertà che ha come obiettivo soltanto se stessa (= fare quello che si vuole e piace, senza altre considerazioni) porta a forme di prigionia vere, ben peggio di una rete per pesci. È meglio entrare consapevolmente nella “rete” della fede in Gesù che ci ama, oppure entrare senza accorgercene nelle reti del consumismo, dell’idolatria, delle mode, dei nazionalismi e delle ideologie, della droga, o semplicemente dell’egoismo, e del vuoto?  

Vorrei concludere raccomandandovi: lasciatevi amare da Gesù, cercate di voler bene, fate bene, imparate a sacrificarvi per ciò che è bello e buono, e non abbiate paura: sarà il Signore a darvi la gioia.     

Crema, 7 febbraio 2023 – Settantesimo anniversario della morte di P. Alfredo Cremonesi

p. Franco Cagnasso


Da Schegge di Bengala - 237

Disabilità 

Monza, 31 dicembre 2022 - 1 gennaio 2023


Joyjoy ha già avuto l’onore di entrare in più di una scheggia. È un piccolo progetto che, a Dinajpur, si occupa di bambini con disabilità mentali di vario genere, e delle loro famiglie, a partire dalle mamme. Più volte ho accennato al fatto che, spesso, la presenza in famiglia di una persona con disabilità è motivo di emarginazione, pregiudizi negativi, vergogna, tentativi di nascondere questa realtà agli occhi degli estranei. Le eccezioni ci sono, e ho scritto anche di quelle, raccontando qualcosa della famiglia di Mim, e dell’affetto di cui questa bimba è circondata da parte di genitori e fratelli.  

Ora prendo qualche spunto dal rapporto semestrale di Joyjoy, che Naomi, missionaria laica giapponese e perno di questo progetto, ha mandato in copia anche a me. Presento qualche breve profilo di bambini, e di mamme; i nomi sono di fantasia, persone ed eventi sono reali.

Figli, madri, nonne. La prima volta che andammo a trovare Rakhib, lo trovammo legato per una gamba ad un palo di sostegno della casa. I vicini lo chiamavano “pagol” - “pazzo”. Quando gli si metteva davanti il piatto, non prendeva il cibo con la mano, ma si tuffava con la bocca sul mucchio di riso; non sapeva usare il bagno, si sporcava continuando a camminare…

La mamma, non sopportando le violenze del marito drogato, si era rifugiata, con lui e un’altra figlia più piccola, presso un fratello maggiore, e guadagnava qualcosa facendo la domestica. Dava l’impressione di essere come indurita dalle difficoltà della vita, indifferente ai figli; quando le proponemmo di occuparci un poco di Rakhib ci disse: “Fate quello che volete, e come volete: io non posso fare altro che tenerlo legato.”

I primi tempi non furono facili per chi se ne occupava, ma pian piano gli insegnammo a portare il cibo alla bocca. È con noi da oltre cinque mesi e ha imparato a chiamarci con una singola parola, “ushai”, quando ha bisogno di andare in bagno.

La mamma non dice molto. Spesso lo lega al palo quando lo accompagniamo a casa. Ma recentemente ha comprato per lui camicie e calzoni nuovi, e ci ha fatto felici.

Bonna è stata accolta come una “eccezione” perché Joyjoy è per i bambini, ma Bonna è una giovane di 22 anni. Sette o otto anni fa, dopo uno stupro subito da un vicino, entrò in depressione; non parla e non sorride mai. Di famiglia indù povera, i suoi riuscirono a far condannare il suo aggressore, che è in prigione, e tornerà libero fra qualche anno.

L’abbiamo invitata a venire a Joyjoy per giocare con i bambini. Suo padre, molto anziano, le vuole bene, e nonostante abbia difficoltà a camminare, l’ha accompagnata personalmente. Con i bambini, Bonna riuscì a sorridere, e la invitammo a venire una volta la settimana a mangiare con noi. Ma non si fermava a lungo, e anche questo piccolo diversivo non basta certo a farla migliorare. Avrebbe bisogno di cure, anche mediche, appropriate. Rifiuta ogni medicina, ma mostra di accogliere volentieri le nostre visite, e noi continuiamo ad andarla a trovare regolarmente…

Ridoy è un ragazzo di 14 anni, affetto da paralisi cerebrale. Aveva 5 o 6 anni di età quando la mamma lo abbandonò e se ne andò di casa. Dopo due anni il padre si risposò, ma dopo un mese anche lui se ne andò, con la seconda moglie, facendo perdere le tracce. La nonna si prese cura di Ridoy, ma non poteva prestargli molta attenzione perché doveva lavorare presso due famiglie da mattino a sera. Ridoy rimaneva solo tutto il giorno; si distraeva sbirciando attraverso una fessura nel cancello di ferro...

La madre non si rifece viva, ma con qualche trucco riuscì a fare assegnare a sé il sussidio governativo dovuto a Ridoy per la disabilità, andando avanti a riscuoterlo e tenerlo per sé, per otto anni. Solo recentemente la nonna è riuscita ad ottenere che il sussidio venga mandato a lei. La nonna si era anche interessata di una vecchia sedia a rotelle che apparteneva a un bambino disabile morto qualche tempo prima, ed era riuscita a farsela dare. La sedia è l’unico attrezzo che in qualche modo risponde alle necessità di Ridoy. 

Bisogna dire che è stata la mamma ad avvisarci della situazione di Ridoy, mentre la nonna ha accolto volentieri la nostra proposta di assistenza. Continua a prendersene cura, e speriamo che il nostro aiuto possa migliorare la situazione del ragazzo, e anche la sua.


Rina dava l’impressione di non sorridere mai. Suo marito – un uomo istruito e serio – sapeva che avrebbe avuto diritto ad un sussidio governativo, ma si rifiutava ostinatamente di farne richiesta, perché ciò avrebbe significato dichiarare la disabilità di sua figlia Myriam, e lui non riusciva ad ammetterla. Tutte le spese relative a questa situazione ricadevano sulla famiglia, ma lui non voleva saperne di contribuire. La moglie aveva avuto in precedenza ben sette aborti spontanei e quando diede alla luce la figlia disabile, lui era caduto in depressione grave, e cercava disperatamente di cancellare questa realtà.

Rina per un certo tempo portò regolarmente Myriam ai programmi di Joyjoy, avvisando quando non poteva; poi, qualche mese fa, improvvisamente smise di accompagnarla, e non rispose alle nostre chiamate telefoniche; a volte rispondeva il marito, con modi bruschi e ostili, finché un giorno tagliò corto dicendo che Myriam non sarebbe mai più andata.  Intuivamo come potesse essere l’atmosfera di famiglia, e decidemmo di non andare a trovarli. 

Dopo parecchio tempo, finalmente fu Rina a farsi viva di nuovo.Telefonava, ansiosa e timorosa, dalla casa di una vicina: il marito le aveva sottratto il cellulare, la controllava e sospettava di lei qualunque cosa facesse. “Per favore – ci chiese – venite voi a parlargli”.

Lo trovammo in pessime condizioni, evidentemente avrebbe avuto bisogno di cure e sostegno, e la situazione ora stava diventando insopportabile anche per la moglie.

Ma ora Rina lavora con noi come aiutante, ed è proprio il marito che ogni mattina, puntualmente, con la sua motocicletta porta lei e la figlia al nostro Centro. Raramente dice una parola, una sola, ma per noi questo è un grande miglioramento, e anche Rina si sta rivelando una donna con buone risorse, e degna di fiducia: ci aiuta molto bene, parla, sorride…

Rehana fu la prima aiutante assunta da Joyjoy; fino ad allora, lavorando come domestica con uno stipendio miserabile, era sopravvissuta solo grazie all’aiuto di sua madre. Con noi lavorava sodo; inoltre si fece notare come la più fedele nel far praticare alla figlia Moni, sia a casa sia a Joyjoy, gli esercizi di cui aveva bisogno. E poiché Moni ha una paralisi cerebrale, questo produsse notevoli miglioramenti, e fu di incoraggiamento anche alle altre mamme. Solo parecchio più tardi venimmo a sapere che suo marito si drogava pesantemente e spesso la violentava. Gli proibimmo di venire alla nostra sede, ma disturbava con chiamate telefoniche o con irruzioni chiassose. Ne parlammo con lei e sua madre, poi tutte insieme. Le altre mamme dissero di non capire perché Rehana non si separasse da quell’uomo, visto che erano lei e la mamma a mandare avanti economicamente la famiglia. La ragione venne ad un certo punto espressa: Rehana e mamma avevano paura di essere giudicate come donne poco serie… Sarebbe facile liberarsi del disturbo dicendo a Rehana di non venire più, ma in questo modo i problemi per lei certo non si risolverebbero. Stiamo cercando qualche organizzazione che possa intervenire sul marito e aiutare lui a cambiare; speriamo di trovarlo…

Futuro. Nello scorso mese di agosto abbiamo avuto il primo incontro con le mamme, e qualche nonna, e da allora ci si vede regolarmente tutti i mesi, con la partecipazione media di venti persone. Si prende il tè insieme, si condivide, ci si diverte. Alle mamme piace giocare a bocce (gioco sconosciuto in Bangladesh). Il campo è stato preparato da alcuni volontari italiani venuti in visita qualche mese fa, mentre dal Giappone sono arrivate bocce soffici e di misura piccola, che vanno proprio bene per loro. Si appassionano al gioco fino a dimenticarsi dell’agenda dell’incontro…

Tre mamme sono state scelte per incontri di collaborazione con gli operatori di Joyjoy, subito prima di ogni incontro mensile. Noi speriamo che questo stia mettendo le basi per una futura autogestione dell’iniziativa, aumentando le loro responsabilità e facendoci noi gradualmente da parte. Le mamme si interrogano spesso del futuro dei loro figli, sono consapevoli della fragilità del progetto Joyjoy, e ne parlano. Speriamo che si sviluppino fra tutte senso di appartenenza e di solidarietà, per riuscire a superare le differenze che esistono fra noi.

P. Franco Cagnasso       

Da Schegge di Bengala 235 - 236