Articoli e lettere agli amici - 2006

p. Franco Cagnasso


2006


Noi, ruote di scorta

Franco Cagnasso

Mondo e Missione - gennaio 2006

Il viaggio era stato interessante, aveva permesso contatti ed esperienze nuove, ma i direttori dei centri missionari partiti insieme per sondare le possibilità di un impegno diocesano in Asia erano perplessi: "Nessuno ci ha chiesto di mandare personale. Ci vogliono o non ci vogliono?". Decisamente amareggiati erano, invece, i missionari di un Paese sudamericano che ascoltarono l'omelia del nuovo vescovo entrante nella diocesi, in cui lavoravano da molti anni: "Ringraziamo i missionari.

Ora però la nostra Chiesa non ha più bisogno di loro, siamo lieti di lasciarli andare altrove, fra i non cristiani". Lasciarono infatti. "Ci ha cacciati, ora s'accorge che ha sbagliato...", fu il poco simpatico commento che si udì pochi anni dopo, quando il vescovo chiese loro di ritornare nella diocesi in difficoltà per defezioni e crisi.

Come non fu simpatico il "no" che un vescovo indiano disse a un missionario anziano e malato di cancro, che voleva tornare a morire nella "sua" missione, anche se lo giustificò dicendo che in Italia sarebbe stato curato meglio... Anni fa, nel "giro" degli Istituti esclusivamente missionari s'incominciò a descrivere il rapporto con le Chiese locali emergenti con uno slogan: "Siamo le loro ruote di scorta".

Un'espressione volutamente ambigua, perché la ruota di scorta, pur se indispensabile, è un oggetto che nessuno desidera usare, e a cui si chiede soltanto di occupare poco spazio. Ogni tanto l'espressione ritorna.

Come valutarla? Per tanto tempo i missionari hanno detto che il loro unico obiettivo era la fondazione e la crescita delle Chiese locali, che lavoravano per rendersi inutili e poter andare altrove.

Essere "ruote di scorta" potrebbe, dunque, essere il preludio al raggiungimento di questo obiettivo, invece è sentito spesso come una frustrazione.

Sembra che la Chiesa locale voglia scrollarsi di dosso la presenza di persone che danno la vita per i poveri e per l'evangelizzazione, per restare tranquilla nel tran tran delle istituzioni consolidate e sicure, nella cura del piccolo - o piccolissimo - gregge, senza alcuna attenzione per i non cristiani.

Ha voglia di autonomia, forse soprattutto di mettere le mani sulle risorse economiche.

Nella Chiesa cattolica non manca lo spettacolo poco edificante di clero e religiosi/e che puntano su opere di prestigio, economicamente redditizie, o addirittura che utilizzano i poveri, lo sviluppo, le calamità come pretesto per ricevere aiuti che useranno a proprio vantaggio.

Nelle Chiese protestanti, spesso sono i laici a dividersi e suddividersi in infinite lotte che hanno alla base la spartizione del denaro e delle proprietà. Quando nasce una nuova, minuscola setta, è saggio chiedersi se all'origine ci sia una controversia teologica o pastorale, o più banalmente un conflitto di interessi.

Tutto questo è vero, e spiega in parte il fastidio con cui i missionari sono a volte guardati, l'implicito invito: "Lasciateci i soldi e partite".

Non spiega, però, tutto, sia perché non sempre e non tutti nelle Chiese locali di recente origine hanno questi difetti, sia perché anche noi missionari abbiamo le nostre responsabilità. È difficile, ad esempio, accettare che un approccio all'evangelizzazione diverso dal nostro sia altrettanto valido.

Lo spirito missionario vissuto da noi europei in questi ultimi secoli è esemplare, ma è forse l'unico accettabile? Non potrebbe esserci, in un atteggiamento che appare a noi più distaccato o addirittura freddo, semplicemente una diversa sensibilità culturale? Inoltre, forse non ci rendiamo conto di quanto la nostra presenza possa essere ingombrante.

Spesso gestiamo soldi liberamente, per i poveri certo, e con sacrificio, ma questo ci fa apparire "buoni" di fronte alla gente, mentre i locali che gradualmente ci sostituiscono sarebbero i "cattivi" o meno zelanti, semplicemente perché dispongono di minori risorse.

Una situazione del genere crea disagio per forza, e probabilmente anche il desiderio che chi "fa ombra" in questo modo se ne vada alla svelta. D'altra parte, se anche c'è una certa ingiustizia, una mancanza di riconoscenza nel considerare i missionari "ruote di scorta", è forse per sentirci ringraziare che ci siamo messi in viaggio?

Se il bisogno di gratificazione è umanamente comprensibile, il saperne fare a meno è un'esigenza del Vangelo, dura ma giusta.

Tra passione e delusione

Franco Cagnasso

Mondo e Missione - febbraio 2006

Leggendo, d'un fiato, il testo che l'amica Mariagrazia Zambon mi aveva mandato, mi parve che in ogni pagina emergesse il titolo da suggerire: Passione per un popolo (vedi nota in Banglanews194 ndr). Il libro è frutto di un viaggio fra noi, e parla con simpatia del nostro lavoro, a 150 anni dall'arrivo dei missionari del Pime in Bangladesh.

Facciamo cose diverse, siamo a volte difficili da capire e con mentalità quasi opposte, ma ogni storia rivela in noi un rapporto tenace, ostinato, appassionato con questo popolo. Un'altra persona amica mi disse: "Non siete santi, avete grossi difetti, ma sapete restare, e dedicarvi a questa gente. Non è poco". Si potrebbe dire lo stesso di tutti i missionari a vita, in qualsiasi Paese.

Anni fa, si radunarono a Roma i superiori dei missionari che si trovavano coinvolti nella guerra in Guinea Bissau. Nella comune preoccupazione emergeva una differenza di mentalità. I superiori degli Istituti che hanno altri scopi prioritari e riservano la missione all'estero a un piccolo gruppo dei loro religiosi, desideravano farli ritornare: "Diciamo loro di lasciare il Paese, solo se insistono, restino". I superiori di Istituti esclusivamente missionari si chiedevano come aiutarli e sostenerli perché restassero: "Liberi, però, di tornare se non se la sentono". Non si trattava di paura contro eroismo, semplicemente di vocazioni e atteggiamenti psicologici diversi: chi va in missione per un progetto particolare, se il progetto non si realizza ritorna; chi ci va per sempre si gioca la vita, "facendo suo" il popolo a cui è mandato.

È sempre così? Non sono in possesso di statistiche, ma conosco un discreto numero di missionari che non ce l'hanno fatta ad appassionarsi per un popolo. Alcuni lo riconoscono, magari nella prima fase del loro inserimento, e tornano in patria per non muoversi più, in parecchi casi; mentre altri ripartono verso un nuovo tentativo in un altro Paese, spesso con risultati positivi. A distanza di anni il fallimento diventa esperienza che, pur con un alto costo economico, di tempo e di sofferenza, ha aiutato a maturare e quindi è tutto sommato positiva; ma a qualcuno rimane l'amaro in bocca, e lo sfoga accusando l'ambiente, l'Istituto, oppure cultura e caratteristiche del popolo che non è riuscito ad accettare.

Le nostre pubblicazioni offrono ai lettori storie "di successo", mentre fallimenti o faticose correzioni di rotta rimangono nell'ombra. Gli ideali: dono di sé, annuncio, dialogo, inculturazione, comunione fra le Chiese... si scontrano con il disgusto per una lingua, la nausea per un modo di cucinare, l'incapacità di accettare fatiche banali, ma che pesano sulla vita quotidiana, l'enigma di comportamenti di cui non cogliamo il senso e perciò paiono insensati. "Non sanno dire grazie", sento dire dei bengalesi, e alla lunga può diventare insopportabile stare con persone che sembrano capaci soltanto di chiedere, prive di riconoscenza. "Non sono mai sinceri"...

Si può trascorrere una vita vedendo intorno soltanto slealtà, strumentalizzazione? Sì, si può. E qui il discorso s'allarga ai missionari che rimangono, imparano la lingua, operano per anni con dedizione esemplare, eppure... Rimane l'impressione che ci sia qualcosa di non maturato nel loro rapporto con il popolo cui stanno dando la vita. Notano i difetti, le incongruenze, non riescono ad apprezzarne quasi nulla, sempre preoccupati di ciò che devono fare per loro, e di quanto sia difficile aiutarli nella loro fede, o nel loro sviluppo socio economico, se si tratta di un popolo povero.

L'amore, io penso, è anche capacità di apprezzare l'altro, la sua bellezza, il bene. Ricordo le descrizioni delicate e divertenti di padre Luigi Pinos, che presentava anche situazioni e persone difficili con un sorriso affettuoso, coglieva la bellezza, pur nascosta nelle pieghe della miseria, dell'alcolismo e di mille debolezze umane. La fatica di amare ci chiede anche qualche sosta che ci aiuti a non dare troppa importanza alla nostra presenza, al nostro lavoro, a ciò che siamo e insegniamo, per guardare con occhio libero e limpido persone, culture, religioni e popoli a cui la nostra vocazione ci manda: se noi siamo dono per loro, loro sono dono per noi, un dono che bisogna saper riconoscere e apprezzare.

La valletta degli elefanti

Franco Cagnasso

Venga il Tuo regno – marzo 2006

Tanti anni fa, a Diang, ai piedi delle collinette che chiudono la piccola valle, si intrappolavano e addestravano gli elefanti selvatici. Proprio qui, nel 1974 si ritirò Fratel Flavian, dicendo: “Dio mi chiama, vecchio elefante, per addomesticarmi...”

Era un missionario canadese che ne aveva fatte di tutti i colori. Mandato nel Bengala indiano nel 1932, durante la seconda guerra mondiale va a cercare la zona più difficile, malsana e malfamata per iniziarvi un lavoro nuovo. Poco distante dalla città portuale di Chittagong, dove il grande fiume Karnafulli si getta nell’Oceano e dove i cicloni devastano periodicamente quello che i numerosi pirati hanno risparmiato, si dedica anima e corpo a riscattare i pescatori hindù da condizioni di vita indescrivibilmente povere e degradate. Mette in piedi scuole e cooperative, addestra alla pesca con barche a motore, organizza la vendita del pesce, compra e dissoda vaste aree incolte e aride, rendendole fertili e portandovi famiglie povere di varie religioni. Deve lottare contro i monopòli dei mercanti e dei proprietari terrieri rischiando più volte la vita; i poveri stravedono per lui, i potenti lo rispettano, molti lo odiano. Devotissimo della Madonna, dedica a lei una piccola grotta nella valletta degli elefanti, vicino al luogo dove quattro secoli prima erano sbarcati i primi cristiani, commercianti portoghesi con le loro famiglie. Ne era nata una comunità relativamente fiorente, distrutta poi dalle lotte fra musulmani, buddisti dell’Arakan birmano e coloni europei.

Quando, a 67 anni di età, Fratel Flavian lascia tutto e si ritira a vivere nel bosco, in una stanzetta vicino alla grotta di Maria, la gente rimane fulminata, lo considera un santo. Spende il suo tempo pregando e predicando la pace, e prima di morire, nel 1981, ha la gioia di vedere anche vecchi nemici che vengono a trovarlo, gli chiedono perdono, vogliono la sua benedizione.

Dopo di lui, con fatica la sua Congregazione (i Missionari della Santa Croce) e la diocesi di Chittagong tengono aperto questo piccolo eremo (chiamato ashram, secondo la tradizione indiana), insieme con la grande scuola e l’ostello per ragazzi poveri costruito lontano abbastanza da non disturbare. Oggi vi abita Fratel Lawrence, un bengalese che sembra il contrario di Fratel Flavian: un vecchietto magrolino, gentile, tutto “spirituale”, coscienzioso nel seguire le regole dell’ashram che ha imparato in India. Anche a lui la gente vuol bene, dice che, come Gesù, sa essere amico dei buoni e anche dei peccatori, briganti e sciacalli. Sciacalli veri, numerosi e chiassosi, che circolano nella zona e ravvivano la notte con i loro strani “canti” in coro...

Ogni anno sono suo ospite per un mese. Insieme ai seminaristi che, terminati gli studi di teologia si preparano all’ordinazione diaconale, lascio Dhaka ai primi di gennaio e vengo fra queste collinette remote. Trascorriamo un periodo di formazione tranquillo, in preghiera e condivisione fra noi, “respirando” la bellezza della natura, la storia dei primi cristiani qui e della loro tragica scomparsa, la dedizione di Fratel Flavian, la preghiera di tanti pellegrini di ogni religione, l’attenzione di Maria per questi giovani.

Vengono da tutto il Bangladesh, qualche anno sono più numerosi (nel 2005 erano 16) qualche anno meno: soltanto 6 nel 2006. Saranno i preti di questa chiesa ma anche di altre, perché alcuni di loro appartengono ad istituti religiosi e missionari che iniziano a mandare i loro membri bengalesi anche all’estero, piccolo prezioso dono che il Signore ci concede di fare ad altre chiese e popoli.

Il mese di formazione a Diang si trascorre per lo più in silenzio, ma comprende anche momenti di distrazione. Domenica 15 gennaio siamo andati insieme a Chittagong, dove abbiamo incontrato i 57 bambini e bambine di un ostello buddista. Venivano da un remotissimo villaggio dell’interno, per la prima volta in visita alla città. Divisi a gruppetti, ogni futuro diacono con una decina di bambini e – a rimorchio – le loro maestre più stordite e stupite di loro, siamo andati a vedere il mare, poi a sentire la commossa predica del Bonzo (monaco) della principale pagoda di Chittagong, infine a giocare con i bambini dell’ostello delle Suore cattoliche, e a gustare il pranzo buonissimo che ci avevano preparato. Mentre i bimbi, sbalorditi ed entusiasti, riprendevano la via del loro villaggio, i “miei” seminaristi hanno concluso la giornata visitando un orfanotrofio musulmano, ascoltando i loro canti e le loro raccomandazioni a diventare musulmani il più presto possibile.

La sera, attorno ad un buon piatto di riso e verdure (la dieta dell’ashram è rigorosamente vegetariana!) commentavamo contenti che la comunità cristiana in Bangladesh è piccola piccola, ma può fare tanto, se tiene occhi e cuore aperti.

Pressione di faglia

Franco Cagnasso

Mondo e Missione - marzo 2006

Molto spesso i missionari si trovano schiacciati tra mondi in frizione.

Buono e stimatissimo, aveva dato tutto alla missione, imparando bene la lingua locale, viaggiando instancabilmente in bicicletta o a piedi, nutrendo di preghiera ogni passo. Unico difetto: affamati e fannulloni, poveri e profittatori, chiunque chiedesse, otteneva. Quando si ritirò inabile, il superiore gli proibì di usare il denaro che riceveva, per proteggerlo dalle interminabili file di questuanti, spesso prepotenti.

Dopo la morte trovammo un suo diario. Copre un periodo di pochi mesi, ma è uno squarcio sulla sofferenza di tutta la vita, in lotta affannosa con i poveri. Ne sentiva come un incubo la pena, l'umiliazione, percepiva che i suoi aiuti, anche quando ben mirati, erano comunque insufficienti a risolvere i problemi, mentre altre volte sostenevano la pigrizia, la passività, l'alcolismo... Come un animale braccato, trovava ogni tanto sollievo a un ritiro spirituale, a un'assemblea con i confratelli, ma il pensiero rimaneva incollato all'interminabile litania di miserie, alla sua incapacità di discernere, di dare con criteri razionali, di liberarsi dalla pena per le sofferenze che lo assediavano. Scrive: "Domani torno alla missione, prima ancora che arrivi qualcuno mi aspetterà lungo la strada, e ricomincerà il mio tormento...".

La sua sofferenza, con l'incapacità di gestirla, pur essendo più acuta del normale, non è unica. Manifestava un disagio di cui molti missionari non parlano più nemmeno fra loro, perché sanno che non troveranno risposte. Dicono i geologi che nelle profondità della terra si trovano le faglie, linee di frattura delle piattaforme continentali che si scontrano, generano frizioni fortissime, provocano terremoti e tsunami.

I missionari dei Paesi ricchi, nei Paesi più poveri si trovano in queste zone di faglia, sono sul margine, spaccati e schiacciati fra mondi culturalmente, socialmente ed economicamente in frizione rovente. Nati e cresciuti nell'abbondanza, in ambienti protetti, con assistenza sanitaria, cibo vario e buono, case solide... spesso hanno pensato la missione come vita con e per i più poveri; giunti là, si trovano non solo penosamente impotenti, ma lacerati. Tutto ciò a cui sono abituati manca: cure mediche, cibo, sicurezza, case, speranza che qualcosa cambi almeno per i figli.

Soprattutto manca almeno una parvenza di giustizia che riconosca ai poveri dignità, mentre lo sfruttamento non si nasconde nelle pieghe morbide del capitalismo e dell'alta finanza, ma emerge sfacciato nelle mafie brutali, nel disprezzo dei ricchi che non pagano, rubano protetti dalla polizia, ammazzano impunemente, fanno condannare innocenti per espropriarli.

Gridi contro l'ingiustizia, lo sfruttamento, ma il grido non allevia di un soffio la sofferenza del malato che hai davanti, senza mezzi per andare in ospedale.

Hai lasciato tutto per essere con i poveri, ora sei un ricco, potente, e non riesci neppure a capire come ti vedano: un misterioso straniero che, se vuole, può. Da lui, dai suoi umori dipende la possibilità di far studiare mio figlio, di curare mia moglie, di riparare il tetto della casa...

Dici di no, perché non puoi fare tutto, perché dare sempre è controproducente, perché non hai più risorse? Penseranno semplicemente che non hai voluto. "Non capiscono - mi diceva un amico - perché quando si ha fame non c'è nessuna ragione che si possa capire".

Fai progetti e iniziative per razionalizzare, per raggiungere qualche obiettivo per quanto piccolo. Spesso fallisci per incompetenza, o perché t'imbrogliano; ma anche se riesci, non ti salvi dall'onda d'urto di coloro che rimangono fuori, dai "casi" che nessuna iniziativa riesce a coprire.

Ti chiedi, con tristezza, se tutto ciò manifesti l'amore, la tua passione per Cristo, o non piuttosto li nasconda. Nel Vangelo di Giovanni, Gesù, dato il pane, scappa, e quando lo raggiungono dice alle folle che lo cercano per avere pane, che è altro ciò che dovrebbero desiderare.

Quando arriva per noi il momento di scappare? Come dire alla gente che siamo qui per altro?

È forse la spina di cui parla Paolo, conficcata nella carne di molti missionari, che non viene tolta. È il prezzo da pagare, senza colpa, per un mondo che continua a fare del benessere il proprio dio e a generare ingiustizia?

La missione dell'ascolto

Franco Cagnasso

Missionari del Pime - aprile 2006


Organizzare, progettare, comunicare. La nostra mentalità occidentale ci spinge a pensare la missione, persino l'annuncio del Vangelo, in questi termini. Ma c'è un'altra possibilità.

"Il mio villaggio ha due quartieri, i cui nomi dicono tutto: quartiere ricco, quartiere povero. La mia famiglia, che sta nel secondo, qualche anno fa attraversava un momento difficile. Il mio fratello maggiore beveva, un altro non voleva più studiare, il terzo era sempre ammalato, quattro sorelle piccole. Parlai ai miei genitori: 'Avete tanti figli, forse solo io sono in grado di aiutarvi. Lascio il seminario e vi do una mano...'. Si guardarono, e la mamma mi rispose tranquilla: 'Al Signore bisogna dare la parte migliore, non gli avanzi. Diventando prete non potrai aiutarci, ma siamo contenti così, non preoccuparti per noi'". È Martin che mi parla, un giovane tribale. Il predicatore di un corso di esercizi spirituali sta aiutando lui e altri che presto saranno diaconi a ripercorrere la loro vita per ricordare gli eventi principali, scoprendovi le tracce della grazia di Dio. Ci pensano, pregano, ne parlano con me. Io ascolto. È il mio "mestiere" da quando, nel 2002, ancor prima di ritornare dopo 19 anni di assenza, mi hanno nominato direttore spirituale al "Seminario Spirito Santo" di Dhaka, l'unico seminario "maggiore" (filosofia e teologia) del Bangladesh. Qui concludono il loro lungo cammino formativo i futuri preti delle sei diocesi del Paese, e qui vengono a scuola anche tutti i religiosi, che vivono nelle loro comunità. Nel 2005 erano 46 diocesani, nel 2006 sono 61, suddivisi in 5 classi. I religiosi più o meno altrettanti. Non ho mai contato nè voglio contare quanti vengono da me; posso dire che sono tanti: seminaristi e ragazze in formazione presso varie congregazioni. Non mi accostano spontaneamente, ma perché la regola dice che devono avere un padre spirituale; quindi sono incerti, timorosi, non sanno di che cosa si tratti. Uno mi ha detto candidamente: "Volevo padre Tizio, ma non ha tempo; padre Caio è stato trasferito; il Rettore mi sollecita ad incominciare... posso venire da te che sei facilmente reperibile?" Un'altra: "Preferirei una suora, ma non la trovo...". Accetto. È una partenza modesta, ma strada facendo si può crescere. "Non m'interessa - spiego - che tu diventi prete o suora, ma che tu diventi l'uomo o la donna che il Signore desidera, così sarai anche una persona felice. Il direttore è lo Spirito Santo; chi collabora sei tu. Io do una mano...". Iniziamo ogni incontro con una preghiera, per ricordarci che siamo in tre, e concludo con una benedizione. Ci tengono, se me ne dimentico la chiedono: "Padre Franco, niente benedizione?". Pian piano, arrivano a raccontarmi la loro vita, i loro problemi, gli avvenimenti e i sentimenti più significativi e profondi, quelli che non hanno mai comunicato neppure a se stessi, perché troppo belli, o dolorosi, o oscuri. Forse, attraverso la simpatia con cui ascolto, intuiscono la paternità di Dio. In rapporto al numero dei cristiani (poco più di 400mila) le vocazioni in Bangladesh sono numerose. Ci si può fidare? Sono di comodo? Bisogna discernere, ma senza pregiudizi: forse che un povero non può fare scelte disinteressate? Ecco la mia missione: tante ore ad ascoltare con attenzione e partecipazione, usando una lingua che non è la mia. A volte sento la stanchezza, ma è soltanto fisica, mentale, non del cuore, che invece continua a gustare questa intimità con persone che il Signore ama, dando a me il dono di essere per loro un segno di questo suo amore.

Ghetti invisibili

Franco Cagnasso

Mondo e Misssione aprile 2006


La dedizione totale è lodevole. Purché non diventi chiusura in se stessi

Anni fa un confratello del Pime mi fece gustare per un giorno intero la bellezza di Kyoto; altri, durante quella mia prima visita come vicario generale, mi accompagnarono a vari luoghi d'arte, religione, storia del Giappone.

Fu un caso unico. Per diciott'anni ho visitato ripetutamente le missioni del Pime in tutto il mondo, trovando sempre un programma, preparato dai missionari del posto, che si potrebbe definire "antituristico". Niente spiagge e night club, ovviamente, ma nemmeno templi, musei, biblioteche... a meno che non ci si incappasse durante un trasferimento, nel qual caso si faceva una breve tappa. Ho visto invece, a lungo e dettagliatamente, baraccopoli, scuole, chiese, dispensari medici, villaggi, famiglie povere, orfanotrofi...

Non me ne lamento. Anzi, sono molto contento che i missionari mi abbiano fatto partecipe di ciò che sta loro a cuore, e sono convinto di avere conosciuto quei Paesi in modo molto più vero di quanto si conosca normalmente attraverso brevi visite, anche culturali.

Conoscenza vera, dunque, ma dei cui limiti bisogna essere consapevoli. Noi missionari siamo per lo più persone attive e pratiche. Un tempo, appena arrivati venivamo assegnati a una missione, e là dovevamo arrangiarci a imparare a parlare. Oggi ci si prende il tempo, a volte anni, per studiare la lingua; in qualche caso, vengono pure offerti brevi corsi e contatti per conoscere la cultura locale. E poi... al lavoro.

Vivere e lavorare in un ambiente che non è il tuo chiede un enorme investimento di attenzione ed energie per capire le tradizioni, lo stile di vita, le reazioni psicologiche, i modi di sentire. Quasi sempre sei immerso in tantissimo lavoro per accompagnare o guidare le mille iniziative esistenti, per crearne di nuove, per visitare la gente, per riceverla. Le giornate sono strapiene, a malapena si trova il tempo di pregare.

Una dedizione così totale è lodevole, ma ha risvolti negativi. Specialmente dove i cristiani sono una piccola minoranza, magari appartenente a gruppi etnici a loro volta minoritari, si vive ai margini della società locale. Siamo in un Paese islamico, o buddhista, indù, confuciano, vi sono rilevanti ambiti sociali secolarizzati; che cosa sappiamo, come siamo in relazione con questi gruppi religiosi o secolari che formano la sostanza culturale e sociale della nazione?

I cristiani locali sono spesso isolati. L'anno scorso ho tenuto nel seminario maggiore di Dhaka un corso di islamologia. Ho chiesto agli studenti di descrivere la loro esperienza con i musulmani, con cui vivono fin dalla nascita, con i quali hanno studiato a scuola, che incontrano ovunque. I loro scritti, interessantissimi, raccontano alcune esperienze amare, altre di buon vicinato; tutti rivelano che per una vita intera si può stare accanto, ignorando completamente le realtà che per l'altro sono più importanti. Cinque volte al giorno, ogni giorno dell'anno, i muezzin cantano il richiamo alla preghiera; nessuno dei miei studenti sa tradurre le parole ascoltate dagli innumerevoli altoparlanti. Sentono dire ad ogni piè sospinto: "Insciallah", o "Al hamdu lillah", ma non si chiedono che significano tali espressioni.

Intendiamoci, i musulmani ignorano i cristiani allo stesso modo. A volte c'è soltanto disinteresse, o timore, altre volte ci sono, da entrambe le parti, disprezzo, sfiducia, pregiudizio.

Noi, venuti dall'estero, ci immergiamo nel lavoro, con il trascorrere degli anni veniamo assegnati a posti diversi, però senza mai uscire dall'ambito dei gruppetti emarginati. La nostra esperienza è preziosa; ma può indurci a valutazioni distorte.

Ad esempio, la carenza di contatti con la società dominante ci impedisce di trovare collaborazioni, di mettere in moto energie buone che ci sono ma non vediamo. "Iniziato un programma per i disabili - mi diceva un missionario -, in breve abbiamo trovato medici, professionisti, famiglie di buddhisti, che vogliono aiutare, e sono nati rapporti inattesi di stima. Si tratta di una vera scoperta, fatta perché siamo troppo pochi e per forza avevamo bisogno di altri. Altrimenti ci saremmo limitati a un rapporto fra cristiano benefattore e buddhista beneficato".

È difficile, ma se facessimo qualcosa in meno per guardarci attorno di più, ci accorgeremmo che pian piano è possibile uscire dai ghetti invisibili in cui siamo o ci hanno rinchiusi.

Il successo per forza

Franco Cagnasso

Mondo e Missione - maggio 2006


Stupido, ingombrante, costoso e inutile. Ritratto "anomalo" del missionario

Non c'è: per venti giorni accompagna i genitori in visita al Paese e ad altre missioni. Con loro viaggiano, per una settimana, le due volontarie che operano da otto mesi nello stesso progetto, momentaneamente fermo. La gente ha accolto gli ospiti con entusiasmo, ha offerto regali, cantato e danzato per loro, che in Italia avranno molto da raccontare per animare con efficacia, mentre il figlio ritornerà al lavoro ricaricato. Fra tre mesi, come da contratto, arriveranno le ferie. A metà del triennio è previsto un mese a casa, prolungato leggermente per rimettersi dai malanni intestinali contratti ai tropici e per i necessari controlli specialistici. Non resterà poi molto tempo per concludere e passare la mano ad altri, se altri ci saranno. Intanto, urge mandare i resoconti, per dimostrare ai finanziatori che i soldi vengono spesi nei tempi stabiliti e secondo il progetto, pena il taglio delle rate successive. La pressione si fa sentire, la gente è lenta e impreparata, i nervi saltano facilmente; sono provvidenziali i fine settimana con amici venuti a vedere se, superati vari ostacoli familiari e professionali, potranno in futuro dare una mano, foss'anche solo per qualche mese...

"Stupido, ingombrante, costoso ed inutile". Alla giornata conclusiva del biennio formativo per laici di un organismo italiano, ho usato questi aggettivi per descrivere il missionario.

"Preso di stupore, intontito, tardo": lo Zingarelli dà alla parola "stupido" questi significati, che bene abbozzano la condizione del missionario appena arrivato. Non conosce, perciò non capisce, né la lingua né tutto il resto. E chi non capisce è stupido. "Ingombrante", perché la gente - pur ospitale e benevola - non sa bene dove metterlo, come maneggiarlo, che cosa dargli da mangiare, come farsi capire e farlo contento. Anche quando (non sempre) si sforza di vivere, mangiare, vestire come loro, si tratta di un tentativo lodevole, ma inadeguato. Non andrà dai medici locali quando gli farà male un dente, per non prendersi l'Aids; si sposterà in auto o in aereo, quando deve andare lontano o accompagnare ospiti, perché deve risparmiare tempo. La casa è povera, ma si può stare senza frigorifero? Occorre acqua sicura, e mangiando sempre solo cibo locale non si regge. Dovendo a ogni costo realizzare un progetto finanziato da donatori esigenti, con impazienza solleciterà tutti a ritmi più intensi, a un'efficienza indispensabile per lo sviluppo. Di fastidi ne avrà, e ne darà parecchi.

"Costoso". Guadagnerebbe di più in Italia - se non è disoccupato. Ma su un paragone fra costi effettivi, ciò che riceve "per spese personali", e stipendi locali è meglio soprassedere. Per non dire delle visite turistiche già ricordate...

E "inutile", in misura proporzionale al bisogno che sente di essere utile. La gente del posto è vissuta per millenni senza di lui, che cosa mai potrà significare la sua presenza e il suo affannoso lavoro di qualche mese? Rimarrà il ricordo del suo gran correre, di alcune stranezze (lo straniero è sempre strano...), qualche muro costruito perché "non se ne può fare a meno", qualche attrezzo che, rotto, nessuno aggiusterà...

Ai giovani che ascoltavano perplessi, aggiungevo che questa mia impietosa descrizione non ha un lieto fine. I missionari sono così, possono soltanto, con il tempo, rendersi meno stupidi, meno ingombranti, meno costosi e meno inutili...

Che dire a chi va per tre anni o quattro, prima esperienza all'estero, prima responsabilità di lavoro, a volte primi passi di vita coniugale?

Dico che è micidiale il bisogno di concludere un progetto nei modi e tempi stabiliti in un altro continente, anche se non sono mancati i viaggi preparatori con relativi rilievi tecnici; e che avere la pretesa di programmare, realizzare e concludere qualcosa in tre o quattro anni è ingenuo e presuntuoso.

Se ci si prepara bene, con realismo, e se con umiltà ci si riconosce stupidi, ingombranti, costosi e inutili, senza fare danni rilevanti a chi ci ospita, si tornerà arricchiti da un'esperienza bella, utile al missionario e alla sua chiesa d'origine.

Se il tutto si vive mettendo al primo posto un sincero, semplice desiderio di amicizia, allora si può sperare che resti pure una lieve traccia nei cuori di chi con pazienza ci ha accolto, curato e sopportato. Una traccia dell'amore e della gratuità di Cristo, per la quale vale la pena di sapersi stupidi, ingombranti, costosi e inutili.

Luci e ombre dal Bangladesh

Dhaka, 12 maggio 2006

Cari Amici,

come promesso, vi mando notizie dei due ostelli che avete aiutato, i 35 ragazzi di Lebubari e i 60 ragazzi e ragazze buddisti di Betchara.

Come è normale nella vita, le notizie sono un po' a luci e ombre, ma penso che tutto sommato prevalgano le luci, almeno per gli ospiti degli ostelli.

A Lebubari, i ragazzi continuano con impegno gli studi, stanno bene e crescono.

Abbiamo realizzato altri lavori per sistemarli sempre meglio, approfittando del periodo in cui l'acqua si ritira e prima che torni di nuovo alta. In particolare, una strada di collegamento con il villaggio vicino, e dei gabinetti in muratura con tanto di fossa settica, perché i precedenti, provvisori, già erano quasi fuori uso. Abbiamo anche comprato la terra che, appena l'acqua risale, con le barche (inclusa la più grande, quella regalata da voi!) porteremo per riempire uno dei tre "pukur" (stagni) e coltivare così anche patate e legumi.

Nei "pukur" - compreso quello da riempire - intanto si allevano pesci e gamberetti. Fra i pesci, ne hanno pescato uno record di 6 chili, e tutti contenti mi hanno telefonato che volevano portarmelo. Ho detto di no, che lo mangiassero loro in onore mio e dei benefattori. Loro però, senza dirmi nulla, lo hanno ributtato in acqua per ripescarlo quando Tomas doveva venire a Dhaka, così una parte me l'hanno portata bella fritta e io ho avuto il gusto di mangiarla.

I gamberetti invece sono venduti al mercato e stanno dando una rendita discreta.

Queste le luci... Le ombre sono che nella notte fra il 7 e l'8 maggio scorso un tifone si è abbattuto sulla zona. Per un'ora e mezza i ragazzi e la famiglia, il maestro e due operai che erano con loro sono rimasti disperatamente attaccati al tetto del loro dormitorio, dopo che tutti gli altri erano già volati via; ma alla fine il vento l'ha vinta e ha sradicato anche quello. Hanno poi ritrovato lamiere a 600 metri di distanza! Naturalmente le strutture in bambù sono distrutte. Ma - ed ecco di nuovo la luce! - nessuno si è fatto male. Solo tantissima paura e tutti inzuppati. Anche l'anziana mamma di Tomas, che ha vissuto il ciclone nascosta sotto un letto, s'è rialzata senza ferite.

Quindi sono già tutti al lavoro per ricostruire. L'anno prossimo speriamo di costruire almeno un edificio in muratura e con il tetto in cemento, così che tutti possano rifugiarsi là in caso di nuovi tifoni.

A Betchara la salute è sempre un poco più precaria, perché si trova in zona malarica e anche le malattie intestinali sono molto frequenti.

I ragazzi e le ragazze sono ora saliti a 60, mangiano tutti i giorni tre volte e sono contenti. Abbiamo installato l'impianto elettrico a cellule solari nello studio e stiamo per impiantarlo anche nella cucina e dormitorio, con grande vantaggio per gli occhi non più rovinati dalla fioca luce delle lanterne, e del portafoglio non più svuotato dal costo del petrolio. Abbiamo pure costruito i gabinetti in muratura, ora si pensa a un impianto per l'allevamento del pesce, che possa ridurre le spese e rendere più nutrienti i pasti.

Tutto bene dunque? Si può dire di sì per l'ostello, ma non per i Marma in generale. In una zona più a nord di Betchara sono avvenuti fatti molto penosi, sui quali ho ricevuto una relazione che vi mando in allegato tradotta (e anonima, per prudenza).

Io continuo il mio lavoro e sto bene. Spero altrettanto di voi. Non ho mandato gli auguri pasquali, ma ho pregato per tutti.

Cordialmente,

p. Franco Cagnasso

Il villaggio

giugno 2006

Franco Cagnasso

Questo articolo è rivolto ai ragazzi ed ai giovani che si apprestano a partecipare ai campi-scuola estivi e, pensiamo, possa essere di aiuto agli animatori missionari.

Andiamo insieme a scoprire il villaggio dove si svolgerà il nostro campo.

Immaginate una valle bellissima con montagne coperte di boschi e, più in alto, rocce e ghiacciai. Il paesino è sul fondo, dove scorre il torrente… no, meglio: è a mezza costa, e ci si arriva seguendo una strada che s’inerpica a zig zag fra i boschi…

Immaginate il mare calmo, luminoso. Voi siete in barca e da lontano vedete il paesetto scintillare al sole, pieno di colori…

Immaginate un grande deserto e una carovana che lo percorre lentamente. I cammelli sono carichi di grandi sacchi con ogni tipo di mercanzia, i cammellieri hanno il volto coperto per proteggersi dal vento sabbioso e scrutano lontano, riparandosi con la mano gli occhi accecati dal sole rovente. Ecco, uno lancia un grido; ha visto all’orizzonte il ciuffo verde della palme, i tetti piccoli piccoli delle capanne lontane dell’oasi…

Allora?

Montagna, mare, deserto, foresta, pianura ricca di campi? Dov’è questo villaggio? Com’è?

È nella vostra fantasia. Ciascuno pensi ad un paese che esiste e che gli piace, magari proprio quello dove vive, o quello dove è stato una volta in vacanza; oppure se lo costruisca lui pezzo per pezzo nella fantasia, con attenzione. Mi raccomando, deve essere bello, simpatico, accogliente. Un paese dove andresti volentieri.

Devi soltanto stare attento perché, comunque sia, abbia questi elementi.

Una porta. Può essere un paese circondato di mura, con una grande porta, vera e propria; oppure senza mura, ma con un portale sulla strada principale, con la scritta “Benvenuti”. Può essere un antico arco romano, o un portale di tronchi grezzi. Come vuoi. Ma la porta d’ingresso ci vuole.

Una fontana. Grande, piccola, non importa, purché sia attiva, l’acqua deve scorrere abbondante e la gente la deve usare.

Un lampione, grande, nella piazza principale. Oppure, se il villaggio è nel deserto, o nella foresta, senza luce elettrica, avrà una lampada a petrolio, messa in un angolo di passaggio, su un pezzo di tronco.

Un forno per fare il pane. Moderno, automatizzato, elettrico? Antico, a legna con il camino? Vedi tu, come ti piace.

E naturalmente le case per la gente, tutte abitate con tanti ragazzi e ragazze, e le strade, alcune larghe altre più strette, con le automobili, oppure con galline e cani che vanno a spasso tranquilli. Pensi ad un villaggio di montagna messicano? Allora invece delle galline, mettici i tacchini – tanti. E che non manchi qualche asino ragliante!

La scuola… beh, se ci sono ragazzi e ragazze non può mancare.

Non deve mancare un luogo che di solito dimentichiamo ma è indispensabile, il cimitero. Sì, proprio il cimitero. Mettilo dove vuoi, magari un po’ lontano, ma che ci sia.

Infine, la chiesa.

Antica o moderna, grande o piccola, purché sia bella, di tuo gusto, messa nel posto adatto.

E ora seguitemi: io entro nel mio villaggio, ognuno entri con me nel suo villaggio!

Nel Villaggio la FONTANA racconta…

Credo di essere abbastanza simpatica, perché non dovrei dirlo? Nel villaggio mi vedono come un riferimento sicuro, che non dà fastidio a nessuno e serve tutti. Anche di notte, il gorgogliare continuo, uniforme dell’acqua che scende nella grande vasca in pietra non disturba il silenzio, anzi tiene compagnia a chi non può dormire, o a chi passa solo solo diretto verso casa, forse con un poco di paura.

Vengono con secchi a rifornirsi, oppure semplicemente a bere facendo coppa con la mano sotto la canna. Offro acqua sempre gelida, cristallina, qualcuno porta bottiglie di plastica e fa rifornimento per qualche giorno.

La mia soddisfazione più grande è vedere come quest’acqua così semplice, umile, che non costa nulla, ristora chi ha davvero sete. Chi cammina a lungo, o lavora sotto il sole mi pensa spesso; quando riesce a raggiungermi, si china, beve, e si sente rinascere. Si rialza con il viso bagnato dagli spruzzi, prende fiato e poi beve ancora, finché vuole. Non va via subito: per un attimo si lascia invadere dal fresco, dal benessere e – ne sono sicura – dentro di sè ringrazia, anche se forse non lo sa e non lo dice.

Ma qualcuno lo dice. Una volta, un giovanotto e una ragazza sono arrivati sudati, hanno bevuto pieni di gioia, spruzzandosi e ridendo. Poi si sono fatti silenziosi, si sono seduti vicino a me e poco ho udito il loro canto: “Lodato tu sia, mio Signore, per sorella Acqua, la quale è molto utile, umile, preziosa e casta”, poi hanno lodato per il fuoco, la terra, il vento, quelli che perdonano… che bello!

Non vengono solo uomini però, ci tengo a dirlo. La mia grande vasca è adatta anche per gli animali. Le mucche mettono il testone sopra il bordo e bevono a lunghi sorsi continui, i cani lappano sotto la fessura dove l’acqua cola e forma una pozza. I piccioni mettono le zampe sui ferri messi per sostenere i secchi, e becchettano le gocce degli spruzzi, mentre i passeri si fanno il bagno completo in pozzangherette piccole piccole.

I più belli sono i bimbi. I piccolini si fanno prendere in braccio e… zac! Mettono la faccia sotto il getto d’acqua, e la ritirano, senza fiato per il freddo e per l’acqua entrata nel naso, un po’ stupiti… tossiscono, ma non si staccano, riprovano, ridono, si entuasiasmano… Quelli più grandi fanno battaglia, a volte vanno via fradici… chissà le mamme cosa diranno!

Non voglio farmi bella con ciò che non è mio. Penso spesso all’acqua che non è soltanto qui da me, ma dappertutto. Scende dalla montagna, attraversa grandi pianure, dà vita a boschi, campagne, città, forma laghi stupendi, muove le centrali elettriche… grandi masse, ma anche poche gocce: che sollievo poche gocce sulle labbra arse di un malato!

E là, in posti lontani, dove è scarsa e preziosa più dell’oro? Lentamente filtra fra la sabbia del deserto, forma piccole pozze dove gli uomini accuratamente la proteggono, la raccolgono con attenzione; dove gli animali si radunano di notte, guardinghi, per bere avidamente. Non è fresca, è fangosa, ma è vita!

D’inverno, quando il freddo si fa intenso, allora l’acqua gela intorno ai bordi, sopra la canna di metallo. Riflette in mille colori la luce del sole, scintilla come un diamante prezioso!

Gesù dona L’ACQUA VIVA che disseta... ogni sete!

Siamo arrivati al pozzo, finalmente!

Fa molto caldo e sono stanco. Ben volentieri lascio che i discepoli vadano tutti insieme, chiaccherando e scherzando, al villaggio che s’intravvede lontano sulla collina, per comprare qualcosa da mangiare, lasciandomi solo.

Mi chino sull’orlo del grande pozzo. Sul fondo buio l’acqua scintilla e gorgoglia leggera, scorrendo nel piccolo ruscello sotterraneo. Un senso di fresco umido, fragrante di muschio sale dal basso, ristoratore.

Arriva un topolino timido. Si liscia i baffi, guardingo, beve e scappa via…

Silenzio, cullato dal frinire forte delle cicale.

Chiudo gli occhi, e sento dentro di me l’Amore del Padre, la presenza dello Spirito. Il nostro colloquio non si ferma mai, è come quell’acqua profonda, limpida, costante. Nei momenti di pena, di lotta, questo dialogo silenzioso è come il sangue che mi scorre nelle vene e mi dà vita, come un bicchiere d’acqua che bevi a lunghi sorsi gustosi, nel caldo.

Alzando gli occhi vedo, lontana sul sentiero pietroso, una donna che avanza lentamente portando una grande brocca sulla testa, un’altra sotto il braccio.

Non ci siamo mai visti, ma so che è una donna intelligente, generosa, inquieta, a volte ribelle. Ha lottato tanto nella vita, contro il marito violento e ubriacone, poi per mantenere i due figli, poi per non farsi rubare il campo da un usuraio. Ha anche sbagliato tanto, impulsiva, passionale, ingenua com’è… Infine s’è arresa. Ora si trascina stancamente da una giornata all’altra, delusa di tutto e di tutti, amara, cattiva anche con se stessa. Il suo corpo vive, l’anima è come svuotata, rinsecchita.

Quand’è più vicina vedo il suo volto, bello ma sciupato, pieno di tristezza. Oh, se sapesse quale acqua posso darle perché ritrovi la vita e la gioia di vivere! Oh, se i miei discepoli diventassero come fontane da cui sgorga l’acqua viva dell’amore, dello Spirito, per tutti!

Mi vede, si ferma un attimo, dubbiosa. Sembra incuriosita e allo stesso tempo disturbata dalla mia presenza. Per evitarmi fa un largo giro attorno al pozzo, dalla parte opposta a dove mi trovo. Deposita la brocca che ha sul capo guardandomi di sottecchi, poi scende verso il fondo con l’altra.

La riempie, risale gocciolante. Mentre afferra la seconda brocca la chiamo: “Dammi da bere”…

Nel Villaggio LO STRADINO racconta…

Se pensate che una strada sia soltanto una striscia di terra su cui passare, non capite niente. Lasciatelo dire a me che le strade le conosco perché sono uno “stradino”, incaricato di pulirle, ma soprattutto badare che tutto sia sempre a posto: paracarri, cartelli, margini, drenaggi...

Voi usate le strade e mica pensate a quanto lavoro ci vuole per costruirle e mantenerle bene. Se c’è una buca, apriti cielo, proteste a non finire, però mai nessuno dice: “Meno male che c’è una strada!” Vi sembra ovvio che ci sia, e invece non è ovvio per nulla. Qualche anno fa in Bangladesh (non sapete dov’è? Andate a cercarlo sull’atlante geografico: non è un paesetto da nulla che potete ignorare, ha ben 140 milioni di abitanti, vi pare poco?). Dicevo: qualche anno fa venne un terribile ciclone che investì la zona costiera con una furia incredibile. Si parlò di centomila morti, ma furono molti di più, perché in quell’area molte terre emergono dal mare per l’accumulo di sabbia portata dai grandi fiumi dell’Himalaya (ecco, vi ho dato un’indicazione per cercare il Bangladesh, se sapete dov’è l’Himalaya!), e la povera gente subito va ad occuparla abitando in capannucce di frasche e vivendo di pesca. Quanti siano, da dove arrivino, come facciano a sopravvivere nessuno lo sa.

Dopo quello spaventoso disastro, il mondo si mobilitò, si raccolsero aiuti e poiché era impossibile offrire a tutti una casa decente e robusta, molte istituzioni decisero di costruire dei “Typhoon Shelter”, “Rifugi anti-tifone”. Uno per ogni villaggio, per offrire alla gente la possibilità di avere almeno un posto dove salvare la vita, all’arrivo di altri cicloni.

Era una buona idea, ma non potete immaginare quanto fu difficile realizzarla! I soldi non mancavano, la buona volontà pure, i progetti erano ben fatti, il materiale si poteva comprare, per gli operai c’era solo da scegliere... e allora? E allora mancavano le strade cari miei! Tutta quella gente abitava in migliaia di minuscoli villaggi, gruppetti di case sparpagliati nell’immensa pianura fra campi, lande sabbiose, canali troppo piccoli per farci passare barconi. Da un villaggio all’altro si andava percorrendo sentierini zigzaganti sui margini dei campi, attraversando i canali su passerelle di bambù, infangandosi nei tratti acquitrinosi. Chi ce la fa a portare fin là tonnellate di sabbia, cemento, ferro, legname per costruire i solidi rifugi che si erano progettati?

Quando succede un terremoto, quale è la prima preoccupazione dei soccorritori? Aprire le vie di comunicazioni. Certo, intervengono gli elicotteri, ma quelli possono fare solo lavori leggeri, d’urgenza, quando il tempo è bello.

Immaginate che all’improvviso tutte le strade fuori delle città scompaiano. Zac! Non ci sono più. Le città sopravvivrebbero per pochi giorni, poi sarebbe il caos assoluto. Niente rifornimenti di cibo, niente materiale per le fabbriche, e quelle che lo hanno non possono vendere il prodotto, niente pendolari, tutto bloccato!

Le strade però non fanno passare soltanto merci. Sulle strade viaggiano le idee, le culture, gli eserciti, i pellegrini, i popoli che migrano cercando una vita migliore, le religioni. Le strade sono come le vene nel nostro corpo, dove scorre il sangue che arriva in ogni angolo e dà vita. Sono anche, a pensarci bene, una sicurezza. Se io so dove voglio andare e conosco la strada, mi sento bene. Ma se non so dove voglio andare giro senza meta, mi stanco, torno sui miei passi, mi sento fuori posto. Altrettanto, se so dove voglio andare ma non conosco la strada, rischio di fare giri lunghissimi e trovarmi poi al punto di partenza.

Tanta gente vive grazie alla strada. Tanti, per scelta o per necessità, addirittura stanno giorno e notte sulle strade: barboni, ragazzi e ragazze abbandonati.

Ecco perché le strade hanno un nome. Aurelia, Salaria, Francigena, Via della seta sono grandi nomi storici, e tanti altri sono più semplici: via Garibaldi, via dei Frassini, via Poggio Ameno... Così si riconoscono, e si sa dove si è, dove si va.

Non trovare la strada, o perderla, non è piacevole, ve lo assicuro. E quando qualcuno s’è smarrito, mi chiede un’indicazione e posso dargliela con precisione, allora sento che faccio una cosa importante, che regalo un momento di soddisfazione. Sono un semplice “stradino”, ma che vita faremmo senza strade?

Simone lo zelòta… IN CAMMINO SU “Gesù-Via”

La mia è una famiglia benestante, mio padre era commerciante di spezie. Non mi è mai mancato niente, mi ha fatto studiare la Legge e le Scritture, e pure amministrazione perché voleva affidarmi l’azienda. Potevo essere contento, invece ero sempre arrabbiato. Con lui anzitutto, perché non vedeva altro che pepe, incenso, cumino e soldi. Trattava i suoi dipendenti come cani, andava in sinagoga per farsi vedere ma non gl’importava niente né della Legge né di Dio. Arrogante con tutti, dovevi vedere come diventava untuoso con i potenti, li copriva di complimenti e di regali per farseli amici. Ero arrabbiato con lui, e con il mondo intero: i Romani oppressori e idolatri, i Farisei falsi, i nostri governanti che strisciavano davanti ai Romani come vermi, la gente comune che subiva senza reagire, paurosi tutti come pecore...

Un giorno al mercato vidi un commerciante che sorprese un ragazzetto piccolo, con l’aria affamata, mentre gli rubava quattro fichi. Quattro, non cinque! Lo fece prendere dai suoi servi e bastonare a sangue. Il ragazzo gridava, chiedeva perdono, e lui rideva: “Dateci dentro, è abituato, se non pestate forte non capisce!”. Nessuno lo aiutò, nessuno disse nulla.

Quella sera vagai tutta notte come un pazzo e la mattina andai da un amico che aveva contatti con gli Zelòti. Sono un gruppo di rivoluzionari, pronti a morire per far rispettare la Legge e per liberare il nostro popolo dall’oppressione. Cominciai a frequentarli, a discutere con loro, a partecipare a qualche azione. Diedi fuoco al granaio di uno che costringeva i servi a lavorare di Sabato (giorno di festa).

Non capivo dove saremmo andati a finire, ma non potevo nemmeno tornare indietro. La mia rabbia non trovava pace.

Invece un giorno, mentre guardavo la gente sulla strada, passò un gruppo di persone che avevo già visto più volte, e seguiva un maestro piuttosto diverso dagli altri, di nome Gesù. Chi diceva che fosse un fariseo, chi un rivoluzionario, chi un messia, chi non sapeva che cosa pensare di lui. L’avevo sentito predicare due volte e mi era piaciuto perché parlava chiaro, era sincero. Ma mi ero detto che non sono idee per me, belle ma teoriche.

Quel giorno seguii il gruppo fino al mercato. Là il Maestro disse che il Regno dei Cieli è vicino, anzi è già qui in mezzo a noi, disse che il sabato è fatto per l’uomo, e ciò che conta non è l’apparenza ma ciò che esce dal cuore, disse: “Beati i miti”. Mi commossi: “Che bello se davvero fosse così!”.

Finito il discorso, stavo comprando due melegrane quando si avvicinò. Mi guardò dritto negli occhi e mi disse: “Simone, seguimi”.

Non odiava nessuno, ma sapeva discutere e lottare con un coraggio incredibile. Era più dotto di tanti scribi altezzosi ma gli piaceva giocare con i bambini, passava tempo con i malati, i poveracci. Pregava notti intere, e sapeva pure gustare un buon pranzo, una festa fra amici, con vino e carne arrosto. Era bello essere come Lui, ma era possibile? Dove andava? Quale sarebbe stato il futuro?

Più volte gli dissi: “Maestro, tu stai con i peccatori, io volevo giustizia, spazzarli via, ammazzarli se necessario. Ho fatto un sacco di cose cattive”. Sorrideva e diceva soltanto: “Lo so”.

Una volta perdonò i peccati ad un paralitico, e quell’uomo si alzò, prese la barella e se ne andò a casa sano come un pesce. Un’altra volta una prostituta entrò mentre pranzavamo da un pezzo grosso, gli unse i piedi, li asciugò con i suoi capelli. Tutti erano imbarazzati, indignati. Lui la lasciò fare poi disse: “Ha amato molto, molto le è perdonato”.

Gli parlai di nuovo: “Maestro, tu sei meraviglioso, ma io non capisco più nulla, mi sento lacerato dentro, dov’è la strada che devo percorrere? La strada giusta che porta a Dio?”. Di nuovo il suo sguardo mi entrò dentro, fino in fondo all’anima: “Simone – mi disse – zelòta dal cuore che sanguina: io sono la strada!”.

Gli ho creduto, e ora so che posso lottare ed essere nella pace. ….

Nel Villaggio IL FORNO racconta…

Sono il forno comunale, quindi per dovere sto a disposizione di tutti. C’è un incaricato naturalmente, si chiama Ovidio. Procura la legna, accende il fuoco, pulisce, controlla i turni di quelli che vogliono cuocere qualcosa. Non solo pane, certo, anche pizze, biscotti, torte, grissini, focacce... ma preferisco il pane perché cuocendolo sento che faccio qualcosa di importante, ciò che manda avanti la vita del villaggio. Il pane è per tutti, anche i poveri che non possono permettersi cibi costosi, il pane se lo cuociono, e lo gustano.

Pani grandi, pani piccoli piccoli, tondi, lunghi, alti... nella mia grande bocca entrano pallidi e mollicci, per uscire poco dopo ambrati, profumati, saporiti. Riconosco che il mio trattamento non è dei più delicati, ma il pane è buono solo se accetta la sfida del fuoco, che a dire il vero non è la prima: quanto lavoro, quante trasformazioni!

La terra ferita dall’aratro, il seme messo nei solchi a morire, lo stelo, la lunga attesa nell’inverno, le spighe che sembrano cantare nel vento. Poi la falce, o la grande mietitrebbia che rapidamente inghiotte tutto “tosando” campi e colline come si tosano le pecore. E di nuovo i chicchi vengono tratti fuori dalle spighe, formando una montagna e poi una cascata dorata che entra nella macina e si lascia stritolare. Ecco la farina!

Un giorno Martina, quella povera donna col marito che beve e non lavora, porta due piccoli pani. Ovidio glieli cuoce senza farle pagare nulla, e lei lo ringrazia raccontando: “Sai, questo è il poco che sono riuscita a salvare. Ieri finalmente ho avuto qualche soldo, e ho mandato mio figlio a comprare un chilo di farina. È andato, ma aveva tanta fame che tornando a casa se ne sono mangiata quasi la metà, lui e sua sorella, così cruda com’era!”.

La sera, quando il fuoco è spento penso a tante donne che nelle case mescolano pian piano acqua e farina, impastando bene bene, con energia, poi mettono a lievitare. Nel Vangelo si dice che il regno dei cieli è come il lievito che lavora silenziosamente, lentamente eppure – non si sa come – fa crescere la pasta e rende il pane più soffice, più leggero.

Ovidio ascolta paziente Martina che racconta i suoi guai e poi va via con il cuore più leggero ma la borsa più pesante, perché lui, facendo finta di sbagliare, vi ha messo un pane in più – bello grande... Ecco, secondo me si potrebbe dire che se il regno dei cieli è come il lievito, Ovidio è come il regno dei cieli, perché fa bene in silenzio, senza farsi notare. Dicono tutti che è “buono come il pane”, e lui ride: “Diventerò un panino anch’io...”.

Poi il pane finisce sulla tavola, o nella cartella di una ragazza che va a scuola, e avrà vita breve. Per questo è stato fatto, perché la gente lo mangi e sia contenta, e stia bene.

Capite? Se il pane resta lì a farsi bello, mette muffa o diventa duro come un sasso, non serve a niente. Se lo mangiano ha finito, non esiste più, ma gli altri vivono.

A volte vengono dei giovani, un gruppetto che si trova in parrocchia. Portano pani senza lievito. A dire il vero non sono molto bravi ad impastare, lasciano qualche grumo di farina qua e là, e la pasta non ha compattezza uniforme, come dovrebbe. Ma sono pieni di entusiasmo e Ovidio li incoraggia. Quel pane insolito, piatto, sottile e un po’ tenace, verrà offerto sull’altare, e prendendolo il prete dirà le parole di Gesù: “Mangiate, questo è il mio corpo.”

Vi rendete conto? Ho cotto io quel pane che è il dono più grande di Dio all’uomo, il Pane della comunione e della pace!

Gesù PANE DI VITA per noi!

Era seduta per terra, la schiena appoggiata al muro dietro la porta d’ingresso della città. Il viso ancora giovane, magro il corpo, il vestito lacero, tutto gridava la sua fame, ma lei stava muta fissando nel vuoto. Sulle ginocchia, la testolina di un bimbo di 6 o 7 anni che dormiva, avvolto in un sacco.

Taddeo la vede e si fruga in tasca cercando una moneta. Lo precedo, fermando un asinello che arriva con due grandi ceste di pani: “Ne vendi uno?” chiedo al padrone. “Certo, sto andando a venderli!” Scelgo il più grande e chiedo a Giuda di pagare mentre mi chino a terra porgendolo alla donna. Mi guarda. Lo spezzo in due: “Prendi”. “È per me?”. “Certo”. “Tutto?”. Faccio cenno di sì.

Lo prende e ne mette un piccolo pezzo in bocca al figlio che s’è svegliato: “È caldo!” mormora guardandomi felice, e afferrando la mezza pagnotta. Mastica alcuni bocconi, adagio, poi me la porge: “Prendine anche tu, è buono”. Ne prendo un pezzo: “Grazie, Dio vi benedice”. Lo accarezzo e riprendo il cammino.

“Maestro, piangi?” mi chiede Giovanni. “Sì”.

Ho il cuore colmo di quel bimbo e della sua mamma. Penso al pane che mangiavo da piccolo, e a volte non c’era nient’altro sulla tavola. Giuseppe lo prendeva con le grosse mani callose e diceva: “Lo sai Gesù che la mamma sa fare il pane migliore del mondo? Ora lo mangiamo e vedrai che ogni boccone avrà un sapore nuovo.” Giocavamo: “Questo sa di... ceci... e questo? Questo è formaggio... quest’altro... uh che buono, è un dolce!”. Poi mi raccontava del pane senza lievito mangiato dai nostri padri in fretta, in piedi, la notte in cui lasciarono la schiavitù d’Egitto. Il pane della liberazione. Mi diceva della manna nel deserto, il pane disceso dal cielo che aveva salvato tutto il popolo dalla morte. Lo ascoltavo rapito mentre parlava di Elia, il profeta solo e scoraggiato, che viene svegliato, mangia il pane che un angelo gli offre e riprende il cammino fino ad arrivare al Monte Oreb, il Monte di Dio. Diceva: “Quando non ci sarò più, non spaventatevi... Ricordate la vedova di Zarepta? Per la sua ospitalità e generosità verso il profeta Elia, anche durante la carestia Dio non le ha fatto mai mancare il cibo”. La mamma lo guardava, ne chiedeva l’approvazione con un cenno e mi mandava a portare un bel pezzo di pane a Ester, la vedova che abitava poco lontano.

Al mercato rivedo l’asinello, fermo mentre tanti si affollano a comprare. Quei pani. finiranno in fretta, ciascuno mangerà la sua parte e non ci saranno più. Il chicco deve morire per produrre tanti chicchi. Il grano deve essere schiacciato, ridotto in farina per fare il pane. Il pane, mangiato, deve scomparire per dare vita e forza.

Bartolomeo si avvicina e mi dice all’orecchio: “Maestro, la gente aspetta, vuol sentirti parlare, sta portando i malati”.

“Mangerete questa mia vita, il mio corpo come pane”- mormoro - “e vivrete”.

“Come dici?”, chiede precedendomi un po’ ansioso, in fretta, verso la sinagoga stracolma di gente...

Nel Villaggio IL LAMPIONE racconta…

Nessuno fa caso a me, di giorno servo soltanto a quelli che portano il cane al guinzaglio, e lo legano al mio stelo per poi entrare nel negozio vicino. Di notte però, anzi appena tramonta il sole, io lavoro.

Sono il lampione che sta proprio sull’angolo dell’incrocio principale, la luce della mia lampada illumina la piazzetta e s’infila nell’imboccatura di cinque strade, tre grandi e due piccoline.

Certo, io non sono il sole! Di notte, la mia luce sembra forte, importante. La gente passa senza esitare, sa dove mette i piedi, riconosce chi arriva dall’altra parte. I malintenzionati qui non si possono nascondere. Ma quando la mattina incomincia ad albeggiare, le stelle impallidiscono, la linea dei monti si rischiara e poi la luce invade tutto, allora mi accorgo di quanto la mia lampada sia fioca.

Quando il sole compare all’orizzonte, io semplicemente scompaio.

Non pensate però che mi dispiaccia! Anch’io gusto la luce del sole, il suo calore. Anzi, so di essere come un pezzetto di sole conservato per la notte.

Non ci credete? Pensate che sia presunzione, o soltanto poesia? Niente affatto! Da dove viene l’energia elettrica? Dalle centrali, che sono alimentate dall’acqua che scende dalle montagne. E come c’è salita l’acqua, sulle montagne? Grazie al calore del sole che l’ha portata su, come nuvole, da dove poi è scesa come pioggia o neve. E le centrali a gasolio? Ma anche quelle, miei cari! Che cos’è il gasolio se non una specie di concentrato di energia solare? E il carbone, non viene dalle piante, vissute secoli fa grazie al sole?

Io non pretendo di essere la luce, né di crearla, semplicemente distribuisco un poco di sole nel buio della notte. Ma anche questo non è poco. Io non illumino il mondo intero, solo un pezzetto piccolo, ma per chi vive qui, questo è importante, cambia la qualità della loro vita. Qualche tempo fa, durante un fortissimo temporale un fulmine ha danneggiato la centrale e per tre giorni l’elettricità non è arrivata. Allora… tutti si sono accorti che esisto, tutti si sono lamentati! Se manca la luce, la notte è buia davvero, e fa paura.

Una volta, ho sentito un missionario raccontare che nella capitale di un paese africano, dove lui lavora, c’è un ampio viale che sale sulla collina dove hanno costruito il palazzo presidenziale. La sera non ci passa nessuno, ma è bene illuminato da tanti lampioni alti. Penserete che sia uno spreco, ma se andate là vedrete che sotto ogni lampione ci sono cinque, sei, sette giovani seduti per terra, o su uno sgabellino, con i loro libri a studiare le lezioni di scuola. Nelle loro case non c’è elettricità, dovrebbero cavarsi gli occhi alla fioca luce fumosa di una lanterna a petrolio, e pagare il petrolio. Sotto i lampioni invece c’è aria, spazio, luce e compagnia. Tutto gratis.

Che bello trovare luce, e che bello dare luce!

Anche poco, purché sia luce. Avete mai visto che meraviglia sono le lucciole?

E qui vicino, proprio a metà di una delle stradette che partono dalla piazze che io illumino, abita un anziano, solo. Ha una pensione piuttosto magrolina, e deve stare bene attento a quanto spende: appena esce da una stanza spegne la luce subito, accende il riscaldamento più tardi che può, compra quando ci sono i saldi, per risparmiare. Però si concede un lusso: ha messo un lumino davanti ad una bella icona della Madonna, vicino al suo letto, e lo tiene sempre acceso. Di notte il suo sonno è spesso interrotto dalla tosse, o dai dolori articolari. Si sveglia, si rigira sospirando, ma lo consola un poco aprire gli occhi e vedere sempre lì, illuminato, il viso dolce e calmo di Maria che tiene in braccio il bimbo. Allora la saluta e le dice: “Chissà, magari anche tu da giovane eri svegliata dal bimbo che piangeva per succhiare, e da anziana avevi i dolori reumatici”. Gli sembra che lei gli sorrida divertita e gli dica: “Sì, proprio così, fatti coraggio!”. E chiude gli occhi portandosi dentro un pochino della luce che c’è fuori.

Pietro… “illuminato” da Gesù

È una notte fonda, nuvolosa, buia. Sono salito fin qui per cercare il Maestro, silenziosamente scivolato fuori dal rifugio dove dormivamo tutti. L’ho scorto a malapena poco fuori dal sentiero, seduto a terra, ombra scura che si staglia sulla valle in cui si distinguono piccole luci di pastori e da cui sale a tratti l’abbaiare di cani. Sta pregando. Vederlo mi affascina, e mi dà un senso di smarrimento, quasi di invidia. Come fa a pregare una notte intera? Io sono stanco dopo pochi minuti…

Non s’è accorto di me, mi siedo anch’io e lo guardo da lontano. Il buio fa paura, ingrandisce ogni fruscio. Ogni tanto il Maestro mormora qualcosa che non riesco a capire. Rabbrividisco.

Questa tensione per vedere e sentire qualcosa nel buio mi stanca, mi sembra di cadere nel vuoto. Mi addormento…

Quando mi sveglio il Maestro è ancora là, ora dritto in piedi, con le mani alzate, e canta un salmo con voce forte, chiara. Le nubi si sono aperte e il cielo si scolora, momento per momento cambia, conquistato dalla luce. Mi nascondo meglio, ora vedo bene Gesù, pallido, pare che la luce venga non dal sole che ancora non è apparso, ma dal suo viso.

Ricordo l’impressione che ho provato la prima volta che l’ho incontrato, un senso di gioia, di speranza, di paura insieme. Quest’uomo ha cambiato la mia vita, proprio come la luce del sole ora cambia il cielo, la valle, la montagna. Mi sentivo solo allora, arrabbiato con tutti, quasi disperato. Spesso me la prendevo con mia moglie, come se la mia tristezza fosse colpa sua.

Ora non so dove andremo, che cosa succederà, ma sono con Lui e questo mi basta, ho la certezza che qualunque cosa succeda, con Lui non restiamo nell’angoscia. Ha messo dentro di noi una luce e ci ha detto: “Non si accende una lampada per nasconderla sotto il letto, ciò che do a voi è per tutti, voi siete la luce del mondo.”

Ora che il sole è apparso sopra le montagne all’orizzonte, il Maestro tornerà al rifugio. Pian piano mi alzo e cerco di allontanarmi senza far rumore quando mi sento chiamare: “Pietro!”. Mi raggiunge, mi mette una mano sulla spalla: “Grazie. Vieni, scendiamo insieme.”

Nel Villaggio IL CIMITERO racconta…

Qualcuno mi fa i complimenti: pulito, ben curato, tanti fiori, silenzioso... il leggero profumo di tasso che c’è nei miei vialetti crea l’atmosfera, piace. Ma devo dire onestamente che la maggioranza non viene qui volentieri, perché mi considera un luogo triste. Addirittura c’è chi gira al largo, pensando che porto sfortuna, o chi ha paura. Lo so: di notte, c’è gente che fa il giro più lungo per non fiancheggiare il muro che mi circonda, come se io fossi pericoloso!

Sì, sono il cimitero del villaggio, e forse vi sembra strano che un cimitero parli. Si dice: “Essere muto come una tomba”. Qui di tombe ce ne sono tante, e allora come fa un cimitero a parlare? Che cosa ha da dire?

Proprio perché quasi sempre taccio, ho tempo per pensare, e per guardare la realtà con un occhio diverso.

Ho visto tante lacrime! Mamme, figli, mariti, mogli disperati che accompagnano i loro cari a quella che chiamano “l’ultima dimora” e poi non riescono a staccarsene, a tornare a casa. Come lasciarli qui? Come tornare a casa dove stavano insieme e si volevano bene, e trovare il vuoto della loro presenza? Dopo tante lacrime, qualcuno li prende dolcemente per un braccio, e vanno. Tornano poi, da soli, portano fiori, e ancora vedo la loro pena profonda, il loro pianto.

Pian piano, le visite si diradano... Ci sono tombe che nessuno viene più a vedere anche se hanno iscrizioni molto belle: “Non ti scorderemo mai”, “Con infinito dolore”...

Ho imparato che non sempre gridare e piangere è segno di vero amore; non sempre chi paga tanto per far fare una tomba bella e piena di decorazioni, frasi d’amore e via dicendo si ricorderà di chi ha portato qui. I segni dell’amore vero sono diversi. Ho fatto amicizia ad esempio con un signore anziano, che viene una volta al mese. “Non è poi tanto” direte voi. Infatti, ma lasciatemi finire. Viene con un piccolo mazzo di fiori che porta un po’ impacciato, d’inverno quasi li nasconde sotto il cappotto. Li dispone in fretta nel vaso e poi sta lì, in piedi. Non dice nulla, non piange, non so se prega oppure no. Poi porta le dita della mano alle labbra, vi posa un bacio, lo poggia sulla lapide e mormora: “Arrivederci Luisa, ti voglio bene”. Proprio così dice: “Ti voglio bene”, come se fosse ancora viva.

Io credo che le voglia bene davvero!

Accade raramente, ma ogni tanto qualche stupido scavalca di notte il muro e viene qui con amici a fare il bullo, a mostrare che non ha paura. Si siede su una tomba a bere, cantare e dire scemenze, o addirittura fa riti strani per chiamare i morti, o per farsi amico il diavolo. Sono dei poveracci, che hanno la saggezza di una rapa, e per paura di guardare in faccia la realtà cercano di negarla.

Mi direte: “Senti, lo sappiamo. C’è chi crede che tutto finisca qui, il corpo marcisce e la memoria scompare, basta. C’è chi prega, e sente i suoi cari vicini come se fossero ancora vivi. C’è chi fa riti satanici. Ma tu, tu che taci e vedi tutte queste cose, e hai tempo per riflettere, che cosa pensi? perché non ce lo dici?”.

Ascoltate. Una bambina, una sera – il cielo invernale era limpidissimo, senza luna e con tante stelle – saliva con papà e mamma sulla collina di fronte. Facevano una passeggiata camminando adagio e usando poco la torcia elettrica, per gustare il buio e la luce tenera delle stelle. Si sono fermati su un tratto di sentiero dove c’è prato e la vista s’allarga fino qui. Mi hanno guardato, nel buio distinguendomi appena dai prati e dai boschi intorno, grazie ai lumini che restano accesi su molte tombe anche di notte. Lucette piccole piccole, alcune tremanti altre fisse, rosse, gialle, bianche. “Mamma, papà, che cos’è?”- chiese la bambina indicandomi. “È il nostro cimitero”, rispose il papà, “dove riposano anche i nonni”. “Che bello! Sembra un pezzetto di cielo che si è posato per terra!”.

Ecco, io penso così: qui c’è un pezzetto di terra che aspetta di diventare cielo.

Maria di Magdala incontrata dalla VITA… di Gesù!

Mi sento impazzire, una frase mi martella furiosamente nella testa: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà”. Ero vicinissima al Maestro quando l’ha pronunciata e Marta gli ha risposto: “So che risusciterà nell’ultimo giorno”. Eravamo tutti tesi, confusi. Vari giorni prima, avvisato che Lazzaro - il suo e nostro amico - era ammalato, il Maestro non si era mosso, era rimasto al di là del Giordano come se non gl’importasse nulla. Aveva paura? Era ormai chiarissimo che il cerchio del complotto si stringeva attorno a Lui, volevano ammazzarlo.

Poi, arrivata la notizia della morte, aveva deciso di andare. Ma perché? Perché restare immobile finché poteva fare qualcosa, e rischiare quando ormai non c’era più nulla da fare?

Tommaso, furioso, ci disse: “Andiamo anche noi a morire con Lui”.

Marta gli era corsa incontro piangendo e, schietta com’è, lo aveva rimproverato: “Perché non sei venuto prima?”. Anche il Maestro era scoppiato a piangere, mentre andavamo alla tomba. Eravamo là, immobili; c’era molta gente fra Lui e me. Nel silenzio il Maestro diede un ordine pazzesco: “Togliete la pietra”. Aprire il sepolcro, dopo quattro giorni? Con fatica l’aprirono. Si udì la sua preghiera, un ringraziamento al Padre, e di nuovo silenzio. Mi sentivo agghiacciata, sudavo, tremavo.

Improvviso, un grido. Fortissimo. “Lazzaro! Vieni fuori!”.

Sembrava che il mondo si fosse fermato, immobile, quando sulla soglia di quell’antro nero, pauroso, apparve barcollante, avvolto nelle bende, Lazzaro.

Pochi giorni dopo eravamo di nuovo insieme a cena, contenti.

E ora? Ora penso al corpo immobile del Maestro, livido, coperto di ferite, chiuso da un’enorme pietra in un altro sepolcro buio. Rivedo il suo volto sfigurato, le sue mani lacerate, non si poseranno più sul mio capo mentre mi dice: “Maria, non avere paura!”. Penso alla sua voce che non udrò più, ai suoi occhi che ti scrutavano il cuore.

“Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà”. La vita è morta, e noi per che cosa cerchiamo ancora di vivere? Che senso ha?

Posso, devo ancora andare a mettere i profumi sul suo corpo, baciarlo ancora una volta, avvolgerlo in bende nuove, come se questo servisse a qualcosa... Posso ancora togliere il sangue raggrumato dai suoi piedi che tanto hanno camminato per parlarci del Padre, per liberarci. E poi?

È ancora buio, buio pesto, ma bisogna che vada, voglio essere la prima là al sepolcro. Voglio essere io a curarlo per l’ultima volta. L’ultima...

Ecco, fra poco arrivo all’ingresso del cimitero, stanno arrivando anche le altre donne. Ma come faremo? Chi ci rotolerà via il masso dall’ingresso del sepolcro?

«… “Chi ci rotolerà via il masso dall’ingresso del sepolcro?”

Ma Maria di Magdala e le altre donne, guardando, videro che il masso era già stato rotolato via, benché fosse molto grande. Entrando nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero paura. Ma egli disse loro: “Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano deposto. Ora andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto”». (Mc 16, 3-7)

Vasi in frantumi

Franco Cagnasso

Mondo e Missione n° 6 giugno-luglio 2006

Nell'ecumenismo la complessità non è una scusa per l'indifferenza.

Il missionario mi accompagna a salutare un amico, pastore evangelico in un remoto paese dell'Amazzonia brasiliana. Mentre visitiamo la sua missione, indica con gioia una bacheca: "Ecco, ci hanno appena mandato le fotografie delle primissime comunità cristane della Guinea Bissau, battezzate solo pochi mesi fa!".

Chissà perché, non mi sento di metterlo a disagio dicendo che io in Guinea Bissau ho visitato tante comunità cristiane battezzate ben prima di "pochi mesi fa" - ma sono cattoliche. Ricordo quando, durante uno dei miei viaggi, ho chiesto distrattamente: "Ci sono protestanti evangelici in Guinea?". "Pochi", mi hanno risposto. E non se n'è parlato più.

Qui a Dhaka, a un fratello di Taizè che lo invitava a un'iniziativa interecclesiale, uno spazientito pastore battista ha risposto: "Ci avete portato un cristianesimo diviso, ora ci volete costringere a unirci. Prima annunciamo, poi penseremo a metterci insieme".

Superata l'irritazione, ho capito che c'è poco da scandalizzarsi, questa risposta descrive ciò che tutti stiamo facendo: discepoli di Cristo, chiamati a dare al mondo il segno dell'unità, siamo rassegnati ad essere e ad evangelizzare divisi.

Una mentalità nuova si è faticosamente fatta strada negli ultimi decenni. Qua e là è penetrata anche a livello di base dando vita a iniziative comuni e ad atteggiamenti fraterni, che non esistevano una volta e che sono degni della massima attenzione. Ma, generalmente parlando, ci troviamo ancora in una situazione che descriverei di "confusa indifferenza".

Confusa, perché a volte si parla di ecumenismo come se le comunità ecclesiali non cattoliche fossero un unico gruppo con cui si può avere un approccio uniforme. In realtà le situazioni sono diversissime, e si va da grande cordialità, rispetto e collaborazione, comune ricerca e sensibilità spirituale, a rapporti di aperta ostilità. Mi sento in profonda sintonia con molti cristiani non cattolici, ma certo non con le letture fondamentaliste della Bibbia che altri fanno, la loro condanna di chi non è battezzato, il loro settarismo.

Eppure sono anch'essi battezzati in Cristo! Che fare nel paesetto con poche migliaia di cattolici tribali, immersi nel mare islamico, che in poco tempo vede sorgere sette diversi gruppi separati fra loro? Come rispondere ai convertiti battisti che, per far dispetto al loro pastore, scoprono improvvisamente di voler diventare cattolici? Che dire a chi ci accusa di proselitismo, quando ci sono gruppi che si "rubano" i fedeli promettendo un tetto in lamiera, una mucca, un posto gratuito nell'ostello per i figli?

Il cammino ecumenico, con l'atteggiamento diverso che ne segue, è opera dello Spirito e non si deve assolutamente tornare indietro, ma capisco che qualcuno possa sentire nostalgia per le posizioni di una volta: noi siamo nel giusto, gli altri hanno torto e vanno combattuti. Era più facile prendere le distanze e dire che noi siamo diversi, non c'entriamo con loro...

Vista la complessità, si rischia di finire nell'indifferenza. Sì, accanto alla missione ci sono altri sette gruppetti di cristiani divisi. Sì, si nutrono di anticattolicesimo. Sì, anche noi a volte raccattiamo i cocci rotti di altri... Ma che possiamo farci?

Ogni gruppo (cattolico, anglicano, battista o altro) va avanti, annuncia, testimonia, dialoga come se solo lui esistesse e stesse compiendo il mandato del Signore.

Mentre ciascuno di noi pensa di avere il monopolio di Cristo, della sua Parola, della testimonianza a Lui, gli "altri" ci vedono diversi e divisi, ma giudicano a colpo d'occhio l'insieme così come lo percepiscono - esattamente come noi facciamo nei confronti dei musulmani (scia, sunni, ahmadya... tutti musulmani, buoni o cattivi, secondo il pregiudizio ideologico da cui siamo affetti).

Insegnando teologia dei Sacramenti ho spiegato che il battesimo, comune a tutti i cristiani e reciprocamente riconosciuto, può essere una solida "piattaforma ecumenica" non solo per la teologia ma per il nostro atteggiamento pratico. È stata una lezione difficile, perché parlavo di un argomento lontano dalla sensibilità e dall'esperienza dei seminaristi che mi ascoltavano perplessi.

Inattesa coppa del mondo per il Bangladesh

Dhaka luglio 2006

“Sono pronto a scommettere 100 dollari che di questi tempi in nessun altro paese al mondo riuscirebbero a tenere un seminar come questo sull’ecumenismo, con vescovi, preti, suore, laici, membri di altre chiese riuniti per 4 giorni...”. P. Brendan Leahy (pronuncia Li-hi, come fosse cinese) non trova chi accetta la scommessa, ma ci fa contenti con un’elogio così, praticamente assegnandoci un’inattesa coppa del mondo dell’ecumenismo. Lo ripaghiamo con un applauso.

E’ irlandese, prete, diocesano, avvocato, focolarino, professore di teologia, esperto in ecumenismo e altro ancora, ma nonostante tutto ciò è simpatico, praparato, chiaro. Il tam tam globalizzato elettronico lo ha segnalato a noi, che manco l’avevamo sentito nominare, come sostituto del card. Kasper, il quale aveva accettato l’invito a guidare il seminar ma poi aveva dovuto disdire l’impegno. E’ stata una buona scelta.

Dal 2003, Saveriani e PIME in Bangladesh organizzano ogni anno un seminar aperto a tutti, su temi vari. Banglanews ne ha sempre dato puntuale informazione. Il primo è stato sull’Islam, il secondo sui cambiamenti socio-culturali e religiosi negli ultimi 10 anni in Bangladesh, il terzo sull’evangelizzazione e per il 2006 è arrivato l’ecumenismo: dal 25 al 28 luglio, nei locali della Conferenza Episcopale del Bangladesh, che sono a due passi dalle case del PIME e dei Saveriani.

Oltre 100 i partecipanti (pendolari compresi), fra cui una ventina di rappresentanti di altre chiese.

S’è lavorato sodo, e qualcuno s’è persuaso che la massima capacità di resistenza dei missionari a sedute, lezioni, corsi, seminari, riunioni e via dicendo sia di 3 giorni. Tenerne conto. Altri hanno sostenuto che mettendo in programma una buona cena “speciale” (cioè con salame e vino) per soli saveriani e pimini alla sera del quarto giorno, si potrebbe aumentare tale capacità di resistenza...

P. Brendan s’è dato da fare a spiegarci la storia del movimento ecumenico, il cammino ecumenico della chiesa cattolica, la sua posizione attuale, le difficoltà, i punti di vista di altre chiese, le prospettive. M’è rimasta l’impressione che conoscere la storia sia utile perché ci fa vedere che anche se sembra di essere fermi, in realtà non lo siamo. Quante cose sono cambiate da quando – ragazzo a Pinerolo – mi dicevano che era proibito metter piede nel Tempio dei Valdesi!

Se ci siamo mossi nei decenni trascorsi, allora è possibile muoversi ancora in futuro. Dunque, coraggio.

Un pastore pentecostale ha detto: “Mia mamma era cattolica, mio papà luterano, i miei educatori cattolici e battisti; io sono come l’acqua, che prende la forma del recipiente in cui la metti...” Qualcuno, ottimista, ha detto che basterebbe che le chiese guardassero l’una all’altra come si guarda ai diversi movimenti dentro la chiesa cattolica. Ma poi un altro ha fatto una sparata contro i movimenti, e allora s’è capito che non tutto è semplice.

Ma, come ho detto, ci si sta muovendo. Anzi, voltandosi indietro si resta stupefatti di come siamo diversi rispetto a pochi decenni fa!

Interessanti anche le esperienze concrete già attuate, o in atto in Bangladesh. Dalla benedetta presenza ormai trentennale dei Fratelli di Taizè, che “si trovano a casa” sia dai battisti, sia dai cattolici, sia dagli anglicani, alle numerose forme di collaborazione in vari campi.

Sullo sfondo, sempre ben presente la preoccupazione comune dello scandalo che diamo ai non cristiani predicando tutti quanti Cristo ma poi pregando e lavorando separati, e a volte rubandoci i fedeli. In prospettiva, il proposito di considerarci prima di tutto cristiani, cioè tutti chiamati da Cristo e a Lui uniti nel battesimo; e di presentarci così, lasciando le divisioni ad un secondo (meglio ancora se terzo, o quarto...) momento.

P. Leahy ha ricordato ai cattolici, che costituiscono la maggioranza dei pochi cristiani presenti in Bangladesh, che fuori della chiesa cattolica non c’è il vuoto, ci sono altre chiese cristiane anch’esse; è bene tenerne conto.

Ricorrente il richiamo all’ecumenismo spirituale e a quello di vita. Anche chi non ha contatti con membri di altre chiese può pregare per l’unità, e anche chi non sa molto di teologia può collaborare con membri di altre chiese in mille modi. Perché dunque non farlo?

L’ultimo atto è stata una bella celebrazione della Parola tutti insieme. I Bengalesi, se ci si impegnano, sono maestri in queste cose, e questa volta si sono impegnati, usando i testi che saranno diffusi per la Settimana dell’Unità nel 2007.

p. Franco Cagnasso

Martiri e martirio: possiamo parlarne ancora oggi?

Agosto 2006

da "A causa di Gesù" di Mariagrazia Zambon ed EMI - 1994

Per i più, queste parole hanno sapore di cose passate, di mentalità estranee al nostro tempo, che rifiuta romanticismi ed eroismi inutili. Che si tratti di "martiri" per la patria o per la fede, sembrano comunque uomini di altre culture, dove c'era o c'è ancora l'ingenuità di sacrificarsi e dare la vita per un ideale, pensando che ne valga la pena...

Oppure, fra i credenti, hanno sapore di cose eroiche. "Il sangue dei martiri è seme di cristiani", si ripete con fierezza nella Chiesa...

Ma quando ti arriva la notizia che un tuo amico, missionario nelle Filippine, è stato ucciso a colpi di pistola mentre tornava a casa in auto, allora non senti né il sapore del passato né quello dell'eroismo: senti un grande vuoto, un'immensa tristezza.

Di immediatamente vero e concreto, nel martirio, ci sono prima di tutto la sofferenza, l'ingiustizia, la crudeltà, la morte e la sconfitta dell'umano. Se c'e un martire è perché ci sono uomini ferocemente intolleranti, uomini di potere o servi della violenza che non sopportano la libertà, la bontà, la verità. Se c'e un martire è perché ci sono aguzzini che non hanno scrupoli a torturare ed uccidere, o a colpire di nascosto e fuggire da vigliacchi.

Restano poi il sangue e la paura, la sofferenza di chi era con lui, lo amava, ne era sostenuto, lo smarrimento e la rabbia perché ancora una volta il male ha vinto.

Sarebbe bello che dopo ogni martirio ci fossero la conversione dei persecutori, il rinnovato coraggio degli oppressi, schiere di seguaci pronti a prendere il suo posto; ma non è così.

Non solo le persecuzioni dell'Impero romano sono durate secoli, ma molte altre volte nella storia e in paesi diversi il martirio si è consumato nel sangue, nel gelo delle prigioni, nell'angoscia delle coscienze, senza che molte generazioni ne vedessero i frutti. E la speranza, la fede, il perdono sono stati tanto, tanto difficili.

Noi dunque non lo vogliamo il martirio, che contraddice tutto ciò per cui si lavora e si lotta: il rispetto, la pace, la giustizia, l'amore fraterno, l'accoglienza di Cristo. Vorremmo piuttosto che questa parola fosse dimenticata, sepolta in un passato lontanissimo e irripetibile.

Ma è possibile questo?

È possibile chiudere gli occhi, turarsi le orecchie in un mondo che è ancora, come quello di ieri, continuamente squassato dai turbini della violenza, insidiato dalla menzogna travestita da verità, campo di lotta dei furbi e dei privi di scrupoli?

Come ignorare che tanti, tantissimi attendono ancora che venga detto loro quello che Gesù annunciò nella sinagoga di Nazaret? "Lo Spirito mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi e proclamare un anno di grazia del Signore" (Lc 4,18-19).

Ascoltandolo, "tutti nella sinagoga fummo pieni di sdegno" (ivi, 28) e su Gesù, mite e umile di cuore, incominciarono ad addensarsi l'ostilità, il sospetto, il rifiuto che accompagneranno la sua missione fino alla condanna a morte e alla crocifissione.

L'assurdo del martirio è che non ha proporzione. Non viene da una lotta per il potere, dallo scontro per conquistare terre e denaro, da un confronto ad armi pari. Da una parte c'è Pilato che può giustamente affermare: "Ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce" (Gv 19,10) e dall'altra Gesù che non vuole usare nemmeno una spada (Gv 18,11) e chiede per sé soltanto il potere della verità. Da una parte ci sono fanatici violenti e prezzolati che lo colpiscono uscendo dall'ombra e senza avere il coraggio di guardarlo in faccia; dall'altra c'è padre Carzedda, un mite che aveva fatto del dialogo, dell'incontro, del guardarsi serenamente in volto il motivo del suo impegno, il suo modo di seguire Gesù.

Sì, perché il martire non è un forte, uno che disprezza la sua stessa vita in nome di una causa, un ostinato che mette a rischio tutto pur di avere ragione, un incosciente che pensa di vincere e cade perché presumeva di se stesso. Questa gente il mondo la teme prima, poi se perde la disprezza, e se vince la ammira...

Ma il martire, per lo più, è difficile da capire.

Gesù sapeva di lottare contro forze terribili, e di farlo con armi assolutamente illogiche e, quando ha voluto illustrare la missione, ha usato un'immagine che non ha bisogno di commenti: "Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi" (Mt 10,16).

C'è da stupirsi, da gridare allo scandalo, se un branco di lupi azzanna e divora una pecora? Lo scandalo è, piuttosto, che qualcuno mandi questa pecora fra i lupi, che le armi dell'annuncio siano sempre e soltanto quelle della verità, della mitezza, dell'amore annunciato e vissuto.

Noi non lo vorremmo il martirio, eppure non possiamo fare a meno di metterlo in conto e persino, per chi ha questa grazia, di desiderarlo, perché esso è la via percorsa da Gesù davvero nuova che ogni generazione deve riproporre.

Cristo è presente in tutti coloro che sono vittime, perché ha preso su di sé ogni peccato e ogni sofferenza. Gli innocenti massacrati in Ruanda, i bimbi di strada eliminati a Rio de Janeiro, le ragazze vendute e prostituite a Bangkok, il marocchino umiliato a Milano sono Cristo crocifisso oggi nel mondo.

Il suo discepolo accetta di diventare vittima perché il mondo sappia che l'unica via di salvezza è proprio lui, perché si senta dire anche oggi che Cristo è lì e non negli idoli. E che vale la pena di seguirlo, sì, anche a costo della vita!

Il martirio è il momento della verità più alto.

"Chiunque fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere" (Gv 3,20). Il discepolo fedele al suo Maestro si fa odiare, scatena la rabbia di chi vuol fare il male camuffandolo da cosa buona, magari spacciandolo per il bene della gente, della nazione, o per la volontà di Dio.

Nel martirio questo male è costretto ad uscire allo scoperto, a colpire con rabbia la luce, a rifiutare esplicitamente il vangelo dell'amore. E allo stesso tempo, nel martirio, Cristo si rivela di nuovo tanto forte da opporsi al mondo solo con la fede dei suoi discepoli, con la pazienza di coloro che amano.

L'aguzzino crede di avere vinto, ma coloro che soffrono sanno di non essere più soli. Il martire non ha tempo. Era incomprensibile 2000 anni fa, ed è incomprensibile oggi; era ed è necessario proprio perché va oltre i criteri e i calcoli sapienti: "Chi perde la sua vita per me la guadagna" (Mt 10,39).

A chi non crede più se non a ciò che tocca, vede e guadagna, a chi si è inaridito nell'idolatria di se stesso o delle sue ideologie, il martire risponde che la sua forza è Dio, il Dio della vita e del perdono, che la roccia su cui s'appoggia è Cristo. Alla follia che teme di perdere e si scatena opprimendo e uccidendo, contrappone il tranquillo mormorio della sorgente d'acqua viva che scaturisce in lui, frutto dello Spirito, logica di verità e di amore che nessun fuoco può spegnere e nessuna arma distruggere.

Bisogna dunque parlare del martirio, e vorrei saperlo fare senza retorica e con grande fede.

Incominciando dal martirio di Gesù, perché la Croce non è una statuetta di gesso, ma un'orribile, rivoltante strumento di tortura, e Gesù ne ha avuto paura fino a sudare sangue.

Anche i martiri di oggi hanno paura. Li assale l'angoscia nella monotonia della vita in un carcere, nell'attesa di un giudizio, alla svolta della strada dove potrebbe essere in agguato l'assassino. Li assale il dubbio. Restare, per essere testimone alla mia gente? Andare, per non creare loro fastidi e sofferenze? Alberico Crescitelli è stato preso proprio mentre, dopo tanto rischiare con i suoi, stava scappando per non metterli in pericolo!

Anche i martiri di oggi vedono il loro gregge disperso, i loro progetti distrutti, la loro vita annientata e gridano "Mio Dio, perché mi hai abbandonato?" (Mt 27,46).

Ma così deve essere, fino alla fine della storia. Deve esserci chi lancia questo grido con Cristo, a nome di tutti quelli che sembrano abbandonati da Dio e per questo vengono calpestati, annientati "come pecore condotte al macello" (At 8,32). Deve esserci chi non rinuncia alla sua umanità salvata dal Signore, e non rinnega il Padre, ma si abbandona a Lui.

Dopo, restano il sangue, il silenzio e il dolore.

Ma dal sepolcro su cui innumerevoli pietre sono fatte rotolare per farla finita con questa "favola" pericolosa di Dio che viene nel mondo, prorompe invece un altra volta la vita.

La Chiesa compie 2000 anni perché, nonostante i suoi errori e i suoi peccati, nonostante che persino molti suoi figli abbiano ucciso e creato martiri, non ha mai cessato di essere nutrita da questa vita nuova. Pur in mezzo a mille compromessi, sempre è rimasta la fede che la nostra esistenza va posta in Dio, che non ci si salva vendendo la verità in cambio della vita, ma proclamandola forte, perché essa è Cristo stesso.

In ormai quasi 150 anni dalla fondazione, 18 missionari del PIME hanno subito morte violenta. Due nei primi 92 anni, e 16 negli ultimi 52. È un dato che fa riflettere, che ci sollecita al risveglio se per caso abbiamo pensato o presentato o vissuto una vocazione missionaria un po' annacquata, imborghesita, relativizzata.

"Beato quel giorno in cui mi sarà chiesto di soffrire molto per il tuo vangelo, ma più ancora quello in cui fossi trovato degno di versare per esso il mio sangue": così recitano i Missionari del PIME quando ricevono il crocifisso della partenza.

Così il Signore ci conceda di credere e vivere, per noi e per tutti i discepoli che il nostro tempo rende martiri, per tutti i piccoli che l'idolatria di ogni tempo schiaccia e uccide.

La missione "dall'altra parte"

Franco Cagnasso

Mondo e Missione – agosto/settembre 2006


Mettiamoci nei panni di chi non ha il privilegio di dedicarsi agli altri sentendosi utile.

"Vecchio è soltanto chi non si sente più utile a nessuno". Padre Clemente Vismara, ben noto apostolo della Birmania e ora in lista d'attesa per essere proclamato beato, così spiegò come potesse lavorare ancora tanto, con entusiasmo e mille progetti in testa, a novant'anni di età. Questa frase divenne argomento di una delle frequenti e gustose discussioni che ho con l'amico e maestro padre Piero Gheddo. A lui piace, e la cita spesso per dimostrare quanto padre Clemente fosse energico, attivo, e instancabilmente dedicato agli altri. Ma a me non va: "Padre Vismara - dico - era un santo, e per giunta simpatico, ma questa risposta è equivoca, e non è fra le sue cose migliori".

Anzitutto perché usa il termine "vecchio" con un'accezione negativa, rendendo un involontario omaggio alla cultura che ci vuole tutti giovani, forti, brillanti ed efficienti. Poi perché lega il "sentirsi utili" all'efficienza. Certo, per fare il bene, per servire il prossimo, ma pur sempre efficienza: finché faccio qualcosa di buono valgo, dopo... Dopo?

Ricordo un confratello che, scrivendomi delle sue mille attività aggiunse: "Non finirò certo i miei giorni nel lazzaretto di Rancio". Rancio è un quartiere di Lecco, in cui si trova la casa per missionari del Pime ammalati che hanno bisogno di assistenza. "Se ci sarà da andare ci andrai - gli risposi accorato - e ti auguro di ringraziarne poi il Signore".

C'è, fra i missionari, l'idea che non si va in pensione dalla vocazione, ma si rimane sul posto, al lavoro fino all'ultimo. Si tratta di un vero e proprio tratto di spiritualità, che si esprime in ammirevoli esempi di dedizione. La gente apprezza, specie quando il missionario può rimanere comunque "fra i suoi", quelli a cui è stato mandato, e viene sepolto fra loro. Padre Luigi Pinos, per decenni missionario in Bangladesh, ancora attivo a ottant'anni e con problemi di cuore, scrisse questa bella preghiera: "I miei confratelli esteri e nativi sono molto attivi nella costruzione della casa di Dio, mi dà tanta gioia far loro da manovale. Signore, non mi rincresce lo sai, morire sul lavoro".

Tuttavia, ogni virtù diventa la caricatura di se stessa se è vissuta come valore in sé piuttosto che in riferimento alla volontà di Dio.

Allora, il legittimo desiderio di essere utili diventa il mito dell'uomo che non si ferma mai, venato da un inconsapevole paternalistico disprezzo per chi non ce la fa; e si rimuove il pensiero che forse anche il bravo missionario, che ora fa tante cose buone, dovrà un giorno affrontare lo spazio vuoto dell'inattività, della vecchiaia e della malattia. Queste realtà fanno paura, ma non possiamo esorcizzarle ammazzandoci di lavoro; devono interpellarci come faccenda che ci potrebbe toccare vivere "dall'altra parte".

Dalla parte, cioè, di chi non ha il privilegio di potersi dedicare agli altri, sentendosi utile. Consiglio, in proposito, Crudele dolcissimo amore, l'intenso libro di Chiara M. (Ed. San Paolo), che vive il passaggio dalla condizione di infermiera a quella di ammalata e poi invalida.

Ricordando la compatrona delle missioni Teresa del Bambino Gesù, morta di tubercolosi a 24 anni e mai uscita dal monastero, abbiamo bisogno di scoprire la contemplazione non tanto come preghiera per essere più efficienti, ma - il cristianesimo orientale ci insegna - come sguardo nuovo sulla realtà, trasfigurata dall'incarnazione e dalla croce. È la missione che s'irradia più che dalle opere, da ciò che la grazia fa di me, anche se vecchio, malato, depresso o semplicemente poco dotato.

San Vincenzo invitava a chiedere scusa ai poveri che serviamo. Non siamo più bravi, siamo semplicemente più fortunati di chi deve essere aiutato, sopportato, curato. Agli occhi del Dio di Gesù, ciascuno di noi è inutile e ciascuno è preziosissimo. Cristo è nel samaritano che aiuta ed è nell'affamato che attende in fila la sua razione; è nell'infermiere ed è nell'infermo. Non posso scegliere di essere samaritano e rifiutare l'idea che potrei essere l'affamato...

Anni fa don Olivo Dragoni, attivissimo direttore del Centro missionario di Lodi, entrò nel lungo, inatteso pellegrinaggio della sclerosi multipla. Gli chiesi un giorno come andasse. "Sto imparando ad accogliere la mia nuova vocazione", mi disse. Una risposta preziosa più dell'oro, nella memoria del mio cuore.

Il pianto delle colline (aggiornamento)

Dhaka - 8 agosto 2006

Nell'articolo seguente p. Franco fa riferimento ad una notizia apparsa su un vecchio numero di Banglanews, il 209. Chi non l'avesse letta può richiedere il numero (ndr)

Chi ha ricevuto la mia traduzione della relazione “Quando finirà questo pianto delle colline?” certamente se ne ricorda. Banglanews ne ha pubblicato i contenuti, ripresi da Asianews.

L’ho diffusa fra amici nei mesi di maggio e giugno scorso. Informava a proposito di alcuni villaggi di tribali Marma (Saupru Karbari e Noapara, comune di Maischari, distretto di Khagrachari, nel nord del Chittagong Hill Tracts) assaliti da Bengalesi che ne vogliono occupare le terre, apertamente incoraggiati e protetti dai militari e dal governo. In un episodio del 3 aprile, erano morti due tribali, molti erano rimasti feriti, quattro ragazze erano state violentate, un ostello buddista e molte case saccheggiate, danneggiate o distrutte completamente.

Ho poi mandato informazione sulla mia visita a Maischari, dove sono andato il 22 maggio insieme a P. Albert, segretario nazionale della commissione episcopale Giustizia e Pace del Bangladesh. In quella relazione spiegavo in breve la situazione di tutta l’area.

Le informazioni che ho dato sono state diffuse più volte dall’agenzia “on line” Asianews, e riprese da vari giornali. L’Eco di Bergamo ha pubblicato un bell’articolo. Diverse persone mi hanno scritto e hanno anche spontaneamente mandato aiuti.

Voglio ora aggiornare tutti quelli che sono interessati.

La maggior parte delle famiglie è tornata a casa, riparando alla meglio i danni, ma quelle che abitano più vicino all’area occupata dai Bengalesi sono rimaste alla larga e le loro case sono abbandonate. Varie organizzazioni per la difesa dei tribali hanno organizzato manifestazioni in città, e sono riuscite a far accettare la denuncia di violenza e stupro da parte delle ragazze, che però vivono ancora nascoste. Pare che abbiano tentato di rapirle, e le famiglie sono minacciate.

Diverse persone soffrono ancora i postumi dei pestaggi subiti, specialmente chi ha avuto arti rotti o è stato colpito alla testa.

Una risposta finora ottenuta è una “contromanifestazione” di Bengalesi che si dichiarano i veri discriminati, perché il governo appoggerebbe troppo i tribali, e chiedono parità di trattamento...

Il Bonzo Sumona Mahatero ha pian piano raccolto di nuovo i ragazzi e le ragazze dell’ostello, che ora sono quasi tutti presenti e hanno ripreso ad andare a scuola.

Non c’è stato però nessun intervento delle autorità per risolvere il problema, che rimane esattamente come prima.

A Khagrachari ci sono pochissimi cristiani; la chiesa cattolica ha solo una casetta di tre stanze costruita di recente, dove un prete, p. Borun, sta qualche giorno al mese. Anche lui si è interessato dei villaggi, e ora è in contatto con loro.

Attraverso di lui e alcuni Marma amici stiamo usando gli aiuti ricevuti in questo modo:

taka 50.000 (circa 600 Euro) per primi aiuti in cibo e cure mediche

taka 300.000 (circa 3.650 Euro) per l’ostello

taka 100.000 (circa 1.200 Euro) per le quattro ragazze

Ho deciso di indirizzare la maggior parte degli aiuti sull’ostello per evitare interventi troppo sparsi e non incisivi. L’ostello è un servizio a tutte le famiglie che hanno figli, perciò il beneficio raggiunge più o meno tutti.

Ho versato le 300mila taka al Vescovo di Chittagong, che in passato ha aiutato altri villaggi e altri bonzi, e che le farà arrivare a destinazione gradualmente, secondo le necessità. Il rev. Mahatero, con l’aiuto di Mongeyo Marma, ha progettato di utilizzare la cifra disponibile come segue:

- riparazione dei vecchi locali dell’ostello e pavimentazione in cemento

- costruzione di una sezione per le ragazze

- installazione di un pozzo con pompa a mano.

Come vedete, grazie al diverso potere d’acquisto e grazie al fatto che le costruzioni sono semplicissime (le uniche comodità moderne sono il pavimento in cemento e il tetto in lamiera) con pochi soldi si può fare molto.

Sono ancora a disposizione circa 50.000 taka che tengo di riserva per eventuale “sforamento” del preventivo, e poi verranno usate per coperte, libri e cibo.

Per le quattro ragazze un programma è pronto: due che sono più istruite verrebbero a Dhaka al “Christian Hospital” per un corso di un anno come assistenti infermiere. L’ospedale è di una chiesa protestante che dà la precedenza a ragazze in difficoltà e applica forti sconti. Una tribale Santal, che abbiamo mandato recentemente, si trova molto bene. Le altre due, meno istruite, verrebbero accolte, anch’esse per un anno, dalle Suore di Madre Teresa (che le accettano gratis) a Chittagong, dove potrebbero imparare taglio e cucito. Il problema adesso è di portarle sane e salve fuori da dove si nascondono, e assisterle nel caso che il processo inizi e debbano presentarsi in tribunale. La somma accantonata di 100mila taka è sufficiente per tutto questo.

Dopo di che, ho detto a Mongeyo e al rev. Mahatero, ci salutiamo in amicizia e chiudiamo il discorso. Anche se con rammarico, non posso continuare a seguire a distanza un “caso” (uno dei tanti purtroppo!) così complicato, che richiederebbe tempo, energie, competenza e via dicendo.

Un rapporto è comunque stabilito anche con la Commissione Giustizia e Pace, con il Vescovo di Chittagong, e con la minuscola comunità cristiana locale. Se vogliono e sono in grado, possono andare avanti in qualche modo.

Ringrazio tanto quelli che si sono interessati a questa storia, si sono stupiti e scandalizzati che “esistano ancora situazioni del genere”, hanno diffuso le notizie, hanno pregato, hanno mandato un aiuto.

Con amicizia

p. Franco Cagnasso

Il filtro opaco

Franco Cagnasso

Mondo e Missione ottobre 2006


Padre Bob vive un tentativo radicale e genuino di primissimo annuncio.

Sveglia alle 4; preghiera, colazione, alle 7 è sulla bicicletta. Ogni giorno macina decine di chilometri in città, fuori, dovunque ci sia un malato o qualcuno con problemi fisici. Non è medico, non distribuisce soldi, non dirige strutture né organizzazioni. Una volta la settimana va a Dhaka in autobus con due o tre persone che affida a qualche progetto di interventi gratuiti ora su un labbro leporino, ora su cataratte o su un piede deforme. Pernotta e ritorna alla stanzetta in affitto che è cucina, studio, cappella, salotto, e dove dorme con la bicicletta accanto al letto. A chi chiede risponde: «Sono un missionario cristiano, seguo il mio profeta, Gesù, che “passò beneficando e risanando” (At 10, 38)».

Gioviale ma di scorza dura, padre Bob McCahill ha passato i 70 e continua tenacemente a cercare non di dialogare con i sapienti della comunità islamica, ma d’incontrare la gente che suda e soffre vivendo la fede in cui è nata, per portare loro un tocco del Regno. Tronca subito ogni polemica: «Sì, sono americano, ma non sono Bush. Sì, credo che Gesù è figlio di Dio, che è uno e trino, ma bisticciare su Dio è da pazzi». Verso le 15 torna a casa e riposa, poi celebra l’Eucaristia, studia, scrive e chiacchiera con chi va a trovarlo. Riso e verdure per la cena e poi a letto.

Tre anni di questa vita per «beneficare e risanare», poi, come Gesù, «passa»: insalutato ospite va e ricomincia altrove, dove nessuno ha mai conosciuto un cristiano. Padre Bob è felice di vivere così il tentativo più radicale e genuino che io conosca di effettuare un «primissimo annuncio» chiaro e rispettoso, fra le genti dell’islam.

Non critica nessuno, ma il suo stile di vita interroga gli altri missionari, inseriti nelle piccole comunità cristiane e impegnatissimi in scuole, parrocchie, dispensari, ostelli, catechesi, organizzazioni. È lo stile giusto?

È doveroso ammettere che molti di noi creano e dirigono strutture, si affaticano in costruzioni e organizzazioni, perché non sanno fare altro. Abbiamo bisogno di un ruolo che ci dia un certo potere, ci faccia tenere il coltello per il manico, di una scrivania fra noi e l’interlocutore, di una comunità che ci avvolga; immersi «alla pari» fra la gente, tanto più fra credenti di altre religioni, ci sentiremmo smarriti. Più che fare missione, facciamo opere missionarie e la testimonianza si arena: ammirano l’efficienza, invidiano la disponibilità economica, sospettano motivazioni nascoste o di conquista. Non s’arriva al cuore.

Però non è sempre e solo così. Tanti hanno iniziato più o meno come padre Bob, per sentire poi che la carità evangelica chiedeva di offrire un aiuto più efficiente e più ampio.

Suor Silvia Gallina, un ciclone di attenzione, affetto e compassione per i poveri, negli anni Sessanta-Settanta era forse l’unica donna in Bangladesh a guidare una Vespa con cui faceva la spola fra le case dei malati e l’ospedale, portando a rotta di collo anche le partorienti. Erano gesti immediati, da cui sprizzava la sua carica umana e e una fede senza parole. Ma ha forse amato e testimoniato meno quando, per accogliere chi veniva da lontano e per aiutare più malati, s’è organizzata costruendo per loro un rifugio, ha maneggiato soldi dei benefattori, ha dato tempo (brontolando) alla contabilità?

Prendendo carne, il Verbo ne ha accettato l’opacità, per cui molti lo hanno frainteso, negato e calunniato; ne ha accettato il peso fino alla croce. Liberarsi di tutto perché risplenda meglio la grazia del Vangelo, o sporcarsi le mani perché essa trasformi e plasmi la vita quotidiana? Un guru che vivesse di esercizi ascetici e astrazioni spirituali, dimenticando la polvere, il sudore e la fragilità sua e dei fratelli sarebbe testimone solo di se stesso, tanto quanto un «missionario manager» che si preoccupasse soltanto del perfetto funzionamento delle sue opere, pastorali o sociali che siano. Il metodo ha valore, ma è sempre e comunque un filtro «opaco». Il Vangelo passa da persona a persona, si legge negli occhi, si percepisce nella passione con cui seguiamo Cristo nella sua incredibile missione di dare a Dio un cuore di carne.

Abbiamo bisogno di padre Bob e di suor Silvia, di interrogarci sul nostro modo di essere uomini e donne fra altri uomini e donne, loro e noi «nudi» davanti al mistero di Dio. E abbiamo bisogno di non trovare risposta a queste domande.

Le parole impotenti

Franco Cagnasso

Mondo e Missione novembre 2006

Difficile raccontare le contraddizioni della missione, evitando stereotipi

«Quei bambini ridono, sembrano felici... com’è possibile?». Invece del mio solito «bla bla», grazie all’amico fotografo Enrico Mascheroni sto presentando splendide diapositive montate con musica ben scelta, che in 20 minuti «dicono» le condizioni del lavoro minorile nel mondo. Alla fine, commenti e approfondimenti. Una giovane ha un’immagine della povertà come degrado e tristezza, e queste foto le aprono un orizzonte inaspettato: sparpagliati su una puzzolente montagna di immondizie dove cercano qualcosa da vendere, i bambini scherzano, giocano, e accolgono il fotografo con grandi sorrisi pieni di gioia... Com’è possibile?

Ne sono soddisfatto... con riserva. Nascerà, da questa scoperta, il luogo comune dei poveri-ma-felici, che tutto sommato «sarebbe meglio lasciarli come sono»?

Tutti desideriamo che i media diano spazio a un’informazione sistematica e seria su Paesi e problemi di cui poco si parla, specialmente su poveri e sfruttati, e sulle Chiese delle cosiddette periferie del mondo.

Ricordo un’omelia del cardinal Martini che, parlando ai missionari del Pime di Milano, citava le relazioni di san Francesco Saverio, per incoraggiarci e quasi implorarci: «Raccontate la missione!». Condivido, eppure mi rode una domanda: informare, è doveroso; raccontare, è bello e necessario... ma come? Sono così facili equivoci, distorsioni, stereotipi!

La difficoltà si colloca anzitutto dentro di noi.

Per vivere in un’altra cultura bisogna o impermeabilizzarsi, guardando la realtà circostante come attraverso l’oblò di un sommergibile, oppure aprirsi e lasciarsi interpellare, creando in noi spazi nuovi che si colmano a volte di arricchimenti armoniosi, spesso di contrasti stridenti e domande senza risposta. Don Andrea Santoro, il prete di Roma ucciso pochi mesi fa, vivendo fra i musulmani turchi ha ripensato alla storia di Rebecca incinta di Esaù e Giacobbe, che «si urtavano nel suo seno». Sentiamo di portare in noi due realtà tra loro estranee, che non sappiamo riconoscere e sono ingombranti, contraddittorie, eppure non possiamo più ignorare. Proprio come Rebecca, impotente di fronte al conflitto dei figli che porta in sé.

È così di esperienze religiose che parlano (o non parlano) di Dio in modo sconcertante; del diverso approccio dei musulmani di fronte al fenomeno religioso, ai problemi di oggi e della storia; della rassegnazione dei poveri a una vita che secondo il mio mondo è inaccettabile, eppure è amata, moltiplicata molto più di quanto amiamo e moltiplichiamo in Occidente; del rapporto fra uomo e donna, del concetto di libertà, della tradizione... La lista potrebbe allungarsi, ma a che servirebbe? Non saprei spiegarne tutti gli elementi, i perché.

Questa è infatti la seconda difficoltà: comunicare queste contraddizioni frutto del cammino missionario, che pure potrebbero essere feconde.

Come spiego ai musulmani che il Papa a Regensburg non intendeva offenderli, ma dare spazio alla riflessione con metodi e stili da noi comuni? E come spiego agli occidentali la frustrazione e il senso di isolamento profondo dei musulmani moderati?

Se troviamo indifferenza, cerchiamo di scuotere parlando di condizioni tragiche, di sofferenze inaccettabili; ed ecco l’immagine del povero come «sotto-uomo», della miseria che disumanizza. Ma noi troviamo splendidi esempi di umanità ricca e matura in mezzo alla miseria! Proviamo a raccontarlo, ed ecco l’irritante chiacchiericcio di chi si consola perché tanto sono felici lo stesso e magari più buoni di noi. Dopo l’epoca dei racconti missionari «avventurosi e curiosi», è venuta quella dei racconti commoventi, e siamo stati accusati di presentare sconciamente la povertà, senza rispetto per i poveri. Abbiamo descritto le altre culture con uno sguardo positivo, e sono apparse tutte integre, belle, da non toccare; le religioni tutte sante, pacifiche e tolleranti. Salvo poi scoprire un fenomeno come l’infibulazione femminile e farne una bandiera per forzare queste culture al cambiamento. O a scatenarsi contro la presunta irrazionalità dei musulmani.

I missionari siano «ponti» fra popoli, chiese, culture. A Roma, presso l’isola Tiberina, c’è il «ponte rotto». Sta là, quasi intatto in mezzo al Tevere, ma gli approdi sono crollati; inaccessibile dalla riva destra come dalla riva sinistra...

In attesa della sua venuta

Franco Cagnasso

Mondo e Missione - novembre 2006

Tutti aspettiamo, ma che cosa, chi e come aspettiamo? Non riesco a immaginare un uomo che non attenda nulla.

Forse esiste qualcuno che non attende assolutamente nulla, però io non riesco a immaginare un uomo che non attenda. Anche il buio, la desolazione, il non voler attendere che troviamo in molti nostri contemporanei mi paiono, in realtà, attese. Di che cosa? Forse della fine di una sofferenza, della noia, del non senso: l’assurdo opprime e angoscia, si attende il nulla per metterlo a tacere.

Tutti aspettiamo, ma che cosa, o chi? E come aspettiamo?

C’è almeno l’attesa della morte, che diventa sempre più consapevole e non si può eludere. Forse la si vuole descrivere come un incontro con il nulla per sfuggire all’ansia di chiedersi che cosa veramente essa ci riserbi; per negarsi una paura che umilierebbe, o una speranza che rischierebbe ancora una volta di restare delusa. È meglio pensare a una totale dissoluzione che interrogarsi ancora sul senso del vivere e del morire. Interrogarsi ancora potrebbe condurre ad ammettere che ci si è affidati a miti diventati insignificanti e vuoti, che si è vissuto inseguendo il proprio io, cioè una pista che si rivela troppo precaria, ora che si sviluppa e si spegne nella malattia e nella vecchiaia.

Tutti aspettiamo, ma che cosa, o chi? E come aspettiamo?

Ci può essere un’attesa passiva, anche paurosa, di chi guarda oltre l’immediato, sa che «qualcosa accadrà», ma non avendo possibilità d’intervenire sul futuro si limita a temerlo o a desiderarlo. Dopo l’11 settembre 2001, con gli attacchi alle Torri gemelle di New York, tutti abbiamo sperimentato un senso angoscioso d’attesa di qualcosa che poteva accadere senza che si potesse prevedere quando come e dove. E c’è un’attesa che, invece, convive con il desiderio, o addirittura nasce da esso, e quindi si accompagna con una tensione interiore che in qualche modo cerca di prepararsi, aprirsi, e che - quando possibile - diventa anche attività, anticipazione.

Mi piace pensare a Gesù, il Figlio dell’Uomo, come a una persona che desiderava intensamente e che attendeva con ansia. «Sono venuto a portare fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse gia acceso! C’è un battesimo che devo ricevere e come sono angosciato finche non sia compiuto!» (Lc 12, 49-50). Desidera intensamente fare la volontà del Padre, come un affamato desidera il cibo (cfr Gv 4, 34), anche se è consapevole che ciò comporta un passaggio doloroso. «Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi» (Lc 22, 15), dice ai suoi amici proprio mentre si addensano su di lui le nubi oscure della passione.

Non è un uomo senza ansie e impazienze. Non vive una spiritualità del distacco intesa come assenza di passioni, equilibrio interiore frutto di un lungo lavoro per estinguerle. Non predica e non promette la fuga dalla sofferenza e da ciò che la genera, quasi azzerando la propria interiorità o parte di essa. Al contrario, sembra vivere un’interiorità che vuole affrontare la sofferenza, sfidarla e lottare contro di essa fino a prenderla su di sé anche a nome di altri. Vive e promette una pace e una gioia che sono oltre questa lotta, o addirittura dentro; sono frutto del dono di sé e generano energie e nuovi desideri.

Gesù, nel Vangelo, ritorna spesso sul tema della vigilanza. Chi vigila è attento, non s’addormenta perché sa che deve succedere qualcosa. Qualcosa che forse è bello, forse temibile, forse entrambe le cose assieme, ma comunque non deve trovarci distratti, addormentati. È vigile chi attende lo sposo che ritorna dalle nozze a notte fonda, perciò deve essere disposto a una lunga veglia per non restare escluso dalla festa (cfr Mt 25, 1-13).

La veglia è desiderio che non deve assopirsi, anzi diventa più acuto con il passare del tempo: «L’anima mia attende l’aurora più che le sentinelle il mattino» (Salmo 130, 6). La notte è lunga, la stanchezza e la tensione si fanno sentire perché ogni momento può essere quello in cui il nemico esce dal buio per colpire, la sentinella scruta il cielo per cogliere i primissimi segni della luce. Così è il profeta, al quale per due volte viene chiesto «Quanto resta della notte?» (Is 21, 11).

Una parte rilevante del ministero di Gesù consiste nel risvegliare desideri sopiti o ignorati, correggere quelli meschini, stimolare ad attendere qualcosa oltre il proprio quotidiano pesante, gretto, privo di orizzonti. Il desiderio infatti apre il cuore, mette in movimento, dispone ad accogliere. Gesù risveglia nella Samaritana il senso dell’attesa, il desiderio di un’acqua che non è capace di trovare da sola e che forse può venirle da quell’uomo strano che l’ha interpellata, chiedendole proprio un po’ d’acqua da bere (cfr Gv 4, 1-42). Molte sue domande, che possono apparire artificio letterario, rivelano un’attenzione pedagogica, meglio ancora un’impostazione spirituale che vuole aprire all’attesa, al cambiamento, al diverso, a qualcosa di sorprendente.

Sull’attesa escatologica in quanto tale mi limito ad alcune considerazioni: Gesù è partecipe di questa attesa, la sollecita, e la collega con il suo ritorno. Tuttavia, a parte questo aspetto importante, la esprime con immagini del suo tempo e della sua cultura, precisando molto chiaramente che essa non deve avere forma più definita, né indicazioni di tempi. Inoltre i segni sono tali che possono e debbono essere visti, ma non hanno una differenza sostanziale da ciò che in ogni epoca e in ogni luogo è sotto gli occhi di chiunque voglia vedere.

L’attesa non è passiva: dev’essere densa di desiderio e - allo stesso tempo - di impegno, senza che l’uno spenga l’altro. Attendere è operare, fino al punto che l’opera da sola può esprimere un’attesa inconsapevole. Nella parabola del giudizio finale, infatti, sono persone inconsapevoli che vengono premiate o castigate non in base a ciò che conoscevano di Cristo e attendevano, ma in base a come hanno operato nei confronti dei suoi «fratelli più piccoli»: affamati, assetati, forestieri, nudi, ammalati, carcerati (cfr Mt 25, 31-46). Attendere non basta: «Non chiunque mi dice Signore, Signore entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli». Questo passo suggerisce un’altra domanda: Gesù parla del Regno dei cieli, inteso come Regno futuro, che verrà e che perciò attendiamo, o dell’oggi, del Regno che è già adesso in mezzo a noi, inaugurato ed espresso proprio dalla sua presenza? Anche questa pare un’oscillazione che non lo preoccupa. C’è un domani da attendere, che giungerà quando e come non sappiamo e che sarà definitivo, e certamente questo domani inizia oggi; è oggi che dobbiamo compiere le scelte decisive. L’attesa deve avere una ricaduta sull’oggi e cambiarlo; il Regno dev’essere riconosciuto e accolto oggi, e allora ci accoglierà domani.

Ciò che i discepoli devono fare è percorrere la terra con la forza dello Spirito Santo fino agli estremi confini, come testimoni del Risorto. Gesù sale al cielo e i suoi rimangono lì, perplessi, a guardare in aria. L’attesa non deve essere tale da lasciarci incantati e inattivi; tuttavia nel nostro tempo e nella nostra cultura, a parte casi limitati di gruppi che si mettono in agitazione per presunti segni di un’imminente «fine del mondo», sembra che ci sia piuttosto il pericolo opposto, cioè il rischio di non attendere nulla, o di avere attese soltanto mondane, di eventi che non sono altro che sviluppi del presente, frutto del nostro impegno, o dei nostri sbagli, o del caso. L’orizzonte si chiude. È vero che di queste verità di fede noi cristiani abbiamo parlato a volte in modo improprio generando paure, esagerazioni, distorsioni. Per questo motivo, forse, non si fanno più prediche sull’inferno, il purgatorio e il paradiso, o non ci si chiede più come e quando il mondo finisca. Le interpretazioni caricaturali o riduttive non devono però indurre a squalificare o dimenticare tutto. Se dimentichiamo ciò che queste parole, pur abusate, significavano veramente, il nostro vivere si intristisce su dimensioni meschine. La nostra consapevolezza di avere responsabilità decisive nella vita si riduce; tutto sembra andar bene e, se si è credenti, tutto va bene anche a Dio che non deve castigare e neppure arrabbiarsi perché è misericordioso e sempre pronto a perdonare. Dio diventa un bene indistinto e vago, un benevolo nonno che scusa tutto fino a farci dubitare se il male sia da contrastare o semplicemente da evitare per quanto possibile, solo per non soffrirne.

Come trovare, dunque, il senso di un’attesa che sia respiro di speranza e stimolo di un impegno responsabile, fonte di gioia e di forza, e anche criterio di scelte? Per impostare una risposta provo a raccogliere alcuni aspetti della vita e dell’insegnamento di Gesù: non guarisce tutti i malati, non dà la vista a tutti i ciechi, non perdona indistintamente tutti i peccatori né rimette in piedi tutti i paralitici o gli storpi. Il suo è un ministero fatto di segni, e il Vangelo di Giovanni è il più elaborato nel presentarceli: acqua viva che disseta, luce che permette di camminare e poi di credere, vita che risorge, ottimo vino che proviene da fredde giare di pietra piene soltanto d’acqua... Questi segni dicono che con Gesù la realtà cambia, e i discepoli dovranno compiere le stesse opere; ma il contesto della realtà, della storia, non muta, tant’è vero che rimangono sofferenza e ingiustizie, e che Gesù preannuncia ai suoi persecuzioni e croce. I primi cristiani, e noi con loro, sono smarriti di fronte a questo mancato «compimento» del Regno e imparano a fatica che bisogna ancora attendere, che il Signore c’è, è con noi, ma deve ancora tornare.

Quale dunque il valore dei segni? Spesso li ho interpretati in modo riduttivo, solo come punto di partenza per credere e, perciò, impegnarsi a cambiare il presente e il futuro. Gesù dà il via a un rinnovamento che opera lui stesso e di cui noi siamo strumenti; di conseguenza la missione è annuncio e allo stesso tempo diffusione della carità, moltiplicazione delle opere: «Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date», dice ai Dodici quando li invia (Mt 10, 8). In altre parole, noi dobbiamo continuare a fare ciò che Gesù ha fatto, completare nella storia ciò che ha iniziato.

Ma basta «fare» quelle opere, se non ci ricordiamo che sono «segni»? E segni di che cosa o di chi? Se il Vangelo accolto ci fa gustare un vino nuovo e buono, ci immerge in una luce nuova, ci dà un’acqua che trasforma noi stessi in sorgenti d’acqua, ci fa rinascere dal nostro peccato e dalla paralisi che ci attanaglia, tutto ciò rinvia a una pienezza ben maggiore e a un futuro. I segni che Gesù compie ci rivelano il Padre, cioè la nostra origine e il nostro punto di arrivo. Sono squarci, anticipazioni. Se mi trovo in una stanza buia e vedo una luce, può essere una lampadina che si è accesa, o può essere il sole che filtra da una fessura delle imposte: non è la stessa cosa! Gesù porta un raggio dall’esterno (dall’alto, dice san Giovanni) e ci rivela che oltre le imposte chiuse non c’è soltanto il raggio, ma il sole stesso. Essere mandati dal Signore a porre questi segni significa due cose allo stesso tempo: impegnarci oggi a porli, con tutta serietà, e porli nella loro pienezza, cioè come riferimento alla loro origine e come anticipazione del futuro. Altrimenti non sono più segni, sono soltanto opera che inizia e finisce con noi.

La nostra attesa dev’essere immersa nell’oggi e guardarsi bene da fughe e disimpegni. Dev’essere «terrena», perché se si dispensa dall’accogliere e porre i segni che il Signore pone nella storia, si costruisce un mondo fantastico; dirà «Signore, Signore» senza fare la volontà di Dio e meriterà la condanna. Dev’essere vigile, convinta e quindi spinta a non seppellire il talento, a non approfittare degli altri servi, a non addormentarsi.

Nemmeno dev’essere solo un vago desiderio che le cose vadano bene, oppure solo persuasione che con il nostro impegno le cose cambieranno in meglio. È attesa che i segni dall’alto si rivelino, è colma anche di «Altro», di speranza che dà tenacia. Dobbiamo vivere credendo che «qualcosa accade» nella nostra vita, qualcosa che non abbiamo calcolato e previsto. Obbedendo al Signore dobbiamo compiere dei segni riconoscendoli come tali e non come opera soltanto nostra; e dobbiamo anche riconoscere i segni che ci vengono incontro in maniera del tutto imprevista, senza che ci sia nulla di nostro.

Spesso siamo tanto chiusi nel presente, o preoccupati del futuro, da non saper più guardare allo svolgersi degli eventi, collegarli fra loro, vederne la logica interna che spesso si scopre solo dopo e a partire da ciò che sembrava meno logico, meno ovvio ed evidente. Io ho passato i sessant’anni, ma aspetto di crescere nella mia fede e so che tale crescita avverrà su strade che sono sì dovute alle mie scelte e alla loro intelligente saggezza, eppure avverrà anche su strade che ora non prevedo, fatti e aperture che sono come la lama di luce che entra dalle imposte e mi rivela il sole che mi attende fuori.

Ciò vale anche, e prima di tutto, per il popolo di Dio. Si fanno analisi e indagini, si elaborano piani pastorali: tutto bene. Purché non si dimentichi che se ci si riduce alle nostre analisi e ai nostri piani, si nega praticamente quell’attesa escatologica che si vorrebbe far tornare nella predicazione. Infatti, se non si dà spazio oggi all’attesa e all’imprevisto, si vive nella dimensione delle proprie forze soltanto, e un annuncio della venuta finale del Signore diventa remoto, privo di riscontri.

Nessuno aveva programmato Francesco d’Assisi e tutto ciò che di nuovo il suo movimento ha portato nella Chiesa del Medioevo. Una Chiesa che s’impegna seriamente in ciò che oggi vede necessario per essere fedele al Vangelo è il servo fedele che non si lascia prendere dalla stanchezza e rimane sveglio nel governare la casa, ma governa per qualcuno che viene, senza sapere quando e come. Il suo servizio, dunque, vale come segno dell’attesa, fiducia che il padrone viene davvero. Occorre insomma, come Chiesa e come singoli, vivere operanti nell’attesa oggi e anche domani, pensando oggi e domani non in termini ideologici, con la pretesa di definire esattamente che cosa e quando aspettiamo. Se noi viviamo i passaggi della nostra Chiesa nella fiducia operosa, scopriremo - per grazia di Dio - che le attuali difficoltà sfociano in purificazioni, rinascite e novità.

Quando si spegne la gioia

Franco Cagnasso

Mondo e Missione - dicembre 2006

La missione è segnata anche da delusioni, scandali e talvolta fallimenti

"Mi dicono che la gente resterà delusa e scandalizzata. Può darsi. Io però sono stanco di fare il bravo ragazzo". Così un missionario stimato, cui erano affidate varie responsabilità, mi raggelò comunicandomi la decisione di lasciare il ministero per sposarsi.

Di tanto in tanto, superiori e superiore dei missionari trattano, nei loro incontri, il tema della perseveranza nella vocazione. Si analizza, si parla, si condividono esperienze, ma i nodi non si sciolgono e gli interrogativi rimangono. Ognuno fa storia a sé, appare impossibile ridurre a denominatore comune i cammini di coloro che "lasciano".

Siamo all'ultima puntata di questa rubrica. Mi era stato chiesto di riflettere sulle fatiche, le debolezze, anche i "fallimenti" dei missionari. Non so se ho risposto alle attese, parlando di fatiche che sono connaturali all'essere in un'altra cultura, schiacciati fra esigenze e mentalità diverse, oppure di debolezze che sono forse il lato in ombra di aspetti positivi quali la troppa voglia di fare, l'impegno.

Alla fine, è giusto affrontare anche i "fallimenti". Esito a scrivere questa parola, spero che nessuno la consideri un giudizio. I fallimenti fanno parte della vita e tutti possono in qualche modo essere riscattati, ma per riscattarli occorre riconoscerli. Chi si prepara per anni, decide di dare tutta la vita all'annuncio del Vangelo in un certo modo, e poi cambia, ha fallito l'obiettivo; o aveva sbagliato a sceglierlo.

Va condannato per questo? No. Ne potrà trovare un altro, valido e degno della massima stima? Lo spero e lo vedo in molti casi. Resta il fatto che la storia della missione è segnata anche da progetti rimasti inattuati, delusioni subite e provocate, scandali, persone ferite, perché molti di noi non ce la fanno.

Lasciamo, per ragioni e in circostanze disparate; oppure rimaniamo, ma in modo tale che a volte di noi si sente dire: "Ma che razza di missionario è quello?".

Verso la fine dei miei studi di teologia, vissi un periodo di grande incertezza. Vicino al seminario c'era una comunità cui mi ero abituato, ma che a un certo punto guardai con occhio disincantato: uomini stanchi, qualcuno con un incarico probabilmente inventato per tenerlo occupato, ripiegati su di sé, a parole innamorati della missione ma spesso privi di qualsiasi voglia di tornarvi... Mi domandai con angoscia: "Cercavo un cristianesimo radicale, donato, aperto, gioioso; qui vedo malcontento, chiusure, nervi a pezzi, vocazioni spente. Chi mi garantisce che non finirò così?".

Ne parlai al rettore, padre Vincenzo Carbone. Mi rispose che l'umanità ha pesantezze da cui i missionari non sono dispensati. "Se queste persone si sono "spente" per loro responsabilità, sta in te credere nella Grazia e non lasciarti andare sulla strada in discesa dell'egoismo che ti chiude. Se invece ci sono fatti nella loro storia, nella loro salute o psiche che giustificano la loro condizione attuale, allora donati a Dio pronto anche a vivere una vita come la loro, umanamente fallita, ma che Lui capisce. La missione può anche chiederti la salute della mente... E lascia che sia Dio a giudicare chi ha colpe e chi non ne ha".

Più tardi, nel Pime si decise che il necrologio dell'Istituto (la lista dei membri defunti) elencasse anche i nomi di quelli che ne erano usciti. Un confratello scrisse che questa scelta lo rattrista, io invece ne provo una grande gioia. Non si tratta di recuperare dopo la morte ciò che si è perduto in vita, ma di offrire un segno dell'abbraccio che Dio offre a noi peccatori.

Vorrei dire ai miei fratelli e sorelle che sono "falliti", a quelli che sono usciti sbattendo la porta, a chi è rimasto ed è contento, a quelli che tirano avanti spenti e scoraggiati, a quelli che si sentono bravi e fedeli, a chi lasciando pensa di aver fatto gesti profetici, a chi è rimasto invischiato in situazioni palesi o nascoste di scandalo, a chi non pensa più agli ideali né alle promesse fatte, a tutti - ma proprio a tutti - che prendendo carne in Maria, scegliendo Matteo, Pietro e Giuda, chiamando Paolo e mille altri, Cristo ha messo in conto la nostra debolezza, anche la più sgradita e incomprensibile. L'ha presa su di sé.

Se il nostro cammino è accompagnato da tante cadute, non dimentichiamole, non facciamo finta di nulla. Sono le mie cadute, le nostre, le Sue. Da queste Lui ci chiama alla risurrezione.