Articoli e lettere - 2011

p. Fabrizio Calegari




2011


Un solo Maestro

Missionari del Pime - ottobre 2011

L'ostello St. Philip (San Filippo Neri), nel quale lavoro, si trova nella diocesi di Dinajpur, al nord del Bangladesh. È nato più di ottant'anni fa per offrire ai ragazzi delle parrocchie della diocesi la possibilità di frequentare le scuole superiori, impresa altrimenti impossibile nei loro villaggi. I ragazzi ospiti sono circa 120, in una fascia di età che spazia dagli 11 ai 18 anni. Molte le etnie: ci sono mahali, santal, oraon, kottrio, munda, bengalesi, raut. Da questo luogo sono usciti e usciranno ragazzi che saranno domani i nuovi capi-villaggio, catechisti, padri di famiglia e anche qualche sacerdote. Aiutarli a crescere come persone è una sfida di assoluta priorità.



Il coraggio di educare

Leggo da più parti, su riviste specializzate e libri sul tema, che c'è bisogno di "risvegliare la fede nell'educazione", che "la figura dell'educatore è in crisi", che occorre ritrovare "il coraggio di educare". Io, che certo coraggioso non sono, ma avverto la passione e la bellezza racchiusa in questo compito così difficile e affascinante, non ho che da offrire la mia esperienza.

Un'esperienza nata e cresciuta in Bangladesh, dove vivo e lavoro, perché fin da subito mi sono ritrovato a contatto quotidiano con centinaia di bambini e ragazzi, ospiti dei nostri ostelli nelle missioni. Persone alle quali garantivamo cose fondamentali - vitto, alloggio e scuola -, ma offrivamo un'educazione che coincideva il più delle volte con la sola disciplina, cioè una serie di regole che assicurano la convivenza per non sconfinare nell'anarchia. A me, francamente, non bastava.

Nel cominciare questo lavoro educativo avevo già diverse idee. Roba ricavata da letture fatte e dalla breve esperienza personale. Adesso, dopo più di dieci anni passati sul campo, ho 120 ragazzi e nessuna teoria. Detto così può sembrare esagerato.

La verità è che la vita quotidiana con i ragazzi, la loro stessa esistenza, è fatta di tali e tante sfaccettature, è talmente più ricca delle teorie, da mandare in crisi ogni schema preconfezionato. Tanto più che io sono solo un apprendista che prova come può a voler bene a questi fratelli.

Li vedo, li accompagno, mi sforzo di leggerne i giorni, di fiutarne gli umori, le differenze caratteriali, le fatiche, gli slanci, di seguirne la crescita. Provo a stimolare la loro curiosità nello studio, l'uso della libertà personale, la consapevolezza, il gusto della vita spirituale, il senso del bene comune, l'onestà.

Talvolta ho l'impressione di aver capito, di avere la squadra in pugno. Un momento dopo, però, ecco una situazione nuova e mi perdo, non so come muovermi, prendo tempo, ci prego sopra. Ma non rinuncio mai ad esserci sempre.


L’Amore educa

La linea guida, la sola forse che ho, è quella di farmi uno con loro, il che significa non solo condividere il più possibile le loro esperienze, il gioco, lo studio, la preghiera, il cibo, le incertezze, le domande. Neppure solo farmi piacere le cose che piacciono a loro: sono riuscito a imparare alcune canzoni per le quali vanno matti, ma ho fallito col cricket, che detesto cordialmente!

Farsi uno con loro significa anche svuotarmi per fare loro spazio. Uno svuotamento che è accoglienza amorosa di quello che l'altro è, così com'è. Ci sono cose della loro cultura che ho compreso nel tempo. Altre, forse, le capirò un giorno. Ma ce ne sono molte che non posso

comprendere e che non coglierò mai. Ciò che mi permette, per così dire, di by-passare queste differenze è proprio un'empatia profonda con ciascuno di loro. Quando una persona si sente amata e accolta nella sua interezza, allora può nascere un rapporto educativo fecondo, perché, in forza dell'amore reciproco, uno solo è il nostro Maestro: Gesù, sulla cui parola gettiamo le reti.

Questa è la mia speranza, l'unica vera "strategia" educativa che conosca e, nel mio piccolo, anche la mia esperienza: non una sinergia tra due persone funzionale allo scopo, ma una vera alchimia, qualcosa di nuovo e "altro" che l'amore genera. Si cammina insieme dietro al Risorto. Si cresce tanto quanto è il Maestro a crescere in noi. È così che ho imparato un po' di più a chiedere perdono scavalcando il mio orgoglio ferito e la mia presunzione di avere una risposta a tutto; a capire un bisogno senza che venga detto; a dire di no senza paura di perdere la stima; a concedere per non fare delle regole un idolo; ad ascoltare per capire; a pregare avendo i loro volti davanti.

Certo, talvolta mi pare di illudermi, di scalfire solo la superficie. Semino, ecco tutto.

Il raccolto che ne verrà lo conosce solo il Padrone del campo, ed è meglio così.

Qualche volta mi è dato di vederne un germoglio, un inizio che a me pare sempre così straordinariamente avvincente nella sua normalità e così turgido di promesse. È la vita di un giovane uomo che si dipana e che troverà nell'Amore, io spero, le sue risposte più vere.

Qualche altra, invece, assisto a una fioritura vera e propria, al dispiegarsi inatteso della bellezza che ciascuno serba dentro. Sono i momenti più belli, perché mi colgono di sorpresa, come un panorama che mi si apre davanti all'improvviso e mi toglie il fiato per il suo incanto. Contemplo l'opera del Creatore.

A me spetta solo creare le condizioni, lo spazio adatto, perché questa fioritura possa compiersi. Lo scriveva bene Romano Guardini: "Solo nello spazio creato dall'amore, colui che è amato ha la libertà di distendere tutta la sua statura".

Effetto farfalla

Mi sono spesso chiesto – è umano e un po’ inevitabile farlo – quale riflesso possa avere un lavoro tanto limitato come il mio, che raggiunge appena 120-130 ragazzi, in un mare di bisogni vasto come quello del Bangladesh. Non solo. E’ un lavoro che, per sua natura, come ogni genitore sa, non è imparentato con la matematica e con la magia: non dà quindi risultati certi e neppure formule incantate di sicura efficacia.

Dunque? Mi ha incoraggiato spesso, in questi anni di missione, pensare all’“effetto farfalla”. Secondo questa teoria, citata dai meteorologi, il battito d’ali di una farfalla in una foresta amazzonica, muove una foglia, che muove il ramo, che muove l'albero, che agita la foresta, che produce una corrente d'aria che farà piovere quattro giorni dopo a New York.

Ecco perché non possiamo smettere di crederci. Intanto perché crescere insieme è un’avventura talmente grande e bella che vale la pena comunque di viverla. Poi perché sono persuaso che l’amore è contagioso, e seminarlo porta certamente dei frutti che ne produrranno di nuovi a loro volta. Questa impalpabile reazione a catena che è ogni gesto d’amore dato e ricevuto può arrivare dove neppure ci sogniamo.