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p. Silvano Zoccarato

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Gioia missionaria degli anni ‘60 

di p. Silvano Zoccarato

Treviso - 15 maggio 2023

Testimonianza di una giovane della Lega missionaria studenti di Treviso 


È difficile oggi ricordare in maniera coerente e seguendo percorsi logici, gli avvenimenti legati alla nascita e allo sviluppo della Lega Missionaria Studenti nel territorio di Treviso.

Appartengono agli anni lontani della nostra adolescenza-giovinezza, e si localizzano proprio a cavallo degli anni Sessanta, periodo di grande fermento sociale, politico, religioso e scolastico soprattutto nell'ambito giovanile, al quale neppure la nostra tranquilla città poté sottrarsi, fino a modificare quasi inconsciamente la propria statica realtà.

I ricordi ci riportano al vecchio Seminario del Pime di Piazza Rinaldi, fucina di vocazioni missionarie in tanti giovani che coltivavano l'ideale di travalicare le frontiere per realizzare l'avventura cristiana in modi "altri", accanto ai fratelli più lontani, dal mondo normale spesso sconosciuti oppure dimenticati.

Non fu però un missionario ad accendere in noi la curiosità per quel nuovo movimento studentesco, bensì il Direttore Spirituale del collegio Pio X, Don Antonio Marin che parlò con entusiasmo ai nostri genitori della nascita di un gruppo comunitario interessato a sviluppare i problemi del "terzo mondo".

Così approdammo ad un mondo nuovo nell'ambito ecclesiale che si basava fondamentalmente su un forte vincolo comunitario, LEGA appunto, tra i membri del movimento, con il fine di vivere la MISSIONE offrendo il "senso dell'esistere", in grande umiltà e rispetto, anche a fratelli di contesti culturali differenti, nella consapevolezza d'essere tutti figli di un unico Padre.

La specificazione STUDENTI si riferiva alla composizione dei suoi membri, per lo più giovani, tenuti a sviluppare lo studio non per creare un gruppo elitario, ma, al contrario, per approfondire sempre più le tematiche inerenti alle missioni e allo sviluppo dei popoli.

Ancorate ad un'Azione cattolica che dava segni d'immobilismo, nella quale il dialogo generazionale era sconosciuto, le divisioni tra maschi e femmine ancora fortemente consolidate, la formazione spirituale basata più sul timor di Dio che sull'Amore, la scoperta del Movimento Missionario rappresentò per noi un'esplosione di fermenti.

Sperimentammo che il segno giovanile di quei tempi era porsi in maniera differente di fronte all’ "altro", senza sentirsi i soli depositari della verità, come spesso avveniva nelle parrocchie a quei tempi, perché ogni "altro" era depositario di verità diverse da riconoscere, approfondire e confrontare

Il porsi in atteggiamento nuovo di fronte a tutti favoriva il dialogo, la conoscenza, il rispetto e quindi l'amore scambievole in un clima di fratellanza universale che dava tensioni nuove, e ben più ampie, alla nostra fede vissuta fino a quel momento in maniera individualistica e abbastanza formale.

Così partecipammo ai gruppi che si ritrovavano al Pime, attorno a Padre Silvano Zoccarato, per vivere la nuova esperienza, avvertendo quasi inconsciamente che stavamo diventando partecipi di una travolgente trasformazione.

Eravamo uniti da obiettivi comuni e la conoscenza era lo strumento per indagare il mondo ed imparare ad amarlo proprio nelle sue diversità. E nel gruppo non c'erano più separazioni tra maschi e femmine, tra giovanissimi e più grandi, tra studenti e operai, tra benestanti e poveri, insieme eravamo davvero Lega, pur nel rispetto delle caratteristiche individuali.

Paradossalmente l'aconfessionalità del movimento, la sua apertura a tutti in un nuovo, per quei tempi, spirito d'accoglienza, sostenne la crescita spirituale nella ricerca della propria vocazione passando attraverso la riscoperta di Cristo, un modo incisivo di assimilare la Carità, un senso nuovo di Giustizia verso tutti.

E poi si respirava lo Spirito de Concilio come energia vitale che passava attraverso i nostri cuori portandovi la speranza per un mondo più giusto e più buono di cui ciascuno anche nel suo piccolo, diveniva parte operante fondamentale.

“La grazia del rinnovamento non può avere sviluppo alcuno nelle comunità, se ciascuna di esse non allarga la vasta trama della sua carità sino i confini della terra, dimostrando per quelli che sono lontani la stessa sollecitudine che ha per coloro che sono i suoi propri membri.” (I documenti del Concilio- attività Missionaria della Chiesa - X -37 b)

I nostri punti di riferimento diventarono, tra gli altri, Raoul Follerau del quale condividemmo spiritualmente e propagandammo le campagne contro la lebbra, l'Abbè Pierre che nelle battaglie accanto agli chiffoniers incarnava realmente il Cristo degli ultimi, Nelson Mandela che si batteva contro l'apartheid pagando con il carcere il suo ideale di giustizia e libertà, e, più vicino a noi, Marcello Candia che, abbandonata un'intensa attività industriale ed una vita di benessere, proprio in quegli anni maturò la decisione di farsi missionario laico e si recò a Macapà dove, accanto a Monsignor Pirovano, pose le basi per la costruzione di un grande ospedale.

Nel corso di quegli anni promuovemmo mostre fotografiche itineranti sui problemi della lebbra o della Fame nel mondo e incontri con relatori d' altri continenti per conoscere i loro paesi dall'interno e dibatterne le problematiche.

Ricordiamo ancora come avvenimento eccezionale nella nostra vita la partecipazione alla Settimana di Studi di Missionologia presso L'Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano, alla quale fummo invitate a intervenire per alcuni anni, nel mese di settembre.

Monsignor Squizzato, responsabile del Settore Missionario in Diocesi, contribuiva a finanziare i nostri viaggi e il mondo che si apriva ai nostri occhi, finora limitato ad una visione provincialissima, non aveva più confini.

I relatori che si susseguivano al Convegno erano quanto di più autorevole ci potesse essere allora nella cultura missionaria in Italia e nel mondo: Arcivescovi e politici, giornalisti e presidenti, mediatori interculturali e missionari, e la loro parola diveniva geografia, cultura, conflitto, denuncia, poesia, arte.

E negli intervalli, correvamo a vedere i tesori del Museo Missionario del Pime provenienti da tutto il mondo, oppure la sera, piene d' emozione, ci dirigevamo all'incontro con l'Abbé Pierre, nostro profeta, in sette su una cinquecento scappottata, all'Auditorio di via Mosé Bianchi, tra migliaia di giovani commossi ed esaltati pronti a bere la linfa vitale delle sue parole.

Tutto questo avveniva quando di sera i giovani, non più in maniera settaria ma integrati trasversalmente, cominciavano a fermarsi a discutere nelle piazze delle città parlando di politica e di fede, scambiandosi dischi e libri, organizzando dibattiti pubblici e cineforum, respirando forse per la prima volta la sensazione di essere parte integrante in una società diversa, che stava sempre più allargando verso nuovi orizzonti i propri confini.

La Lega Missionaria è stata per noi tutto questo.

I principi che ci ha trasmesso sono stati fondamentali nel corso della nostra vita per dare tensione alla nostra Fede e sviluppare sentimenti di accoglienza nei nostri rapporti con gli altri, poiché la nostra Missione l'abbiamo trovata nel nostro "mondo vicino": nei gruppi amicali, nella scuola, nella famiglia, nel paese.

In questo momento storico particolarmente difficile, nel quale sembrano riemergere le paure verso I' "altro", il diverso, e sembra che la gente si rinchiuda sempre più nel proprio individualismo e che i giovani si pongano in maniera passiva di fronte agli eventi che colpiscono il mondo, ci piace ricordare le parole di Senghor: " Puoi strappare tutti i fiori ma non puoi impedire che la primavera ritorni." E' proprio ora che rinasca una nuova Primavera Missionaria.

Maris Fornaini

Sulle orme di Charles De Foucauld 

di p. Silvano Zoccarato

oasiscenter.eu - 13 maggio 2022

Gli anni trascorsi in Algeria, la testimonianza di Fratel Charles, una nuova idea di missione. Una conversazione con padre Silvano Zoccarato

Missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME), padre Silvano Zoccarato ha conosciuto Charles De Foucauld non solo attraverso i suoi testi, ma anche attraverso le persone che si sono ispirate alla sua opera, in particolare le Piccole Sorelle di Gesù. Gli abbiamo chiesto di raccontarci la sua esperienza.  


Lei ha iniziato la missione del PIME a Touggourt, in Algeria. Ci può raccontare quell’esperienza?

Era l’alba del terzo millennio e ai superiori del PIME arrivò una lettera dall’Algeria; il “vescovo del deserto” monsignor Michel Gagnon, responsabile della diocesi di Laghouat-Gardaya – una delle più vaste del mondo per superficie – chiedeva una comunità composta da un missionario di 70 anni, uno di 50 e uno di 30 per iniziare una piccola presenza nel Sahara. Quando la lessi, sentì che era per me: aprirsi al mondo arabo! Era il 2006. Avevo appunto 70 anni e, leggendo che si cercava anzitutto qualcuno con una certa esperienza, sentii forte l’invito e mi resi subito disponibile. Erano anche gli anni dell’esortazione di Giovanni Paolo II, che invitava: «Carissimi missionari, nella Chiesa per grazia di Dio si aprono ogni giorno nuovi cantieri di evangelizzazione e di impegno. Sappiate ascoltare lo Spirito che vi interpella e rispondergli con generosità, accogliendo le sfide dell’ora attuale...». 

Vissi 10 anni a Touggourt, un’oasi nel deserto divenuta una città e abitavo in una vecchia casa lasciata dai Padri Bianchi. La chiesa era stata affidata a un’associazione musulmana.  Non era possibile catechizzare o battezzare come ero stato abituato a fare nei miei trent’anni di Camerun. Dovevo semplicemente essere lì e vivere in amicizia, incoraggiare e pregare. Mi ha aiutato la facilità con le lingue. Sono riuscito presto a celebrare la messa in arabo con le Piccole Sorelle seguaci di Charles de Foucauld e ho potuto aiutare dei giovani musulmani con l’italiano e il francese. In Camerun ho anche sviluppato l’attitudine a una certa riflessione culturale, ascoltando e raccogliendo le storie, i miti, i proverbi dell’etnia Tupurì. Ho sempre cercato di cogliere nella vita quotidiana le piccole occasioni di incontro, bevendo a volte il tè con amici sul marciapiede, e di raccontarle poi agli amici in Italia in brevi “cartoline”. Per l’evangelizzazione si trattava di fare ciò che ha fatto Gesù: coinvolgere e lasciarsi coinvolgere, mantenendo viva la propria identità. Ancora oggi continuiamo a sentirci vicini tramite Facebook.

Ho avuto il grande dono di condividere ogni giorno l’Eucaristia e lasciarmi formare presso le Piccole Sorelle di Gesù, il cui programma di vita è quello voluto dalla loro fondatrice Magdeleine Hutin: «Poter restare piccole sorelle di niente… che possano vivere, abitare, viaggiare come i più piccoli… come Gesù, che non perdette nulla della sua dignità divina, facendosi un povero artigiano. Avere il diritto d’essere povere… d’offrire la vita a immolazione per i fratelli dell’islam. Vivere intimamente mescolate alla massa umana, come il lievito nella pasta. Umane e cristiane, senza nessuna distinzione, con una formazione di vita interiore molto profonda».

Da Touggourt mi son trovato poi spesso nei luoghi di Charles De Foucauld e ho vissuto a Beni Abbes e a Tamanrasset nei suoi eremi.


Che cosa ha significato mettersi sulle orme di Charles De Foucauld? Che cosa le hanno insegnato la vita e lo stile di fratel Charles?

Risponderò ripercorrendo alcuni momenti della sua vita e ricordandolo attraverso le sue parole. Il 9 giugno 1901 a Viviers Charles chiede l’ordinazione sacerdotale come massima adesione al ministero salvifico di Cristo per donarsi di più. Quattro mesi dopo, va ad abitare a Beni Abbès, nel Sahara dell’Algeria. Vi resta in attesa di poter entrare in Marocco, le cui frontiere erano chiuse, e vi rimane fino all’agosto 1905. Della sua vita nell’eremo di Beni Abbès scrive: «Tutti i giorni, ospiti, a cena, a dormire, a colazione; non c’è mai stato vuoto; ce ne sono stati 11, una notte, senza contare un vecchio infermo che ormai s’è stabilito qui. Ho dalle 60 alle 100 visite al giorno: questa fraternità è un alveare».

La prima angoscia che attanaglia la sua anima è la grande tragedia degli schiavi. Vuole passare subito all’azione. Il 9 gennaio 1902 riscatta uno schiavo: il primo di vari altri. Poi c’è la sua vocazione alla fraternità. Lui stesso scrive di voler «abituare tutti gli abitanti, cristiani, musulmani, ebrei e adoratori di idoli, a guardarmi come loro fratello, il fratello universale». Sono queste persone a chiamare la casa di Charles “Khawa” la “Fraternità”. Charles commenta che questo gli piace moltissimo, vuole «che si sappia ovunque in giro che la Fraternità è la casa di Dio, dove ogni povero, ogni ospite, ogni malato, è sempre invitato, chiamato, desiderato, accolto con vera gioia e gratitudine da fratelli che lo amano, gli vogliono bene e considerano il suo ingresso sotto il loro tetto come l’arrivo di un tesoro.

Quando ho vissuto per dieci giorni nella casa di Charles de Foucauld a Beni Abbès, non l’ho sentito come un santo, ma come l’uomo che si apriva. In quell’ambiente lo ripensavo accogliente verso gli schiavi e i visitatori, orante e celebrante davanti al Sacro Cuore, e appassionato della natura. I disegni ancora lì nel suo quaderno lo mostrano contemplativo del deserto, sui monti. I proverbi tuareg, i racconti e le prime parole che scriveva nel dizionario tuareg risuonano e incantano.

Quello di Fratel Charles è stato un apostolato della bontà, come ha detto lui stesso: «Vedendomi, si deve dire: “Poiché quest’uomo è buono, la sua religione deve essere buona…”. Vorrei essere buono abbastanza perché dicano: “Se tale è il servo, come deve essere il maestro!?”

Aggiungeva però una notazione importante: «Ma prima bisogna passare per il deserto, e restarvi, per ricevere la grazia di Dio. È là che ci si svuota, che si caccia da sé tutto ciò che non è Dio, si libera completamente questa piccola casa della nostra anima per lasciare posto a lui solo. Ci vuole silenzio, raccoglimento, vuoto, perché Dio si stabilisca e crei lo spirito interiore. Senza questa vita interiore anche lo zelo, le buone intenzioni, il lavoro intenso non produrranno nessun frutto. Si tratterebbe di una sorgente che vuol dare la santità agli altri, ma inutilmente, perché non ce l’ha. Dio si dà totalmente all’anima che gli si dona totalmente. E dunque impossibile voler amare Dio senza amare gli uomini. Più si ama Dio, più si amiamo gli uomini».

Charles è innanzitutto innamorato di Gesù, che riconosce nel Sacramento dell’altare ma anche nel sacramento degli uomini, nei poveri, come ha osservato anche Papa Francesco. Credo che questa sia una grande lezione per ogni missionario.


Dopo tanti anni, spesi in diversi Paesi, è cambiata la sua visione della missione?

Nei miei trent’anni in Camerun vivevo per la gente, ma ero anche staccato, fisso nelle mie posizioni di missionario. A Touggourt in Algeria invece è stato come dice Papa Francesco nella Laudato Si’: «Il buon vivere e convivere con tutti e ognuno». Insieme alle Piccole Sorelle di Touggourt, nelle relazioni con la gente ho potuto sentire l’anima delle persone e sentire verso di loro una vicinanza interiore. È qualcosa che sento vivo dentro di me e che vorrei continuare a conservare.

Ho cambiato stile di missione: dal dialogo su Gesù in Camerun, ho vissuto il dialogo del Gesù della vita, aiutato anche dal vescovo emerito di Laghouat-Ghardaïa, Claude Rault, che ha scritto il libro Il deserto è la mia cattedrale. La missione può aprirsi coinvolgendo ogni uomo coerente coi valori umani più autentici e di fede.

Ora credo che Dio continui a parlare, a salvare e a unire l’umanità tramite persone fedeli alle loro religioni, che convivono e dialogano con gente di culture e religioni differenti. Vivendo con i musulmani, ero fortemente impressionato quando mi raccontavano come sentono Dio e come Dio si fa sentire a loro. Mi dicevano che l’uomo non può vivere senza Dio, che la preghiera è la cosa più bella della vita. Il venerdì camminavo in mezzo alla gente e – alla voce del muezzin che invita alla preghiera – il quartiere si fermava all’improvviso, tutti si mettevano in ginocchio. «Cosa faccio qui?», mi chiedevo allora, ed ero spinto ad approfondire il mio essere cristiano, a rendermi conto di ciò che ci unisce già, anche se resta velato, prudente, in attesa.

Il mio era semmai un “apostolato da marciapiede”, nel senso che si svolgeva camminando, durante le mie passeggiate per andare dalle Sorelle o qualche volta a mangiare un pasto da operaio per pochi dinari in una mensa pubblica. Vivendo 10 anni a Touggourt, la gente mi salutava col saluto musulmano o chiedeva di pregare per loro.

Aveva ragione l’arcivescovo di Algeri Tessier: «Non basta amare la Chiesa d’Algeria, ma è l’Algeria che va amata. Quindi gli algerini. Si ama l’Algeria nelle persone che incontriamo. Questo è prioritario: partire dall’amicizia e mirare all’amicizia inserendosi nel tessuto della vita. Ciò comporta uno sguardo che sappia capire l’islam e rispettarlo come religione dei popoli ai quali siamo inviati».

Ma poi tutto questo necessitava di un accostamento, un’impresa non semplice. Parlerei di testimonianza, annuncio, accoglienza, accompagnamento. Tutto si sviluppa dentro il “vento di Dio” che chiama alla conversione di chi annuncia e di chi accoglie. Più che di cambiamento si può parlare di fedeltà e sviluppo della fede che vivi, come cristiano e come musulmano o altro. Dio continuerà a condurre verso una comunione sempre più vera con Lui.


Se ci si limita ai numeri, Charles De Foucauld ha fallito. Lui stesso constatava di non aver convertito nessuno. Madeleine Delbrel diceva che De Foucauld ci ricorda la legge del Regno di Dio, cioè che dalla croce in poi ogni vittoria inizia con un fallimento. Quali sono i frutti del “fallimento” di Charles?

Charles de Foucauld fu colpito il primo dicembre 1916 a Tamanrasset, e morì solo. Un giorno mi trovai a Tamanrasset, seduto proprio accanto alla porta della casa di fratel Charles e al buco fatto dal proiettile che l’aveva colpito. Il piccolo fratello Antoine Chatelard mi disse: «Charles morì senza aver concluso il suo cammino di fraternità». Oggi 25 confraternite (Khawa) vivono nel mondo col suo spirito, tante persone hanno nel cuore la loro Khawa con Jesus Caritas. Tra le prime di questa famiglia ci sono le Piccole Sorelle di Gesù di Magdeleine Hutin, con le quali ho vissuto dieci anni a Touggourt. Le confraternite costituiscono una vera rivoluzione della vita religiosa: piccoli gruppi contemplativi che vivono nel mondo e praticano un lavoro; ecco qualcosa di molto diverso da ciò che era la vita religiosa tradizionale. Fraternità non solo come passione missionaria ma condivisione della stessa identità naturale dell’uomo e del cristiano. Mi colpisce che sia stato Ali Merad, algerino musulmano, specialista del pensiero islamico moderno, a scrivere queste righe: «Charles de Foucauld forse non convertì neppure un musulmano, ma prese un cammino evangelico che non avrebbe preso senza l’islam e senza il deserto e contribuì a trasformare di non poco l’attitudine della Chiesa cattolica, 50 anni dopo la sua morte, col Concilio Vaticano II, rispetto alle altre religioni e culture dentro la comunità umana».  


Che cosa ha da dire Charles de Foucauld oggi, sia rispetto al rapporto con i musulmani che alla vita della Chiesa in generale?

Ogni santo porta una novità. Gesù è venuto per essere immagine del Padre. Il cristiano diventa immagine viva di Gesù, che vive il suo “oggi” nei santi. Questa volta però il nostro santo è un po’ scomodo.  Scomodo per la società, per la Chiesa e per ogni credente. De Foucauld lascia la sua società borghese, occupata a contare i propri soldi e i propri terreni e a difendere il proprio io. Vive in una Chiesa povera, sulla strada, eucaristica nel cuore e nell’incontro. Ci fa incontrare con tutti per quello che siamo, anche se diversi per razza, cultura, religione. La canonizzazione di Charles De Foucauld, definitosi Fratello Universale, aprirà la Chiesa, e speriamo anche il mondo intero, a una ulteriore fraternità, la stessa che Papa Francesco, all’inizio dell’enciclica Fratelli Tutti, vede in san Francesco d’Assisi e in chiusura indica proprio in Charles de Foucauld.

Per secoli, in Occidente si è concepito “l’altro” unicamente attraverso categorie peggiorative: l’eretico, l’indemoniato, l’immorale, la strega, l’ebreo, il feroce Saladino... Oggi papa Francesco dice a tutti gli uomini: «Fratello». Uno dei tratti caratteristici dell’ispirazione di de Foucauld è stato rendere Cristo presente anticipatamente tra i musulmani per mezzo dell’Eucaristia. Un’indicazione attuale e profetica al tempo stesso, anche perché il Papa si rivolge non solo ai cattolici, ma a tutti coloro che vogliono percorrere un cammino di comunione e di fraternità universale.

Fraternità, non come parola astratta, ma come vita vera, come dono di Dio all’umanità. L’avventura missionaria di Charles de Foucauld è all’origine dell’apertura realizzata per la Chiesa da papa Giovanni XXIII e continuata nel Concilio Vaticano II: un nuovo modo di leggere e di vivere il Vangelo e di incontrare l’Altro. La fraternità diventa una chiamata, una vocazione a vivere un’esistenza nuova, aperta, donata. È voluta come educazione per il mondo d’oggi e comunione tra tutte le religioni, fino ad amarci tra noi, tutti con l’amore di Dio. Come ha scritto Teilhard de Chardin, «È proprio dell’amore suscitare amore e alimentare processi unitivi. Amare è unire». Gli fa eco san Massimiliano Kolbe: «Solo l’amore crea!».

Con la prossima canonizzazione di Charles de Foucauld, lo Spirito Santo aiuterà la Chiesa ad aprirsi. È ancora il messaggio di Papa Giovanni quando aveva aperto al mondo il volto materno della Chiesa e oggi quello di Papa Francesco quando parla di “Chiesa in uscita”.

Uscendo dalla pandemia, vedremo persone provate e rinnovate dalla sofferenza e lo saremo anche noi. Incontreremo anche persone mai viste prima nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nei viaggi. Questi incontri potrebbero essere non solo la ripresa, ma l’inizio di una vita nuova. Ma se non si fa attenzione, si può cadere nella dispersione della babele attuale di pensiero, di valori. E forse in un senso di apatia e di smarrimento. Non solo le nostre persone stanno attraversando un periodo difficile, ma anche le nostre società, la Chiesa stessa.

Si tratta allora di vedere che le diversità sociali, religiose, culturali delle persone che incontriamo non sono ostacoli, ma valori, ricchezze per tutti. È quello che ha vissuto il santo Giovanni Paolo II, quando dopo aver pregato ad Assisi accanto ai responsabili di alcune religioni mondiali disse che «In ogni preghiera autentica, prega lo Spirito Santo». Anche Papa Francesco crede nell’importanza della preghiera che unifica. La sua preghiera innalzata l’anno scorso nella Piana di Ur in Iraq, può essere colta come sintesi di un viaggio di pace e fraternità nella comune radice nel Dio della promessa: «Ti chiediamo, Dio di nostro padre Abramo e Dio nostro, di concederci una fede forte, operosa nel bene, una fede che apra i nostri cuori a Te e a tutti i nostri fratelli e sorelle; e una speranza insopprimibile, capace di scorgere ovunque la fedeltà delle tue promesse».

Il Vangelo vuole arrivare ai confini del mondo e resta in cammino, affidato continuamente a nuovi discepoli, con nel cuore la presenza dello Spirito del Risorto. Potessimo vivere quanto c’era nel cuore di Charles de Foucauld: Iesus Caritas, il senso vivo della presenza di Gesù Cristo amore che lo spingeva sempre oltre. Coinvolti nello stesso progetto di amore di Dio che vuole i suoi figli uniti. Lo Spirito farà vivere nuove relazioni in cui il desiderio di verità si completa con la visione delle saggezze altrui e con un’attitudine amorosa per il prossimo che sola può pretendere di avvicinarci (pur senza mai raggiungerlo) al mistero.

Come margherite nella tempesta 

di Ibrahim L. 

Mondo e Missione - Aprile 2022

Testimonianza raccolta in Tunisia da padre Silvano Zoccarato, missionario del Pime          

Ibrahim è l’unico cristiano arabo in un territorio molto vasto della Tunisia. Una fede vissuta nel nascondimento, ma anche nell’incontro con l’altro  

                                                               

Sono commosso e contento di condividere la mia testimonianza con un prete che ho incontrato una sola volta. Attraverso il suo sguardo, si vedono la dolcezza e la grandezza di Dio. Grazie padre Silvano di aver accettato questa piccola condivisione del mio percorso di vita. Mi chiamo Ibrahim, ho 74 anni e sono sposato con tre figli. Sono nato in una semplice famiglia nel Sud della Tunisia. Ho lavorato come assistente sociale per quarant’anni. La mia scoperta della Chiesa risale al 1968 e nasce dall’incontro con alcuni uomini e donne cristiani, sacerdoti, suore e laici impegnati a vario titolo col mio popolo nel Sud del Paese.

Il primo è stato Marius Garau, infermiere nato in Tunisia, ma forgiato dalle radici mediterranee di una povera e semplice famiglia italiana. Uomo di ascolto e di grande umiltà, parlava perfettamente la lingua del mio Paese e questo gli ha permesso di essere davvero parte di questo popolo. Ha vissuto una grande storia di fratellanza con l’imam della grande moschea, che lo considerava un vero fratello (storia raccontata anche nel libro “La rosa dell’imam”, pubblicato da Emi nel 1997 – ndr). Poi è arrivata una comunità di suore francescane nel 1969, molto impegnata con me nel sociale, nell’educazione, in asili nido, ma anche con disabili, anziani, carcerati, bambini abbandonati, madri single e così via. In seguito, ci sono stati tanti altri sino al 2015.

L’immagine che ho conservato di questa presenza è prima di tutto quella di un impegno concreto a servizio dei più poveri e di quelli ai margini, nello spirito di Gesù: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». Ciò che mi ha segnato, però, è anche la dimensione spirituale di questa comunità cristiana, diversificata secondo la chiamata di ciascuno, incarnata nei vari impegni e rispettosa dell’altro, della sua cultura e della sua fede musulmane. Nel rispetto cioè del cammino di ciascuno, per costruire insieme un mondo migliore. Successivamente, il mio sguardo si è allargato ad altre comunità del Sud della Tunisia, come quella delle Piccole Sorelle che si ispirano a Charles de Foucauld e che si guadagnavano da vivere lavorando in uno spirito di condivisione con amici e colleghi. In quegli anni, la Tunisia viveva in una situazione di grande povertà, soprattutto nell’interno e nel Sud. La Chiesa ha lasciato la sua impronta e i suoi frutti tra la gente, anche perché ha sempre lavorato al servizio dei più poveri. Ora le condizioni sono diverse e il testimone è stato preso in molti ambiti dai tunisini. È il nostro popolo che si fa carico di se stesso; oggi molti sono istruiti, alcuni intellettualmente brillanti, e quel cammino va avanti in modo diverso. Tanti però continuano a essere abbandonati a loro stessi perché non c’è lavoro per tutti.                                                        

In questi incontri, in queste esperienze comuni nel rispetto della differenza e del percorso di ciascuno, ho personalmente compreso che la fede può smuovere le montagne quando c’è l’amore del prossimo. L’incontro è prima di tutto uno sguardo incrociato, uno scambio di parole e a volte di silenzi, di lacrime e magari di insulti. Si tratta di accogliere l’altro così com’è, senza giudicarlo preventivamente, accettandolo come fratello con amore e tenerezza, senza mai credere che non ci sia speranza. Questo corrisponde anche alla mia esperienza, al mio cammino per arrivare alla fonte e vivere la mia fede in segreto tra i miei concittadini, il mio entourage, la mia famiglia… Mi sentivo un ipocrita di fronte a loro, mi comportavo da musulmano, ma dentro ero cristiano. Sentivo il rifiuto netto da parte di alcune persone e questo mi provocava molta sofferenza, umiliazione e pena, con cui a volte è difficile convivere.

Fortunatamente negli anni del mio lavoro sono sempre rimasto stupito da ciò che si impara dagli altri, sia dai miei colleghi cristiani che dalle persone bisognose, e sono sempre stato colpito dalla loro capacità di fidarsi di me per andare avanti insieme. E dunque ritorno ancora una volta sul senso dell’incontrarsi e del capirsi, giorno per giorno. L’incontro appartiene alla dimensione del sacro, perché l’amore di Dio «non sappiamo da dove viene né dove va». Attraverso piccoli passi quotidiani impariamo a identificarlo. Ognuno di noi può esserne uno strumento. Siamo venuti al mondo ciascuno con la propria specificità, le nostre rispettive differenze ci rendono unici e belli quando sappiamo amarle e rispettarle. Come diceva Papa Giovanni Paolo II, essere cristiano non significa fare numero, ma fare segno. Se si vive il Vangelo come margherite, terra-terra, allora si fa segno nel contesto familiare, negli incontri, al lavoro, con il vicinato: segno di Dio, di un mistero che abita in te.

L’annuncio di Gesù presuppone una testimonianza attraverso una vita evangelica in mezzo alla gente, attraverso il lavoro, la condivisione e l’impegno, e anche attraverso un’apertura universale, senza rimanere rinchiusi in “recinti religiosi” che pretendono di avere la verità. La verità è Dio stesso. Vivere il Vangelo, indipendentemente dalla presenza di un grande o di un piccolo gruppo, è sempre arricchente perché Dio è l’essenziale e sarà sempre tra noi.                                                                                                             

In questo mondo malato, siamo in un cammino di purificazione. Le tribolazioni annunciate nell’Apocalisse fanno degli esseri umani dei combattenti che le superano con la preghiera e la fiducia. Ci sono esseri di luce sulla terra ed energie celesti (Maria, Gesù e altri mistici), provenienti dalla sorgente divina, offerti come dono a questo mondo. Il nostro cammino è tracciato da Dio. Lui solo sa perché dobbiamo confrontarci con la sofferenza, come me ora che sono gravemente malato. La vita è fatta di tappe che dobbiamo attraversare con dolori e tristezze, ma anche con gioia e speranza. E se siamo perseguitati non camminiamo a quattro zampe, ma siamo uomini e donne in piedi, come margherite nella tempesta. Cristo è lì per sostenerci e darci energia.


Centenario della presenza del PIME nel Triveneto 

Treviso, ottobre/novembre 2021

 

Cari amici riprendo a mandarvi ‘la cartolina’ dopo alcuni mesi dal mio rientro dal Camerun nel giugno scorso. Sto rivivendo contatti con Treviso, diocesi che ha visto i miei primi passi di giovane prete animatore vocazionale e rettore del seminario missionario, e diocesi che mi ha sempre seguito con affetto e passione missionaria quando ero in Camerun e in Algeria. Ora riaccendo il mio arabo perché il 3 dicembre, festa di San Franceso Saverio, partirò per la Tunisia per un servizio di tre mesi chiestomi da padre Ferruccio Brambillasca, superiore generale del PIME. 

Desidero anche informarvi che stiamo organizzando la celebrazione del centenario della nostra presenza nel Triveneto, prima nel seminario missionario a Treviso, poi coi gemellaggi condivisi in terra africana con le diocesi di Treviso, Belluno e Gorizia e con l’animazione missionaria in alcune zone del Triveneto. Lo spirito della missione ci ha acceso, ci ha mantenuti uniti e continua a soffiare fino a una nuova comunione apostolica in Asia (Tailandia). Speriamo e preghiamo che la celebrazione del centenario sia un riaccendere la passione missionaria vissuta, in modo da realizzarsi ancora col motto ‘Esci dalla tua terra e va’’ perché Cristo sia conosciuto e amato, diventi la vita dei popoli.

Eccovi un ricordo di come P. Gaetano Filippin, ci racconta i “natali “del PIME a Treviso.       

“Durante le vacanze autunnali del 1921, desideravo tanto d’essere ordinato Diacono. Ero suddiacono dal sabato santo. Mi presentai a Mons. Longhin e gli apersi il cuore.  -Si, caro, ben volentieri, mi rispose. L’ultima domenica di luglio, festa del Redentore, celebrerò la Messa a S. Agnese e là ti ordinerò diacono-. E per gli esercizi spirituali? – -Va’ in seminario, sta tranquillo, mettiti sotto la direzione del padre spirituale, don Vittorio D’Alessi. Fu in quella occasione che, con don Vittorio, si maturò l’idea di aprire una casa apostolica a Treviso. Vi ritornai a Natale per la prima Messa solenne. Fui ospite del seminario vescovile, ove celebrai così una delle prime Sante Messe, dove avevo frequentato il ginnasio e il liceo. Intanto si concretava l’idea di aprire in città un focolare, ove si preparassero i futuri missionari trevigiani. Un giorno, don Vittorio, tutto raggiante, mi disse: -Sai che il Vescovo è contento e mi incaricò di vedere un po’ dove e come si potrebbe aprire il nuovo seminario. Fu così che cercai a lungo in città e il mio sguardo si posò sulla chiesa di S. Martino e sull’annessa canonica. Dopo lunghi e laboriosi sondaggi, finalmente mi ritrovai con Mons. Longhin. E dunque? -Tutto combinato, Eccellenza! - Deo gratias! Vieni subito con me in Curia e ti firmerò il decreto di nomina a Vicario di S. Martino Urbano; così potrai iniziare l’opera benedetta, che sta tanto a cuore anche a me”. 

Il piccolo seminario iniziò nell’ottobre ’22.

Cari amici, continuerò a tenervi informati della storia del cammino vissuto e del centenario per farvi partecipare e mantenere vivo il fuoco missionario.


Un atto di gratitudine al beato Andrea Giacinto Longhin      

Ricordando la figura di mons. Longhin, pochissimi mettono in risalto il merito di aver contribuito a far sorgere e a dare un ottimo sviluppo missionario alla diocesi di Treviso.

Questo è tra i primi meriti di un santo e non poteva mancare nel nostro vescovo che aveva un cuore innamorato di Dio e quindi preoccupato anche della salvezza dei suoi figli.

Membro di una famiglia religiosa che annovera tra i propri figli molti e generosi missionari, certamente non era digiuno di notizie d’oltremare e della misera situazione di tanti popoli.

Nei suoi discorsi infuocati ne accennava spesso, e sua preoccupazione pastorale fu di infervorare i cuori dei suoi figli fino alla commozione, perché si sentissero solidali con le sofferenze dei popoli del “terzo mondo” e con la generosità e il sacrificio dei missionari.

Il Signore benedì l’ardore missionario del suo docile servo e lo rese strumento di opere missionarie, che a distanza di tempo, si rivelarono sempre più promettenti. Dio è presente dove lavorano i santi.

Durante i primi anni dell’episcopato di mons. Longhin, il contributo missionario in diocesi era quasi nullo. Scorrendo le cronache del tempo troviamo notizia di qualche conferenza di missionari di ritorno dalle missioni, o di collette in favore di missioni particolari o in occasione di partenze di missionari.

C’era in curia qualche sacerdote che tra i vari incarichi aveva anche quello di raccogliere offerte per le missioni, ma non vi era ancora una precisa direttiva e tanto meno la coscienza di un vero dovere missionario. Inutilmente nel sinodo del 1911, tenuto dallo stesso mons. Longhin, si cercherebbe la parola “missioni”, lacuna colmata dal vescovo mons. Mistrorigo. Allora il problema missionario non era ancora considerato come una delle principali preoccupazioni di una diocesi e di un pastore.

Ciò che fece esplodere lo spirito missionario in diocesi, fu una scintilla scoccata da un insieme di circostanze e di persone, sempre fecondate da semplicità e docilità ai disegni divini. 


Centenario del carisma di una famiglia unita 

Celebrare il centenario del seminario missionario di Treviso significa mantenere viva la memoria non solo dei missionari del Triveneto, ma anche di quanti hanno accolto e condiviso il carisma missionario restando là dove il Signore li aveva chiamati. Come è nato frutto di cammino di Chiesa così è stato albero o meglio Famiglia missionaria i cui membri sono a giusto titolo missionari.

Lo affermò bene Mons. Antonio Mistrorigo, vescovo di Treviso, il 29 giugno 1967: “L'esempio più bello di questa nostra unione e collaborazione l'abbiamo dato questa mattina, consegnando il crocifisso a quattro missionari partenti per la lontana terra africana del Camerun: due di essi sono del P.I.M.E. e due sono nostri sacerdoti diocesani. Sono missionari di due famiglie, ma che sono diventati d'una sola famiglia, perché avviati ad un'unica impresa apostolica, indivisibile, da compiere assieme aiutandosi a vicenda e mettendo ciascuno a servizio dell'altro quanto di meglio ha da offrire. L'unico crocifisso che abbiamo consegnato ai quattro missionari è il segno della loro unione per un unico servizio. Ecco perché oggi è la festa della diocesi intera…”  

Papa Francesco, all’udienza generale del 1° ottobre 2014 in Piazza San Pietro a Roma, ha detto:

«I carismi nella Chiesa sono un dono di Dio per il bene di tutti. All’interno della comunità sbocciano e fioriscono i doni di cui ci ricolma il Padre”. Come Il PIME non nacque dall’idea di una sola persona, ma da una convergenza di ideali che stavano concretizzandosi nel cuore della Chiesa italiana prima e dopo il famoso 1850, così nacque e visse il Seminario Missionario dell’Immacolata di Treviso all’interno della famiglia diocesana e in cammino dentro una comunione di carismi. 


Come un missionario trevigiano vede il centenario 

Nel 2022 ricorre il centenario della presenza del P.I.M.E.  in diocesi di Treviso.  Con questo scritto io desidererei cogliere l’occasione per ricordare l’impegno missionario del passato come stimolo ad un impegno sempre più largo e condiviso.

Fare memoria di ciò che il Pime ha vissuto nel triveneto dal 1922 rinserra i legami di famiglia; mette insieme i tanti parenti, amici, ex alunni che aiutati dal Pime hanno la passione per la missione e sono testimoni di Gesù nel loro ambiente, seguendo l'esempio di missionari che a volte hanno dato la vita per testimoniare Cristo in ogni ambiente umano.  

Non è certo stato un caso, ma un disegno provvidenziale, che come vescovo ci sia stato a Treviso quel santo frate cappuccino di Mons. Andrea Giacinto Longhin (1863-1936), ora Beato, che in tempi di ristrettezze ha sostenuto l’apertura di una presenza del Pime in diocesi; da quegli anni in poi il movimento missionario, incoraggiato dai vescovi che gli sono succeduti, ha avuto una sempre più larga risonanza tra il clero e i fedeli; e si è allargato alle altre diocesi del Triveneto: nel solo Pime, per non parlare di altri Istituti missionari , sono entrati  e poi partiti più di 150 missionari. Poi sacerdoti di Treviso, Chioggia, Gorizia, Feltre-Belluno, Como si sono associati ai missionari del Pime in Africa, in Asia e in America latina; i laici stessi, giovani e non più giovani, da un

iniziale contributo con la preghiera, la simpatia, il sostegno economico, sono passati ad un impegno personale andando nelle missioni.

Col Concilio Vaticano II si è avuto un ulteriore stimolo a questo impegno missionario di tutta la chiesa. Alcuni anni dopo il Concilio, i sacerdoti diocesani in missione nel mondo erano circa 20.000.

Tutti conosciamo il momento di difficoltà che la Chiesa italiana sta attraversando; celebrare il centenario mentre ricorda l’entusiasmo del passato, vorrebbe contribuire a rinnovare l’impegno missionario delle nostre Chiese.

 

Il Pime 

E’ nato come "Seminario lombardo per le missioni estere" il 30 luglio 1850 a Saronno (Milano) dal grande cuore di Pio IX, che diede una vigorosa spinta alle

"missioni estere". Nonostante le enormi difficoltà del suo pontificato, Pio IX desiderava che anche in Italia nascesse un Istituto di clero secolare e di laici sul modello delle "Missioni Estere" di Parigi, braccio destro di Propaganda Fide per l'Asia; nel 1847 comunica all'Arcivescovo di Milano mons. Romilli che nella metropoli lombarda doveva nascere il seminario missionario italiano.

La proposta cade in un terreno fertile. La nascita della "Propagazione della Fede" a Lione (1822) e le sue iniziative e riviste popolari avevano già infiammato il

giovane clero ambrosiano. Padre Angelo Ramazzotti, superiore degli Oblati di Rho, fin da ragazzo sentiva un forte amore per le missioni e aveva orientato

alcuni giovani chierici e sacerdoti all'apostolato missionario, inviandoli ad ordini e congregazioni religiose: si propone quindi a mons. Romilli per la nascente opera e fonda il "Seminario lombardo per le missioni estere" nella sua casa paterna di Saronno, con i primi cinque sacerdoti milanesi e due laici (nel 1851 si trasferisce a Milano).

Il "Seminario missionario" venne tenuto a battesimo dalla conferenza episcopale di Lombardia: i Vescovi firmano l'atto di fondazione il 1° dicembre 1850, con un testo che, secondo il Card. Carlo Maria Martini, "esprime la teologia della Chiesa locale e la sua missionarietà in termini che precorrono il Vaticano II". Infatti, quei Vescovi affermano di non essere "trattenuti dal timore di perdere qualche soggetto ai bisogni della Diocesi"; ma che anzi "è interesse di ogni Chiesa particolare la dilatazione della Chiesa universale, e ciascuna Diocesi è in qualche modo tenuta a fornire per questo intento il suo contingente di milizia apostolica": così istituiscono il loro "Seminario provinciale" per le missioni, augurandosi che "anche altrove, massime dove abbonda il clero, aprano i Vescovi ai loro giovani ecclesiastici con favore questa carriera... formino di siffatti Istituti provinciali per la prova, l'educazione e l'assistenza degli aspiranti alle Missioni Estere".   

Come Pontificio Istituto Missioni Estere, il Pime è nato per volontà di un altro Papa, Pio XI, che nel 1926 unì il “Seminario lombardo per le Missioni Estere” con il "Pontificio Seminario dei Santi Apostoli Pietro e Paolo di Roma per le Missioni Estere”, fondato a Roma nel 1871 da mons. Pietro Avanzini con caratteristiche simili a quello di Milano e approvato da Pio IX nel 1874: ha inviato i suoi membri in Cina, Messico, Australia, Sudan, Egitto, Stati Uniti a servizio delle Chiese locali. (Piero Gheddo) 


Clima missionario del 900 

Padre Gaetano Filippin lasciava il seminario diocesano di Treviso per entrare nel seminario missionario di Milano quando Padre Paolo Manna (1872-1952), ora Beato, ritornato per malattia dalla Birmania, (l’attuale Myanmar), si prodigava con tutte le forze a diffondere in Italia l’ideale missionario. Con il motto “Tutta

la Chiesa per tutto il mondo”, animava anzitutto il Clero, fondando “L’Unione Missionaria del Clero” (1916). Nacque l’Enciclica “Maximum illud”, la lettera

apostolica che nel 1919 Benedetto XV inviava all’indomani del primo conflitto mondiale per imprimere nuovo vigore alla spinta missionaria della Chiesa. 

Paolo Manna da Milano con i suoi scritti cercava di scuotere le coscienze; egli nel 1912 incontrò a Treviso il compianto mons. Luigi Saretta, direttore del settimanale diocesano “La vita del Popolo” che da allora iniziò a presentare ai lettori il problema missionario.  Missionari reduci dalle missioni presentavano le loro testimonianze. Così un giovane, Piero Bonaldo, racconta gli inizi della sua vocazione: “Mi ricordo ancora la nobile figura di Mons. Giovanni Menicatti, rimpatriato dalla Cina per malattia ed instancabile nel predicare la idea missionaria nelle città e nelle campagne. Rimasi incantato, nella Chiesa parrocchiale di Scorzè, alla vista delle scene di vita missionaria che il simpatico Vescovo proiettava con la lanterna magica e spiegava con calore, mettendo in tutti un grande fervore e suscitando nel cuore i primi germi della vocazione alle Missioni. 

Anche Angelo Roncalli, giovane prete bergamasco divenuto Giovanni XIII aveva conosciuto padre Paolo Manna.  Patriarca di Venezia, nel discorso tenuto a Milano l’8 marzo 1958 in occasione del trasporto da Venezia a Milano della salma di un suo predecessore, mons. Angelo Ramazzotti, disse del Pime: “La creazione missionaria più insigne in terra d’Italia in quest’ultimo secolo.”


Padre Gaetano Filippin inizia con don Vittorio D’Alessi   

Il giovane di Castelcucco (TV), Gaetano Filippin (1895-1972), entrato nel seminario diocesano di Treviso, conobbe la possibilità di passare al “Seminario per le missioni” di Milano nel 1914. Dovette attendere e sormontare vari ostacoli da parte dell’ambiente e degli stessi superiori: una volta fu perfino rimproverato per aver parlato di “missioni” coi suoi compagni; ma finalmente gli fu concesso di lasciare il seminario di Treviso per quell’altro. Giunto il momento dell’ordinazione sacerdotale, essendoci anche le difficoltà giuridiche sopra accennate, pensò di rivolgersi al vescovo della sua diocesi di origine. Ecco come egli ne parla.

“Durante le vacanze autunnali del 1921, desideravo tanto d’essere ordinato Diacono. Ero suddiacono dal sabato santo. Mi presentai a Mons. Longhin e gli apersi il cuore. —Si, caro, ben volentieri? — mi rispose. — L’ultima domenica di luglio, festa del Redentore, celebrerò la Messa a S. Agnese e là ti ordinerò diacono. — - E per gli esercizi spirituali? - — Va’ in seminario, sta tranquillo, mettiti sotto la direzione del padre spirituale, don Vittorio D’Alessi. — Fu in quella occasione che, con don Vittorio, si maturò l’idea di aprire una casa apostolica a Treviso. Vi ritornai a Natale per la prima Messa solenne. Fui ospite del seminario vescovile, ove celebrai così una delle prime Sante Messe, dove avevo frequentato il ginnasio e il liceo. Intanto si concretava l’idea di aprire in città un focolare, ove si preparassero i futuri missionari trevigiani. Un giorno, don Vittorio, tutto raggiante, mi disse: —Sai che il Vescovo è contento e mi incaricò di vedere un po’ dove e come si potrebbe aprire il nuovo seminario? —

L’ormai “Padre Filippin”, aiutato da vari sacerdoti tra cui mons. Valentino Spigariol, fondatore degli Oblati, potè avviare la sua ricerca di un luogo in città per il nuovo seminario. Dopo “lunghi e laboriosi sondaggi” gli fu offerta la chiesa e annessa casa canonica di S: Martino, sulla riva sinistra del fiume Sile. Poté quindi presentarsi al vescovo: — E dunque? — -Tutto combinato, Eccellenza! - — Deo gratias! Vieni subito con me in Curia e ti firmerò il decreto di nomina a Vicario di S. Martino Urbano; così potrai iniziare l’opera benedetta, che sta tanto a cuore anche a me. All’inaugurazione della casa, Monsignore disse ”Questo Seminario, come il mio diocesano, sarà la pupilla dei miei occhi”.

    

Una perla nel cuore del Vescovo 

Nel Duomo di Treviso il giorno di Pasqua del ’28, Mons Longhin disse: ”Tre cose mi stanno sommamente a cuore: il Seminario diocesano, il Seminario dell’Immacolata e il Collegio Pio X”. Infatti nel settembre 1922, p. Filippin iniziava ad allestire la casa-seminario, con la benedizione del vescovo e coadiuvato da un chierico inviato da Milano, Giuseppe Zanini di S. Daniele del Friuli (UD).

Ai primi di ottobre di quel 1922 il Superiore di Milano p. Armanasco, nominò come primo Rettore p. Francesco Boldrini, un reduce dalla Birmania, e p. Filippin come Vicerettore. Inviò pure 10 seminaristi lombardi a cui si aggiunsero pochi altri locali. Essi venivano chiamati “apostolini” perché, nel linguaggio euforico ed enfatico di quegli anni, erano destinati a diventare ”veri Apostoli, faro di luce confortatrice in mezzo alle paurose tenebre del paganesimo” e, sono le parole di un assistente “piomberanno in fulminea picchiata, rombanti, sulle fortezze di Satana”. Il 17 ottobre arriva da Roma il telegramma del Papa: “Particolarmente lieto vedere la nuova Scuola Apostolica Immacolata Concezione inaugurata Treviso consolante promessa felice incremento missioni estere Augusto Pontefice invia di cuore implorata benedizione. Augurando spirituale prosperità. Card. Gasparri.”

Mons. Longhin invia la seguente lettera al Rettore del nascente seminario: “Rev.mo Padre, siamo grandemente lieti che nella nostra città sia stato aperto un seminario per le Missioni Estere sotto gli auspici di Maria SS.ma Immacolata, destinato ad accogliere i giovanetti della regione veneta che dimostrano vocazione apostolica. Esprimiamo tutto il nostro compiacimento per questa nuova istituzione, che fu ripetutamente benedetta e incoraggiata dal S. Padre, sicuri che attirerà abbondanti benedizioni sulla città e Diocesi tutta. Facciamo vivo appello ai Rev. di Sacerdoti e a tutti i nostri figli di aiutare colla preghiera e colle offerte il nuovo seminario che prendiamo sotto la nostra protezione, mentre impartiamo con particolare affetto al Rettore, ai Superiori ed agli apostolini la nostra Pastorale Benedizione”.


I primi mesi... sovrana la polenta    

Come avviene spesso nella Chiesa, anche se le benedizioni erano larghe, le condizioni materiali iniziali furono davvero ristrette. Così le descrive il chierico Zanini: “C’erano tre camere e due corridoi, compreso quello di ingresso, che serviva da ricreazione coperta. Una camera per il Rettore, p. Francesco Boldrini che sapeva raccontare tante storielle di animali e di uomini, perfino in tempo di studio; un’altra per il Vicerettore p. Filippin, quasi sempre fuori a predicare, ed una terza che serviva da studio per i ragazzi che dormivano e studiavano parte in corridoio e parte in cucina. Non c’erano servizi interni, né acqua corrente, ma in compenso, scorreva lì vicino, lambendo l’orticello della canonica, il limpido Sile un poco più a monte di dove “a Cagnan s’accompagna” (Dante, Paradiso IX, v. 49). In quell’acqua si lavava la biancheria, si riempiva la tinozza che serviva da lavabo per tutti i ragazzi e si riforniva la cucina. I pasti consistevano, la mattina in caffè-latte con polenta, a mezzogiorno un minestrone di fagioli e patate e rimasugli di pasta avuti in dono da qualche caserma, e la sera polenta a volontà con 6/8 fichi secchi in umido a seconda dell’età. Sovrana era la polenta.”   

Nota

Per chi non conoscesse la geografia di Treviso: Il Sile, fiume di risorgiva che nasce a pochi km. A ovest della città, ha una portata costante e notevole, tanto nel giro di neppure 2 Km alimenta 3 centrali idroelettriche. Entra in città da ovest procedendo parallelo al lato sud del quadrilatero irregolare che racchiude con le sue mura la vecchia Treviso. La chiesa di S. Marino di cui qui si parla si trova a metà di questo percorso; poco dopo la chiesa vi è la prima centrale. Da nord entra in città un altro fiume di risorgiva, il Botteniga, che passando sotto le mura, si divide in vari rivoli, tanto che qualche scorcio di Treviso può richiamare Venezia; uno di questi canali è il Cagnan, ricordato da Dante. Tutti si gettano nel Sile prima che esca all’angolo sud-est delle mura, dove vi è pure la seconda centrale; la terza si trova non molto più avanti.     


La visita in quel primo nido 

Il chierico Zanini così racconta una visita di mon. Longhin, scenetta che, egli afferma, si è ripetuta più di una volta: “Cosa gavìo da magnar per stasera, fioi? chiedeva il vescovo Mons Longhin affacciandosi alla porta della povera canonica di san Martino, di ritorno da una sua passeggiata quotidiana per i rioni della città di Treviso, in compagnia del suo segretario. -Polenta e fichi secchi, Eccellenza- rispondeva l’assistente dei ragazzi che era accorso alla porta per accogliere il vescovo. Quanti seu in casa? domandava ancora il buon vescovo. -Quindici ragazzi e tre superiori, eccellenza. - Va ben, doman che è la festa del vostro patrono, S. Francesco Saverio, penserò mi a mandarve un po’ de pan e de vin. - Grazie, eccellenza, di questa carità. Dio ve ne renda il merito. - E don Gaetano dov’elo? -A predicar a Possagno, per poter portare a casa qualcosa da tirar avanti. - Saludemelo tanto; ma vegnì da mi, quando no gavé niente da magnar. S’é boni e ve benedigo tuti.    


Nuova sede in via Zermanese 

Il numero dei seminaristi stava aumentando, ma le ristrettezze erano tali che l’anno successivo si trovò una nuova sede appena fuori città, a sud, oltre la linea ferroviaria, in via Zermanese. P. Eugenio Salvi, un veronese reduce dall’India, successore di P. Boldrini, dovette darsi un bel da fare per sistemare nella nuova sede aule scolastiche, dormitori, cappella, refettorio. Intanto la rivista “Le Missioni Cattoliche” faceva appello ai fedeli della Diocesi per il sostentamento dei Padri e dei seminaristi e la chiesa di Treviso prendeva coscienza che deve essere missionaria e si apriva alla collaborazione a tutti i livelli: vocazionale, spirituale ed economico. Da parte loro anche i seminaristi fin dagli inizi si sentirono impegnati a tessere e mantenere collegamenti con amici e benefattori con qualche foglio di informazione. Mons. Longhin visitava di frequente il seminario, incoraggiando tutti, Superiori e seminaristi. Nel maggio del 1924 P. Filippin si preparava alla partenza per la Cina. Celebrò la Messa nella chiesa di S. Martino e ricevette il Crocifisso dalle mani del Vescovo mons. Longhin che nel Duomo disse:” Io ti benedico, o figlio. Tu parti, e forse non ci rivedremo più qui in terra. Ma ci rivedremo certo in Paradiso, dove ci narreremo le meraviglie che la Provvidenza e la Misericordia di Dio avranno operato in mezzo e per mezzo di noi, suoi umili strumenti.”

Il 3 dicembre 1924, il Vescovo visitò il Seminario per la festa di S. Francesco Saverio, ed il 20 per l’ordinazione sacerdotale del diacono Giuseppe Zanini.

 

A Montebelluna 

Mons. Longhin a conoscenza delle difficoltà che anche la casa in via Zermanese comportava, in quell’anno offrì al PIME la sua villa di Montebelluna. Egli fu sempre vicino ai missionari e anche per suo merito il giornale diocesano “La vita del Popolo” divenne un centro animatore e coordinatore di una catena di simpatia e generosità di tutti i trevigiani. E così l’avvenimento assunse proporzioni insperate. Stralciamo dal numero del 7 ottobre 1922: “Treviso ebbe la bella sorte di essere scelta come sede del nuovo seminario. Ora incombe a noi l’obbligo sacro-santo di aiutare i giovani che entrano, con le nostre preghiere e col nostro obolo. Siamo certi che la gentile cittadinanza di Treviso e tutta la diocesi faranno buona accoglienza al nuovo seminario e vorranno dar prova del loro amore ed interessarsi per tanti fratelli, che non partecipano e non godono i frutti della Cristiana Civiltà. È interessante notare che proprio nel numero successivo del giornale, viene riportato un ordine del vescovo che dà il via a tutta l’organizzazione missionaria in diocesi. L’ordine contiene due novità: la nomina di Don Pietro Boldrin alla direzione dell’ufficio missionario. Il 9 novembre si sarebbe tenuta la prima giornata sacerdotale missionaria. Alla conclusione di quella giornata che ebbe un successo insperato, fu steso un ordine del giorno contenente un programma dettagliato di quanto si doveva fare in tutte le parrocchie per le missioni. L’ultimo numero riguarda anche il seminario delle missioni: “E poiché in diocesi è sorto in questi giorni la Casa Apostolica di S. Martino, tutte le commissioni parrocchiali, senza nulla derogare, ai deliberati sopraesposti, ricordino qualche volta quest’opera che è destinata ad attirare tante benedizioni sul nostro popolo e sulla nostra diocesi.

     

Passo avanti nell’azione missionaria    

Appena tre anni dopo gli inizi, il 14 marzo 1925, Don Daniele Bortoletto, segretario della commissione missionaria, così presentò il resoconto dell’anno missionario 1924: “L’anno 1924 segna un altro passo avanti nell’azione missionaria della diocesi di Treviso. Tre anni fa era nullo e in questi tre anni, per volere e la protezione incondizionata di S. E. Mons. Vescovo, con un lavoro assiduo ininterrotto, mercé lo zelo del clero, lo spirito missionario ha fatto breccia; è penetrato largamente suscitando gli entusiasmi del popolo, portando la nostra diocesi non ultima tra le diocesi d’Italia in questo campo.” Nel resoconto la cifra più bella, era: 40 vocazioni missionarie. Mons. Longhin mentre all’inizio, assillato da altri problemi, sembrava ostacolare questa sensibilità missionaria, superati i primi indugi, divenne l’animatore più entusiasta dei frutti che la diocesi stessa avrebbe ricavato. Potremmo ricordare i suoi calorosi appelli per le Giornate Missionarie Mondiali, i chiari rimproveri per chi ancora non lavorava bene per le missioni, gli incoraggiamenti per ogni nuova iniziativa. Lui stesso descrive la sua evoluzione il 2 febbraio 1926: “Pareva prima che la nostra diocesi non dovesse interessarsi a questo soccorso: invece fu così fervido lo slancio, così generoso il contributo, che fin dai primi anni raggiunse uno dei principali posti nella classifica delle offerte. Nell’ottobre del 1926 alla “Madonna Grande” vi fu un altro invio di missionari con il discorso tenuto dal vescovo.  La promozione della coscienza missionaria era divenuta un suo preciso impegno di pastorale diocesana. 


Devozione e affetto per Mons. Longhin 

Al vescovo, in occasione del suo venticinquesimo di episcopato (1904-29) dal seminario missionario furono inviate queste parole di gratitudine: “La Pasqua gloriosa del vostro venticinquesimo vuol essere celebrata dai superiori ed apostolini della Vostra Treviso con maggior gaudio e solennità quale si addice all’imminente solennità. Con gioia. ed amore questo Istituto missionario del Papa gode di trovare nel cuore pastorale e paterno di V. Eccellenza Ill.ma e Rev.ma l’affetto e la sollecitudine che l’ha fatto nascere e crescere, si raccoglie attorno a Voi per augurare le più elette benedizioni e per dirvi che da tutti si è pregato e si prega secondo le Vostre intenzioni. Dal principio della Quaresima i Padri hanno fatto un memento speciale per V. Eccellenza, e gli apostolici offrono S.S. Comunioni, assistono a S.S. Messe, e spigolano tanti fiori per offrire a V. Eccellenza in occasione del Giubileo Episcopale. Si degni Vostra Eccellenza di accogliere questo florilegio spirituale quale espressione sincera della gratitudine, venerazione ed ossequio di tutti noi e favorirci una speciale benedizione caparra di copiosi frutti spirituali per i S.S. Esercizi che incominceranno lunedì sera e per lo sviluppo del nostro Seminario che vuol essere vostro gaudio e Vostra corona. Prostrati al bacio del S. Anello di V. Eccellenza dev.mi ed ubb.mi Superiori e alunni.”

 

Piazza Rinaldi  

Benché sistemati nella villa del vescovo, a Montebelluna, era desiderio di tutti ritornare in città. Ben presto si rese disponibile la sede del Collegio Vescovile “Pio X”, che da piazza Rinaldi venne spostata in borgo Cavour, dove tuttora si trova.

P. Piero Bonaldo, che all’epoca, a 11 anni, era appena entrato in seminario, così ricorda quel trasloco: “Il 3 ottobre 1926 gli Apostolini fecero il loro ingresso in Piazza Rinaldi, arrivandovi su un camion al canto di «Gesù, lo sguardo amabile». L’attrezzatura era molto povera, ma nessuno di noi badava a sacrifici che oggi potrebbero sembrare impossibili. Eravamo ormai in casa nostra e sapevamo che tutto serviva per allenarci ad affrontare le privazioni che la vita missionaria ci avrebbe riservato. Mi ricordo ancora la prima cena: una scodella di minestra di verze, una manata di fichi secchi ed una fetta di polenta abbrustolita... distribuita personalmente ai singoli dal vecchio domestico Federico che condiva tutto con belle frasi trevisane suscitando la più schietta ilarità. Poi, un po’ alla volta, le cose migliorarono. Qualche settimana dopo eravamo già in grado di ricevere trionfalmente un folto numero di Apostolini, provenienti dalla Lombardia, portando così il nostro numero a più di 90 aspiranti missionari. P. Salvi era Economo e Confessore. Nuovo Rettore era P. lsidoro Pagani che, col suo fervido zelo apostolico, sostenne e guidò la nostra vocazione missionaria ed attirò verso la nostra Opera le simpatie del Clero e dei Fedeli di tutta la Diocesi. Eravamo ancora in fase di assestamento quando, nel mese di ottobre del 1926, passarono da Treviso alcuni nostri Missionari, che dovevano imbarcarsi a Venezia, diretti in India e Birmania. In Duomo ebbe luogo una funzione solenne di addio, alla quale prese parte tutta la cittadinanza. Mi ricordo che i partenti furono ospitati in un dormitorio adiacente al nostro. Un’ora prima della cena, P. Pagani si accorse che i piatti non bastavano e che non c’era frutta... Ebbi proprio io l’incarico di fiducia di andare da Fontebasso ad acquistare stoviglie e poi in Piazza S. Vito a comperare un po’ di «pomi» profumati. Ero appena un ragazzo, ma mi sembrava di essere «el paron de casa!». Con quanto entusiasmo salutammo i Padri... e come avremmo voluto seguirli verso le terre lontane. 

Nota

Ottobre del 1926. Partivano per la Birmania: Antonio Farronato, di Ezelino da Romano (PD), vi mori nel ’31; Angelo Cassia di Bergamo, vi morì nel ’32; Ferdinando Guercilena di Montodine (Crema), vi divenne vescovo e dopo 46 anni di Birmania, morì a Lecco nel ’73. Partivano per l’India: p. Faustino Lenti di Milano che rientrerà nel ’31 e p. Emilio Pigoni, entrato nel seminario di Roma da Parma, morirà 2 anni dopo. Il 1926 è l’anno in cui i 2 seminari missionari, di Milano e di Roma, confluiscono nel PIME.


Trasformazioni interne  

L’anno scolastico 1926 ebbe inizio nel tardo autunno. Venne l’inverno e del riscaldamento non c’era neanche il fumo! P. Pagani andava mendicando per noi patate, fagioli, salami e «musetti», e noi gli facevamo gran festa, quando arrivava a casa stanco e felice. Alle preghiere della sera aspettavamo la sua parola calda e paterna: ci raccontava i fatti più importanti della giornata, alle volte ci rimproverava ed allora la sua voce si velava di tristezza. Negli anni 1928 e 1929, la casa subì alcune trasformazioni interne, che furono possibili grazie all’aiuto dei benefattori e del fedelissimo nostro tecnico Comm. Celestino Valz Brenta. In quegli anni venivamo istruiti da un corpo insegnante composto in gran parte da Sacerdoti trevigiani esemplari e competenti: mentre alla nostra formazione spirituale collaborarono efficacemente il sempre presente Mons. Valentino Spigariol, don Giuseppe Bollato, confessore di suor Bertilla, e don Giuseppe Sommavilla, che era intimo di P. Salvi e lo volle festeggiare in occasione del 50° di Messa. I Chierici prefetti, gli assistenti dei ragazzi, frequentarono per diversi anni i corsi teologici nel Seminario diocesano. Nei giorni stabiliti per le Confessioni, mentre noi eravamo in attesa alla porta di P. Salvi, ci capitava di tanto in tanto di vedere il Vescovo di Treviso arrivare vicino a noi, per mettersi in coda ad attendere il suo turno ed entrare a fare anche lui la Confessione. Noi volevamo cedergli il postò, ma Mons. Longhin non accettava e voleva attendere in raccoglimento. Avevamo sotto gli occhi un esempio vivente di fede, di pietà e di umiltà.  Nel 1935 P. Pagani lasciò Treviso e fu sostituito prima da P. Guglielmo Sinelli e poi da P. Amato Maquignaz. Nell’anno scolastico 1938-39, venne P. Emilio Terruzzi, che, alla fine dell’anno, ritornò ad Hong Kong e, dopo poco tempo, morì trucidato. L’opera nostra si era intanto consolidata e gli anni si susseguirono con ritmo normale fino al 1940“quando in giugno scoppiò la guerra.

 

La visita di Mons. Mantiero al seminario  

Mons. Longhin era morto il 26 giugno 1936. Leggiamo ora il testo della cronaca.

“Giorno di festa è stato il 17 dicembre 1936 per il Seminario dell’Immacolata perché ha avuto l’onore di avere una delle prime visite di S.E. Mons. Mantiero, il nostro pastore della diocesi di Treviso. Ricevuto in forma solenne dai Padri e dagli Apostolini al portone di casa, S.E. si recava subito all’altare dove offriva il S. Sacrificio mentre la Schola Cantorum eseguiva magistralmente scelti e appropriati mottetti.  Dopo la Santa Messa, S.E. rivolse calde e infuocate parole agli Apostolini incitandoli a conoscere sempre meglio Gesù, a prepararsi a essere santi missionari. Dopo il caffè, Padri e Apostolini si radunarono attorno a S.E. Uno dei Padri lesse un indirizzo augurando a S.E. i “dies pleni” della Scrittura e la gioia di poter celebrare la beatificazione del gran Papa trevisano, Pio X e di suor Bertilla. L’indirizzo diceva inoltre che gli Apostolini di questa specie, se trevisani, una volta in missione si glorieranno sempre di essere missionari trevisani e si sforzeranno di tenere alto nelle lontane terre il nome della Chiesa di Treviso. S.E. sì compiacque di rispondere e fra l’altro affermò che la vocazione missionaria è la più grande, la più elevata, la più sublime di tutte, quasi anche quella del vescovo che pure ha la pienezza del sacerdozio, a causa dei grandi sacrifici che comporta la corrispondenza a si eccelsa vocazione. Terminava promettendo di venire ancora e di fermarsi di più a lungo. Gli Apostolini fecero ottima impressione a S.E. “Che bei occhi hanno! diceva. Ne ho visti tanti diventare rossi e coprirsi di lagrime mentre parlavo loro: avrei parlato loro ancora per un’ora”.  Il vescovo lasciava il nostro seminario accompagnato dalle vibranti acclamazioni degli alunni e della folla che, frattanto, si era radunata in Piazza Rinaldi”.        

       

La guerra e i bombardamenti 

L’attività del seminario proseguì tra le ristrettezze imposte per il tempo di guerra iniziata 1º settembre 1939. Ma il 7 aprile del ’44, Venerdì Santo, Treviso, nodo ferroviario importante sulla linea Italia-Germania e nel cui “Palazzo della Borsa” si era allora insediato il comando tedesco, fu bombardata dagli alleati provocando grossi danni e un migliaio di morti. Il palazzo di Piazza Rinaldi allora non fu toccato, ma si decise di sfollare. Il parroco di S. Michele di Piave, don Luigi Malvestio, offri un rustico in cui si poté completare l’anno scolastico. Il posto era pericoloso per il passaggio di molti tedeschi in ritirata; prima dell’apertura del nuovo anno scolastico si accettò il soccorso di mons. Tognana che a S. Cristina, un paese a una decina di Km. a ovest della città, mise a disposizione del seminario buona parte della sua casa-canonica. Il bombardamento del 7 marzo ’45 colpì anche il palazzo del seminario, ma già dal 25 aprile vi si poté mettere mano per renderlo nuovamente agibile. Da allora e per tutti gli anni 50 ospitò ogni anno un centinaio di alunni che vi facevano le medie.

Scrive p. Pietro Bonaldo: “Ben ottanta Apostolini erano in casa quella mattina (il giorno del bombardamento) e fu un vero miracolo se, in mezzo a tanta distruzione, non ci fu tra noi nessuna vittima. Gli Apostolini tornarono in famiglia interrompendo gli studi e privi di assistenza. Mons. Antonio Mantiero offri ai più grandi la possibilità di frequentare i corsi nel Seminario Vescovile, sfollato a Vedelago e per i minori la Provvidenza preparò una casa colonica a S. Michele di Piave, dove fummo accolti con grande simpatia da don Luigi Malvestio, che, assieme agli ottimi parrocchiani, fu generoso dl assistenza materiale e morale. Ma neppure lì la guerra ci lasciò tranquilli.

Finalmente il Signore ci fece incontrare Mons. Lorenzo Tognana a Santa Cristina. Quel santo Sacerdote ci offrì la sua casa, riservando per sé lo spazio strettamente necessario.

Ai primi di novembre arrivammo alla spicciolata. Molte famiglie del luogo si erano offerte spontaneamente a trasportare le nostre masserizie coi carri, arrischiando incontri poco graditi e mitragliamenti, mentre don Luigi Spolaore sudava assieme a noi per avviare gli orari di Seminario, in modo che la comunità potesse partecipare in pieno alla vita religiosa della parrocchia. Intanto la guerra si avvicinava a Treviso.

La sera del 13 marzo 1945, alle ore 20,15 Treviso fu nuovamente bombardata, mentre noi atterriti assistevamo alla tremenda distruzione dal campanile di S. Cristina. Anche il nostro Seminario fu duramente colpito e P. Santinon, P. Frare e Giuseppe Bonolo, si salvarono fuggendo. Da Santa Cristina partirono subito carri e volontari, che ci aiutarono con slancio a salvare il salvabile...

Finita la guerra, cominciammo a sistemare il fabbricato fino a renderlo ancora abitabile.  

 

Ritorno a Piazza Rinaldi 

Demmo l’addio a S. Cristina ai primi di luglio, ringraziando il Signore di poter rientrare tutti sani e salvi a Piazza Rinaldi, che andava rinascendo dalle rovine.

P. Maquignaz, ormai vecchio e provato dalle tribolazioni della guerra, lasciò Treviso, consegnando gli Apostolini a P. Umberto Galbiati, che un anno e mezzo dopo partì col primo scaglione di Missionari del P.I.M.E. destinati al Brasile.

Gli successe P. Narciso Santinon il 17 febbraio 1948. Alla sua partenza per Hong Kong nell’Agosto del ’53 venne sostituito da P. Celso Caugig. Dopo di lui la direzione passò a P. Floriano Forestan. Si cominciò allora a pensare ad una nuova sistemazione del vecchio seminario. Ricostruire nello stesso luogo o portare tutto in ambiente più ampio, presentando ai Superiori Maggiori il terreno acquistato lungo il Terraglio. P. Gaetano Filippin, Rettore dal 1961, dopo 25 anni di Cina e 10 di Brasile, era pronto a ricominciare da capo con entusiasmo giovanile.

 

Padre Gaetano Filippin, Rettore del seminario da Piazza Rinaldi a Preganziol  

Espulso dalla Cina nel ’48, da Mao-Tse-Tung, p. Filippin riprende in mano le sorti del Seminario.  Ripartì per il Brasile nel ’51 e dieci anni dopo venne richiamato e nominato Rettore a Treviso. Viste le ristrettezze a Piazza Rinaldi incominciò a darsi da fare per una nuova sede in via Terraglio. Il “Terraglio” è un viale che in pochi chilometri, da nord a sud, quasi in linea retta, collega Treviso con Mestre-Venezia. Vicino alla città è fiancheggiata da abitazioni che man mano si diradano e vi appaiono, separati da terreni messi a coltivazione, parchi e “Ville Venete”. Là, nelle vicinanze della città, con buoni collegamenti pubblici col centro, era stato individuato un ampio terreno che fu ritenuto adatto per il nuovo seminario. P. Filippin interessò al progetto i missionari reduci perché vi contribuissero con la loro esperienza; sapeva infatti che il missionario è spesso costretto a divenire ingegnere, architetto, impresario e…manovale nella costruzione di chiese, ospedali, seminari... L’elaborazione dell’architetto Roberto Fontana risultò di comune gradimento e se ne decise la costruzione.

La cerimonia ufficiale della posa della prima pietra del nuovo Seminario avvenne il 7 giugno 1966 alle ore 18. Erano presenti l'Ecc.mo Vescovo della Diocesi, S. E. Mons. Antonio Mistrorigo, che compì la cerimonia, il Superiore Generale del P.I.M.E., S. E. Mons. Aristide Pirovano, P. Pietro Bonaldo, Superiore Provinciale della Provincia settentrionale e varie altre personalità. Si dava così inizio ad una nuova epoca della storia del P.I.M.E. in terra trevigiana.  Il nuovo Seminario sarà grande, capace di circa centocinquanta seminaristi, di linee architettoniche semplici e che favoriscono la sua piena funzionalità. La zona è veramente bene indovinata: pochissime costruzioni, così che si è potuto isolare il Seminario in un vasto terreno, dove trovano posto ampi ed ariosi cortili, campi da gioco e tutto ciò che può favorire e garantire una vita sana e serena ai ragazzi.


Mons. Mistrorigo all’ inaugurazione del nuovo seminario di Preganziol 

Ecco il discorso che il vescovo di Treviso, mons. Antonio Místrorigo, pronunciò inaugurando il nuovo seminario del P.I.M.E. alla periferia della città, il 29 giugno 1967. È un testo che ci pare altamente significativo per avviare una più stretta collaborazione fra diocesi e istituti missionari, al di là del caso particolare rappresentato dalla diocesi di Treviso e dal P.I.M.E. 

 

Unione fra diocesi ed istituti   

È una giornata indimenticabile, questa: per i bravi missionari del P.I.M.E., che vedono coronati di successo tanti loro sforzi e speranze, e per la diocesi, che partecipa a questo avvenimento dell'inaugurazione d'un nuovo seminario missionario come ad una cosa sua. È con questo spirito che noi oggi siamo qui presenti, per sentire con i missionari i grandi problemi della Chiesa, per realizzare con loro un migliore lavoro nella Chiesa ed al servizio dell'umanità.  Noi tutti lo sappiamo: i missionari da soli non bastano più e le diocesi da sole non possono dare un impulso sufficiente all'evangelizzazione del mondo non cristiano. Bisogna quindi mettere assieme le forze, sentirci uniti senza alcuna distinzione e lavorare uniti per l'unico scopo, che è di portare Cristo a tutte le genti e di fondare la Chiesa presso tutti i popoli. Convinti di questa necessità d'unione fra diocesi ed istituti, abbiamo voluto dare l'esempio nella nostra diocesi di Treviso.

Il seminario missionario che oggi inauguriamo, noi lo consideriamo come nostro, pur nel rispetto dell'autonomia di vita interna di cui esso deve godere. L'esempio più bello di questa nostra unione e collaborazione l'abbiamo dato questa mattina, consegnando il crocifisso a quattro missionari partenti per la lontana terra africana del Camerun: due di essi sono del P.I.M.E. e due sono nostri sacerdoti diocesani. Sono missionari di due famiglie, ma che sono diventati d'una sola famiglia, perché avviati ad un'unica impresa apostolica, indivisibile, da compiere assieme aiutandosi a vicenda e mettendo ciascuno a servizio dell'altro quanto di meglio ha da offrire. L'unico crocifisso che abbiamo consegnato ai quattro missionari è il segno della loro unione per un unico servizio.  

  

Il seminario non è solo dei missionari    

La vita di un seminario è anche vita di una diocesi e oltre. Essendo il nostro un seminario missionario si sentiva attorno ad esso una passione diffusa, vissuta, una disponibilità a sentirsi uniti con chi donava la vita per l’annuncio del Vangelo.  Lo afferma bene Mons. Mistrorigo nel discorso d’inaugurazione: “Ecco perché oggi è la festa della diocesi intera, oltre che dei missionari del P.I.M.E. Noi non saremo cattolici se non saremo missionari. Lo spirito missionario è il termometro infallibile della nostra vita cristiana. Il Signore benedica di più, oggi, per questo, tanto la diocesi che i missionari, che cercano assieme, con buona volontà, un modo nuovo di servire la Chiesa e l'umanità, un modo nuovo per sommare, per moltiplicare le forze, affinché non restino divise. (…) Il seminario non è solo dei missionari, è anche della diocesi, è per tutta la diocesi: per questo è qui il Vescovo ad inaugurarlo e per questo anche sono qui molti sacerdoti e fedeli e molte autorità cittadine, che ringraziamo della loro presenza. (…) Il Vescovo è dunque qui per prospettare alla diocesi una nuova dimensione missionaria, che ci fa abbracciare tutto il mondo, che crea in noi interessamento per tutti gli uomini. Una dimensione missionaria nuova che ci farà camminare fianco a fianco, in unione di forze e di intenti, con il Pontificio Istituto Missioni Estere, questo antico e glorioso istituto missionario che ci aiuta ad esprimere ed a realizzare la nostra missionarietà diocesana. Il seminario missionario che oggi inauguriamo sia benvoluto da tutti, visitato, aiutato da tutti. Per questo spirito missionario, la diocesi nostra è più completa, più funzionante; tutte le cellule della sua vitalità, tutte le organizzazioni cattoliche saranno così rinnovate da questo spirito nuovo. Sia questo seminario come la semente feconda, che fruttifichi e dia frutti abbondanti per la diocesi, per i missionari del P.I.M.E., per tutta la Chiesa”.    

   

Mons. Aristide Pirovano: Il lavoro apostolico del PIME  

Leggiamo il discorso che mons. Aristide Pirovano, superiore generale del P.I.M.E., aveva preparato per l'inaugurazione del seminario missionario di Treviso e che poi non poté leggere perché degente in quel giorno in ospedale. Mons. Pirovano era da poco tornato da un lungo viaggio in Estremo Oriente. Ci pare che questo testo completi bene quanto dice il Vescovo di Treviso nel discorso pubblicato nella stessa celebrazione.

Eccellenza reverendissima, autorità qui presenti, cari sacerdoti e amici, sono appena tornato da un lungo viaggio attraverso il mondo, durato in tutto, a varie riprese, quasi- due anni. Sono potuto venire a contatto diretto con tutti. i missionari del P.I.M.E. sparsi in tre continenti, impegnati a fondare la Chiesa ed a servire le Chiese locali in sviluppo. Vedendo sul posto le realizzazioni compiute in più d'un secolo di lavoro apostolico, il mio pensiero è andato spesso alle diocesi italiane che hanno dato al P.I.M.E. la possibilità concreta, in uomini, in mezzi, in preghiere ed appoggi d'ogni genere, di rispondere positivamente e generosamente agli inviti di Dio e della Santa Sede. Ho ancora negli occhi e nel cuore, in questo momento, la visione di tante missioni che anche per me sono state una scoperta: in Giappone, ad Hong-Kong, nelle Filippine, in Birmania, nel Pakistan, in India, in Africa, negli Stati Uniti, nel Brasile e nella cara e mai dimenticata Amazzonia: passando di paese in paese, di diocesi in diocesi, di missionario in missionario, si è venuto formando in me un sentimento profondo e commosso di riconoscenza a Dio anzitutto e poi alle diocesi italiane.

  

Le diocesi ci hanno donato a Dio

Mons. Pirovano continua. Un sentimento che desidero esprimere qui, a Treviso, da cui il P.I.M.E. ha tanto ricevuto, ma che vale per tutte le diocesi, per tutti i Vescovi d'Italia: quello che abbiamo fatto, amici, quello che Dio ci ha permesso di fare, ed è tanto, veramente tanto come nemmeno io immaginavo, lo dobbiamo a voi dopo che a Dio, a voi che ci avete aiutati, che avete mandato i vostri giovani ad arruolarsi nelle nostre file, che ci avete accompagnati con le vostre preghiere ed il vostro affetto. Grazie a tutte le diocesi italiane e grazie soprattutto a Treviso che, dopo Milano, dove il P.I.M.E. è stato fondato, è la diocesi che conta più missionari nel nostro Istituto, quella dove il P.I.M.E. ha maggiori tradizioni e ricordi. E vorrei dire di più: quello che abbiamo fatto è vostro, l'avete fatto voi per mezzo nostro, poiché noi missionari del P.I.M.E. non abbiamo altra ambizione che quella di rappresentare, ovunque andiamo, le diocesi che ci hanno donato a Dio ed all'opera di evangelizzazione del mondo non cristiano. Il  nuovo seminario missionario che Lei inaugura oggi, Eccellenza, mi pare che riassuma in sé tutto il discorso che sono venuto facendo. Il seminario è vostro, della diocesi di Treviso, perché voi l'avete costruito con i vostri aiuti, perché voi lo riempite di ragazzi, di futuri missionari, perché voi della diocesi di Treviso, e delle diocesi vicine, lo sostenete con aiuti spirituali e materiali, con l'affetto e la comprensione. Non è un corpo estraneo nel tessuto connettivo della diocesi, questo seminario: è invece, ed io voglio che, per quanto da noi dipende, esso sia sempre più, una cellula viva, una cellula missionaria della diocesi di Treviso e delle diocesi vicine.  Ed allora, che cosa fa il P.I.M.E. in questo seminario? II P.I.M.E. è qui per formare i missionari, per aiutare le diocesi in questa delicatissima opera da cui dipenderà domani l'efficienza dell'apostolato missionario.  (…) 


Collaborazione fra diocesi e Istituti missionari  

Mons. Pirovano continua. Il P.I.M.E. dunque è qui per aiutare le diocesi nella formazione dei missionari, mettendo a frutto il capitale d'una esperienza e d'una tradizione che hanno più d'un secolo di vita: non solo nella formazione dei giovani durante gli anni di seminario, ma formazione ed assistenza sul campo del lavoro, inserendo i novelli missionari in un sistema di vita comunitario che li aiuterà a superare ogni tentazione di scoraggiamento e d'abbandono; che deve loro permettere di diventare - indiani con gli indiani, africani con gli africani, brasiliani con i brasiliani. (…) II desiderio nostro, di noi missionari del P.I.M.E., è di esprimere ancora meglio la dipendenza che ci lega alle diocesi italiane, come sempre in passato, ma oggi secondo forme adeguate alla sensibilità post-conciliare; rendere più chiaro che noi esprimiamo, con il lavoro missionario, non qualcosa di nostro, ma semplicemente la missionarietà delle diocesi italiane che ci hanno mandati. (…) E mi pare che la partenza, oggi, da questa città missionaria di Treviso, dei primi quattro missionari per il Camerun, voglia significare proprio questo: che nel risveglio missionari, che sta vivificando la nostra Italia, si apre una nuova e luminosa via da percorrere assieme, quella della collaborazione sempre più stretta fra diocesi e Istituti missionari, della fusione anche sotto la guida dei vescovi per una maggior efficacia dell'apostolato missionario nel mondo.

 

Insieme per un'unica missione  

P. Severino Crivella Assistente Generale del P.I.M.E. sviluppa il tema della fraternità sacerdotale. “Fin dagli inizi, tra i sacerdoti diocesani di Treviso e i missionari del PIME, sono stati vissuti i valori della fraternità sacerdotale, dell’aiuto reciproco, e di una fruttuosa collaborazione per l’annuncio del Vangelo in Diocesi e nei Paesi di missione. (…)

Il Concilio, del resto, tra i compiti che gli istituti missionari sono chiamati ad assolvere, ha affidato pure questo: «Essi devono essere pronti a formare e ad aiutare con la loro esperienza coloro che si consacrano all’attività missionaria solo temporaneamente» (AG 27). Il PIME, accogliendo questo invito del Concilio, ha offerto la propria disponibilità a cooperare con quelle diocesi italiane pronte ad usufruire della sua esperienza per inviare, fianco a fianco ai suoi missionari, i loro sacerdoti e laici in terra di missione. Sia pure in tempi successivi, tre diocesi, Treviso, Gorizia e Belluno-Feltre hanno così chiesto di poter iniziare un «gemellaggio» con il PIME in vista di un impegno comune di evangelizzazione ad gentes. Mi piace sottolineare il fatto che queste tre diocesi sono tutte del Triveneto. (…)

     

Sacerdoti e laici in missione 

“L’opera di evangelizzazione dei non cristiani incombe alla chiesa intera e in particolare al Collegio Episcopale e ai singoli Vescovi” (AG 29,38). Anche i sacerdoti e i laici sono chiamati dal Concilio Vaticano Il a dare il loro aiuto alle Chiese di missione. Infatti: «Il dono spirituale che i Presbiteri hanno ricevuto nell’ordinazione non li prepara ad una missione limitata e ristretta, bensì a una vastissima e universale missione di salvezza» (PO 10). «I Laici cooperano all’opera evangelizzatrice della Chiesa, partecipando insieme come testimoni e come vivi strumenti alla sua missione salvifica soprattutto quando, chiamati da Dio, vengono dai Vescovi destinati a quest’opera» (AG 41). Sulla spinta di queste indicazioni del Concilio, veramente innovatrici per l’impegno missionario della Chiesa, in questi anni il numero dei sacerdoti e dei laici che hanno sentito l’esigenza di dedicarsi, sia pure temporaneamente, all’opera di evangelizzazione nelle Chiese di missione o in quelle dell’America Latina dove mancano forze sufficienti per quest’opera fondamentale, è andato sempre più aumentando. Sono sorti così organismi, come il CEIAL (Centro Ecclesiale Italiano per l’America Latina), il CEIAS (Centro Ecclesiale Italiano per l’Africa e l’Asia), la FOCSIV (Federazione Organismi Cristiani di Servizio Internazionale Volontario) che si propongono di favorire la preparazione, l’invio e l’assistenza di questi sacerdoti e laici.

     

Treviso, Gorizia, Belluno-Feltre in missione col PIME  

Ancora Padre Severino Crimella. I Vescovi vogliono stimolare una pastorale sempre più missionaria, sempre più aperta, sempre più universale. Noi missionari, figli di questa Chiesa, siamo felici di poter offrire ancora il nostro servizio affinché il suo impegno missionario non conosca limiti e frontiere. Il 29 giugno 1967 il Vescovo di Treviso, Mons. Antonio Mistrorigo consegnava il crocifisso a quattro missionari, due sacerdoti diocesani, don Mario Bortoletto e don Angelo Santinon, e due padri del PIME, P. Giovanni Belotti e P. Giorgio Granziero destinati alla stessa missione di Ambam nella diocesi di Sangmelina in Cameroun. Il 12 dicembre 1972 il Superiore Generale del PIME, Mons. Aristide Pirovano firmava il contratto con il Vescovo di Gorizia, Mons. Pietro Cocolin, con il quale l’Istituto si impegnava ad assicurare la presenza di un suo missionario nel gruppo diocesano, sacerdoti, suore e laici, che partivano per la Costa d’Avorio nella missione a loro affidata dal Vescovo di Bouakè. Dopo qualche tempo in questo gruppo si inserivano anche due fratelli missionari laici del PIME. Nel giugno 1980, mandato dal Vescovo di Belluno-Feltre, Mons. Maffeo Ducoli, Don Claudio Sacco raggiungeva un’altra missione della diocesi di Bouakè, Sakasso affiancandosi al P. Giovanni De Franceschi del PIME già presente sul posto”.

  

Questi gli inizi. E oggi?  

Ai primi missionari diocesani e dell’Istituto sono succeduti altri, alcune situazioni sono cambiate, ma l’esperienza continua, nonostante i problemi più che comprensibili per questo tipo di collaborazione. Paolo VI durante l’incontro con i missionari del PIME al termine della loro Assemblea Generale del 1972, commentando la prima esperienza di questa cooperazione tra l’Istituto e le Diocesi, così si esprimeva: «Ottima questa iniziativa. Anche in questo siete stati dei pionieri. Continuate in questo senso poiché è proprio questo il servizio che dovete rendere alla Chiesa Italiana». È una consegna questa a cui il PIME vuoi rimanere fedele, tanto più oggi. La Chiesa Italiana - scrive Don Sergio Marcazzani, già direttore del Centro Missionario Diocesano di Verona, su «Mondo e Missione» (dicembre 1986) -sta vivendo un momento privilegiato e significativo: il passaggio da una missionarietà intesa come attività ad una «dimensione missionaria» posta nel cuore stesso dell’esperienza di ogni comunità». Ne è prova il documento della C.E.I. «Comunione e comunità missionaria». 


Il "mio" santo in cammino 

Mondo e Missione - ottobre 2021

Charles de Foucauld "riletto" attraverso l'esperienza di un missionario del Pime in Algeria, sulle tracce di una Chiesa che continua a gridare il Vangelo con la vita

Padre Silvano Zoccarato, missionario del Pime, ha vissuto dieci anni nel deserto dell'Algeria, dove ha potuto riscoprire la spiritualità, ma anche l'attualità, del "fratello universale". In attesa della canonizzazione, pubblichiamo la prefazione del libro di padre Zoccarato: "Charles de Foucauld, il mio santo in cammino" (Ed. Terra Santa, 2020).


L' esperienza vissuta da Charles, incominciata a Bèni Abbès e proseguita a Tamanrasset in Algeria, per essere il "fratello universale", è quello che illumina quanto vivono ancora i membri della sua famiglia spirituale e missionaria e quanto in parte ho vissuto io stesso; di più: è quello che dovrebbe essere il cristiano oggi, fratello che vede nell'uomo l'immagine di Dio con gli occhi e col cuore, che incontra, accoglie, dialoga, ama e si lascia amare. Nei miei trent'anni in Camerun ero per la gente, ma anche staccato, fisso nelle mie posizioni di missionario. A Touggourt in Algeria invece è stato come dice Papa Francesco nella Laudato si': «Il buon vivere e convivere con tutti e ognuno». Insieme alle Piccole Sorelle di Touggourt ho goduto nelle relazioni con la gente quello che è sentire l'anima delle persone e sentirsi vicini dentro, gli uni negli altri. Questo lo sento vivo dentro di me e vorrei continuare a tenerlo ancora. 

Charles de Foucauld è un santo da seguire. Sì, lo si può anche pregare come fratello universale, Charles Eugène de Foucauld visconte di Pontbriand, in religione Fratel Carlo di Gesù (15 settembre 1858 -primo dicembre 1916). Ma per me soprattutto un santo in cammino... Un santo da seguire. E come vorrei che il libro accendesse nei lettori il suo stesso senso dell'umanità da incontrare per far sentire quanto Dio - Deus Caritas - continua ad amare.

Lo dice anche il Piccolo Fratello Antonio Chatelard, grande studioso del santo, che continua ancora ad approfondire soprattutto gli anni vissuti da Fratel Carlo nell'eremo sulla montagna dell'Assekrem: de Foucauld va visto sempre in cammino.

Carlo infatti non aveva ancora raggiunto quello che continuamente desiderava, cioè «abituare tutti gli abitanti, cristiani, musulmani, ebrei e non credenti, a guardarmi come un loro fratello, il fratello universale». Per questo la canonizzazione, oltre alla gioia di saperlo in Paradiso con tutti i santi, è gioia ora in terra di quanti vivono seguendolo.

La santità di Charles dovrebbe essere l'occasione per far sentire la particolarità unica di un uomo che, pur dentro la Chiesa, non è solo membro della Chiesa: la sua persona esce dai confini ed è per il mondo. Come Papa Giovanni, Papa per il mondo. Come un Gandhi non solo per gli indiani. Come il missionario in Algeria e nel mondo, che non è solo cristiano per i cristiani ma uomo per e con tutti. La canonizzazione dovrebbe aprire la Chiesa a non restare solo per se stessa e in se stessa ma per tutti, riuscire a essere considerata a servizio e per il bene dell'umanità.

Quindi proclamare la santità di Charles de Foucauld non basta: bisognerà vivere incontri, manifestazioni a carattere culturale e di dialogo tra membri di religioni diverse per farlo sentire l'uomo per tutti, farlo diventare per tutti. In tal modo il mondo - che sente l'importanza, la necessità di relazioni -troverà un esempio e imparerà a viverle. E anche la Chiesa, che spesso sentiamo dal fiato corto, sarà più vicina a tutti, aprendosi alla novità incominciata al Concilio Vaticano II (non certo a caso molti padri conciliari erano soliti ritrovarsi al monastero delle Tre Fontane a Roma, dove vivono le Piccole Sorelle...): quella che Papa Giovanni aveva sentito e che ora Papa Francesco non si stanca di ravvivare. Novità della Chiesa in cammino.

Sì, san Charles potrebbe far bene alla Chiesa mostrandola -come diceva Papa Giovanni -«madre amorevole di tutti, benigna, paziente, piena di misericordia e di bontà, anche verso i figli da lei separati. Al genere umano, oppresso da tante difficoltà, essa, come già Pietro al povero che gli chiedeva l'elemosina, dice: "Io non ho né oro né argento, ma ti do quello che ho: nel nome di Gesù Cristo nazareno, levati e cammina" (At 3,6). La Chiesa agli uomini di oggi non offre ricchezze caduche, non promette una felicità solo terrena, ma partecipa ad essi i beni della grazia divina che, elevando gli uomini alla dignità di figli di Dio, sono validissima tutela e aiuto per una vita più umana». Anche una Chiesa «serva e povera», perché penso che si tratti di avvertire la ricchezza di quella povertà di spirito e nello spirito annunciata e vissuta da Gesù.

La profondità della vita di spirito può essere vissuta solo nella povertà e libertà da materialità, possessi, pesantezze. Vivendo la povertà si capisce e si sente la possibilità dell'incontro con tutti i fratelli. Povertà e incontro sono le due caratteristiche di Charles de Foucauld e che ho visto vissute nei Piccoli Fratelli e nelle Piccole Sorelle. 

Charles era questa immagine di Gesù, nella vita quotidiana con gli uomini. Perché ogni santo va visto anche come immagine di Gesù che cerca la volontà del Padre per far sentire a tutti l'amore dell'unico Dio. Il mondo d'oggi è diverso da quello incontrato da fratel Foucauld; in buona parte è il "deserto" vuoto di valori, diviso, sempre più incrocio di culture e religioni, spostamenti di intere popolazioni. Come essere oggi fratello e sorella universale che segue le orme di Charles, incontra ogni categoria di persone e fa sentire che Dio ama? La missione, cosciente dei valori presenti e vissuti nelle popolazioni che raggiunge, sta cambiando. Non è solo, ed è sempre meno, convertire, insegnare, ma incontrare, cercare insieme, condividere, dialogare, cooperare. Certo, arriva anche la conversione, ma di entrambi. Tutti, scambiandosi i doni di se stessi, crescono verso una nuova umanità, immagine del Risorto.

Charles de Foucauld, quale messaggio per la Chiesa e per il mondo 

Mondo e Missione - 5 maggio  2021

In attesa della canonizzazione di Charles de Foucauld potremmo domandarci quale sarà il suo messaggio per la Chiesa e per il mondo.

Durante i dieci anni in Algeria, dal 2006 al 2016, ho cambiato stile di missione: dal dialogo su Gesù in Camerun, ho vissuto il dialogo del Gesù della vita. Mi hanno tanto aiutato le Piccole Sorelle di Gesù di Touggourt e i Piccoli Fratelli e Sorelle di Tamanrasset e il vescovo Rault Claude che ha scritto il libro Deserto mia cattedrale. Ora credo che Dio continui a parlare, a salvare e a unire l’umanità tramite persone fedeli alle loro religioni, che convivono e dialogano con gente di culture e religioni differenti. Vivendo con loro, restavo fortemente impressionato quando mi raccontavano come sentono Dio e come Dio si fa sentire da loro. Mi dicevano che l’uomo non può vivere senza Dio, che la preghiera è la cosa più bella della vita. Il venerdì camminavo in mezzo alla gente e – alla voce del muezzin che invita alla preghiera – il quartiere si fermava all’improvviso, tutti si mettevano in ginocchio. «Cosa faccio qui?», mi chiedevo allora, ed ero spinto ad approfondire il mio essere cristiano, a rendermi conto di ciò che ci unisce già, anche se resta velato, prudente, in attesa.

Fratello universale 

Durante i dieci giorni vissuti nella casa di Charles de Foucauld a Beni Abbès non l’ho sentito come un santo, ma come l’uomo che si apriva alla khawa (fraternità). Oggi lo diciamo “fratello universale”. Forse la fraternità nasceva sul terreno della cattolicità, quella che San Tommaso d’Aquino vede nell’attitudine della Chiesa… a chiamare a sé l’intera creazione in tutti i suoi aspetti e affidarla alla pienezza. Infatti in quell’ambiente lo rivedevo accogliente degli schiavi e di tutti i suoi visitatori, orante e celebrante davanti al Sacro Cuore, e appassionato della natura. I disegni ancora lì nel suo quaderno lo mostrano contemplativo del deserto, sui monti. I proverbi tuareg, i racconti e le prime parole del dizionario tuareg risuonano e incantano. Il santo non mostrava la santità di Dio ma in lui vedevi e sentivi le passioni di Dio, per l’uomo e per la natura.

 

Aprire la porta 

Lo Spirito Santo nella prossima canonizzazione di Charles de Foucault aiuterà la Chiesa e il mondo a cogliere il suo messaggio per continuare nel vero cammino, cammino aperto, verso ogni uomo. È il messaggio di Papa Giovanni quando aveva aperto al mondo il volto materno della Chiesa. Diceva: «Il suo compito è di avere le braccia aperte per ricevere tutto il mondo. È una casa per “gli altri” che vuole appartenere a tutti e particolarmente essere Chiesa dei poveri, senza distinzione di razza e di religione». 

Charles fu ucciso quando non aveva ancora concluso il suo cammino di “fratello universale”, quello a cui ora ci invita. 

In questo momento stiamo soffrendo, chiusi in casa per proteggerci dal virus. Dopo la pandemia, quando apriremo la porta di casa per rimetterci in cammino, sarà importante vivere bene quel momento. Aprirci a chi troveremo o restare soli, isolati? Vedremo persone provate e rinnovate dalla sofferenza e lo saremo anche noi per chi ci incontrerà, nuovi. Incontreremo anche persone mai viste prima nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nei viaggi. Incontrare ancora, potrebbe essere non solo la ripresa ma l’inizio di una vita nuova. Forse il senso di liberazione dalla sofferenza, di sorpresa e di gioia di fronte alle bellezze di ogni genere ancora vive nel mondo. Ma se non si fa attenzione, si può cadere nella dispersione della babele attuale di pensiero, di valori. E forse dentro un senso di apatia e di smarrimento. Non solo le nostre persone stanno attraversando un periodo difficile, ma anche le nostre società, la Chiesa stessa. Che cosa potrebbe essere questa vita nuova, questo momento nuovo?  Qualcuno lo dice momento straordinario, una primavera della storia. Se si pensa a novità, bisogna allora avere il coraggio di pensare a un tempo nuovo, a movimenti nuovi, a degli spazi nuovi, strada compresa, a delle persone nuove, a linguaggi, gusti, sentimenti nuovi. Lasciamoci andare a immaginare… forse riaccendere e sperare. Orizzonti nuovi… più ampi? 

Vado dritto su un cammino di fede verso un punto fisso che potrebbe essere la base su cui costruire rapporti veri duraturi. Papa Benedetto nell’enciclica Caritas in Veritate (42) aveva avvertito del pericolo della globalizzazione, unificazione dei popoli male impostata. E aveva detto: «La verità della globalizzazione come processo e il suo criterio etico fondamentale sono dati dall’unità della famiglia umana e dal suo sviluppo nel bene». È questione di dare un senso nuovo, il vero senso dell’esistenza, quello cioè di sentirci membri dell’unica famiglia. Ci raggiunge il santo Charles de Foucault nella canonizzazione: Sono fratello Universale

Lo dice anche Papa Francesco col documento e annuncio di vivere come Fratelli Tutti, cioè convivere con ogni prossimo. Questo è già vero biologicamente per il nostro essere umani. Ma lo sarà più vero anche con sorpresa, quando dentro il senso della vita e della verità, religiosamente, socialmente, sentiremo un bisogno di comunione che ci fa sentire uniti a tutti e a tutto ciò che c’è nell’universo. E vedremo che le diversità sociali, religiose, culturali, delle persone che incontreremo, non sono tali per tenere lontani, separati; non sono ostacoli, ma valori, ricchezze per tutti, quando arrivano… sentiti nel cuore. Da lontani e dubbiosi potremmo accoglierci e incominciare a conoscerci. Sarà un cammino nuovo, insieme? Ciò potrebbe essere visto come una convenienza e un’utilità per tutti, ma può anche metterci in una nuova mentalità, in situazione di vivere in modo nuovo e più profondo il nostro essere membri di un’unica famiglia. Deve essere esperienza animata dallo Spirito Santo che aiuta   a risentirci figli del Dio Padre di misericordia. In questo sentirci figli di Dio Padre, ognuno risentirà viva forte la propria identità. Allora potremo gioire di sentirci vicini. Si rinnoverà il modo di considerare “l’altro”, di dialogare e condividere. È quello che ha vissuto il santo Giovanni Paolo II, quando si è messo a pregare ad Assisi accanto ai responsabili di alcune religioni mondiali e disse poi: In ogni preghiera autentica, prega lo Spirito Santo. Giovanni Paolo II ha aperto a lasciarci sorprendere dalla preghiera e dalla vita degli “altri”. 

Anche Papa Francesco crede nell’importanza della preghiera che unifica. La sua preghiera innalzata nella Piana di Ur in Irak poco tempo fa, può essere colta come sintesi di un viaggio di pace e fraternità nella comune radice nel Dio della promessa: «Ti chiediamo, Dio di nostro padre Abramo e Dio nostro, di concederci una fede forte, operosa nel bene, una fede che apra i nostri cuori a Te e a tutti i nostri fratelli e sorelle; e una speranza insopprimibile, capace di scorgere ovunque la fedeltà delle tue promesse». Preghiera accompagnata dalla responsabilità comune con le altre confessioni, le altre religioni et tutti uomini e donne di buona volontà, per affrontare i grandi problemi del mondo. 

Si tratta di superare la paura dell’incontro e di valorizzarlo, perché l’identità di ogni persona non è un terreno chiuso, recintato, e nemmeno una situazione di merito o di colpa, ma una realtà importante che offre l’opportunità della condivisione, di apertura più larga. Si tratta anche di vincere il proprio egoismo che vuol tenerci al centro di tutto e di tutti. Avremo gioia, leggerezza nel cammino, semplicità di relazioni. Quello dei discepoli di Gesù dopo la risurrezione, raccontato da San Luca nel libro degli Atti degli apostoli. Cammino della Parola… del Vangelo. Cammino di tutti “un cuor solo”, attenti ai bisogni di tutti, ma anche nella fatica di debolezze e di diversità…  e ancora incompleto. Il Vangelo vuole arrivare ai confini del mondo e resta in cammino, affidato continuamente a nuovi discepoli, odierni compresi, con nel cuore sempre la presenza dello Spirito del Risorto. È in realtà quello che avviene anche nella relazione con Dio. Non si è mai arrivati a capirlo, a viverlo, ma si è sempre in cammino… con lui. Potessimo vivere quanto c’era nel cuore di Charles de Foucauld: Iesus Caritas, il senso vivo della presenza di Gesù Cristo amore che lo spingeva sempre oltre. Sentirlo anche vivo come quando aveva trovato Gesù, e voleva conoscerLo, viverLo, e farLo conoscere. Coinvolti nello stesso progetto di amore di Dio che vuole i suoi figli uniti. Lo Spirito ci farà vivere nuove relazioni in cui completare le proprie pretese di verità con la visione delle saggezze altrui e con un’attitudine amorosa per il prossimo che sola può pretendere di avvicinarci (pur senza mai raggiungerlo) al mistero. 

Padre Silvano Zoccarato, missionario del Pime, ha vissuto dieci anni in Algeria ed è autore di “Charles de Foucauld. Il mio santo in cammino” (ed. Terra Santa, 2020)

Ritorniamo alla povertà: Montini e le Piccole Sorelle di Gesù

Mondo e Missione - 10 ottobre 2018

 

Fin dagli anni in cui lavorava della Curia di Pio XII il futuro Paolo VI coltivò la stima me a conoscenza della famiglia religiosa di Charles de Foucauld. Da Papa le incontrò sulla Via Dolorosa a Gerusalemme, ma andò anche in vista da loro all’abbazia delle Tre Fontane a Roma. Piccola sorella Maddalena ha scritto: «Non è stato solo il Papa di tutta la Chiesa ma è anche colui che ci ha protette e difese nonostante tutti i venti contrari» 

Domenica a Roma Paolo VI verrà proclamato santo da papa Francesco. E in quest’occasione mi è venuto spontaneo pensare al rapporto che papa Montini ha vissuto con la piccola sorella Maddalena, la fondatrice della congregazione delle Piccole Sorelle di Gesù, discepole del beato Charles de Foucauld e fondatrice della fraternità di Touggourt in Algeria. Per tanti anni le ho frequentate ogni giorno per la celebrazione dell’Eucaristia e ho pensato che sia stato quel rapporto a far crescere in papa Montini la sua passione per la povertà, che tanto lo rende vicino a papa Francesco. 

Così loro stesse si definiscono: «Le Piccole Sorelle di Gesù hanno nella Chiesa la missione specifica di testimoniare attraverso tutta la loro vita il profondo senso di Bethléem: “Per salvare il mondo, Gesù ha rifiutato tutti i modi del potere e non ha avuto altro che la forza del suo amore”. E il senso di Nazareth: “Inviato dal Padre per portare la Buona Novella al mondo, Gesù ha voluto annunciarla da una condizione di povertà. Gesù ha fatto di una vita ordinaria il luogo del suo incontro con il Padre, divenendo in tutto simile ai suoi fratelli. Al suo seguito, sono solidali nelle semplici relazioni di amicizia, condividono le stesse case, il lavoro, la precarietà e le aspirazioni”». 

Il 9 ottobre 1939 la Piccola Sorella Maddalena di Gesù metteva piede a Touggourt. Sognava da anni di poter venire nel Sahara e di poter vivere la sua vocazione di contemplativa tra i nomadi e beduini. Alla lettura della vita di Charles de Foucauld, ella vi trovava: «Il vangelo vissuto… la povertà totale, l’amore dell’annientamento, l’amore totale». 

Così ci descrive quel momento: «Siamo partite col cuore pieno di gioia, proprio perché eravamo leggere, così leggere come chi cammina sulla strada col bastone in mano, e  in spalla un piccolo sacco…. Dei poveri arabi del Sahara, abbiamo adottato il cibo, il mobilio… o meglio l’assenza di mobilio, le povere case in terra, l’abito… la povertà. Cercare di somigliare a loro… ma soprattutto di rispettarli. Ho passato con loro un periodo straordinario… ho vissuto un amore di amicizia anche nella diversità di razza, cultura e condizione sociale. Erano i più poveri, ai bordi delle oasi per essere assistiti. Con me sono stati di d’una bontà e delicatezza commoventi. Vegliavano su di me. Qualcuno diceva che ero pazza a vivere completamente sola con loro. In cinque anni di presenza, non sono mai stata delusa». 

Dopo quella esperienza, nel dicembre 1944, piccola sorella Maddalena si reca dal papa Pio XII per presentargli il suo desiderio più grande: «Poter restare “piccole sorelle di niente…” che possano vivere, abitare, viaggiare come i più piccoli… come Gesù che non perdette nulla della sua dignità divina, facendosi un povero artigiano. Avere il diritto d’essere povere… d’offrire la vita ad immolazione per i fratelli dell’Islam. Vivere intimamente mescolate alla massa umana, come il lievito nella pasta. Umane e cristiane, senza nessuna distinzione, con una formazione di vita interiore molto profonda». 

Fu proprio l’allora sostituto della Segreteria di Stato di Pio XII . mons. GIovanni Battista Montini, futuro Paolo VI – ad aprire loro la strada ma il cammino verso l’approvazione del loro progetto di vita nella contemplazione e nella povertà non è stato facile e breve. Quando fu

eletto papa il 21 giugno 1963 Maddalena notò nel suo diario: «In un secondo questa notizia fa svanire l’incubo nel quale ho vissuto… Con il cardinale Montini ritrovo Pio XII e ogni timore svanisce». Poi gli scrisse subito: «In questo giorno così grave per voi, mi permetto di dirvi la gioia di una Piccola Sorella che avete accolto con tanta bontà quasi vent’anni fa e alla quale avete aperto tutte le porte a Roma… gioia, perché voi ci conoscete e ci avete dato così spesso prova di una così grande bontà!». 

Durante il Concilio, le Piccole Sorelle furono coinvolte non direttamente ma indirettamente perché molti vescovi e patriarchi ortodossi si recavano da loro per informazioni, consigli. Questa sensibilità e apertura verso l’Islam era stata preparata anche dall’opera di Massignon, grande orientalista e amico di Charles de Foucauld. Egli – morto poco prima del Concilio – credeva alla possibilità del dialogo con l’Islam fondato sulla comune discendenza abramitica. E poi per l’intenso lavoro dei Padri Bianchi, operanti nei paesi Islamici, si giunse al famoso testo contenuto nella dichiarazione Nostra Aetate

«La Chiesa guarda con stima anche i Musulmani che adorano l’unico Dio (…) Essi cercano anche di sottomettersi con tutto il cuore ai segreti nascosti di Dio, come si è sottomesso Abramo, al quale la fede islamica volentieri si riferisce. Benché essi non riconoscano Gesù come Dio, lo venerano però come profeta; onorano sua madre vergine Maria e talvolta pure la invocano con devozione. Inoltre attendono il giorno del giudizio quando Dio ricompenserà tutti gli uomini risuscitati. Così pure hanno in stima la vita morale e rendono culto a Dio soprattutto con la preghiera, le elemosine e il digiuno». 

Papa Montini stesso aveva una grande sensibilità e apertura di vedute e aveva conosciuto e stimato Massignon e faceva parte del gruppo della Badalya di Roma, un gruppo di preghiera in comunione con l’Islam. 

Durante il Concilio aveva preso inoltre fiato un altro grande spirito, quello della povertà, e anche a questa dimensione papa Montini era molto vicino. Nell’enciclica Ecclesiam Suam mette la povertà al primo posto tra le qualità che rendono credibile la Chiesa. Così scriveva: «Accenniamo dapprima allo spirito di povertà. Pensiamo che esso sia così proclamato nel santo Vangelo, che sia così insito nel disegno della nostra destinazione al regno di Dio, che sia messo così in pericolo dalla valutazione dei beni nella mentalità moderna, che sia così necessario per farci comprendere tante nostre debolezze e rovine nel tempo passato e per farci altresì comprendere quale debba essere il nostro tenore di vita e quale il metodo migliore per annunciare alle anime la religione di Cristo, e che sia infine così difficile praticarlo a dovere, che osiamo farne menzione esplicita in questo Nostro messaggio, non già perché Noi abbiamo in mente di emanare speciali provvedimenti canonici a questo riguardo, quanto piuttosto per chiedere a voi, Venerabili Fratelli, il conforto del vostro consenso, del vostro consiglio e del vostro esempio. Noi attendiamo che voi, quale voce autorevole che interpreta gli impulsi migliori, onde palpita lo Spirito di Cristo nella santa Chiesa, diciate come debbano Pastori e fedeli alla povertà educare oggi il linguaggio e la condotta: Abbiate in voi lo stesso sentire che fu in Cristo Gesù, ci ammonisce l’Apostolo; e come insieme dobbiamo proporre alla vita ecclesiastica quei criteri direttivi che devono fondare la nostra fiducia più su l’aiuto di Dio e sui beni dello spirito, che non su i mezzi temporali; che devono a noi stessi ricordare, e al mondo insegnare, il primato di tali beni su quelli economici, e che di questi tanto dobbiamo limitare e subordinare il possesso e l’uso quanto è utile al conveniente esercizio della nostra missione apostolica». (Ecclesiam Suam, n 56

Nel gennaio del 1964, durante il Concilio, Papa Montini compì un pellegrinaggio in Terra Santa e a Gerusalemme durante il cammino della Via Crucis il papa premuto dalla folla dovette rifugiarsi dentro la prima porta che gli si apriva. Era la porta della casa delle Piccole Sorelle che potevano accoglierlo e averlo un po’ tutto per loro. Lì il papa si trovava con persone che lo capivano e lo amavano. 

Venerdì 28 settembre 1973, poi, papa Montini fece visita nella loro sede romana a Tre Fontane. Dopo una sosta di preghiera nella cappella, il Santo Padre rivolse la sua parola alle religiose nella sala delle adunanze. «Perché sono venuto?», si chiese il Santo Padre: «la risposta è molto facile: per conoscervi. Per conoscere voi, questo centro, la vostra ormai grande famiglia. Anche se vi conosco già da molti anni». Paolo VI raccontò che prima ancora di andare a Milano e poi a Milano ebbe occasione di apprezzare il fervore e l’autenticità dei piccoli gruppi delle piccole sorelle. Poi le ritrovò a Roma. Saputo che erano riunite in così notevole numero si disse: «Andiamo subito». 

Era una gioia per lui incontrare padre Voillaume, suor Madeleine, le piccole sorelle. Perché meritano di essere conosciute meglio, con quel vertice della povertà che forma il loro segreto, con quel bene di una fraternità che è più d’una cordialità, che lega tra tutti loro i seguaci di Charles de Foucauld, con quella gioia che sembra il respiro della loro comunione familiare. E poi il grande segreto delle piccole sorelle: l’amore silenzioso per Gesù, la conversazione continua con lui, il senso della sua presenza nella vita di ciascuna, la risposta totale al suo amore. «È il vostro carisma!». Ma c’era anche un secondo motivo di quella visita: «Sono venuto non solo per conoscervi, ma per riconoscervi. È la Chiesa che vi riconosce ed è lieta della vostra esistenza e presenza nel mondo. E voi siate quello che siete». Dopo aver ripetuto una loro espressione che le qualifica come una stella filante che prolunga la presenza e lo spirito di fratel Carlo di Gesù, il Papa ribadì che «anche se silenziose e in un certo senso invisibili, la Chiesa vi vede, vi vuol bene, vi ama e vi benedice. Sono venuto per incoraggiarvi. Voi siete coraggiose, ma anche voi come tutti siete fragili e forse tentate di debolezza e di infedeltà». Vengono, dice il Papa, nella vita di tutti momenti di dubbio e di ripensamento. Ho fatto bene? Ne valeva la pena? Non sarò stata vittima di un’illusione? In nome di quel Gesù che voi amate io vi dico: avete scelto bene! Come Maria, avete scelto la parte migliore. Siate fedeli e felici». 

Il breve discorso fu punteggiato da scrosci di applausi di gioia e di consenso. Infine, insieme alle piccole sorelle, il Papa recitò il Padre nostro, l’Ave Maria, l’Angelo di Dio; e le benedisse. Seguì uno scambio di doni: il Papa offrì alle piccole sorelle un calice e una pisside d’argento cesellato per l’Eucaristia e a ciascuna un’immaginetta con un suo autografo. La Piccola Sorella Maddalena offrì al Papa un prezioso autografo di fratel Carlo di Gesù e un suo grande ritratto degli ultimi anni; inoltre un presepio manufatto dalle piccole sorelle.

Alla morte di Paolo VI, Maddalena scrisse: «Non è solo il Papa di tutta la Chiesa ma è anche colui che ci ha protette e difese nonostante tutti i venti contrari».

Povero vescovo di tutti i poveri

Mondo e Missione - 18 novembre 2017

Domenica per volontà di papa Francesco la Chiesa celebrerà per la prima volta la Giornata mondiale dei poveri. Un’occasione per riscoprire come già nell’Ottocento si era lasciato evangelizzare dalla povertà il fondatore del Pime, mons. Angelo Ramazzotti 

 

 Papa Francesco istituendo la giornata dei poveri che si celebra domenica 19 novembre scrive: “È nostro compito prenderci cura della vera ricchezza che sono i poveri”. Colgo quest’occasione per far conoscere il fondatore del mio Istituto, mons. Angelo Ramazzotti definito Vescovo della carità, modello dei vescovi, come ci è stato descritto dal suo segretario Pietro Cagliaroli.

Nato il 3 agosto 1800 a Milano, avvocato nel 1823, ordinato sacerdote nel 1829 e Superiore degli Oblati di Rho, vescovo a Pavia il 30 giugno 1850, fondatore del Seminario per le Missioni Estere (ora PIME) il 30 luglio 1850, patriarca di Venezia nel 1858, organizza la prima spedizione delle Suore della carità (Suore di Maria Bambina) in Bengala e delle suore Figlie della Carità (Canossiane) a Hong Kong. Muore il 24 settembre 1861, tre giorni prima di poter ricevere la berretta cardinalizia dalle mani del beato Pio IX.

Quello che leggeremo proviene da alcune sue lettere e dal libro Vita di Sua Eccellenza Reverendissima Monsignore Angelo Ramazzotti Patriarca di Venezia scritto dal Sacerdote Pietro Cagliaroli, suo segretario. Padre Costanzo Donegana, Pime, e Paolo Labate curatori del Libro, dicono che è stato scritto con conoscenza d’amore e come una riconoscenza per quello che ha significato il vivere accanto al suo vescovo. 

Ho voluto cercare nel libro del Carderoli il suo essere Vescovo dei poveri, il suo vissuto, la parola al suo clero e al suo popolo, la stessa parola di Gesù che amava ripetere a tutti : «Chiunque riceverà uno solo di questi piccoli in mo nome, riceve me». La frase finale del libro: «E si videro lagrime, e s’udirono sospiri, massime di poveri che s’accoravano su di lui il quale, come visibile provvidenza, li aveva sovveuti le tante volte non che di roba e danari, sì anche di parole buone e paterni conforti», mi ha fatto rileggere il libro con una attenzione particolare e mi accorsi di alcune particolarità. Angelo Ramazzotti amò tutte le categorie di persone che incontrava. Tutti, ricchi e poveri, santi e peccatori. E tutti si sono sentiti amati con dignità. Restava nobile di comportamento, sempre, con nobili e non nobili, anche coi poveri. «Non dava solo pane ma anche paterni conforti». La sua preoccupazione sulla catechesi da insegnare e sulla necessità di portare il Vangelo a tutti gli uomini, completa la figura di un padre che nutre i figli bisognosi del pane della Parola di Dio. Nel vissuto del nostro Angelo, avendo amato ogni categoria di persone, il senso di ‘povero’ è allargato e arriva a comprendere ogni genere di persone. In realtà siamo tutti dei poveri. Anche la persona del donatore assume una dimensione più ampia. Diventa segno del grande donatore che è Dio. Quanti riconoscono l’amore di Dio nell’amore del donatore. E così sentendoci amati da Dio come figli, anche l’umiliazione della povertà scompare e godiamo della vera dignità. Meraviglioso questo vescovo che manteneva unita la sua diocesi col suo amore verso tutti. Vescovo che dava dignità ai poveri con la sua povertà vissuta e col suo amore di padre.

Donegana nel libro : “Rivivendo il carisma del Fondatore ” riassume la sua carità così: La carità del Ramazzotti è innestata sulla carità di Cristo. – Ama ogni persona. – Mette la carità al di sopra di tutto. – Sua priorità sono i poveri e i peccatori, ama il corpo e lo spirito dell’uomo.

E in una lettera ‘Ai ricchi‘ riportata da Donegana nel suo libro, leggiamo che la carità è iniziativa di Dio : “La Provvidenza stessa si incarica molte volte di radunare intorno a noi la famiglia dei poveri da adottare nella nostra carità, offrendoci in essi quegli amici che ci devono introdurre negli eterni tabernacoli del cielo. Ogni povero pertanto, che Iddio metta sui nostri passi, gardiamolo come un inviato della Provvidenza, anzi in lui rispettiamo, amiamo Gesù Cristo”.

Ripresentando alcuni testi del Cagliaroli, ho rispettato l’italiano’ dell’Ottocento e il suo modo di esprimere le realtà secondo la mentalità del suo tempo. I testi mostrano alcune categorie di poveri dei quali era il Padre: I poveri della strada, i poveri di Parola di Dio, i poveri ‘Infedeli’, i poveri in prigione, compresi alcuni preti, i poveri dei patronati e i poveri in preghiera.

 

Primo anno di episcopato

Mi confidò che negli anni di studio alla Università, avealo preso un sì vivo amore della mortificazione, che assaissime volte si teneva contento alla sola refezione di pane ammollato nell’acqua; ed i risparmi fatti con queste astinenze, erano ordinati a soccorrere i poveri.

Nella sua prima lettera pastorale si rivolge agli operatori della carità e ai poveri stessi: “Quanti adunque desiderate davvero che tanti orfani abbandonati trovino un padre, che tanti poveri genitori possano dire ogni giorno ai propri figli: Eccovi anche per oggi un po’ di pane; voi principalmente, o poveri di Gesù Cristo, o cari poveri, che tanto potete sul cuore di Dio, pregate il Padre comune…che non lasci giammai venir meno tra noi lo spirito della cristiana Religione, alla quale sola dobbiamo grazie se trionfa tra noi la Beneficienza e la carità”.

Raccolse le schede de’ poveri, che con saviezza avea fatte preparare dai parrochi, e secondo i bisogni provvide.

Visitò uno per uno i pii istituti, e a tutti recò sovvenimenti; maggiormente abbondando verso la casa di industria per le speciali strettezze in cui versava; tanto che in una sola volta le donò per ben quattromila lire. Nè si contenne tra gl’indigenti della città, ma estese le sue larghezze a quelli eziandio degli altri paesi della. diocesi: onde avvenne che in capo a pochi mesi avesse dispendiate in limosine sessantamila lire.

E a me dicea il caritatevole Pastore, ricordando quel primo anno del suo episcopato: oh! quanto mi gioiva l’animo, allora che poteva consolare i miei parrochi con buone manate d’oro pei loro poverelli. Nè si creda perciò che a quell’anno si confinassero queste sue generose elargizioni; chè come si vedrà nel seguito di questa storia, anche appresso non ebbero mai misura.   

 

Zelo per l’incremento della Dottrina Cristiana

Per una popolazione cristiana la Dottrina è tutto; e ben sapeva Mons. Ramazzotti, che nulla meglio promuove il bene morale e religioso di una diocesi, quanto una diligente e scelta istituzione della prima gioventù nella scienza della religione. E a questo intendimento non tardò visitarne noi giorni festivi le Scuole. Nè lasciava trascorrere una sola domenica, senza che si portasse all’una o all’altra delle Chiese, avesse anche pontificato nella sua Cattedrale e letta l’omelia. E per avviare ognor più al meglio l’opera grande della Dottrina, ordinò una generale adunanza nel suo Palazzo patriarcale, non che dei Parrochi e dei Cooperatori della città, sì ancora dei maestri; ed ivi, con caldo discorso, animò tutti a coadiuvare dal canto loro con ogni zelo possibile all’incremento della santa impresa.

Ma spettacolo più d’ogni altro edificante fu vedere il Patriarca, che, con nuovo esempio, ognidì al mezzogiorno, nella sua basilica di s. Marco, faceva la meditazione ad un numerosissimo uditorio. Da tutte le parti della città, di ogni ceto e condizione, ricchi e poveri, sacerdoti e regolari, magistrati ed artigiani, stupiti a questo affatto nuovo esempio di zelo pastorale, immobili pendevano dalle sue labbra. E a tutti era dolce ricevere da lui ammaestramenti ed indirizzi sulle eternali verità, ch’egli veniva svolgendo con robustezza di concetti, con forme dignitose e semplici, con chiarezza e popolarità di esposizione. Ciò poi che vinceva Lutti i cuori e li commoveva fino alle lagrime, era quella riboccante unzione di carità, che s’accompagnava ad ogni suo detto, direi quasi, ad ogni suo gesto. Allorché questo fatto di tanta edificazione venne conosciuto anche in Lombardia, uno dei più dotti e zelanti Vescovi di quelle provincie ne scrisse al Patriarca congratulandosi seco lui; e conchiudeva: ah! un tale esempio non potrà che produrre un gran bene!     

 

Carità per la propagazione della fede

Lettera al clero e al popolo: “Vogliamo raccomandarvi l’Opera Pia della Propagazione della fede, opera che abbraccia nella beneficenza assai più estesi confini. Oltre all’interesse  per l’Istituto aperto in Milano da tutto l’episcopato lombardo, che prepara sacerdoti per portare il Vangelo fra gli infedeli, qui parliamo di un’altra istituzione già conosciuta d’altronde in qualche parte di questa diocesi, la quale ha per scopo di concorrere a quel santo apostolato col doppio sussidio della preghiera e dell’elemosina”.

Lettera al Consiglio della propagazione della fede. Chiede aiuti per le Canossiane di Hong Kong e ringrazia il Consiglio per quanto fece per i Missionari di S. Calocero giacché devo considerare fatto a me stesso quanto è stato fatto in loro favore.

Lettera a Mons. L. Besi: Progetto di inviare le canossiane in india. “Ora, Mons. Rev. giacché Ella ha tanta bontà per me e per il mio seminario di San Calocero, io mi prendo la libertà d’interessarLa in un affare che riguarda le missioni. I missionari di san Calocero che abbiamo nell’India mostrarono il bisogno ed il desiderio che una congregazione religiosa femminile si assumesse colà l’educazione delle fanciulle, come i missionari dei fanciulli”.     

 

Carità verso i poveri preti in prigione

Solo aggiungerò che in Venezia il suo zelo si rivolse a procacciare il pieno ravvedimento di que’ poveri preti estradiocesani, che colpiti dal rigore della giustizia, scontavano la pena dei loro falli nella Casa di forza alla Giudecca. Ogni qual volta si recasse a quelle carceri, confortavali con parole di gran carità a sostenere con cristiana rassegnazione la loro reclusione. E così fattamente avea saputo schiudere i loro animi alla confidenza, che alcuni al tempo degli spirituali Esercizii, di cui toccammo più su, si confessarono a lui con grande loro consolazione e profitto.

 

Visite ai preti, ai patronati della S. Vincenzo, a opere pie e a comunità religiose

Il giorno dell’entrata a Venezia. avendo richiesto qual fosse lo stato di salute de’ suoi preti, e specialmente dei Pievani, gli fu detto, che due fra essi si trovavano gravemente infermi. Non ci volle più, perché l’amoroso Pastore muovesse tosto a visitarli e confortarli della sua pastorale benedizione. La notizia del fatto si diffuse in un baleno per tutta Venezia, che anche da questo s’augurò ogni maggior bene dal cuore veramente paterno del suo Patriarca.

In una di queste visite parve al Patriarca di avere speso una mezz’ora più che non facesse d’uopo. Accortosene, se ne attristò così, che più volte con un accento di dolore mi disse: quella

mezzora impiegata senza scopo mi grava troppo all’animo; me ne guadagnerò bene per l’avvenire. Di questa maniera apprezzava il tempo Mons. Ramazzotti. E a non perderne briciola, negli ultimi due anni della sua vita, faceva sempre capo, nelle sue brevi passeggiate dopo pranzo, a qualche monastero o casa religiosa, perché, come me ne rese inteso, anche il tempo del passeggio non fosse senza qualche vantaggio delle anime. 

  

Sua profusissima carità

Volli riservarmi quì sulle ultime a far cenno di quella virtù che, esercitata dal Ramazzotti sin dalla primissima gioventù, come le acque del fiume che cammin facendo s’ingrossano, crebbe mano mano a tal dismisura da accorciargli forse la vita. Onde pochi dì prima che scoppiasse la terribile malattia, che in breve tempo lo trascinò al sepolcro, fu udito a dire quasi piangendo: «Ah! tanti poveri che io vorrei ajutare e non posso! son questi poveri, credetelo a me, che mi affannano il respiro, mi struggono la salute.»

L’atrio, le scale, l’anticamera, a volte, si può dire che ne formicolassero. Né, come s’usa comunemente, erano incaricati i domestici di far la limosina. No; voleva egli vederli, ascoltarli uno ad uno ed ajutarli a tenore dei rispettivi loro bisogni, consolarli, esortarli a portar di buon animo la gran croce della povertà. E a chi gli fece osservare che così andavano perdute delle ore, a lui tanto preziose, rispose sorridendo che anzi ci guadagnava e di buono. Onde non gli tardava punto di porgere paziente orecchio a querimonie, a storie di patimenti e di dolori, a domande replicate di provvedimenti. Però, a non beneficare alla cieca, voleva che ognuno fosse munito del certificato parrocchiale; e quelli più largamente sovveniva, a cui si fosse rilasciato munito d’un certo tal quale contrassegno, di cui erasi convenuto tra il Patriarca e i pievani.

Negli ultimi tempi, sopracrescendo i bisogni de’ poveri e venendogli meno a tanto dispendiare i redditi della mensa, ordinò che si vendessero le argenterie della casa, non ritenendo che quanto serviva all’uso giornaliero della tavola, e per pochi. E v’ebbe un dì, nel quale trovandosi sprovveduto affatto di moneta, nè sapendo come o dove cercarne, uscì dalla stanza e a’ poveri raccolti nell’anticamera, mal frenando il pianto: «non ho più nulla, esclamò, son senza nulla. Non mi resta a vendere che questa povera veste, e la croce che mi pende dal collo.»

Il pochissimo che quì accennai, verso il moltissimo che potrebbe dirsene, basti al lettore; che dovrà certo con-chiudere con noi, la carità di Monsignore essere stata grande come il suo cuore, cioè senza confine o misura.

Onde vivo e morto fu acclamato il vero servo di Dio, il modello dei Vescovi, l’Uomo della carità. E il bene egli lo volle e lo fece sempre; da laico, da sacerdote, da Missionario, da Vescovo, da Patriarca. (…)

Alla sua morte il popolo che accorse numeroso, e in riverente atto s’accostava a quel feretro, non facea fine dal lodare e benedire il suo Patriarca, dolendosi che troppo presto fosse stato rapito all’affetto di lutti. E si videro lagrime, e s’udirono sospiri, massime di poveri che s’accoravano su lui il quale, come visibile provvidenza, li avea sovvenuti le tante volte non che di roba e danari, sì anche di parole buone e paterni conforti. 

Sul suo feretro le lacrime dei poveri.

Treviso-Ambam PIME, Cinquantesimo del Gemellaggio

omnisterra.fides.org - giugno 2017

Quello che Dante ha visto qui a Treviso dei due fiumi, è simbolo della comunione vissuta dal PIME con la diocesi di Treviso nella missione di Ambam (Camerun)

    

Si era negli anni ‘60, in pieno clima conciliare, e i vescovi dei cinque continenti venivano nelle nostre parrocchie di Treviso ad aprire gli orizzonti della vita ecclesiale. C'era entusiasmo missionario e al fuoco acceso dall' enciclica Fidei Donum di Pio XII, durante il concilio, la Chiesa ne era infiammata.

Il 2 febbraio del 1965, festa della presentazione di Gesù al Tempio, mons Mistrorigo arrivò nella nostra sede del PIME di Piazza Rinaldi come ogni anno, e mentre prendeva il caffè, si rivolse a padre Filippin: «Senta padre, vorrei che alcuni sacerdoti diocesani andassero in Africa ad aiutare qualche vescovo... Mi dia un missionario perché passi alcuni mesi assieme a loro, e così li introduca alla vita missionaria».

Poi mons Mistrorigo incontrò a Roma mons Pirovano, superiore generale del PIME. Qualche tempo dopo, lo stesso mons Pirovano e mons Guarnier, vicario generale della diocesi di Treviso, fecero un viaggio in Africa a visitare la diocesi di Sangmelima e a conoscere il vescovo Celestino N’kou. II giorno di S. Matteo apostolo, 21 settembre del 1966, i sacerdoti trevigiani, riuniti in convegno, aderirono alla proposta di andare in Camerun assieme ai missionari del PIME.

Nella conclusione del suo diario di viaggio, scritto con quello stile pittoresco e arguto che gli era proprio, Guarnier diceva: «Come si vede, si tratta dell’aiuto di Dio, ma anche di uomini generosi e di mezzi. La povertà estrema, bontà del vescovo e della popolazione sono grandi, commoventi. Non possiamo deluderli. Confidiamo che il grande cuore della diocesi di Treviso risponderà con larghezza».

Si giunse così al 29 giugno del 1967, giorno in cui il vescovo di Treviso, mons Antonio Mistrorigo, consegnò il crocifisso a cinque missionari: quattro di essi erano partenti per il Camerun, e uno per l’America Latina.

Di quelli destinati alla missione africana, due erano della diocesi di Treviso e due del PIME: don Mario Bortoletto, don Angelo Santinon, padre Giorgio Granziero e padre Giovanni Belotti. Era l’inizio di un gemellaggio tra la diocesi di Treviso e il PIME, che avrebbe portato ad una lunga e intensa collaborazione nella diocesi africana di Sangmelima, e precisamente nella missione-parrocchia di Ambam. Veniva così coronato un altro dei numerosi tentativi di realizzare concretamente la responsabilità missionaria di tutti i vescovi e di tutte le diocesi del mondo cristiano, messa in risalto dal Concilio Vaticano II. L’aspetto migliore di questo gemellaggio era quello della stretta collaborazione di una diocesi con un istituto esclusivamente missionario, nato dal seno delle diocesi stesse e di cui il Concilio aveva riaffermato la piena attualità e validità nella Chiesa.

La collaborazione tra Treviso e PIME era peraltro già profonda e visibile da ormai cinquant’anni: da quando cioè padre Gaetano Filippin e mons Longhin avevano voluto e realizzato un seminario missionario che ha dato alla Chiesa fino ad oggi oltre 150 missionari.

II gemellaggio doveva poggiare su una perfetta parità: la missione di Ambam non era cioè affidata separatamente né a Treviso né al PIME, ma a tutti e due uniti. II lavoro quindi sarebbe stato fatto in equipe dai missionari trevigiani e da quelli dell’istituto, senza alcuna distinzione fra di loro, chiamati a collaborare sotto l’autorità e al servizio del vescovo locale. Un fatto nuovo anche nel P.I.M.E.

La data del 29 giugno 1967 doveva passare agli annali della storia anche per un altro importante avvenimento: l’inaugurazione del nuovo seminario trevigiano del PIME, in via Terraglio, qualche chilometro fuori dal capoluogo, nei pressi di Preganziol.

Da tempo infatti il vecchio fabbricato di Piazza Rinaldi era diventato insufficiente e inabitabile, e padre Filippin si era dato da fare fino ad arrivare a una sistemazione, che permetteva un più ampio respiro e nuove iniziative. Inaugurando il nuovo seminario, mons Mistrorigo pronunciò parole che riaffermavano lo stretto legame tra la diocesi e il PIME: «... Noi oggi siamo qui presenti per sentire con i missionari i gravi problemi della Chiesa, per realizzare con loro un migliore lavoro nella Chiesa ed al servizio dell’umanità. Noi tutti lo sappiamo: i missionari da soli non bastano più, e le diocesi da sole non possono dare un impulso sufficiente all’evangelizzazione del mondo non cristiano.

Bisogna quindi mettere assieme le forze, sentirci uniti senza alcuna distinzione e lavorare uniti per l’unico scopo, che è quello di portare Cristo a tutte le genti e di fondare la Chiesa presso tutti i popoli.

II seminario missionario che oggi inauguriamo, noi lo consideriamo come nostro!

L’unico crocifisso che abbiamo consegnato ai quattro missionari è il segno della loro unione per un unico servizio. Ecco perché oggi è la festa della diocesi intera, oltre che dei missionari del PIME. Noi non saremo cattolici se non saremo missionari».

Alle parole del vescovo di Treviso facevano eco quelle di mons Aristide Pirovano : «... quello che abbiamo fatto lo dobbiamo a voi! II PIME è qui per aiutare le diocesi nella formazione dei missionari, mettendo a frutto il capitale di una esperienza e di una tradizione che hanno più di un secolo di vita.

II desiderio nostro, di noi missionari, è di esprimere ancor meglio la dipendenza che ci lega alle diocesi italiane, come sempre in passato, ma oggi secondo forme adeguate alla sensibilità 

post-conciliare; rendere più chiaro il fatto che noi esprimiamo, con il lavoro missionario, non qualcosa di nostro, ma semplicemente la missionarietà delle diocesi italiane che ci hanno mandato».

 

Bilancio e prospettive

Dopo i primi quattro missionari giunti ad Ambam, si aggiunsero altri sacerdoti, sia trevigiani che del PIME; poi, a partire dal 1971, le Missionarie dell’Immacolata, e infine alcuni laici.

E' difficile fare un bilancio di questi anni di presenza, anche perché si direbbe poco, e forse non ciò che è il più importante, trattandosi di una realtà non misurabile in cifre o con criteri strettamente umani.

Solo il Signore che vede nei cuori, che ha ispirato le scelte e sostenuto la generosità e il lavoro, conosce «i prodigi operati con la Grazia», pur nella fragilità umana.

II gemellaggio Treviso-Sangmelima-PIME è un dono dello Spirito del Concilio alla Chiesa. II gemellaggio si è aperto poi a una collaborazione tra le chiese, non solo con quella del Camerun, ma anche con quelle di Vicenza e di Como, con le quali siamo venuti a contatto e abbiamo vissuto insieme in terra africana.

Ha coinvolto poi molte persone della nostra chiesa italiana: amici, parenti...

La penna per scrivere che simbolicamente mons Squizzato, direttore dell'ufficio missionario, regalava a ogni missionario che gli rendeva visita, unita ai «schei per il caffè del viaggio...», serviva a stimolare simpatia e coinvolgimento e indicava il desiderio di autentica comunione con la missione. Così pure le numerose visite di amici, compresa quella del vescovo, fecero capire agli africani che unita ai missionari c'era una numerosa famiglia di fratelli nella fede: "L'opera delle retrovie".

II gemellaggio è stato un cammino di Chiesa, e suscitava numerose vocazioni per ogni genere di vita, di apostolato e di congregazione.

Anche i sacerdoti diocesani, quanto a spirito missionario e a fiato per la missione, ne avevano da vendere. Allenati sulle grave del Piave o nelle selve del Montello, hanno camminato spesso nella foresta africana riempiendo quelle lunghe ore di conversazioni allegre e cordiali con la gente del posto, e di silenziosi dialoghi con Dio.

E questo anche per un settantenne come mons Luigi De Biasi... Non parliamo dell’indomabile don Mario, tra i primi partenti e rimasto sul campo fino alla morte, nonostante i vari tentativi di riassorbimento da parte della «madre diocesi» che voleva dargli il cambio pattuito.

Lo spirito missionario, come è dimostrato dall’esperienza di oltre cinquant'anni in Camerun e poi in Ciad dei preti di Treviso e di tanti altri sacerdoti diocesani sparsi in tutto il mondo, è insito nel cuore di ogni sacerdote. Tutti gli uomini della terra sono dentro gli orizzonti della fede e della carità sacerdotale.

La collaborazione aperta e cordiale tra sacerdoti diocesani e missionari di istituti e congregazioni produce ottimi frutti.

II PIME ha voluto andare anche nel Camerun del Nord, sacrificando un po’ l’appoggio ad Ambam, e poi Treviso, dopo i trent'anni di Ambam, ha voluto continuare in Ciad. Le missioni al Nord e in Ciad, dove i cristiani sono molto meno, vanno considerate anch'esse un frutto del gemellaggio.

 

Il coraggio di rischiare

Ora Treviso ha ancora forze che attendono di essere incoraggiate ad esprimersi. Per sottolineare l'unità di Treviso col Pime, vissuta nella mia persona di prete di Treviso e di missionario del Pime, il teologo di Treviso e direttore dell'ufficio missionario, don Franco Marton, scrisse : "Ad Ambam, in Camerun, per qualche anno sono vissuti insieme alcuni Fidei donum di Treviso, alcuni ‘padri missionari’ del Pime e anche qualche laica lombarda. (...) Ripensando al tutto si potrebbe anche guardare al futuro con coraggio. Nulla impedisce che un Vescovo, a nome della sua chiesa locale, invii ad gentes una équipe formata da Fidei donum della sua diocesi, da religiosi o religiose missionari di qualche Istituto, battezzati nella sua chiesa locale, con laici o laiche della stessa chiesa. In qualche rara diocesi si sta già facendo. Le obiezioni sono tutte di ordine pratico: di quale tipo concreto di missionario religioso o di Fidei donum o di laico si dovrà disporre? di quale tipo di Istituto? con quale statuto economico ci si dovrebbe muovere… e così via. Ma da un punto di vista teologico il progetto starebbe perfettamente in piedi, come dal punto di vista del Concilio. Avrebbe, inoltre, una forza

spirituale molto grande, perché tutti i membri dell’équipe si sentirebbero spinti ad aiutarsi nell’approfondire la propria fede, attingendo tutti a quello Spirito che resta il vero protagonista della missione. Non dovrebbe essere vista come una ‘soluzione pastorale’, subita da una chiesa locale ormai ridotta nei numeri delle vocazioni missionarie, ma come una scelta consapevole e motivata. Stiamo sognando o stiamo guardando al futuro con lo sguardo di un missionario che continuiamo a chiamar indifferentemente don Silvano o Padre Silvano, intuendo che dietro a questa benefica ‘confusione’ potrebbe nascondersi qualcosa di buono per il futuro della missione della diocesi? Se ci fosse il coraggio di rischiare…".

Salviamo popoli e culture

Mondo e Missione - maggio 2017

      

Nel processo di globalizzazione, uniformante e distruttivo, rientra la distruzione delle culture indigene, che invece vanno recuperate». Così si è espresso Papa Francesco, incontrando i gesuiti riuniti nella loro 38esima Congregazione generale sul tema del rapporto coi popoli indigeni nella storia. Il Papa ha continuato poi dicendo che non si tratta solo di salvare le culture, ma di salvare i popoli. Togliendo la terra a un popolo, oltre che della sua cultura, lo si deruba della sua libertà, della sua dignità, della sua vita.

La globalizzazione ha messo in atto un processo di deculturazione ormai a livello mondiale, nel quale anche gli stessi popoli indigeni stanno diventando i distruttori delle loro tradizioni. La passione e l'impegno nella conoscenza delle culture locali stanno diminuendo, sia da parte degli studiosi sul posto, sia da parte dei missionari, preoccupati oggi di risolvere necessità e problemi più urgenti. Pochi sono incoraggiati a conoscere e a capire le radici di un popolo. In alcuni Paesi dell'Africa, per esempio, si è fatto un grande sforzo di formazione scolastica, di traduzione della Bibbia, di testi liturgici e di documenti educativi, ma l'accompagnamento e il sostegno a valorizzare le tradìzioni locali lasciano a desiderare, anche nell'attività missionaria. L'inculturazione sta perdendo importanza. 

Un'autodistruzione del proprio passato forse anche Giovanni Paolo II l'aveva intravista nel popolo africano, quando alla conclusione del primo sinodo per l'Africa aveva detto: «Vi lancio una sfida. Oggi vi raccomando di guardare in voi stessi. Guardate le ricchezze delle vostre tradizioni». Preoccupazione, la sua, fatta propria dal successore Benedetto XVI, che ben la evidenzia nel documento per la preparazione del II sinodo per l'Africa, Instrumentum laboris, presentato a Yaoundé, in Camerun. Vi leggiamo: «Dal punto di vista culturale le società africane constatano, impotenti, la disgregazione delle loro culture» (Il, 73). «Il deterioramento dell'identità culturale ha condotto a uno squilibrio interiore delle persone che si manifesta con la rilassatezza morale, la corruzione e il materialismo, la distruzione del matrimonio autentico e della nozione di famiglia sana, mediante l'abbandono delle persone anziane e la negazione dell'infanzia. In seguito ai conflitti armati si è installata una cultura di violenza, di divisione e il mito del guerriero eroe. Sembra che, col pretesto della modernità, sia in atto un processo organizzato di distruzione dell'identità africana» (II, 31). «Le popolazioni sono preoccupate della crescente perdita dell'identità culturale, soprattutto tra i giovani» (II, 52). 

Durante gli anni vissuti in Camerun, tra i beti del Sud e tra i foulbè, i tupurì e iguiziga del Nord, ho raccolto tanti elementi delle loro culture: manufatti, maschere, sculture, strumenti da lavoro, monili... Ho fatto anche tesoro di documenti, racconti orali, proverbi, preghiere, nomi e descrizioni di celebrazioni, riti e momenti delle loro esistenze. In virtù dei tanti anni vissuti tra loro in questa maniera, e per le relazioni di profonda amicizia che avevo con tante persone, sono stato chiamato a tenere incontri di formazione per quanti erano incaricati dagli organismi dello sviluppo a condurre iniziative di promozione umana. Persone cioè di un certo livello, che avrebbero dovuto conoscere bene le tradizioni che per secoli avevano tenuto unite quelle etnie. Persone che dovevano comprendere le radici culturali per dare forza vitale all'albero del loro ambiente sociale, facendo conoscere il loro essere popolo e dandosi una saggia organizzazione. Naturalmente c'era anche un lavoro di discernimento, di "filtraggio" delle usanze e di apertura alla convivenza con le altre culture.

Un elemento fondatore delle identità culturali è senza dubbio quello della parola, che forse oggi, nella situazione di globalizzazione in cui viviamo, rischia di entrare in crisi profonda. Purtroppo, proprio osservando e seguendo ora informazioni, ora giudizi, ora supposizioni, ora attacchi offensivi, mi domando cosa diventerà il linguaggio in futuro. Alcuni discepoli domandarono un giorno a Confucio: «Dove cominceresti se dovessi governare il popolo?». Il maestro rispose: «Migliorerei l'uso del linguaggio». E dopo aver spiegato che non si può vivere senza un linguaggio preciso, concreto, onesto, giusto, concluse: «Non si tolleri perciò alcun arbitrio nelle parole. Ecco il problema primo e fondamentale».  

Papa Francesco, come riporta l'Osservatore Romano di venerdì 2 dicembre 2016, ha detto che ci sono delle resistenze nella vita che ci impediscono di andare avanti; sono «le parole vuote, le parole giustificatorie e le parole accusatorie». Parole impiegate male e nocive alla persona tanto quanto alla società. Il Papa continua il suo discorso citando il Vangelo come base e sostegno del suo pensiero. Vangelo che vede la parola come spartiacque di verità e di giustizia. Questo discorso sul retto e sullo scorretto uso della parola mi incoraggia a presentarne alcune piene di saggezza, tratte da alcuni proverbi dei tupurì del Nord del Camerun, che fanno trasparire il ruolo di primo piano assunto dal linguaggio nella loro cultura: «La lingua è stata messa come spartiacque delle parole»; «Non si semina con la pioggia la parola di un mentitore»; «È l'anziano che deve parlare»; «Le parole passano, il male fatto resta».

Oggi Papa Francesco ci invita a «valorizzare ogni popolo, la sua cultura, la sua lingua», mentre nella globalizzazione «a volte anche l'uomo africano è costretto a fuggire fuori da se stesso, e ad abbandonare tutto ciò che costituiva la sua ricchezza interiore». (Benedetto XVI 2009). Tutti ormai siamo responsabili della perdita di valori-radici, quando un proverbio dei tuareg ne mette in luce, con estrema semplicità, tutta l'importanza: «La forza si trova nelle radici».

Un uomo vivo nel deserto

Alessandra Stoppa

Tracce.it – Novembre 2012


Ha seguito il Sinodo da un’oasi nel Sahara. Dove, senza parrocchia né fedeli, dice messa nelle basi petrolifere. Missionario (da una vita) del Pime, padre SILVANO ZOCCARATO inizia l’Anno della Fede tra berberi e tuareg. «Mi ricordano che l’uomo non può vivere senza Dio», dice. Mentre racconta l’ultimo viaggio a Tibhirine. Nel monastero dei sette martiri che «sono ancora presenti»

 

Touggourt, un’oasi nel deserto algerino, ormai città da cinquantamila abitanti. Berberi e tuareg. Intorno è tutto sabbia e rocce per chilometri. Padre Silvano Zoccarato è davanti alla bettola dove ha mangiato un pasto da operaio da 70 dinari, poco più di mezzo euro, guarda il termometro: 47 gradi. «Sabrun bab ge’na», sorride. «La pazienza è la porta del Paradiso». Gli amici dall’Italia glielo chiedono spesso: ma cosa fai lì? «Me lo chiedo anch’io». 

Missionario del Pime, padovano di nascita e trapiantato a Treviso, nel rispondere pensa al giorno in cui è arrivato. Nella chiesetta della parrocchia che non è più chiesa ma sul portone ha una luna rossa e ospita un’associazione musulmana, gli era stato riservato uno spazio per pregare. Ad aspettarlo, c’è una lampada accesa. «Tutto fiero, dico: “Gesù, ho lasciato il Camerun e ora sono qui per Te”. Ma, subito dopo, mi è sembrato di sentire: “Sono Io che sono qui per te”».

Nel 2006, con alle spalle oltre trent’anni di missione nelle foreste e nelle savane del Camerun, legge un avviso del suo istituto missionario: «Si sta pensando ad una presenza in Algeria. Servono tre persone: una di 70 anni, una di 50 e una di 30». È andato dal Vicario generale: «Quello di 70 sono io». È partito, per primo e solo. Lo è tuttora, e da sei anni è là nel mezzo del deserto del Sahara, dove la tv non manca e lui ha potuto seguire il Sinodo di ottobre e lasciarsi entusiasmare dall’Anno della Fede voluto dal Papa. «Si tratta di ritrovare Gesù!». È

saltato su quando tra gli interventi dei padri sinodali ha sentito parlare della missione con queste parole: «La Chiesa è testimone dell’opera di Dio tra gli uomini e lo Spirito le dona di meravigliarsi della fede dell’altro».

 

Il saluto e le mosche.

È chiaro perché lo colpisca così. È la meraviglia con cui parla della gente intorno a sé: «Il signore musulmano che mi tiene pulita la casa, sa fare di tutto. Ama la mia persona, la mia presenza. Ama le suore come la sua famiglia... Io osservo la sua vita. È gioioso. Chi è Dio per lui? Che cos’è la Chiesa per lui? E quella mamma che ha cinque figli handicappati? Ogni giorno li lava, li nutre, li serve. Dove trova la forza?». La nuova evangelizzazione. Il tema del Sinodo. Tu pensi a terre lontane, e lui lontano lo è, ma quando ne parla non è quello che hai in testa: «Nuova evangelizzazione è ciò che ha fatto Gesù: ha coinvolto e si è lasciato coinvolgere. I discepoli presero da lui la passione di vivere la vita come comunione. Pensa a come si è lasciato coinvolgere dalla sensibilità di sua madre, quando gli ha chiesto di aiutare gli sposi a Cana... E così da altri, fino a dire, lui: “Non ho mai trovato una fede così grande”».

Quando padre Silvano ha messo piede ad Algeri non gli sembrava affatto l’Africa. Piuttosto Genova, o Marsiglia. Ma la sua missione non era stare lì: Touggourt dista dalla capitale dieci ore di pullman. Trecento chilometri di pianure e colline con aranci e vigneti, e poi altri trecento tutti di deserto. Solo vicino ai centri petroliferi il paesaggio cambia: piloni elettrici e tubi di gas e petrolio, le immense nubi di fumo nero e l’aria densa di gasolio bruciato. «A Natale scorso sono andato a celebrare la messa in una base petrolifera con un piccolo aereo. Per centinaia di chilometri, a bassa quota, non ho visto un solo uomo nel deserto. I nomadi di questa zona ormai sono tutti cittadini, tranne qualche piccolo gruppo ben disperso».

Per i primi tre mesi è stato a Wargla, a 200 chilometri da Touggourt, dove ha seguito passo a passo la vita dei Padri Bianchi, una congregazione di missionari nata proprio in Algeria. A settant’anni, cento giorni di “noviziato” profondo e vitale. «Goccia a goccia», dice lui, «meglio che dei corsi all’università: la preghiera, i pasti, la scuola di arabo, i turni di cucina, pulizia, lavanderia. Tutto con loro». Alla messa, le uniche presenze erano due suore francescane.

Questo posto non ha niente a che vedere con le folle di cristiani del Camerun. Neanche con le chiese del Medio Oriente. In tutta l’Algeria ci sono qualche migliaio di cristiani stranieri e solo qualche decina di algerini. Dov’è lui, poi, sono tutti musulmani, praticanti o meno, se non kharigiti o mozabiti, le sette di berberi sedentari. A indicargli la strada è stato l’arcivescovo emerito di Algeri, monsignor Henri Teissier, con poche parole: «Non basta amare la Chiesa d’Algeria, ma è l’Algeria che va amata. Quindi gli algerini. E si ama l’Algeria nelle persone che incontriamo». E amare è conoscere, fino ai dettagli.

«Il saluto, per esempio, è fondamentale. Mi ha aperto una relazione ogni giorno più vasta». È sempre sul marciapiede che vive i suoi incontri. «Fin dai primi giorni ho salutato tutti. Tranne le donne, come mi avevano consigliato. Ma anche su questo c’è un certo progresso...». Ora lo salutano anche le ragazze che vanno a fare i compiti a casa sua e le mamme che le accompagnano. Mentre lui continua a fare attenzione. A seguire. E cambiare. Faceva strage di mosche, soprattutto se aveva ospiti, non lo fa più: «Ho visto un bambino allontanare con delicatezza la mosca che aveva sulla mano. Ho capito che il gesto violento anche contro un animale non piace».

«E tu, preghi?».

Durante il ramadan cerca di non far uscire gli odori dalla cucina. Si accorge della mamma che sta sulla porta di casa e, quando lui passa, tocca il figliolo perché lo saluti. O della signora che ogni mattina, da anni, va a farsi contare le gocce della medicina. Si ferma con gli anziani che gli dicono: «Venga qui, resti un po’ con noi». E lui, missionario da una vita, non è per niente tranquillo: che comunione vivo con loro? Immerso nella voce del muezzin che il venerdì invita alla preghiera, cammina in mezzo ad un quartiere che si ferma all’improvviso, tutti in ginocchio, e di nuovo una domanda lo buca: cosa faccio qui? «Più resto, più mi sento interrogato e spinto a rendermi conto di ciò che ci unisce già, anche se resta velato, prudente, ma in attesa. Mi sento chiamato ad approfondire quanto c’è già in me, nel mio essere cristiano». C’è anche qualcuno che osa chiedergli con affetto: «E tu, preghi?». «Mi ridicono che l’uomo non può vivere senza Dio. La preghiera è la cosa più bella della vita».

A volte va a celebrare la messa per i tecnici delle società petrolifere nella base di Hassi Messaoud, 180 chilometri da Touggourt, nella chiesetta di Nostra Signora della Sabbia. Sull’altare ha trovato una preghiera: Siamo uomini resi aridi nei sentimenti, dalla lontananza dai nostri cari. Resi duri dal pesante lavoro del deserto. Signora, stendi su di noi e sulle nostre famiglie il tuo manto benedicente. Proteggici ed aiutaci a perseverare nella fede. Torna a casa, saluta Gesù nel Tabernacolo, «solo come me», e continua in silenzio la presenza della Chiesa che qui non è mancata nemmeno nei tempi più duri, gli anni Novanta dei massacri. «Quando le donne musulmane vegliavano perché missionari e suore potessero dormire tranquilli e non pensare di partire».

Come le Piccole Sorelle di Gesù, arrivate in Algeria 73 anni fa e mai andate via. «Celebrare la messa con loro è il momento più bello della giornata», dice padre Silvano. Aveva ragione il beato Giovanni Mazzucconi, primo martire del Pime, che ad un amico che gli chiedeva cosa facesse tutto il giorno, rispose: «Celebro la Messa». Scrisse in una lettera: «Un sacerdote che dice Messa non deve, non può assolutamente, provare tristezza». Padre Silvano dice che essere con le Piccole Sorelle è un privilegio immeritato: «Loro sono madri della gente di qui, anche dei nomadi: almeno 10mila bambini sono nati nelle loro mani. Anche per loro la celebrazione è il momento dove ritrovano l’inizio e il senso della loro vocazione. Ed io seguo commosso quando recitano l’offerta dopo la Comunione: “Signore, ricevi l’offerta della mia vita ad immolazione per i miei fratelli d’islam e del mondo intero”».

Il pensiero va a Tibhirine. Il monastero sull’altopiano dell’Atlas che il mondo ha conosciuto per il film Uomini di Dio, storia dei sette monaci rapiti e uccisi nel 1996. Padre Silvano ci è stato di recente e scrive sul suo blog: «Sono ancora vivi». Il monastero è solo un piccolo resto, un edificio un po’ invecchiato e un minuscolo cimitero, ma con la potenza di un segno dello Spirito per tutta la Chiesa. «Sono andato a trovare padre Jean-Marie Lassausse, a cui dal 2001 è affidato quel luogo. Con lui ci sono due operai algerini del villaggio, Youssef e Samir, e poi Hubert ed Anne, un diacono e la moglie che dedicheranno due anni della loro vita lì». C’è la stanza del priore padre Christian de Chergé, quelle degli altri martiri, il piccolo dispensario del medico Luc, il luogo dove attendevano i malati algerini, il grande giardino... E la chiesa dove i monaci pregavano sette volte al giorno, fino agli ultimi istanti prima del rapimento.

 

La luna e la croce.

Scrive padre Lassausse nel suo Il giardiniere di Thibirine: «Un po’ alla volta, mi sforzo di capire tutto ciò che è stato vissuto qui. Non per diventare custode di un museo né tutore della memoria, bensì per essere il successore di una presenza straordinaria in questo piccolo villaggio di montagna stravolto dagli eventi». E aggiunge: «Voglio vivere provando semplicemente, come la riassume padre Christian, “la gioia profonda di restare senza altra responsabilità se non l’accoglienza del quotidiano come dono di Dio”». Lui si è sistemato nella vecchia casa del custode, passa le giornate sul trattore, tra il gregge e la semina. «Tibhirine significa “giardino” in lingua berbera», continua: «Le stagioni qui sono inclementi. Mettere radici in questa terra dell’Algeria richiede, lo ammetto, molta pazienza. Ma sento che l’avventura non è vana. Misteriosamente, senza rumore, nel segreto dei cuori e dell’incontro, questo giardino, irrigato dal sangue dei monaci martiri, rifiorisce».

Misteriosamente, senza rumore. Com’è per padre Silvano che a Touggourt celebra da solo anche per settimane, in quell’angolo dell’ex chiesa dove donne e ragazze imparano a cucire abiti tradizionali. Ma sulla cupola c’è ancora la croce. Piccola, un po’ piegata. Era stata tolta per delle riparazioni e lasciata da parte, i vicini l’hanno rivoluta. «Forse un giorno la chiesa ritornerà ad accogliere i cristiani e quanti lo sono nel cuore. Che sono più numerosi di quello che si vede con gli occhi», dice padre Silvano: «Quando rientro a casa, la guardo. E la mia speranza cresce».

Un prete in Algeria

Appunti per Radio Maria di Piero Gheddo - Luglio 2011

 

Cari amici di Radio Maria, quest’anno voglio presentarvi alcuni missionari che vivono situazioni particolari, per far capire come la missione alle genti è molto varia ed è vissuta da noi missionari con grande libertà di spirito. L’importante è che ci unisce la fede in Cristo e la fedeltà alla Chiesa e alla nostra vocazione missionaria. Tutta la nostra vita dev’essere orientata alla diffusione del Vangelo e all’annunzio della Buona Notizia di Cristo che è venuto a salvare tutti gli uomini. Vi ho già presentato padre Antonio Grugni missionario in India (dicembre 2010), padre Giorgio Bonazzoli missionario in Papua Nuova Guinea (febbraio 2011) e questa volta vi presento padre Silvano Zoccarato missionario per trent’anni nel Nord del Camerun e dal 2006 vive nella città di Touggourt, in pieno deserto del Sahara algerino.

 

La mia catechesi si sviluppa in tre parti:

1) La prima missione fra i tupurì in Camerun (1971-2006)

2) Missionario nel deserto del Sahara (2006-2011)

3) Perché una missione fra i musulmani?

I Parte – La prima missione fra i tupurì in Camerun (1971-2006)

Padre Silvano è nato nel 1935 a Campodarsego (Padova), studia nei seminari del Pime, è sacerdote nel 1959 e dopo alcuni anni di lavoro per l’istituto, specialmente nel seminario di Treviso, è destinato alla missione del Camerun. Tre mesi di studio del francese a Parigi (oggi si studia un anno di lingua), arriva in missione nel 1971 e lavora tre anni ad Ambam, nelle foreste tropicali all’estremo sud del paese. Una bella missione perché i cristiani rispondevano bene alle cure pastorali e i non cristiani si avvicinavano a Cristo e alla Chiesa. Il sud del Camerun, che è la parte più evoluta del paese, oggi è in maggioranza cristianizzato.

Nel 1974 il Pime voleva iniziare una missione nel Nord Camerun che si diceva fosse in maggioranza islamico. Poi non era vero, anche nel Nord l’islam non è maggioranza nemmeno oggi. Padre Silvano arriva nella diocesi di Yagoua nel marzo 1974 e, dopo alcuni mesi con gli OMI (Oblati di Maria Immacolata), inizia una nuova missione a Guidiguis fra la tribù dei tupurì, allora ancora animisti. Ecco come lui stesso racconta l’inizio della sua missione [1]:  

“Quando mi stabilii a Guidiguis andai ad abitare presso un cristiano che mi ospitò in una capanna accanto alla sua, anch’essa fatta di terra col tetto di paglia. Non potevo costruirmi una mia capanna perché non avevo ancora avuto dal capo villaggio il permesso di iniziare una missione. Ero solo un ospite e nessuno poteva mandarmi via. Due anni dopo potei costruire la capanna di mia proprietà e vissi il mio inserimento da amico, come uno del villaggio. Andavo a procurarmi il cibo e l’acqua, coltivavo un piccolo orto, imparavo la lingua della gente e celebravo la Messa da solo o con qualche cristiano di passaggio. Quello che mi univa a quei bravi contadini era l’interesse per i problemi comuni della vita e un po’ anche la curiosità di quello stare assieme. Una convivenza genuina e libera da interessi”.  

La caratteristica fondamentale di padre Silvano è di aver avuto, fin dall’inizio della sua vita missionaria fra i “tupurì” nel Nord Camerun, allora quasi totalmente pagani, la tendenza a entrare in dialogo con la gente comune, non solo per imparare la lingua, ma per immergersi nella loro cultura, nei loro costumi e tradizione religiosa. Capiva che l’annunzio di Cristo è un dialogo e si svolge in un’atmosfera di comunione e di condivisione. Ha poi portato questa esperienza nell’incontro con i musulmani dell’Algeria. 

“In quei primi tempi dovetti lasciare nelle casse i miei libri di teologia. La mia prima evangelizzazione in Camerun non fu la predicazione, ma l’amicizia e il contatto umano con tutti. Anche se non sapevo ancora bene la lingua tupurì, visitavo i malati, mi lasciavo avvicinare dai bambini, salutavo sempre, aspettavo le vecchiette che volevano darmi la mano, mi fermavo con gli uomini a chiacchierare, a bere birra di miglio. Tutto questo mi fece diventare presto amico i tutti. Alla sera visitavo qualche famiglia e stavo ad ascoltare i loro racconti e le storie del villaggio. 

“All’inizio questo adattamento mi risultava pesante, ma sentivo che il Signore voleva cambiare molte cose in me e mi lasciavo portare dagli avvenimenti. Lo stare ore seduto e in equilibrio su uno sgabello grande una spanna era una sofferenza; il dormire nelle capanne un tormento, con insetti, topi, lucertole, ragni, a volte vicino al pesce affumicato che puzza; il cibo africano mi sembrava immangiabile: tutti mettono le mani nell’unica ciotola per prendere un boccone di polenta di miglio e lo intingono nello stesso sugo! Poi, a poco a poco, tutto questo è diventato parte di me e ha acquistato un senso: era il mio modo di dialogare e di fare l’esperienza dell’altro”.

“Dopo due anni che avevo iniziato la missione a Guidiguis, il vescovo di Yagoua mi incarica di fare la scuola per catechisti a Doubané (a due-tre km. da Guidiguis). La cosa più bella è che questi 17-18 catechisti con le loro famiglie vivevano nel centro mantenendosi col loro lavoro soprattutto agricolo, avevamo un grande terreno e lo coltivavano. La missione dava loro qualcosa, ma veramente poco. Erano tre anni di formazione pagata da loro. Io ero con loro, mangiavo con loro e mi adattavo al loro cibo poverissimo, polenta di miglio, erbe e poco altro. Li preparavo al loro importante lavoro con una formazione biblica, catechetica e liturgica e loro mi hanno insegnato molte cose sulla cultura e religione dei tupurì.

“E’ stata una bella esperienza perché erano giovani veramente ben intenzionati e pieni di buona volontà. Quest’anno sarà ordinato prete del Pime il diacono Adolfo, figlio del mio collaboratore nella direzione del Centro di formazione dei catechisti. Dal 1974 fino al 2003 sono rimasto sostanzialmente sia a Guidiguis che a Dubané.

“Quando arrivai a Guidiguis, ho trovato cinque o sei cristiani che pregavano sotto un albero, venivano dalla parrocchia di Touloum che li aveva già preparati. Li battezzai nel Natale 1975. Nel gruppo c’era un uomo sordo, cieco e muto e gli altri mi dicevano; “Conosciamo la sua vita. Può essere battezzato”. E’ Dio che parla e prepara i cuori. “A Guidiguis sono stato il primo a celebrare la Messa sotto un albero. La Chiesa nasceva proprio sotto il miei occhi. Con altri padri del Pime, Piergiorgio Cappelletti, Mario Frigerio, Giuseppe Parietti, Giovanni Malvestio e altri, al Nord facevamo il primo annunzio di Cristo, perché in quella parte della diocesi di Yagoua, abitata dai tupurì, non c’era mai stata missione.

“La nostra pastorale era tutta centrata sul catechista. Se avevi un catechista bravo, ben formato, allora io completavo il suo lavoro, che era importante per formare i nuovi che vengono dall’animismo, cioè i neofiti, e prepararli al battesimo. A quel tempo (1975-1980 e anni seguenti), la missione viveva l’entusiasmo iniziale di quando nasce la Chiesa, per cui il battezzato stesso diventava missionario con la sua vita e la sua parola. In quel periodo era ancora forte la distanza o la differenza fra cristiano, animista e musulmano. I cristiani erano segni di attrazione alla fede, punti di riferimento per i non cristiani. Dopo, con l’aumentare del numero dei fedeli e col passare del tempo, questo entusiasmo iniziale diminuisce e a volta quasi scompare. Seguire Cristo richiede eroismo e costanza.

“Un’altra cosa che vorrei mettere in risalto è il rapporto che ho vissuto, che abbiamo vissuto noi del Pime con i sacerdoti fidei donum delle diocesi di Vicenza (ero andato a parlare col vescovo perché iniziassero una missione diocesana nel nord Camerun), poi la diocesi di Como (che nel Sud erano arrivati prima di noi), di Treviso e di altre diocesi. Non solo aiutarli ad iniziare, ma poi collaborare. Ad esempio quelli di Treviso il tupurì l’hanno imparato da me e da altri del Pime. Diventavamo proprio fratelli. Questo rapporto con i fidei donum è stato molto bello.

“Il clero indigeno di Yagoua e del Nord Camerun è aumentato. Nei primi anni noi eravamo quasi gli unici preti, dopo 40 anni la situazione si è capovolta, i preti locali sono aumentati e noi siamo diminuiti, com’è giusto. Oggi le diocesi del Nord hanno un certo numero di vocazioni locali che ultimamente studiavano al seminario maggiore di Maroua col rettore padre Giovanni Malvestio.

“Io avevo anche la passione dello studio. Quando sono arrivato nel Nord Camerun nel 1974, ho vissuto con questo popolo tupurì, che viveva ancora come ai tempi passati. Le loro tradizioni culturali, linguistiche, religiose erano molto vive. Nella prima lettera che ho scritto dal Nord ai superiori del Pime dicevo: i primi missionari che mandate, scegliete uomini che abbiano voglia di studiare. Infatti io e altri abbiamo studiato seriamente la lingua tupurì e abbiamo prodotto il lezionario della Messa e altri testi sacri.

“La Bibbia invece è in guizigà perché i protestanti stavano già studiando questa lingua del Nord Camerun e padre Antonio Michielan, che a Parigi ha studiato la linguistica africana, si è impegnato con loro. Il padre Giuseppe Parietti sta pubblicando altri testi liturgici e il dizionario fulfuldé-francese, la lingua franca più conosciuta nel Nord Camerun e in tutta l’Africa sotto il Sahara. Il nostro gruppo nel Nord Camerun, oltre a fondare la Chiesa e curare il primo annunzio ai non cristiani, ha fatto anche un buon lavoro di studio e di pubblicazioni in tupurì, bguizigà e fulfuldé.

“I tupurì sono una grande etnia di circa mezzo milione di abitanti nel Nord Camerun e in Ciad, che sta avvicinandosi e convertendosi al cristianesimo. Vivendo con loro mi sono accorto che i nomi delle persone sono molto importanti, perché attraverso i nomi la persona esprime la famiglia e la linea di vita della tradizione familiare, cioè i valori profondi di quella cultura. Così anche i proverbi, che nelle culture senza scrittura tramandano la saggezza secolare di quella etnia. Ho studiato e pubblicato volumi sui nomi e sui proverbi, conosciuti e citati anche nelle facoltà di studi africanisti in Francia.

“Verso la fine della mia permanenza in Camerun ero arrivato a insegnare alle comunità cristiane i valori della loro cultura tupurì, perché in essa si trovano proprio quei “semi del Verbo” che il Concilio ha ricordato come punto di partenza per un dialogo interreligioso. Tre soprattutto: 

1) Il forte senso della presenza di Dio nella vita dell’uomo. Tutto viene da Dio, tutto dipende da Dio, questo lo sentono fortemente, per cui pregano quel Dio che non conoscono in ogni circostanza triste o lieta della vita. Qualunque cosa facciano, pregano, offrono sacrifici a Dio. 

2) Il secondo è il senso della vita che esplode in danze frenetiche nelle feste del matrimonio, della nascita e perfino nella “festa” della morte. Molti popoli soffrono ancora per la povertà, le calamità, e le ingiustizie, ma continuano a credere nella forza e nella gioia della vita. Davanti a certe mamme, mi chiedo dove trovino ancora la pazienza e la fiducia. 

3) Il terzo è il senso dell’altro. Se una famiglia qualunque sta mangiando e arriva un altro gruppo di persone in cammino, li ospitano subito e lasciano a loro tutto il cibo che avevano preparato. Questa ospitalità abrahamitica, che si trova spesso nell’Antico Testamento, è una preparazione a Cristo. 

“Questi valori mi hanno impressionato e ho pensato che se avessi dovuto iniziare la missione in questa o altre etnie non ancora toccate dal Vangelo, per prima cosa avrei imparato la lingua, i nomi, i proverbi e i loro racconti, per rendermi conto dei valori che in quella etnia erano vivi. E partendo da queste basi da Antico Testamento avrei annunziato la novità di Cristo, che non abolisce le culture e le religioni, ma le purifica dal peccato e le innalza con la sua vita, morte e risurrezione. C’è ha ancora un lungo cammino da compiere per giungere ad un’autentica incarnazione del messaggio in quelle culture che, come dice il Vaticano II, sono una preparazione all’incontro con Cristo.

II Parte – Missionario nel deserto del Sahara

La missione del Pime in Algeria nasce nel 2004, quando il vescovo di Laghouat in Algeria, mons. Michel Gagnon dei Padri Bianchi, invita il Pime a prendere una missione nella sua grande diocesi sahariana (più d’un milione di kmq.), “iniziando una presenza missionaria ad Hassi Messaoud, cuore della produzione petrolifera algerina, che conta una popolazione locale di circa 30.000 abitanti e 3.000 stranieri di 40 nazionalità diverse, dove c’è una delle due chiese aperte al pubblico della diocesi” [2].  Il vescovo chiede tre padri, uno sui 70 anni, uno sui 50 e uno sui 30. In quell’anno padre Zoccarato era in vacanza in Italia dal Camerun e incontrando il vicario generale padre Luigi Bonalumi gli dice: “Per il padre di 70 mi offro io”, infatti nel 2005 compiva i 70 anni. Un anno dopo (2006), mentre era tornato in Camerun, i superiori prendono sul serio la sua offerta e lo destinano in Algeria.

 

Le Piccole Sorelle nel “quartiere dei ladri”

Così, con molta semplicità, nasce l’avventura apostolica del Pime in Algeria, fra non pochi contrasti, perchè i missionari dell’Asia avrebbero scelto gli inviti di vescovi della Corea, oppure di impegnare altro personale nell’interno della Cina, dove già vi erano alcuni del Pime; e i missionari in Africa, specie in Guinea Bissau, avrebbero preferito accettare l’invito di un vescovo italiano (mons. Angelo Dal Corso di Saurimo) in Angola, anche questa ex-colonia portoghese con grandi prospettive di lavoro missionario e di conversioni (gli angolani sono cattolici per circa il 60%). 

Ma l’intenzione più volte espressa del superiore padre Gianni Zanchi e della direzione generale era di aprire una nuova presenza fra i musulmani che desse all’istituto l’idea di un modo nuovo di essere missionari, non più tanto nel fare, ma nell’essere. La presenza in Algeria è un modo diverso di fare missione, fra i musulmani ma valido per tutti i missionari fra i popoli non cristiani: non più la missione del fare, predicare, convertire, battezzare, costruire, curare, aiutare i poveri, insegnare; ma la missione dell’essere come Cristo per annunziarlo con la vita.

Quindi richiamare a tutti i missionari la preghiera, la meditazione, la contemplazione, l’imitazione di Cristo. Senza l’intimità con Cristo, non c’è missione.

Padre Silvano arriva in Algeria il 23 settembre 2006 e un anno dopo, nell’estate 2007 giungono gli altri due missionari, padre Emanuele Cardani (diocesano di Novara associato al Pime) e padre Davide Carraro. Emanuele, già fidei donum in Ciad, parlava bene francese e ha trascorso un anno negli Stati Uniti per imparare l’inglese, mentre padre Davide (ordinato sacerdote nel 2006) era a Parigi a studiare il francese. Poi Davide è andato in Egitto a studiare l’arabo classico, Emanuele è rimasto un po’ con Silvano, poi ha iniziato il suo apostolato nel deserto ad Hassi Messaoud, per l’assistenza religiosa al personale dei pozzi petroliferi.

Appena arrivato in Algeria padre Silvano passa tre mesi con i Padri Bianchi a Wargla, periodo che, dice, “è stato per me un vero noviziato, con molta fatica per adattarmi, a 70 anni, ad un nuovo ambiente, ma anche una grande ricchezza, soprattutto perché c’era un padre anziano che era la storia dell’Algeria incarnata dal 1950 ai nostri tempi. Avevo già letto molto sull’Algeria, ma quel padre Denis, che è ancora sul posto, dice: “mi insegnava tante cose". In quei tre mesi, oltre allo studio dell’arabo, ho avuto la fortuna di imparare dal vivo la storia dell’Algeria e della Chiesa in Algeria, mi sono ambientato anche culturalmente. Soprattutto quei tre mesi mi hanno fatto comprendere la complessità del popolo algerino e delle situazioni sociale e politica del paese. L’Algeria è complessa anche per la sua identità: ha un’identità occidentale, ma anche arabo-musulmana. L’arabo è l’unica lingua ufficiale del paese, il francese è ancora parlato al Nord, ma nel deserto dove sono io no, cioè quasi niente”.

Dopo questi tre mesi padre Zoccarato va ad abitare nella residenza dei Padri Bianchi a quel tempo senza sacerdote a Touggourt, una città di circa 80.000 abitanti in pieno deserto, dove dal 1950 vivono le Piccole Sorelle del De Foucauld. Racconta: “Ho avuto un secondo noviziato di introduzione all’Algeria. Ho continuato a studiare l’arabo e ogni mattino andavo, come ancor oggi vado, dalle suore a celebrare la Messa, camminando per circa due chilometri. Mi fermo per colazione. Molto vivo il ricordo di suor Maddalena, che ha trascorso tutta la vita a Touggourt ed è diventata un personaggio famoso e benvoluto. Le suore sono a servizio della gente, specialmente delle famiglie più povere e abitano in un quartiere periferico, che era chiamato “Il quartiere dei ladri”, perchè i beduini facevano a volte qualche furtarello. La Maddalena ha preso le loro difese ed era talmente conosciuta in città e anche dalla polizia, che quando un beduino era arrestato, se dava alla polizia un foglio in cui suor Maddalena garantiva per quell’uomo, veniva rilasciato!”.

Cosa fanno quattro suore in una città totalmente musulmana, senza avere nessuna scuola o dispensario o attività pastorali. Hanno un palmeto di 60 palme e una suora è specialmente impegnata a mantenere la comunità curando le palme, che richiedono molta cura, e vendendo i loro datteri. La palma è bella e i musulmani la chiamano “la pianta del Paradiso”. Siamo nel Sahara e la produzione caratteristica di questa regione sono i datteri, che vengono esportati ma sono anche il cibo del deserto. La zona di Touggourt produce i migliori datteri dell’Algeria, che si vendono bene e vengono chiamati “dita di luce” perché sono belli chiari, luminosi, polposi e dolci. Ogni palma produce 200 chili di datteri all’anno e coltivando 60 palme le suore vi trovano buona parte del loro sostentamento, nella loro vita condotta in povertà.

“Le suore, dice padre Silvano, vivono con la gente e come la gente comune. Sono le mamme della città. Se c’è un ammalato vanno a visitarlo, se c’è una festa vengono invitate, se c’è qualche persona in difficoltà vanno a trovarla e la aiutano. Fanno tanti servizi alle famiglie, poi pregano e tutti sanno che sono donne consacrate a Dio nella verginità e in comunità. Prima di loro c’erano le Suore Bianche (dei Padri Bianchi) che al tempo della colonia francese avevano scuole e istituzioni sanitarie. Poi sono venute le suore del De Foucauld che nell’Algeria indipendente non potevano più fare quei servizi e allora vivono col popolo. C’è stato un tempo in cui una era ostetrica e molti sono nati nelle sue mani; un’altra, quando io sono arrivato,

per mantenere la comunità andava a fare la cameriera nella casa di un medico. Una terza lavorava in un centro di artigianato artistico locale”.

 

Padre Silvano un eremita nella città

Parlando a lungo con padre Zoccarato, che nel 2010 ha compiuto i 75 anni (è nato in provincia di Padova nel 1935), mi accorgo di quanto è appassionato a questa sua seconda missione. L’avevo già intervistato nel 1976 nella missione di Guidiguis nel nord Camerun, dove ha lavorato con la consolazione di numerose conversioni a Cristo, la formazione cristiana dei

catecumeni, le grandi feste della nostra fede celebrate in un popolo da poco battezzato ed entusiasta nella fede. Ora a Touggourt vive in una città nel deserto, dove gli unici cattolici sono lui e le quattro suore del De Foucauld. In città c’è un altro battezzato che si tiene nascosto e viene una o due volte l’anno a trovarlo, e poi a volte turisti di passaggio. Padre Silvano è entusiasta della sua missione, ci crede e questo gli permette di sopportare tante limitazioni col sorriso sulle labbra, ad esempio anche il clima a volte caldissimo, il termometro arriva anche a 50 gradi all’ombra!.

Gli chiedo se ha il tempo di leggere. “Certo, dice, ricevo libri e riviste e quando padre Emanuele viene con me alcuni giorni leggiamo assieme qualche libro missionario. Ricordo quando abbiamo letto il tuo “Missione Birmania”, dove racconti le fatiche e gli eroismi dei nostri missionari in quel lontano paese asiatico. Fuori c’erano 50 gradi all’ombra. Nessuno per strada. Noi leggevamo commuovendoci quell’autentico libro di avventure tutte autentiche e chiedevamo al Signore di dare anche a noi quello spirito che ha animato fin dall’origine i missionari del Pime”. 

Gli ho chiesto come spende il suo tempo, cosa ha fatto in questi quattro anni nel deserto fra i musulmani. Racconta: “All’inizio mi sono impegnato molto nello studio, sono arrivato a celebrare la Messa in arabo e dicono che lo pronunzio anche bene. L’arabo lo conosco per parlare con la gente, leggere i giornali, andare al mercato e anche insegnare a fare i compiti ad alcuni ragazzi che vanno a scuola.

“Insegno l’arabo, il francese e anche l’italiano a due-tre studenti o anche a uno solo. A volta l’inglese, ma non mi spingo troppo perché lo so poco anch’io. Mi è anche capitato di insegnare il latino ad un giovane medico, che voleva rendersi conto della radice di molti termini medici, che vengono dal latino o dal greco. La mia scuola è gratuita, mi portano da mangiare. Le mamme vengono con cuscus e altri cibi già preparati. A volte ricevo anche troppo cibo e allora invito qualcuno che soffre la solitudine, dicendogli: “Vieni ad aiutarmi”. Dopo le festività musulmane soffro la quasi persecuzione di aver continue visite per portarmi del cibo”.

“Ho iniziato la mia presenza a Touggourt con l’unico impegno di salutare e incontrare le persone, organizzarmi per vivere da solo e rendermi utile. Le Piccole Sorelle sono conosciute e anch’io comincio ad essere riconosciuto e aiutato. Quando vado a piedi al mercato per fare le spese, sono circa due chilometri. Ma tornando con borse molto pesanti, fermo una macchina, mi faccio portare a casa. Molti si fermano. Non ho l’auto e vivo benissimo senza. Le suore di De Foucauld e i Padri Bianchi hanno creato una bella atmosfera a Touggourt e adesso bisogna mantenerla. Accolgo tutti quelli che vengono a confidarsi per qualche motivo. Sono considerato il nonno buono e saggio.

”In passato, la chiesa di Touggourt è stata affidata alla Mezzaluna rossa (Croissant rouge), però solo la parte dov’erano i fedeli, divisa da un muro dalla parte dove c’era l’altare e la sacrestia, che è rimasta a noi. La uso come sala della preghiera.

La gente si meraviglia che la chiesa sia stata data alla Mezzaluna rossa, quello era un luogo sacro e doveva rimanere aperto per i cristiani, ma venivano anche i musulmani a pregare. C’è gente che vorrebbe entrare a pregare e quasi ci rimprovera di aver dato via la chiesa. Poi, sulla cupola la grande croce in ferro è stata messa da parte. Ma i vicini musulmani, non vedendo più la croce, si sono messi assieme e l’hanno rimessa sulla cupola. E’ l’unica croce visibile che si trova a Touggourt.

“Perché la chiesa l’hanno data via come molte altre in Algeria? Perché in passato c’erano centinaia di migliaia di francesi cattolici che poi sono tornati in patria e le chiese adesso sono moschee, biblioteche, sale per incontri e conferenze, insomma locali pubblici. Era il momento del terrorismo ed era bene dare le chiese allo stato.

La casa “parrocchiale” è ad un solo piano, con un bel giardino interno e un cortile verso la strada, quattro stanze, la cappella, una sala di biblioteca e la cucina. C’è l’acqua corrente e l’elettricità. La casa è stata costruita parecchi anni fa, in modo che protegge dal caldo, dal freddo e dalla pioggia, con mura molto spesse, una intercapedine fra il tetto e il soffitto delle stanze e dei corridoi che permette all’aria di circolare. Andrebbe conservata perché è una delle poche case del passato che ancora sopravvivono in città, per far vedere come si costruiva nel deserto. “Abbiamo fatto alcune riparazioni – dice Silvano - ma la casa è quella di mezzo secolo fa. Il clima è sopportabile, l’unica cosa veramente fastidiosa è il vento del deserto molto pericoloso, sia che ti trovi per strada, che quando sei a casa. E’ una polvere finissima che penetra ovunque, te la trovi sotto le lenzuola, sotto il cuscino. Dopo un vento di sabbia, tutta la casa va ripulita. Per fortuna capita solo tre-quattro volte l’anno”. 

Padre Zoccarato vive da solo, cura la casa, va al mercato a fare la spesa, si fa da mangiare, ma alcune volte, quando celebra la Messa al pomeriggio, si ferma dalle Piccole Sorelle per la cena. “Qui c’è molta frutta e verdura – dice - mi faccio dei grandi minestroni di verdura oppure pastasciutte con verdure. In città si trova tutto, non mangio molta carne, preferisco verdura e frutta, pasta e riso. In Algeria si coltiva tutto è un paese turistico, ci sono regioni che richiamano l’Umbria o la Puglia. 


Pellegrinaggio ai luoghi del Beato De Foucauld

”Da Algeri aTouggourt sono circa 600-650 km. I primi 200-300 fra montagne, altopiani, colline e foreste sono molto belli, poi si entra nel deserto. A Touggourt siamo in pieno deserto, come a Wargla e Ghardaia, sono 200-300 km. di pieno deserto e qualche piccola oasi con palme. Le città sono nate sulle antiche oasi, dove c’è acqua abbondante e buona, il pozzo delle Piccole Sorelle è profondo 15 metri. Piove poco, ma quando piove a volte i fiumi e torrenti esondano e succedono disastri.

La città da visitare nel deserto è Ghardaia, meravigliosa. Fino ad una trentina di anni fa c’era un forte turismo verso questa città, poi la situazione dell’Algeria non ha più permesso questo turismo di massa. Gardaia rimane la città più turistica del deserto del Sahara, per le moschee, le costruzioni, la pulizia e l’ordine, la disciplina.

Per i 50 anni di sacerdozio, padre Silvano si è concesso un pellegrinaggio a Tamanrasset (1.320 metri sul livello del mare, 76.000 abitanti) dal 10 al 20 ottobre 2009, con un prete e una volontaria francesi. Il pellegrinaggio è duro, austero, impegnativo. 23 ore di pullman da Touggourt, 1600 Km di deserto e di montagna, soste in ambienti poveri. Nel deserto il clima è caldo di giorno, freddo di notte. 

“I primi due giorni a Tamanrasset – racconta padre Silvano - visitiamo i luoghi di vita e di preghiera di Charles e nello stesso tempo veniamo a contatto con i Piccoli Fratelli e le Piccole sorelle. Si capisce De Foucauld e lo si sente presente quando si celebra l’Eucaristia nella sua minuscola cappellina di metri 1,70x 2,00. Vi celebriamo la sera del primo e dell’ultimo giorno. L’interno comprende anche sacrestia e studio (1,70 x 2,00), magazzino viveri (1,70 x 4,00). Tra il tavolino davanti alla finestra, dove De Foucauld ha messo insieme i quattro volumi del dizionario della lingua Tuareg, e il tabernacolo ci sono solo tre metri. Vi ha vissuto durante 12 anni con alcune soste dei viaggi in Francia, al fortino o all’eremitaggio.

Il 14 ottobre viaggio in auto a quattro ruote motrici verso l’Assekrem a 85 km. Sassi, sassi e poi sassi tra montagne di ogni forma: picchi, altopiani e in valli che non finiscono mai, qualche rigagnolo e piccoli laghi. Ma perché Charles ha voluto andare fino a quei luoghi isolatissimi? Proprio in alto a circa 2600 metri vedi l’eremitaggio dell’Assekrem. Padre Carlo ha scritto:

“La vista è la più bella che si possa dire o immaginare. Nulla può dare l’idea di una foresta di picchi e di guglie rocciose che si ha ai propri piedi. E’ una meraviglia. Non la si può ammirare senza pensare a Dio. Mi è difficile distogliere lo sguardo da questa vista ammirevole, la cui bellezza e impressione di infinito ci ravvicinano a Dio, mentre questa solitudine e questo aspetto selvaggio ci dimostrano quanto si è soli con Lui e siamo come una goccia d’acqua nel mare”. 

Padre Carlo, come altri eremiti, ha reso conosciuto questo angolo della terra, che diventa luogo di incontro con Dio e coi fratelli. Ma c’è voluto un po’ di pazzia. I Tuareg dicono due proverbi: 

“La verità è nascosta tra le sabbie del deserto, affinché chi la scopre sia considerato un pazzo, la mente bruciata dalla solitudine e dal sole”.

“Dio ha creato i luoghi ricchi di acqua perché l'uomo vi possa vivere e ha creato il deserto perché l'uomo vi possa trovare la propria anima...”. 

Il piccolo fratello spagnolo Ventura mi accompagna al mio eremitaggio, a circa un km dall’eremitaggio di Fr. Carlo e di quello dei piccoli fratelli. In questa stanza di sassi passerò due notti e qualche altro tempo di solitudine. Non manca niente, niente è di più, tutto è pura

semplicità. Dio parla ancora. Continua a dire le sue prime parole di Creatore: “Tutto è buono. Tutto è bello!”. Qui è facile pregare. Ed è meraviglioso constatare che l’uomo, creato ad immagine di Dio, parla e ascolta Dio.

Ho sfogliato un po’ il quaderno delle testimonianze che la gente lascia scritte all’interno dell’eremitaggio di padre Carlo, in tutte le lingue del mondo. In ogni scritto capisci chi è musulmano, cristiano, indù, buddista, ateo, in ricerca,ecc. Ma in tutti senti una sola cosa: La gioia di essere lì e la sorpresa di avvertire una grande novità nell’esistenza. Ne trascrivo solo due:

 Non sono credente, ma oggi sono arrivato qui all’Assekrem. Ho letto qualche parola di Charles de Foucauld. Mi sento vicino a Dio e all’anima, alla grande anima, all’uomo, al santo. All’Assekrem ho toccato con mano la grandezza dell’universo. Ne sono affascinato” H.H.

“Come non pensare al creatore universale davanti a tanto splendore. Un paesaggio lunare, una vista magica che porta all’umiltà. Sufficiente per ricordare all’uomo che è solo polvere e che deve tutto a Dio. Sufficiente per vivere felice” M. 

I Piccoli Fratelli mostrano il lavoro di raccolta dell’acqua. Su quell’altipiano, a 2600 metri, dove piove raramente, è sufficiente raccogliere la pioggia per avere l’acqua tutto l’anno. Piccole dighe, un canale di raccolta e alcune cisterne coperte.

Scendendo dall’eremitaggio si passa davanti alle casette dei Piccoli fratelli che fanno trovare the e biscotti. Li ho gustati anch’io assieme ad austriaci, olandesi e … italiani.

La grande attività svolta dai Piccoli Fratelli all’Assekrem è la manutenzione della zona per rendere possibile l’accesso, quindi riassetto dei sentieri dopo le piogge, e sistemazione degli eremitaggi attorno a quello del Fratel Carlo anzitutto perché i loro confratelli e consorelle possano venire a vivere in solitudine e preghiera in alcuni periodi della loro vita. Ce ne sono una decina, distanti tra loro anche qualche Km. E lontani dai luoghi dei turisti. Oggi a questi eremitaggi accedono anche altre persone che vengono da ogni parte del mondo. Passare due giorni in solitudine, in preghiera, riflessione e contemplazione, significa ritrovare te stesso e parlare con Dio.

Anche la Chiesa deve ritornare a Nazareth. Così scriveva Joseph Ratzinger nel 1977: “La Chiesa non può né crescere né prosperare se ignora che le sue radici si trovano nascoste nell’atmosfera di Nazareth. Prima della ricerca accademica, Charles de Foucauld ha incontrato il vero “Gesù storico” e aprì così una nuova via per la Chiesa, la riscoperta della povertà e della preghiera. Nazareth ha un messaggio permanente per la Chiesa. La Nuova Alleanza non comincia nel Tempio, né sulla Montagna Santa, ma nella piccola casa della Vergine, nella casa del lavoratore a Nazareth. Solo partendo da lì la Chiesa potrà prendere un nuovo slancio e guarire. Non potrà mai dare la vera risposta alla rivolta del Novecento contro la potenza della ricchezza se, nel suo stesso seno, Nazareth non è una realtà vissuta. Joseph Ratzinger 1977”.

III parte – Perché prete fra musulmani in Algeria?

L’interrogativo del titolo non è teorico. Ce lo siamo posti noi missionari del Pime, abituati alle missioni fra i popoli che ancora non hanno ricevuto la Buona Notizia del Vangelo. In Algeria, come in quasi tutti i paesi islamici, c’è libertà di culto solo all’interno delle poche chiese aperte al pubblico, ma negli ultimi 40 anni i martiri cristiani si contano a decine, compresi i quattro Padri Bianchi uccisi a Tizi Ouzou il 27 dicembre 1994, il vescovo di Orano mons. Claverie il 1° agosto 1996, i sette monaci trappisti di Tibhérine il 26 marzo 1996 e tanti altri.

E questo a causa dell’estremismo islamico che il governo laico combatte, ma le difficili situazioni di disoccupazione e di miseria in cui si trovano soprattutto i giovani (che sono più del 60% degli algerini) ne favoriscono la diffusione. I fondamentalisti islamici si stanno diffondendo gradualmente nella società, soprattutto nelle grandi città, ma vi sono anche gli algerini (specie gli intellettuali) che continuano ad usare il francese come lingua quotidiana, hanno una mentalità francese e un approccio verso il cristianesimo più libero e amichevole. 

 

Percorso difficile dopo l’indipendenza

Padre Zoccarato non parla della situazione politica dell’Algeria, ma è necessario sintetizzare la storia recente di questo grande paese, per capire la situazione in cui si trova la Chiesa algerina. Negli anni cinquanta e sessanta la “guerra di liberazione”, condotta dal “Fronte di

liberazione nazionale”, suscitò grandi speranze ed entusiasmi, che dopo l’indipendenza sono rapidamente naufragati. Per due motivi, uno politico e uno economico. Il governo del Fln, salito al potere nel 1962, si definiva “non allineato” nella guerra fredda fra le democrazie occidentali e i paesi a regime comunista, ma in pratica ha instaurato un regime di “socialismo reale” molto simile a quello sovietico. Il primo risultato di questa scelta folle è stata la fuga dei 900.000 coloni francesi che erano in Algeria spesso da una vita e rappresentavano la parte più istruita e competente della popolazione. Il paese è precipitato nel caos economico e civile, al quale hanno posto rimedio i tecnici venuti dall’Europa orientale.

L’Algeria non ha mai conosciuto la democrazia, ma è passata dalla dittatura del Fln a un regime militare che governa tuttora il paese, sia pure con le autorità civili, il parlamento e vari partiti. L’errore fondamentale del Fln è l’adozione del “socialismo” alla sovietica con un’economia rigorosamente pianificata, che dava la precedenza all’industria pesante, per la quale mancava il personale preparato. Con le grandi somme sprecate per costruire cattedrali nel deserto (letteralmente!), i governi hanno trascurato l’agricoltura che era la prima vocazione del popolo algerino, da cui una sana economia doveva ripartire. Il reddito medio pro capite si è dimezzato in due decenni ed è ancora diminuito durante la “seconda guerra di Algeria” degli anni novanta, dopo che i militari hanno impedito al Fis (Fronte islamico di salvezza) di governare, avendo vinto con largo successo le elezioni politiche del 1991.

Nei feroci scontri degli anni novanta si calcola che circa 200.000 algerini vennero uccisi, una mattanza che ha sparso nel popolo semi di altre violenze. Oggi l’Algeria, dopo aver raggiunto nel 2006 la pace fra i due fronti combattenti con la firma della “Carta per la pace e le riconciliazione nazionale”, è ancora tormentata dal terrorismo dei gruppi islamici estremisti, in particolare da “Al Qaida nel Maghreb” (il nuovo gruppo per la predicazione e il combattimento), che non hanno accettato l’accordo di pace. Le attività di guerriglia raggiungono anche il Sud del paese, sconfinando in Mali e Mauritania. L’insicurezza in cui vive il paese ostacola gli investimenti per lo sviluppo e il turismo, una delle principali risorse del paese. Inoltre, la disoccupazione che supera il 25% della forza lavoro, la corruzione delle classi dirigenti, la miseria di buona parte del popolo, con una classe media benestante e una élite economica pronte a difendere i loro privilegi con ogni mezzo, sono altri elementi che rendono incerto il futuro dell’Algeria.

Infine, non va dimenticata la questione berbera. I berberi sono circa il 20% dei 35 milioni di abitanti, hanno una forte identità etnica, storica e culturale, parlano la loro lingua e non si sono integrati con la maggioranza araba, discendente degli invasori musulmani nei primi secoli dopo Maometto. Vivono nella regione montagnosa a sud della zona costiera e chiedono l’autonomia federale e il riconoscimento del berbero come lingua nazionale assieme all’arabo e al francese. Fra l’altro proprio nella Kabilia sono nati quelli che si definiscono “gruppi evangelici”, che diffondono il Vangelo, esibiscono visibilmente la loro fede e si dichiarano cristiani della “Chiesa algerina”, indipendente dalle Chiese di origine straniera. Conquistano fedeli e si calcola che siano dai dieci ai ventimila, ma aumentano rapidamente (secondo cifre ufficiali, i convertiti in media sono sei al giorno).

In genere la presenza dei cristiani in Algeria è tollerata, in quanto sono di origine straniera e si impegnano a non fare “proselitismo”, ma queste conversioni al cristianesimo da parte di algerini e senza nessun influsso straniero risulta incomprensibile e spiazza le autorità che non osano intervenire apertamente, anche per paura di suscitare tra i berberi reazioni imprevedibili. La Chiesa cattolica e le Chiese protestanti si dissociano da questo movimento di popolo, ma lo stesso fenomeno si verifica anche in Bangladesh e in Marocco. Segno che la semplice lettura del Vangelo, ormai conosciuto anche attraverso internet, suscita quello stupore gioioso che caratterizza i neofiti provenienti da altre religioni.

 

Una Chiesa che rinasce

Nel secolo V secolo in tutto il Nord Africa, dall’Egitto al Marocco, c’erano 700 vescovi cattolici  [3].  Nei secoli VI e VII la conquista araba ha provocato un graduale declino, ma anche fino al X e XI secolo ci sono testimonianze di lettere inviate a Roma, al Papa, che dimostrano l’esistenza di comunità cristiane, che però diminuivano per le conversioni all’islam e per l’eresia donatista che staccava le diocesi da Roma. Nei secoli XI e XII i governi arabi hanno imposto a tutti i cristiani del Nord Africa di abbracciare la religione islamica. Sono rimasti solo i copti in Egitto. 

La Chiesa è rientrata in Algeria dopo la colonizzazione francese che inizia nel 1830 e la Costituzione del 1947 dichiara l’Algeria “territorio metropolitano”. Nel tempo coloniale la Chiesa godeva libertà religiosa, ma doveva limitarsi ad assistere i circa 900.000 coloni francesi. Le autorità coloniali proibivano ai musulmani di entrare nelle chiese, la stampa del Vangelo e di altri libri cristiani in arabo e non accettavano preti provenienti dalla Siria o dal Libano che parlassero arabo. In altre parole: l’Islam per gli algerini e il cristianesimo per i francesi. Quindi in quel periodo non ci fu la presenza attiva di una Chiesa missionaria, dato che anche i coloni francesi vivevano in una specie di apartheid.

Oggi la Chiesa algerina ha quattro diocesi, quak,che migliaio di fedeli (100 dei quali algerini che vivono con prudenza la loro fede), poco meno di 40 sacerdoti, un po’ più di suore; però decisa a restare come segno di presenza e di dialogo fraterno, a volte anche incoraggiata dalle pubbliche autorità, come dimostrano i recenti lavori di sistemazione della grande basilica di Algeri (“Madame l’Afrique” , in onore di Maria), finanziati in parte dal Comune che la considera un monumento nazionale.

C’è stata una evoluzione politica che favorisce la libertà, con approvazione di un sistema multipartitico e una certa libertà di stampa, con i giornali di opposizione combattivi e aperti all’Occidente. Anche il governo vuole tenere a bada i fondamentalisti e vuol essere percepito come un vero alleato delle religioni. Ma poi introduce leggi come quella del 2006 e un’ordinanza del 2008 che penalizzano fortemente il cristianesimo organizzato, cioè le Chiese come quella cattolica, non i gruppi evangelici spontanei della Cabilia. Comunque il prof. Camille Eid dell’Università di Milano, che ha visitato recentemente l’Algeria, afferma che vi sono parecchi segni di speranza per la Chiesa. Dice di “pregare perché l’Algeria era cristiana ed è stata convertita all’Islam dopo secoli di cristianesimo fiorente. Quindi non è strano che gli algerini possano tornare alle loro radici cristiane”.

 

Quattro missionari del Pime in Algeria

In questo quadro, come si pone la presenza del Pime nella Chiesa algerina? Oggi vi sono tre missionari sul campo e uno al Cairo (Davide Carraro) che termina quest’anno di studiare l’arabo. Padre Cesare Baldi (anche lui fidei donum novarese in Ciad e oggi del Pime) dal 2008 è ad Algeri, vive con l’arcivescovo come incaricato della Caritas algerina ed è sempre molto occupato. Padre Emanuele Cardani vive nella città del petrolio Hassi Messaoud, dove c’è la chiesa intitolata a “Nostra Signora delle sabbie”, che sta ricostruendo con l’aiuto di tecnici e operai italiani. Il suo compito è di assistere i molti lavoratori stranieri nei pozzi di petrolio. Egli visita e conosce le famiglie ed ha frequenti rapporti con gli operai e i tecnici del petrolio. La difficoltà principale è che i lavoratori hanno appena il tempo di mangiare e di dormire, nessun divertimento. Fanno 28 giorni continui di lavoro qui e 28 giorni in Italia. Anche gli algerini 28 giorni di lavoro a Hassi Messaoud e 28 giorni con la famiglia.

La città è solo lavoro, lavoro, lavoro, solo petrolio, petrolio, petrolio. Si lavora giorno e notte, succhiano dal profondo della terra petrolio e gas e ci vuole una presenza continua dell’uomo per controllare e lavorare. Tra l’altro l’atmosfera non è del tutto respirabile, con tutte quelle torce del petrolio che bruciano all’aria aperta.

Anche le missionarie dell’Immacolata (le sorelle del Pime) sono venute in Algeria. Suor Serena Stefani da un anno è a Ghardaia e sta aspettando altre due suore, poi andranno ad Hassi Messaoud; suor Gabriella Tripani e suor Rita Manzoni sono ad Algeri con padre Cesare per la gestione della casa del vescovo, casa di rappresentanza, di ospitalità e di incontri, molto importante per la Chiesa algerina. 

Padre Silvano Zoccarato è contento di vivere fra i musulmani: “Molti missionari del Pime hanno vissuto o ancora vivono (ad esempio quelli nell’interno della Cina) il tempo dell’attesa, del silenzio, della preghiera, senza avere risultati di conversioni o senza nemmeno poter annunziare apertamente Cristo. Mia sorella suora mi scrive e mi chiede spesso: ma tu cosa fai a Touggourt? Io le rispondo: “Ogni giorno celebro la Messa, porto il Dio fatto uomo tra i musulmani. Questo il mio primo impegno e la mia prima missione. Il secondo è il vivere con la gente, far vedere che c’è un prete cattolico in città che accoglie tutti, parla con tutti, vive come e con tutti, vuol bene e aiuta tutti quelli che può aiutare. Io celebro la Messa in un popolo non cristiano. E nella Messa mi immergo in Cristo, mi immedesimo in Cristo, porto Cristo al popolo algerino, che è il massimo dell’attività missionaria. Siamo nel tempo dell’attesa, lo Spirito farà lui quel che è meglio. Viviamo il tempo di Nazareth.

“Ringrazio il Signore che mi ha portato in Algeria. Dopo l’intenso lavoro in Camerun, qui trovo il tempo e la libertà di dedicarmi ad una preghiera più profonda. Al termine del suo impegno come arcivescovo a Milano, il card. Martini ha detto: “Adesso sento la chiamata ad una preghiera più profonda”. Io vivo a Touggourt dove ci sono anche quattro sorelle del De Foucauld nella loro casa di fondazione della congregazione, con le quali condivido la preghiera. Questi momenti di adorazione, di preghiera sono importanti. Poi faccio qualche piccolo servizio ai giovani che chiedono di imparare l’italiano o il francese e attraverso questi piccoli incontri di scuola arrivo anche a dialogare con loro. Più che testimonianza direi che la mia è una presenza amica che aiuta, che conforta, che porta speranza. La gente apprezza la presenza delle suore e mia, guai se andassimo via.

“Quando il Papa è andato alla Statua di Maria in Piazza di Spagna l’8 dicembre scorso, ha detto: “Sono qui a pregare Maria perché vorrei vedere Roma come la vede la Madonna, che è mamma e avvocata dei romani”. Ecco, anch’io ho imparato a vedere Touggourt e la sua gente come li vedono le suore, mamme e avvocate con una lunga esperienza di vita in Algeria. A volte, chiacchierando mi viene di dire: sì, però ho visto anche questo e quest’altro e mi riferisco a cose negative; ma loro dicono: sì, però… e mi fanno vedere il positivo”.

 

La settimana della Mariapoli fra i musulmani a Tlemcen

Nel 2009 padre Silvano ha festeggiato i suoi 50 anni di sacerdozio. Il 7 novembre 2009 i Padri Bianchi di Wargla sono andati a Touggourt con alcune suore e una quindicina di africani, studenti del Burundi, dell’Uganda, del Congo Brazzaville e del Camerun che frequentano l’università a Wargla e sono cristiani. 

“La mia cappella – dice padre Silvano – per la prima volta da quando sono arrivato era strapiena. I giovani hanno raccontato di trovarsi fra gli studenti algerini che generalmente sono accoglienti e gentili, ma alcuni mostrano qualche difficoltà ad accettare che ci siano degli africani cristiani. Venendo qui si sono accorti che l’essere cristiani non si può nascondere e mettere da parte. Ma col loro atteggiamento e comportamento sereno, discreto e pieno di pazienza e di bontà, si sentono benvoluti e stimati. E poi hanno manifestato la gioia di vivere un momento di preghiera con fratelli della stessa fede. La solitudine e la lontananza dal loro paese pesa loro moltissimo, ma sono contenti di poter vivere momenti di fratellanza e di universalità. Ho sentito in me un affetto profondo per questi giovani, miei fratelli e figli carissimi. E’ la nostalgia di quanto ho vissuto in Camerun? E’ la realtà del sacerdozio che mi fa segno di comunione e mi dà una vera paternità? La Messa mi fa sentire che la celebro insieme a tanti che vivono nella discrezione, ma con un lievito dentro che anima ogni sentimento e scelta. In arabo si direbbe: Ma zelt elbaraka! La benedizione non è ancora finita, ce n’è ancora. Dio aveva detto ad Abramo : “Sarai benedizione per una grande moltitudine”. 

Per il suo 50° di Messa di padre Silvano le Piccole Sorelle di Touggourt gli hanno regalato una bella stola intessuta da un centro locale di artigianato, che mantiene viva l’arte tradizionale dei touareg del Sahara. Un centro che dà lavoro a tante donne. Al momento di pagare le donne dicono: “La stola è per la preghiera, non chiediamo nulla”. “Ora - dice Silvano – quando celebro porto su di me e dentro di me la fede, la preghiera, il lavoro di molte povere donne che mantengono le loro famiglie con tanti sacrifici. Donne meravigliose che mostrano un impegno per formare un mondo aperto, onesto, fraterno. Ma quello che più mi commuove nel popolo algerino è il senso vivo di Dio, vissuto e rispettato. Un amico, formato alla scuola dei Padri Bianchi, ha voluto che mantenessimo visibile una statua della Madonna che coprivamo per un certo rispetto a chi entrava da noi. “Quella è Lalla Myriam, la mamma di Isa (Gesù). Anche noi le vogliamo bene”. E poi un giorno parlando di noi, disse: “Voi siete preghiera, voi siete persone di Dio”. 

Padre Silvano racconta che nel 2007 è stato una settimana a Tlemcen (ad ovest di Orano) nella casa dei focolarini che sono in Algeria da circa quarant’anni e hanno una casa anche ad Algeri. Ha partecipato alla Mariapoli, con 150 amici dei focolarini, fra le quali anche persone istruite medici, insegnanti e via dicendo. La loro presenza in terra d’islam  ha lo scopo di fare amicizia con molte persone sul tema dello spirito dell’amore. L’amore che è presente in Dio, si può

vivere nelle famiglie, nelle comunità, nel mondo intero. Silvano racconta: “E’ stata una bella esperienza: 150 famiglie che vivono il messaggio di amore di Gesù, che è accettato e amato come un grande profeta. Però questi incontri, questo spirito, questo dialogo e amicizia con persone di altra fede religiosa sono una preparazione all’incontro con Cristo nella verità, quando Dio vorrà”.

Poi continua: “Questa comunanza di vita con il popolo musulmano mi ha convinto che il Gesù che i valori evangelici sono accettati: amiamoci come fratelli, aiutiamo i più poveri, ecc. Ci vorrebbe un focolarino per dirti come riescono a trovarsi in accordo con i musulmani sui valori evangelici. Quest’anno, il tema della Mariapoli ad Algeri era la pace, io non ci sono andato ma mi hanno detto che ha avuto un ottimo risultato. Tra l’altro un musulmano ha detto: “Noi non veniamo qui per discutere di problemi teologici, ma per poter ritornare ai sentimenti profondi della nostra fede delle origini”.

“Io faccio una riflessione. Da cinquant’anni sono sacerdote e missionario, eppure sono qui in terra islamica per ritrovare i valori profondi della mia fede e del mio amore a Cristo. Se i musulmani più sensibili fanno lo stesso cammino per ritornare alle origini della loro fede, questi due cammini ci portano verso non dico una unità, ma ci riportano a Dio che è unico per tutti, allora noi possiamo ritrovarci fratelli. Quest’anno parteciperò anche alla Marcia per la pace, che ha questo titolo: la libertà religiosa via per la pace. E questo non significa solo o principalmente chiedere al governo di assicurare la libertà di religione, ma di chiedere a Dio di convertirci tutti alla libertà di religione, di cui tutti gli uomini hanno bisogno.

“Conosco un musulmano profondamente religioso che dice: “Se mio figlio si facesse cristiano, lo ucciderei”. Questo significa che la conversione alla libertà religiosa non è solo un problema di leggi, di polizia, di governi, ma è la lenta conversione che matura in un popolo. Non basta chiedere al governo di garantire la libertà religiosa, ci vuole una conversione autentica e profonda che deve venire dal popolo e che riguarda tutti, certamente i musulmani, ma anche noi cattolici.

Come noi, per ritrovare le radici della nostra fede, ci rifacciamo a Cristo e agli Apostoli, così i musulmani dovrebbero ritornare all’ispirazione religiosa di Maometto, che era molto forte e autentica. Poi ci sono state le guerre, le conquiste islamiche di popoli cristiani, poi le Crociate, poi tanti altri avvenimenti storici che ci hanno allontanati dalle nostre e loro origini. Ma è possibile incontrarci da fratelli ritrovando ciascuno la sua autentica radice religiosa”.

 

[1]  S. Zoccarato, “In Africa da ospiti”, in “Missionari del Pime”, febbraio 2005, pagg. 6-7.

[2]   “Il Vincolo”, n. 208, agosto 2004, pag. 4.

[3]  Vedi: Camille Eid, “Algeria: speranza in una Chiesa nascosta”, Agenzia Zenit, 4 ottobre 2010

Primi mesi in Algeria

MDI aprile 2008   

Sono stato adescato da una proposta del mio Istituto: "Si sta pensando a una presenza in Algeria. Ci vogliono tre persone: una di settant’anni, una di cinquanta, e una di trenta". Incontrato p. Luigi, allora vicario generale, gli ho detto: "Quello di settant’anni sono io". Sono arrivato in Algeria un anno fa. Dopo molti anni passati in Camerun. Gli ultimi mesi prima della partenza sono stati di intensa attesa a causa di difficoltà per il visto. Ho potuto darmi alla lettura: Algeria, Islam, Maddalena, fondatrice delle Piccole Sorelle, storia e situazione della Chiesa algerina e altro ancora. E ho avuto tempo di ripensare al mio cammino di missionario.   

PREPARAZIONE

15 settembre 2007, anniversario della nascita di Charles De Foucauld, metto i piedi in Algeria. De Foucauld, mi dicono gli esperti, va visto nel suo itinerario verso la sua "immolazione" per una "fraternità universale". Mi piace sentirmi così  anch'io all'inizio di  un  nuovo cammino.., aspirando, lavorando e pregando per la fraternità universale. Passo i primi tre mesi a Wargla presso i Padri Bianchi dove ho la fortuna di partecipare ad una vera scuola di vita; vita comunitaria, preghiera, scuola di arabo, pasti insieme, turni di cucina, pulizia, lavanderia, ecc. Questo mi permette di entrare nell'ambiente missionario di persone che hanno vissuto 50 anni di Algeria.

Tre mesi di noviziato profondo, goccia a goccia, vitale, fraterno, meglio che dei corsi all'università. Quello che leggo e sento, lo posso verificare con gente esperta.

Posso dire: "Chi ben incomincia...". Il resto... Inch’ Allah!

La forza di studiare l'arabo mi viene dalla gioia che ho provato già in  Camerun  nel conversare un  po' con la gente. E’ il miglior modo di amare.

Con me c'è anche un giovane allievo dei Padri Bianchi, proviene dal Mali, è un giovane Padre Bianco polacco, nuovo anche lui dell'ambiente. Tra parentesi, il primo algerino che ha saputo che non ero un Padre Bianco, mi ha chiamato "Padre senza colori". A Wargla, a quattrocento metri dai missionari, ci sono due suore francescane, quasi le uniche fedeli alla messa celebrata o presso di loro o nella casa dei Padri Bianchi.

Quasi.., perché nel giorno festivo qui tra i musulmani è il venerdì, si aggiungono, contandoli sulle dita della mano, alcuni Cristiani di varie chiese sorelle.

A Natale mi trasferisco nella nostra nuova missione di Touggourt. Attendo i miei compagni che arriveranno a giugno e a settembre. Da solo sto bene, mi manca l'aiuto materiale e spirituale del gruppo e sento debole la testimonianza. La gente potrebbe vedere ed essere confortata dalla comunione e dalla fraternità dei cristiani. 

 

LA GENTE

Tutti si dicono Algerini, ma sono arabi, berberi, touareg sedentari e nomadi, molti neri di varie origini, parecchi discendenti di schiavi e poi "piedi neri", francesi e gente di ogni nazionalità.

Tutti musulmani, praticanti e non praticanti, membri di confraternite, e poi Karigiti, Mozabiti, e nelle montagne gruppi di integralisti e combattenti.

Quando dico che sono appena arrivato, mi fanno un'accoglienza gentile e calorosa: "Tu es chez toi - Sei a casa tua!". Leggendo vecchie storie, trovo il giudizio comune che la gente qui porta dentro e fuori i tratti d'animo di fierezza, nobiltà, solidarietà, accoglienza...

Oggi, molti hanno perso la fiducia nel prossimo. Gli anni duri dei massacri, hanno lasciato il sospetto, la paura. Per la strada, quelli che mi parlano non fanno che guardarsi attorno per vedere se qualcuno li osserva.

Ma la gente, musulmana al cento percento, non appartiene all'islamismo che conduce alla violenza. Piuttosto sono sensibili alla dimensione religiosa e mistica dell'Islam, inclini a un profondo rispetto delle persone. 

 

RESTARE A TOUGGOURT

Gli amici in Italia mi chiedono: "Che cosa fai a Touggourt?" A volte me lo chiedo anch'io.

Adatto a me stesso il discorso di p. Teissier, arcivescovo di Algeri, ai 35 nuovi arrivati in quest'anno e mi dico: Mettiti bene in testa che qui non hai più le folle cristiane come in Camerun. In Algeria c'è qualche migliaio di cristiani stranieri e qualche decina di cristiani algerini che in più sono di cultura araba, berbera, musulmana e senza una antica e solida cultura cristiana, come per i cristiani delle chiese del Medio Oriente. Bisogna scoprire la missione che Dio ci ha affidato: essere Chiesa di tutto il popolo, anche se il popolo è musulmano. Si tratta quindi di scoprirvi degli amici e dei fratelli. Non è il numero che conta, ma la qualità del rapporto. Non basta amare la Chiesa d'Algeria, ma è l'Algeria che va amata, e quindi gli Algerini. Ciò comporta uno sguardo che sappia capire l'Islam e rispettarlo come religione del popolo al quale siamo inviati. Si ama l'Algeria nelle persone che incontriamo. Questo è prioritario: partire dall'amicizia e mirare all'amicizia inserendosi nel tessuto della vita, in qualche centro d'interesse come l'assistenza scolastica, le biblioteche, la formazione dei giovani, delle donne... Per avvicinarsi, bisogna saper entrare nella cultura. La conoscenza della lingua e della religione non basta, perché la cultura è più vasta. Cultura è anche cucina, musica e canto, sport, letteratura e tradizioni della vita quotidiana.

Occorre saper relativizzare le difficoltà, le propagande, le violenze e gli scoraggiamenti del paese. La missione è anche missione di speranza. Certo il paese ha attraversato immense sofferenze, correnti diverse, le cui tracce sono ancora evidenti. Per trent'anni c'è stato un partito unico. E’ difficile dimenticare e le relazioni non sono facili. Ci sono ancora scoppi di violenza e scoraggiamento nei giovani. Bisogna saper riprendere fiato. E’ importante saper trovare in se stessi, con l'aiuto di Dio, i mezzi di ricarica spirituale secondo le tappe del percorso. In altri Paesi ci sono molti aiuti. Qui le comunità sono piccole e molto distanti tra loro e ciò comporta dei sacrifici: clima, viaggi, spese e fatiche... E’ sul posto che si devono trovare gli aiuti. Per questo è molto importante il rapporto con gli abitanti, anche e perché musulmani. In questo rapporto alcuni missionari sono stati esemplari, come il padre Cominardi che ha percorso palmo a palmo il deserto, scoprendo molti segreti e condiviso l'amicizia con tante persone. Ci sono rimasti di lui gli studi, i reperti di graffiti e bassorilievi trovali, e le poesie scritte dalla piccola ammalata Someya, musulmana, con la quale aveva vissuto una spiritualità di grande valore.

 

LA MESSA

Celebrare la messa con le Piccole Sorelle di Gesù è il momento più bello della giornata. Il mio confratello Beato Giovanni  Mazzucconi, primo martire dell'Istituto, a un amico che gli chiedeva che cosa facesse tutto il giorno, rispose: "Celebro la Messa". In una lettera a un altro amico scrisse: "Un sacerdote che dice Messa, non deve, non può assolutamente provare tristezza". Vorrei che provaste anche voi a sentire la gioia di celebrare nelle basi petrolifere con tecnici di tutte le nazionalità. Un'italiana mi ha detto: "In Italia non mi vien voglia di pregare, qui sì". Celebrare poi con le Piccole Sorelle è per me un privilegio immeritato. Qui la piccola sorella Maddalena ha condiviso coi nomadi, continuamente respinti dai cittadini, momenti belli di amicizia e ne ha fatto un luogo di formazione e di ispirazione per la sua famiglia religiosa.

La celebrazione, perché sia ben preparata, mi richiede studio, meditazione, condivisione. Anche per loro è il momento dove ritrovano l'inizio, il perché, il come della loro vocazione e vita. Spesso seguo commosso la loro offerta dopo la comunione: "Ricevi l’offerta della mia vita ad immolazione per la redenzione dei miei fratelli d'Islam e del mondo intero...".

I primi missionari del mio Istituto dicevano: ".... per Te solo voglio vivere, per Te morire. Ecco la tua vittima, rendila pura, santa, degna di essere sacrificata per Te". 

 

ACCOGLIERE

Abito in una casa lasciatami dai Padri Bianchi, una casa da risistemare, essendo stata abbandonata da alcuni anni. Il lavorare con gli operai mi permette anche di balbettare qualche frase in arabo e di andare in ristorante a mangiare con loro. Un pasto da operaio costa 70 dinari, poco meno di un euro. La casa dovrà accogliere, oltre ai miei due confratelli Emmanuele e Davide, anche amici italiani e missionari del luogo, che desiderano trascorrere momenti di riposo e di preghiera. C'è anche il terreno per un bel giardino. Voglio che tutto sia bello e accogliente, anche per la gente del luogo.

Incominciano a venire dei giovani per migliorare il loro francese e inglese, qualche professore vuole imparare l'italiano... Alcuni vengono per ritrovare il clima amichevole di un tempo, alcuni per dire cose che non si sentono di dire ad altri. 

 

PRESENZA APPREZZATA

La nostra presenza deve continuare nello stile di sempre, presenza leale, umile, silenziosa, continua, anche nella sofferenza. L'attuale presidente dell'Algeria, Boutteflika, così ha testimoniato davanti al popolo francese nei suoi più alti rappresentanti: "Rendo un omaggio particolare alla rara abnegazione di cui la Chiesa d'Algeria ha fatto prova, nei peggiori momenti della tormenta, e continuando senza dormire la sua missione di testimonianza e di solidarietà umana nel mio paese". Donne che vegliavano perché missionari e suore potessero dormire tranquilli e non pensare di partire. Vicini che hanno aperto dei fori dove i missionari potevano passare in caso di pericolo. 

 

Una donna scrive: "La presenza dei cristiani diventa una luce di speranza per consolarci, aiutarci a continuare ad amare Dio e a cercarlo".

Alla morte del vescovo Claverie, il cui sangue era unito a quello del suo autista musulmano, un'algerina musulmana ha detto davanti a tutti: "La presenza della Chiesa è vitale più che mai per il nostro Paese, per assicurare la perennità di una Algeria plurale, plurietnica, aperta sul prossimo, radicalmente tollerante e solidale. Per costruire la storia della Chiesa di domani, o meglio ancora l'uomo di domani, l'algerino di domani". In questo momento di evoluzione della società e dell’Islam stesso la Chiesa può continuare la sua missione di accompagnatrice col suo discernimento che le viene  dallo Spirito.

Deve vivere soprattutto l’ascolto: ascolto della gente con la quale la Chiesa ha convissuto e che ha una parola da dire anche per il tipo di presenza e di attività; ascolto dei cristiani algerini, per ora ancora nascosti; ascolto dell’evoluzione della società e dell'Islam; ascolto di ogni ricerca di Dio, di ogni teologia. La cattolicità non è solo situazione geografica, ma è soprattutto forza di un amore che viene dalla Trinità e che vuole arrivare a tutti, sempre e ovunque. 

 

LA PICCOLA CROCE

L'uomo che mi ripara la casa, sa fare di tutto. Alle soglie del battesimo, si è fermato per non tradire la sua religione e la sua famiglia e continua a frequentare la moschea. Ama la missione, la chiesa, le suore, come la sua famiglia. Le suore lo conoscono da anni. E’ come un fratello per loro e per me. Io osservo la sua vita. E’ gentile, solidale coi fratelli, generoso. E’ gioioso. Chi è Dio per lui? Che cosa è la Chiesa, quella che ritiene anche sua?

La vecchia chiesa parrocchiale di Touggourt è concessa all’associazione Croissant Rouge, la "Croce Rossa" musulmana. Sul portone d'ingresso c'è una bella luna rossa. Forse un giorno la chiesa ritornerà ad accogliere i cristiani e quanti lo sono nel cuore, più numerosi di quelli che si vedono con gli occhi. Sulla cupola c'è ancora una croce, piccola, un po' piegata. L'avevano tolta, ma i vicini l'hanno voluta e tanti sono contenti di vederla ancora. La mia fede mi dice che un giorno accoglierà non solo i cristiani ma anche gente di varie culture e religioni perché lo spirito universale di amore, vissuto con pazienza e umiltà, è ancora vivo nella Chiesa.