La campana ferita

p. Silvano Garello





La campana ferita



La "riscoperta" della campana di Lhasa e il suo memoriale a Pennabilli






Sommario

Prefazione

Padre Silvano Garello ritorna a noi con un nuovo lavoro, ricco di fascino e di mistero. "La campana ferita" è un segno del cristianesimo "sepolto" in un paese ancora sconosciuto a molti di noi: il TIBET.

La ricerca di una campana "cristiana" dà in certi momenti i toni del giallo a un racconto-cronaca di viaggio. Finalmente Padre Silvano troverà la campana, ma non vorrà infrangerne il mistero e il rispetto.

Resterà in cuore, per la scoperta, una grande gioia; nascerà in noi una speranza, quasi certezza: la campana cristiana è come un seme che un giorno, ne siamo certi, germoglierà per invitare i fedeli del Tibet e del mondo all'adorazione dell'Unico Dio.

Ricercando la campana Padre Garello vive altre avventure, incontra persone, visita località interessanti, contempla paesaggi da sogno.

Leggendo si rivive tutto; insieme all'autore ci si ritrova "sul posto", alla fine si viene coinvolti e ci si propone di andare a vedere o meglio a contemplare le vette dell'Himalaia, i monasteri buddhisti, le città dalle antiche tradizioni religiose...

Altre volte abbiamo conosciuto Padre Garello come scrittore, soprattutto come biografo e poi narratore di favole raccolte dalla vita quotidiana del Bangladesh; questa volta tuttavia l'autore segna un passo avanti per toccare alla fine del presente volumetto la soglia della poesia.

P.Silvano Garello , missionario saveriano vicentino, è entrato in Bengala (allora Pakistan Orientale e ora Bangladesh) nel 1970.

Testimone della guerra di indipendenza del Bangladesh del 1971, ha dapprima lavorato tra i fuori casta della diocesi di Khulna e poi si è dedicato alla formazione del clero locale. Ha pure avuto una significativa esperienza di apostolato tra i Mandi della diocesi di Mymensingh.

P. Silvano ha in attivo 120 volumi di letteratura cristiana in lingua bengalese, indirizzata alla formazione dei leaders cristiani a al dialogo con i credenti di altre religioni.

In lingua italiana P. Garello ha scritto vari profili di Saveriani, racconti di viaggio in Cina, Sierra Leone, Nepal, Tibet, Terra Santa, Russia e Formosa. Con stile immediato egli condivide le sue esperienze e il molto che ha ricevuto da coloro che, vivendo sotto diversi cieli, cercando Colui che li sta cercando.

Annunziata Rigon Bagarella

1. Ravvicinamento a piccoli passi

Considero il mio viaggio in Tibet come un fatto spirituale, prima di tutto nella sua preparazione e poi nel suo compimento.

Cinque anni fa, le frontiere tibetane erano ancora chiuse agli stranieri. Allora, facendo un trekking in Nepal verso Langtang, avevo celebrato una S. Messa all'aperto guardando la catena dei monti del Tibet.

Proseguendo nel cammino, alle ultime baite nei pressi del ghiacciaio, ebbi l'amara sorpresa di ricevere l'azzannata di un cane tibetano. Mi separavano da Kathmandu sei giorni di viaggio. Pensando alle precauzionali iniezioni antirabbiche tornai quasi di corsa. Ricordo però che la disavventura non mi rese allergico a tutto ciò che era tibetano, anzi mi diedi a frequentare maggiormente sia i profughi tibetani , sia gli artigiani di Jawalakel, sia i monaci insediatisi vicino al grandioso stupa di Swayambhunath.

Allora mi aveva fatto una certa impressione notare, sia sul capannone di lavoro, come nei monasteri e nelle case, un lumino acceso davanti all'immagine del Dalai Lama.

Nel mio pellegrinaggio a Muktinath, compiuto durante l'anno santo della Redenzione, avevo incontrato dei pellegrini tibetani provenienti da Manang, i quali portavano con fatica le «pietre mani» intagliate con la scritta: «Om mani padme hum: Salve, o gioiello, che emergi sul loto».

I loro ex voto sparsi ovunque ed il rosario che tenacemente sgranavano di continuo fra le mani mi diedero fin d'allora quest'idea: per il popolo tibetano la religione è tutto, tanto che per essa è pronto anche a morire.

1. 1 L'attrazione del Tibet

Nella storia degli inizi dei Missionari Saveriani è registrato un ardito progetto (o un sogno) nutrito da alcuni ardimentosi: aprire una missione in Tibet. Le esplorazioni del professor Tucci erano indubbiamente responsabili di questa febbre tibetana. Il fascino della «terra proibita» o della «missione difficile», sentito anche da un missionario, può essere facilmente tacciato di romanticismo, ma può essere anche espressione di zelo genuino per portare il Vangelo.

Il nostro P. Giuseppe Toscano è uno di quelli che ha inseguito tutta la vita questo miraggio, diciamo almeno sulla carta, dato che gli fu sempre praticamente impossibile mettersi in strada. Con l'aiuto di alcuni monaci tibetani esiliati in Italia egli ha seguito le piste dei Padri De Andrade ed Ippolito Desideri, narrando le loro vicende e ripresentando i loro libri.

Anche da un buono studio storico della prima missione cattolica in Tibet si possono ricavare preziose indicazioni per il futuro di questa missione.

Di quel primo drappello di sognatori finora nessuno è riuscito porre piede nel Tibet. La ventura doveva succedere a me. «A te non basta una missione», mi disse un giorno scherzando un Padre Gesuita a Kathmandu. Sarà vero, forse per il fatto che mi è spontaneo concepire anche la vacanza come luogo e tempo di missione.

Devo ricordare un altro elemento che ha tenuto desto in me l'interesse per quest'angolo quasi inesplorato del mondo. Nel 1979 avevo fatto un viaggio in Cina «alla ricerca di cristiani», toccando le città di Pechino , Luoyang, Xian, Cheng Chow, Nanchino, Shangai, Canton, Hong Kong. A motivo di questo viaggio potei stabilire contatti profondi con Don Franco Demarchi, fondatore del movimento Janua Coeli. Egli era partito dalla semplice considerazione che «la Cina è l'unico paese in cui non si predica Cristo se non di contrabbando». Da buon sociologo, egli notava che la tradizione culturale cinese aveva sempre diffidato del rischio perchè ha ignorato l'Incarnazione di Dio. Egli si chiedeva: «Come dunque innesteremo nella cultura cinese il culto dell'uomo amato da Dio e l'ossequio ad un Dio concepito come l'onnipotente amico dell'uomo? Come vi diffonderemo la gioia del perdono che qualifica la socialità, la forza della speranza che scaturisce dal Cuore aperto del Creatore?». La stima di Don Franco per il popolo cinese, la sua fede nelle misteriose vie di Dio ed il suo sforzo di animare un turismo di testimonianza cristiana mi hanno incoraggiato a non lasciar cadere le minime possibilità di contatto d'amicizia con un popolo rimasto a lungo isolato dal cristianesimo.

L'occasione di entrare in Tibet mi venne offerta da un'agenzia nepalese che organizzava un viaggio collettivo di dodici giorni, prendendosi cura di procurare il visto cinese e garantendo il trasporto in corriera, vitto e alloggio. Il costo era proporzionalmente modesto. Qualche turista che aveva già fatto questo viaggio si era un po' lamentato per la scarsità di cibo e per lo stile troppo spartano degli alloggi. Ma questo non costituiva per me un problema.

Per epletare le pratiche necessarie occorreva aspettare una settimana. Non c'era tempo da perdere. Subito mi buttai a capofitto per leggere quanto trovai di buono nella ricca biblioteca di St. Xavier School dei Gesuiti presso cui ero ospite. Per chi si mette in viaggio una buona preparazione è come un affinamento di tutti i sensi, un archiviare domande che poi emergeranno al momento giusto, un mettersi su piste di ricerca che fanno luce su tanti particolari che diversamente rimarrebbero per lo più curiosità incomprensibili. L'incontro con uomini, civiltà e religioni diverse dalla propria può inoltre destare interrogativi sul nostro modo di vivere, sulle qualità e debolezze della nostra civiltà, sulle nostre paure e sulle nostre piccole superstizioni.

C'è poi da mettere in conto la difficoltà che esiste nel comunicare adeguatamente in termini di linguaggio. Ma non si può improvvisare una lingua in pochi giorni, confidando in un dizionarietto. In tal caso bisogna usare la via del cuore, il linguaggio del corpo e la reciproca accoglienza nella preghiera.

1.2 Ritiro al Namo-Buddha

Per rinforzare le mie disposizioni spirituali ed affinare le mie capacità di comunicazione andai a Dhulikel, su un'altura a 50 km. da Kathmandu per trascorrere tre giorni di ritiro con una comunità di monaci tibetani.

Dal villaggio di Dhulikel, per raggiungere il monastero di Namo-Buddha, occorrono tre ore di cammino.

Questa località sacra al Buddha si presenta allo sguardo come la prora di un veliero con tanti pennoni e piccole vele che garriscono al vento. Le bandiere di preghiera che recingono il centro di ritiro dei monaci ed il piccolo santuario scavato nella roccia danno infatti questa impressione. Nella grotta una scultura di pietra nera raffigura il giovane Buddha che, mosso a compassione nel vedere una tigre ed i suoi cuccioli affamati, offre il suo stesso corpo in cibo.

Da questa altura si può godere lo spettacolo incantevole della parte centrale della catena himalaiana: il Ganesh Himal a sinistra, al centro il Langtang ed il monte sacro Ghosaikunda, a destra l'Everest ed il Macalu. Sotto scorre la cosiddetta «chinese highway» che conduce a Kodari, alla frontiera tibetana.

Nei tre giorni di ritiro, da questo posto di osservazione aperto verso un panorama di 360°, godei albe e tramonti ed uno splendido plenilunio, durante la «purnima», ossia la nascita, l'illuminazione e la morte del Goutamo Siddharta. Tale festa non mancò di attirare frotte di pellegrini anche su questo poggio ventoso. Tra essi giunse un gruppo di tibetani che aveva passato clandestinamente la frontiera. Dal Nepal sarebbero poi andati in India per incontrare il Dalai Lama.

Un giovanotto venuto da Kathmandu mi raccontò qualcosa di suo padre, guerriero Khampa, che, nel 1959, aveva accompagnato come guardia del corpo, il Dalai lama in fuga. poi suo padre era rientrato in Tibet a combattere ed era stato ucciso in uno scontro con i cinesi. Nelle sue parole c'era tanta amarezza. Egli avrebbe voluto tornare in Tibet per rivedere sua madre, ma poi aggiunse: «Se tornassi dovrei piangere di più per ciò che sarò costretto a vedere».

Anche i monaci del Namo-Buddha si considerano esiliati. Forse per questo sono così accoglienti con gli ospiti. Quando mi presentai come «monaco cristiano», mi dissero subito che potevo rimanere a mio piacimento ed ero invitato a condividere la loro mensa.

Non ero però l'unico ospite. Mi trovai infatti a condividere la stanza con un giovane belga che era venuto quassù a cercare un luogo tranquillo per studiare l'agopuntura cinese. Sul suo letto erano stese delle grandi mappe del corpo umano che descrivevano in dettaglio i centri nervosi. A me diedero l'impressione di un groviglio di collegamenti , come in una cabina telefonica.

Il giovanotto mi confidò il suo progetto di studi. Poi, inevitabilmente si venne a parlare di religione. «La religione cristiana e la Chiesa non mi interessano più: non ci capisco più niente», mi confessò. Pur essendo nato in una famiglia cattolica, la religione era rimasta alle sue spalle, divenendo per lui groviglio inestricabile di fili.

Fin dalla prima sera avevo notato che si erano avvicinate alla cucina del monastero tre ragazze con la loro scodella in mano per ricevere la loro porzione di zuppa di verdure. Queste ragazze francesi erano alloggiate a 300 metri dal monastero in una casetta isolata. «Che cosa fate tutto il giorno?», chiesi loro. Mi risposero: «Siamo qui per tre mesi di ritiro. Ci dedichiamo alla meditazione ed alla preghiera per capire dal di dentro il buddhismo lamaista». Anche costoro avevano preso congedo dal cristianesimo. Ma avevano fatto altrettanto sforzo per conoscerlo? Mi venne da pensare: «Molti occidentali abbandonano il cristianesimo che non conoscono». Più che dire «non conoscono» forse è meglio dire «non ne hanno mai fatto o non ne fanno più l'esperienza», ed allora lo buttano via come si fa per un vestito fuori stagione.

Non voglio però essere così pessimista. Se attraverso le religioni orientali uno fosse aiutato a meditare, a pregare, a controllare le proprie passioni, può ancora ritenere di camminare verso una nuova comprensione del cristianesimo. Dove c'è approfondimento sincero dei problemi dell'uomo lì c'è speranza in uno sbocco positivo.

Queste ragazze mi invitarono a leggere il libro dell'eremita tibetano Milarepa intitolato: «I centomila canti». Veramente esse avevano un'intera valigia di libri religiosi. Non so però se abbiano incontrato un vero maestro che le possa aiutare a non perdersi per strada.

I dodici giovano monaci che vivevano nel monastero avrebbero trascorso su questa montagna tre anni, tre mesi e tre giorni di ritiro, isolati dal mondo.

La routine della loro giornata è abbastanza rigida: dopo l'alzata alle tre del mattino, è tutto un susseguirsi di meditazioni, puja, studio della scrittura in tibetano, esercizi di memorizzazione, fino alle nove di sera.

Trangu Rimpoche, l'«abate» che ha fondato questo «Retreat centre Tashi cholin», era andato a Hong Kong a dirigere una sessione di studio sul lamaismo. Ma la sua presenza pareva aleggiare di continuo, dato che spesso il suo nome era sulla bocca dei discepoli.

La diaspora tibetana ha favorito la creazione di centri lamaistici in varie parti del mondo, tanto che ora si può parlare di presenza missionaria nel mondo occidentale non solo dell'islam ma anche del buddhismo.

1.3 Monaci felici

Mentre guardavo i contadini che faticavano sui terrazzamenti sottostanti, intenti a falciare il frumento, a sarchiare il granoturco o ad arare in attesa della prima pioggia, mi chiedevo: «Che cosa penseranno i contadini di questi monaci che vivono quassù?». Forse li vedranno come gente che vive tra le nuvole, alienata;oppure troveranno naturale che sotto lo stesso cielo ci sia chi fatica e chi medita, come sotto lo stesso tetto abitavano Marta e maria. Sia il lavoro sia la preghiera dicono che l'uomo non si rassegna ad essere come un sasso rotolato nel fiume: egli vuole essere un soggetto attivo davanti a sé, a Dio, alle cose ed altri uomini.

Il giovane monaco Sonan Wanghehut parlò con entusiasmo della sua vocazione. Egli si trovava in Bhutan come rifugiato. A 26 anni disse alla mamma che voleva farsi monaco perché gli piaceva pregare. Felice della scelta, mi raccontò: «Io non prego per me, ma per gli altri. La preghiera per gli altri ha più merito perché è più pura». Sonan vede la sua preghiera ed il suo stesso celibato come un atto di compassione verso tutta l'umanità. Per questo egli si dice sicuro che, prima o poi, tutti gli uomini si salveranno per l'impetrazione di qualcuno.

Tra i monaci ho notato un bel senso di fraternità ed un grande autocontrollo: niente aggressività o impazienza. Sonan continuò ancora: «Non ho nessuna paura, nemmeno se uno venisse ad uccidermi175. Il vero monaco ha buttato via le armi perché sente in sé la forza di Dio ed è sicuro della sua difesa.

Durante il mio ritiro meditai le lettere di S.Paolo. Un pensiero mi torna spesso alla mente: l'uomo è felice solo se crede di essere perdonato. Il perdono di Dio raggiunge tutti gli uomini. Il perdono è un atto della misericordia di Colui che, avendo resuscitato Gesù Cristo dai morti, ci ridà la vita. Noi cristiani conosciamo il prezzo della vita: «Cristo morto per gli empi» (Rom.5,7). Noi sappiamo che la nostra liberazione comporta una morte ed una risurrezione. Lo sappiamo, ma spesso lo dimentichiamo!

Questi monaci buddhisti praticano due volte al mese la confessione delle colpe: hanno anch'essi nostalgia di quel perdono di cui noi cristiani godiamo pienamente i frutti.

Esco all'aperto a passeggiare. Sui rovi, attorno allo stupa che sovrasta la montagna, vedo appese ciocche di capelli. Per terra si trovano sparpagliati tanti foglietti di preghiere stampate. Sul cucuzzolo del monte, seduti sull'erba, tre tibetani seguono devotamente il mormorio ritmico di un monaco che recita i testi sacri.

Più in là un'allegra brigata si gode al sole un picnic a base di uova sode, dolci e chang, ossia birra di riso. Due ragazzi , fratello e sorella, hanno preparato una batteria di lumini di ottone con lo stoppino di cotone pronto ad essere imbevuto di olio, appena i devoti faranno la loro offerta. Oggi è la festa del Buddha. Per l'occasione i pellegrini sono saliti quassù a portare i loro doni ai monaci: burro fuso per i lumini, frutta e qualche libro sacro tibetano, stampato a Ladhak.

Devo chiedermi ancora una volta: perché sono venuto così da lontano in questo luogo? Per cercare me stesso e Colui che mi cerca. Forse anche tutti questi pellegrini darebbero la stessa risposta. Non siamo estranei gli uni gli altri. La brigata del picnic mi fa cenno di avvicinarmi e di sedermi sull'erba in cerchio con loro per mangiare e bere. Il giovane belga è tappato in stanza a studiare l'agopuntura. Le tre ragazze francesi fanno girare le loro ruote di preghiera producendo come un suono di raganelle; i monaci pregano anche per me. Come sono buoni questi dolci e questa birra di riso condivisi con questi tibetani. Il giorno del Buddha essi sanno sorridere anche nel loro esilio.

2. Monti, deserti e monasteri

2.1 Quattordici nazionalità

Giunse il mattino della partenza per il Tibet.

Davanti all'Ambassador Hotel, luogo del nostro appuntamento, abbiamo avuto la prima sorpresa del viaggio, e cioè di trovarci costituiti da un gruppo veramente internazionale. Tra le 28 persone c'erano rappresentati gli USA, il Canada, la Francia, la Spagna, la Svizzera, l'Olanda, l'Inghilterra, la Danimarca, la Svezia, la Germania, la Nuova Zelanda, l'Australia, il Nepal e l'Italia.

Destò una certa ilarità e meraviglia una vecchietta di 76 anni che s'infilò in corriera e venne a sedersi proprio vicino a me. Non si trattava di una pensionata sprovveduta e mal consigliata, ma di una signora che aveva viaggiato in tutti i continenti. Ora, in qualità di appassionata di Buddhismo, tornava in Tibet per la terza volta. Dirò subito che durante il viaggio le apprensioni non ci vennero da lei, ma da un giovane americano laureato in psicologia. Proprio costui, dopo un attacco di diarrea e di mal di montagna, si era lasciato prendere dal panico della morte. Egli si tranquillizzò solo quando si trovò fornito di bombola di ossigeno all'ospedale militare di Lhasa con la bella tariffa di 100 dollari al giorno. Per giunta, mezzo comica e melodrammatica, prima di essere dimesso dall'ospedale, egli ebbe una intervista alla televisione cinese dove poté dare atto del loro efficiente servizio sanitario.

Io non mi trovavo nel gruppo dei turisti come «accompagnatore di pellegrinaggio» o predicatore, ma solo come un compagno di viaggio. Non trovai tuttavia difficile dichiarare la mia identità di missionario italiano in Bangladesh e di vedere anche in questa circostanza una situazione che mi interpellava. Un saggio disse: «Le persone con cui viaggi sono più importanti del luogo che vuoi raggiungere».

Questo atteggiamento di reciproca accoglienza può trasformare un viaggio in un'esperienza arricchente. Nonostante la differenza di mentalità e di interessi, io credo proprio di aver dato e ricevuto qualcosa. Talvolta mi sembrava che gli argomenti di conversazione fossero molto terra terra, come cibo, malattie e viaggi. Ma, restando ad ascoltare in profondità, veniva a galla il problema chiave: il grande viaggio dell'uomo, ossia il senso della vita ed i grandi valori che possono renderci felici.

Pur trattandosi di cristiani e cattolici, nessuno di essi se la sentì di unirsi alla celebrazione della Messa dominicale. Era un mio sogno poter compiere con loro almeno un gesto comune di fede, ma questo invece restò la mia pena segreta per tutto il viaggio.

Veramente, a Lhasa, incontrai una singolare coppia polacca, lui fisico atomico e lei traduttrice. La famiglia della donna era scappata in Russia e nella clandestinità aveva conservato la propria fede. Finalmente un giorno incontrarono un prete che poté dare i sacramenti alle 42 persone del loro gruppo famigliare. Sapendo che ero prete, questa coppia polacca mi chiese di poter partecipare alla Messa. Dove la fede passa per il crogiolo della sofferenza lì c'è fame di Eucarestia.

2.2 Per la Parola e L'Eucarestia

Nonostante le difficoltà prevedibili, per me è stato un fatto importante poter celebrare l'Eucarestia in Tibet. Ovunque io mi presentai come «Isur Lama», monaco di Gesù; e così dicendo mostravo un piccolo crocefisso appuntato al taschino. A tale vista i bambini qualche volta reagivano pateticamente: allargavano le braccia e reclinavano il capo, proprio come Cristo in croce.

Durante il viaggio non mi sono mai illuso di poter fare chissà quali comunicazioni sulla mia fede. Mi sono però sforzato o piuttosto mi sono « sentito mosso» a sorridere verso tutti. In moltissimi casi ho constatato una reazione quasi magica, da indurre la gente a fermarsi per volermi parlare e chiedermi il perché del mio interesse per loro. Ora mi posso dar ragione di questo fenomeno con la preghiera di Gesù che spesso bisbigliavo e soprattutto con la forza dell'Eucarestia.

Ho celebrato la mia prima messa in Tibet il mattino del 28 maggio 1986 a Nyelamu, il villaggio del santo monaco buddhista Milarepa. Durante la notte era scesa la neve. Contemplando dalla finestra della Guest House il paesaggio tutto bianco mi venne spontaneo di canticchiare un motivo natalizio. Era come una specie di canto di introito. Poi, vedendo avanzare tra il nevischio una carovana con yak e pecore, pensai alle avventurose attraversate dei passi di montagna compiute da missionari ed esploratori. Mi venne pure in mente il famoso convertito Sundor Shing, disperso nella tormenta durante il suo decondo viaggio in Tibet.

Nell'Epistola S. Pietro mi ricordava: «Voi foste liberati con il sangue prezioso di Cristo, come agnello senza difetti e senza macchia. Egli fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma si è manifestato negli ultimi tempi» (1 Pt. 1,19-20).

Il Vangelo di Marco diceva: «Mentre erano in viaggio per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano stupiti» (Mc. 10,32). L'Eucarestia rendeva presente, attuale quel viaggio verso la morte di Gesù, L'Agnello di Dio. Dovevo credere che Cristo aveva già camminato davanti ai primi missionari, e che ora camminava davanti a me. Mentre ringraziavo per la possibilità che mi era data di fare questo viaggio in Tibet, mi venne da pregare: «O Signore, queste montagne e queste frontiere non sono mai state un ostacolo per te. Tu sei qui dall'inizio con il tuo Spirito. Fammi riconoscere i segni della tua presenza e serviti di me per comunicare la Buona Novella del Regno di Dio».

2.3 I cinesi al volante

Il nostro autista, il signor Ly, è originario di Pechino. E' un uomo massiccio come un peso massimo. A causa della neve qualcuno del nostro gruppo, scendendo a colazione, si era mostrato un po' smarrito. Il signor Ly ci rassicurò tutti dicendo che non era la prima volta che affrontava la neve sulla strada. Indubbiamente al volante si mostrava sicuro e trasmetteva confidenza. Qualche volta però in discesa ci parve un po' spericolato. ma anche la visione stessa dei precipizi contribuiva a renderci più silenziosi.

Un aspetto meno simpatico del comportamento del nostro autista era la sua esplicita antipatia verso i tibetani. Molto probabilmente la sua non era che una reazione ad una trasferta mal tollerata. Sono più di 400.000 i cinesi mandati nel Tibet per consolidare l'occupazione. Il signor Ly doveva essere uno di questi. Non si tratta di un piccolo numero, se si considera che i tibetani non superano il milione e mezzo.

Al confine col Nepal, il «Friendship bridge» costruito dai cinesi mi è parso come un biglietto da visita del nuovo padrone per accattivarsi la simpatia o per evitare esplicitamente la discussione sul fatto che il Tibet sia dentro o fuori l'orbita cinese.

Ovunque si vedono cinesi in divisa militare o in tuta di lavoro. Lungo il tragitto verso Lhasa capita spesso di incrociarsi con le colonne dei camion del «Chinese People liberation Army». Le carovane di yak sono costrette a prendere dei tratti paralleli alla strada o delle scorciatoie, forse per evitare un dannato polverone o forse semplicemente per non incontrarsi con i cinesi.

Il nostro autista sembrava ossessionato dai villaggetti lungo la strada. Egli stava bene attento che le nostre soste per rifocillarci non avvenissero nelle loro vicinanze. Quando non poteva evitarlo, era visibilmente irritato se ci vedeva spartire il nostro cibo con i pastorelli denutriti e poco amici dell'acqua e del sapone.

Avvicinandoci ai casolari a terrazza, circondati da muri di mattoni di terra cotta al sole su cui erano esposti sterpi e blocchi di sterco messi a seccare , si toccava con mano l'estrema povertà della gente, abituata a vivere con le suppellettili indispensabili.

La loro dieta prevedeva carne di yak o di pecore, farina d'orzo, formaggio e un po' di verdura qualora si trovino vicino ad un rigagnolo. La bevanda principale è il thè dal tipico gusto un po' rancido a causa del burro che vi aggiungono. Sia gli uomini che le donne amano i vestiti scuri. Da lontano sembrano tanti puntini neri. Da vicino si vede che non sono privi di una certa vivacità: in mezzo alle treccine della testa, sia degli uomini che delle donne, fanno spicco perle, coralli e pietre dure. Sulle cinture esibiscono delle placche d'argento lavorato. Di frequente portano al collo il rosario buddhista, un pendaglio che serve da talismano o un medaglione con l'effige del Dalai lama. Infagottati nei loro vestiti invernali appaiono un po' come soldati soverchiati da un'armatura ingombrante. Con la stessa rapidità con cui noi turisti scorgevamo in loro qualche aspetto esilarante, essi scorgevano in noi qualcosa che li faceva sbottare in una risata senza ritegno.

2.4 Il bello ed il brutto dell'altitudine

Una volta entrati nell'altopiano del Tingri, il paesaggio desertico sotto un cielo dall'azzurro implacabile, tutto rocce brulle e distese enormi di sabbia e ciottoli con ciuffi di sterpi e muschi, ci attanagliò con la sua ruvida bellezza.

Quando raggiungemmo un valico a quota 5.400 metri riprese a nevicare. Appena tentammo di uscire dalla corriera, un vento gelido che mozzava il fiato ci costrinse ad un rientro precipitoso.

Più avanti, il cielo si squarciò per rivelarci lo spettacolo incantevole di tutta la catena himalaiana. Il monte Everest, dai nepalesi chiamato Sagarmatha, ossia «la madre del mare» e dai tibetani detto Chornolongua, presenta la sua faccia nord come un triangolo nero rigato di bianco emergente sopra una serie di montagne giallastre.

Da Tingri al campo-base ci sono appena tre giorni di cammino che si possono coprire comodamente in jeep. Una comitiva di turisti americani (a tariffa 7.000 dollari) ci parla del loro bivacco al campo-base, come se di fatto avessero conquistato la vetta. Ma forse ci riportano l'eco delle spedizioni di scalatori che si succedono una dietro l'altra.

Sulla catena himalaiana emerge tra tutti, per il suo biancore, il massiccio del Shishaphanga (m. 8.031). Allungando la mano pare proprio di poterlo toccare. Un cielo così pulito, un'aria così pura mi fanno veramente sentire di trovarmi su quell'immenso altopiano che, a ragione, chiamano «il tetto del mondo».

Di notte le stelle hanno una lucentezza metallica come i tetti dei templi. Il vasto silenzio, privo perfino del brusio degli insetti, dà un senso di vertigine e dà la sensazione di essere un punto che interroga l'universo. Mi sovviene il Canto di un pastore errante nell'Asia di Giacomo Leopardi. Ma il mio dialogo va oltre la luna. Mi nasce spontanea l'invocazione che Dio mi rivolga la parola, dato che tutto in me sembra pronto ad accoglierla.

La sosta a Tingri fu benefica perché quasi tutti i membri del gruppo accusavano qualche indecifrabile malessere a causa dell'altitudine. Appena arrivati alla Guest House una ragazza uscì all'aperto e mise subito a bollire una pentola dell'acqua su una «stufa» che utilizzava i raggi solari. Sentendoci disidratati ci sorbimmo in abbondanza del thè.

Lo sherpa nepalese che era con noi salì sul monte che sovrasta Tingri per godersi ancora una volta la visione dell'Everest. Altri, con sforzo più moderato, si infilarono dentro una specie di «dopolavoro» dove vendevano caramelle e birra per chi si fermava a giocare.

Nella «casa del popolo» adiacente al bar un gruppo di uomini e di ragazze facevano le prove di canto e danze tibetane. Non c'era molta vita a Tingri, nonostante gli altoparlanti distribuiti lungo la strada principale che emettevano musica e notizie da Radio Pechino.

Il vecchio lama che trovai a mendicare in una piazzuola del paese accentuava la melanconicità del paesaggio. Da Tingri, nel 1959, molti tibetani erano scappati in Nepal, abbandonando in mano ai cinesi i pochi terreni coltivabili perché vi sperimentassero le famose comuni e l'indottrinamento delle masse rurali.

2.5 Shigatze: sulla via dei pellegrini

Shigatze ci darà maggiori soddisfazioni.

Nella seconda città del Tibet che conta 40.000 abitanti si trova il grande palazzo-monastero di Tashilhumpo, sede del Panchan Lama, tradizionalmente filocinese. Visto nel suo pieno splendore doveva essere un vero gioiello d'arte. Ma i bombardamenti cinesi del 1956 e le razzie delle Guardie Rosse hanno lasciato cicatrici profonde. I torrioni che circondavano la città appaiono distrutti irreparabilmente. Il settore occidentale è stato raso al suolo e presenta come malinconico ricordo un grande muro ancora biancastro, da cui nelle maggiori feste buddhiste pendeva la grande tanga, una specie di immenso arazzo su cui era raffigurato il Buddha.

A Shigatze era prevista la sosta di un'intera giornata. Nonostante ciò, fin dalla prima sera non ho potuto resistere alla tentazione di avvicinarmi alla città-monastero, attratto dai tetti dorati dei templi che raccoglievano gli ultimi bagliori del sole.

Il portone era già sbarrato. Sul grande piazzale antistante alcune donne, rivolgendosi verso il tempio, facevano le loro prostrazioni sulla polvere, portando prima le mani giunte sulla fronte, sulla bocca e sul petto. Era un po' come il nostro triplice segno di croce che facciamo prima di proclamare il Vangelo.

Alcuni pellegrini, sgranando la loro corona, facevano la circonvallazione completa della città murata. Anch'io mi sono incamminato sulla via dei pellegrini con un giovane giramondo che si dichiarava ateo, nonostante la rigida educazione cattolica ricevuta nella Spagna franchista. Egli non perdonava ai suoi genitori una cosa: che non avessero tollerato le sue domande. Ora viveva negli Stati Uniti, dedito al commercio. Agli Stati Uniti pure non perdonava una cosa: che adorassero il denaro. «Io non lo adoro, diceva, ma me ne servo sputandogli addosso».

Bel sistema! Con ciò che egli guadagnava poteva viaggiare otto mesi all'anno. Nessuno del nostro gruppo poté nominare un luogo turistico di qualche interesse che egli non avesse visto. Anche il viaggio in Tibet per lui era come la soddisfazione di una curiosità. Non era sposato, perché non si era mai fermato nemmeno nell'amore. Ormai aveva perduto molti capelli, ma lo nascondeva bene con un cappellaccio da esploratore.

Camminando, notavamo insieme alcuni atteggiamenti religiosi della gente e ne cercavamo insieme il perché. «Questa gente non sta a fare domande sulla religione come facevo io, ma gode delle risposte tramandate: è questa la religione?», mi chiese ad un certo momento. Restai in silenzio. Egli riprese: «Io credo che i cinesi aspettino solo che muoiano i vecchi, e poi anche questa religione scomparirà». «Ma saranno le tue domande che la faranno rinascere», risposi.

2.6 Devozione popolare

Il mattino del giorno seguente venne riservato alla visita del monastero di Tashilhumpo, fondato nel secolo quindicesimo da Gentum Drupa, discepolo del grande riformatore Tsong-Kha-pa. Fu costui che riportò in onore il celibato monastico ed il distacco dal mondo. Come segno di distinzione dagli altri monaci che portavano un berretto rosso, ai suoi monaci riformati diede un berretto giallo.

Tutto il complesso, in parte restaurato ed in via di restauro, si presenta suggestivo per le sue varie cappelle ricche di dipinti, statuette, ex voto, lumini. La gente, girando attorno agli altari in senso orario, versa nelle lampade del burro liquefatto, depone dei sacchetti di orzo ed appende qua e là in forma decorativa monete di carta, quasi a sostituire i fiori che qui non si trovano.

Raramente si nota qualcuno soffermarsi in meditazione, forse perché ci sono troppe divinità da accontentare: per tutte c'è un inchino, una monetina ed un po' d'olio. Giunti però davanti al proprio patrono c'è chi lancia verso la statua una kata, ossia un velo di seta o di cotone. Un giovane sherpa nepalese del nostro gruppo, lanciando il suo velo, riuscì a farlo cadere proprio sulla grande pietra preziosa che emergeva sulla fronte di una gigantesca statua del Buddha. Subito si girò soddisfatto verso di noi per cercare un complimento e disse: «Avrò buona fortuna!».

Nelle ore in cui il tempio era aperto al pubblico si potevano notare i monaci impegnati in varie incombenze: chi nel tempio al servizio dei pellegrini alle prese con le lampade e le offerte e l'acqua benedetta da distribuire; chi nella sala della meditazione a recitare ritmicamente i mantra; chi in biblioteca a stampare i testi sacri servendosi di tavole di legno intagliato; chi nel cortile a rivendere i vestiti usati che la gente aveva lasciato come ex voto. Non potei accorgermi se i pellegrini avessero una qualche possibilità di ricevere dell'istruzione religiosa o se potessero avvicinare i monaci per avere un consiglio spirituale. L'atmosfera generale evidenziava il preponderare del rito privato: inchini, preghiere bisbigliate e doni, forse come ringraziamento o implorazione di un sorriso di benevolenza da parte di tante statue del Buddha per lo più in atteggiamento ieratico.

Qui non si incontra il Buddha ascetico, scheletrito dalle penitenze. La vita è già dura per se stessa. Questa gente cerca piuttosto un mago che possa esorcizzare le proprie paure e gli spiriti cattivi, offrendo formule esoteriche di liberazione. Alle loro spalle rimane ancora l'antica religione animistica del Bompo, combattuta a lungo ma non mai estinta. Fedele alla teoria della rinascita, il popolo tibetano pare sempre in attesa che un essere divino si manifesti come «lama», ossia maestro ed intercessore.

2.7 Dibattito monastico

Verso mezzogiorno, seguendo il nostro itinerario, sfociammo su un cortile alberato. Qui ci attendeva una scena che destò un'ilare curiosità. Sembrava che tutti i monaci si fossero riversati in questo cortile, circondato da portici. A crocchi , i monaci dibattevano tra di loro alcuni punti di dottrina studiata sui libri sacri. Quando uno finivadi presentare il suo argomento lanciava in avanti la mano sinistra e con la destra vi batteva sopra un colpo secco. Immediatamente aveva inizio la replica di colui che aveva ascoltato in silenzio. Da principio sembrava si trattasse di un esercizio marziale, fatto apposta per scaricare la propria aggressività; poi si vedeva come tutto si svolgesse in un clima di perfetto autocontrollo e di distacco, senza la minima passionalità. Peccato che non riusciamo ad afferrare i termini delle loro discussioni. E' stato confortante notare che non ci sono solo anziani ma anche giovani monaci. Forse i cinesi hanno imposto il numero chiuso, ma almeno si vede che il reclutamento monastico è ripreso.

2.8 Operai e businessmen

Nel pomeriggio preferii andarmene da solo verso la parte occidentale della città, dove fervono i lavori di ricostruzione e di risanamento.

La gente lavorava con alacrità a spaccare pietre. Molte donne trasportavano sassi con gerle o battevano il fango sulle terrazze delle nuove case. Qua e là c'era l'accenno ad un canto, che subito si spegneva appena il vento sollevava un polverone che si spostava come un fungo atomico.

Mi fermai a parlare in un crocchio di operai che stavano facendo la merenda con l'immancabile birra di riso. Essi si incuriosivano del mio piccolo crocefisso. Qualcuno di loro ha sentito parlare dei cristiani in Cina ed ha pure visto qualcosa su di loro in televisione. Ma forse si tratta della consueta caricatura teatrale.

Verso sera, passando davanti ad una trattoria della città, mi sentii chiamare dentro da un giovane inglese del nostro gruppo. Stava conversando con degli uomini d'affari venuti da Pechino per esplorare qualche possibilità di investimento economico a Shigatze. Parlava un inglese semplice ed appropriato. Tra essi c'era anche un distinto signore di Luoyang. Era compiaciuto quando gli ricordai le località che avevo visitato nela sua città, come le tombe dgli Han, le grotte buddhiste di Longmen, la pagoda del Cavallo bianco ed anche la cattedrale cattolica. Nella sua memoria non c'erano però ricordi cristiani. Mi ero lusingato di poter trovare qualche aggancio per parlare di religione, ma poi avvertii il suo disagio di parlare di questo argomento davanti agli altri. Non mi restò altro che augurargli buoni affari.

3. Lhasa, la città santa

Lhasa: il Potala, dove risiedeva il Dalai Lama

3.1 La valle del Brahmaputra

Il quarto giorno del nostro viaggio costeggiammo il lago Yambro le cui acque azzurre sembrano uno specchio perfetto del cielo. Saliti ad un altro passo a più di 5.000 metri di altezza potemmo contemplare, alle nostre spalle, la catena dei monti confinanti col Bhutan e, davanti a noi, la valle del Brahmaputra.

Dopo una ripidissima discesa ci trovammo a costeggiare il fiume. Lungo la strada varie squadre di operai erano impegnate a consolidare la massicciata con macigni imbrigliati in gabbie di ferro o ad asfaltare.

Finalmente potevamo correre su una strada degna della capitale del Tibet. Su alcune anse del fiume, dove non giungeva l'impeto della corrente, dei pescatori accovacciati nei loro tipici barconi di pelle di yak si sbracciavano a salutarci.

Io pensavo al lungo viaggio del Brahmaputra che da qui doveva giungere in Bhutan ed in Bangladesh. Qui l'acqua era limpida, mentre laggiù sarebbe stata limacciosa e carica di detriti. I miei bengalesi riescono difficilmente a farsi l'idea di come i loro fiumi siano un dono delle montagne.Parlare loro di sorgenti che sprizzano dalla rocciao fuoriescono dai ghiacciaiè come rievocare il miracolo di Mosè a Meriba.

Attraversammo il lungo ponte sul Brahmaputra (qui chiamato Yalu Tsampo), sempre guardato alle due testate da un picchetto di soldati. Dopo l'occupazione cinese del Tibet la resistenza aveva portato avanti per vari anni un'azione di sabotaggio, specialmente dei ponti. Nonostante che l'atmosfera al presente sia tranquilla, i cinesi non hanno allentato la vigilanza.

3.2 Visione del Potala

Lo sguardo di tutti è teso in avanti a varcare la stessa cosa. Sono io il primo a lanciare il grido di meraviglia: «Il Potala!» (Non proprio come il grido riportato da Senofonte: «Il mate, il mare!», ma qualcosa di simile). In lontananza, sotto la cornice delle montagne, alla base della striscia di sabbia e le acque del Brahmaputra, su una piccola collina isolata come il Parthenone. il Potala troneggia come una pietra preziosa. E' l'antica sede del Dalai Lama. Alla vista dei suoi tetti scintillanti i pellegrini si prostano per terra. Il Potala , assieme al tempio di Jokhang, è il grande simbolo della città santa di Lhasa.

Più ci si avvicina alla città e più si dimentica il deserto. In questo tratto i cinesi hanno utilizzato intelligentemente le acque del fiume per l'irrigazione delle risaie, di orti e di boschetti. Lungo il percorso avevamo invece notato l'uso delle acque in piccole centrali idroelettriche.

Alla periferia della città c'è uno spettacolo che mozza il respiro: una grande statua di Buddha scavata nella roccia che si specchia in un laghetto dalle acque purissime da cui sembra emergere.

Il Buddha impassibile resta ancora il grande signore incontestato di Lhasa. I cinesi hanno conquistato il Tibet, ma il cuore dei tibetani è ancora e solo per il Buddha. Nel 1968, duranre la rivoluzione culturale, i giovani cinesi sembravano felici di poter sostituire l'immagine del Buddha e le iscrizioni religiose con l'immagine del grande timoniere Mao Tse Tung e le sue citazioni. Ogni giorno essi cantavano: «L'Oriente è rosso». Il furore iconoclasta di questi giovani ha lasciato in Tibet larghe ferite.

Ai piedi del Potala i cinesi hanno allestito un grande «Museo della Rivoluzione» per insegnare ai tibetani come leggere la storia delle proprie relazioni con la Cina. La grande parola che spesso vi ricorre è questa:liberazione! Da chi?

I cinesi hanno portato l'elettrificazione, hanno sviluppato la rete stradale, hanno costruito un aeroporto, hanno spinto l'autosufficienza regionale, hanno sviluppato l'istruzione. Ma qual è la contropartita della loro presenza?

I tibetani guardano incantati le immagini della loro storia recente, presentata attraverso documentari televisivi, e si mostrano compiacenti di vedere esposti gli oggetti del loro artigianato e gli utensili della loro vita quotidiana. Forse il loro Tibet è qui, in museo. Fuori, sulle strade si vede che la cultura tibetana viene irrimediabilmente assorbita da quella cinese: la lingua, la moda del vestire, il piccolo commercio, i mass media.

Dalle montagne e dalle valli molti tibetani finiscono col gravitare verso lhasa, la loro città. Li vedi dondolare, vestiti a festa con le loro fogge sgargianti e le loro palandrane che li rendono monumentali, divenuti quasi oggetto di curiosità in casa propria.

3.3 Vecchio e nuovo Tibet

In un ristorante ho visto cinque tibetani in gara a bere ed a spaccare bicchieri contro la parete. In questo gesto mi parve di leggere tutta la loro profonda frustazione di gente costretta a marciare su sentieri mai prima battuti, senza sapere dove porteranno.

Ma perchè ha tardato così tanto il popolo tibetano a realizzare la propria liberazione? E' forse in questo responsabile anche la religione ufficiale.

Per lunghi anni il paese era stato tenuto isolato anche dal mondo occidentale. Dire Lhasa significava dire «città proibita». Prima dell'invasione cinese il Tibet era come un grande monastero . Le leggi politiche e sociali erano dettate dai monaci. I monaci erano venerati dalla gente, ma anche temuti. La proprietà della terra era divisa tra lo stato, i nobili ed i monaci. Un quinto degli uomini abili al lavoro era finito in monastero. Un terzo di tutto il burro prodotto nel Tibet andava ad alimentare le lampade dei numerosi templi, più di tremila.

I comunisti cinesi appena arrivati ebbero buon gioco ad accusare i monaci di essere stati dei parassiti ed i primi responsabili dell'arretratezza del paese. A parte il loro servizio spirituale ed anche culturale, non si può dire che i monaci avessero incoraggiato il cambiamento. Del resto una religione dominata dal rito e da pratiche magiche si aspetta sempre il miracolo dall'alto senza molto coinvolgere l'uomo nella soluzione dei propri problemi.

Per il marxismo non ha senso sperare qualcosa dalla religione nè per il presente nè per il futuro. Perciò come ha eliminato i mendicanti dalle strade così ha spazzato via i monaci dai monasteri, indicando a tutti la stessa drastica soluzione: il lavoro. Per il Tibet si è trattato anche se di un passo traumatico, indubbiamente necessario. Ciò che ha più fatto soffrire è stato il modo di attuazione.

Un grande simbolo del cambiamento in atto nel paese può essere colto visitando il Potala che da fortezza-templio è ora ridotta a museo.

La città di Lhasa è a 3.713 metri sul mare. Il cuore della città è appunto il Potala che si erge su una collinetta isolata, detta montagna del Buddha. Così, tenendo conto della collina stessa e del Portala, che è alto 278 metri, si viene a salire a circa 4.000 metri.

Il Potala fu iniziata nel settimo secolodopo Cristo dal re Song Tsen Kampo. Questo re nella sua politica lungimirante aveva preso una moglie cinese, la principessa Gyasa, ed una nepalese, Penusa. Gyasa, come dote nuziale, portò con sè dalla Cina la bellissima statua del Buddha Chenrezi, simbolo della compassione, divenuto poi il patrono del Tibet.

Altro fatto notevole nella storia del Tibet avvenne nel 1272, quando l'imperatore Kublai Khan installò sul trono del paese un monaco lamaista. Così da questo momento i monaci ebbero potere anche politico e trovarono la loro sede naturale nel Potala.

La struttura attuale del Potala, con i suoi 13 piani e la scalinata con 125 gradini, 1.000 stanze e 20.000 statue, risale al 1642 per opera di Ganden-Potang, il quinto Dalai Lama. Per questo lavoro immane ci vollero 30 anni e furono impiegati 7.000 operai che andarono a prendere legna e pietra anche a 200km da Lhasa. Bisogna ricordare che a quei tempi era ancora proibito l'uso della ruota!

Nel Potala hanno trovato sepoltura cinque Dalai Lama. I loro chorten sono ancora meta di pellegrinaggio. Ma ciò che attira maggiormente la curiosità devota dei tibetani sono le stanze, i tempietti, le terrazze, la camera da letto e delle udienze: tutto ciò che costituì gli appartamenti dell'ultimo Dalai Lama vivente. Qui i tibetani si muovono come in un labirinto di cui possiedono la mappa.

I cinesi hanno semplificato l'itinerariop turistico sia per ridurre il tempo di visita che le spese di manutenzione. Nonostante che il Potala non sia sfuggito alla dilapidazione delle Guardie Rosse, è ancora traboccante di tesori d'arte, non tutti esposti al pubblico: statue, oggetti di devozione, thanka, broccati, libri, dipinti.

3.4 Il Dalai Lama

Visitando il Potala si ha la netta sensazione di percepire l'invisibile presenza del Dalai Lama, che ora vive in volontario esilio a Dharmasala, in India. Il 14° Dalai Lama, Tenzin Gyatso, è considerato l'incarnazione di Cherezi, il patrono del Tibet.

Il trono delle udienze, il suo studio, la stanza da letto sono venerati con prostazioni, offerte di olio per le lampade ed elargizioni di denaro.

Da questa altura, chiuso nel suo palazzo d'inverno, servendosi di un piccolo binocolo, il Dalai Lama guardava giù verso le casupole sottostanti. Il principio della incarnazione lamaista purtroppo lo aveva isolato dal suo popolo fino al punto che, durante il suo trasferimento in portantina dal Potala al Palazzo d'estate di Norbulingka, e viceversa, la gente non osava neppure fissarlo in volto.

Com'è diverso il Cristo, Verbo incarnato, mescolato e confuso con il popolo, sempre in basso tra la gente ed in alto, solo sulla croce!

Con il Dalai Lama in esilio ora il lamaismo tibetano sta scoprendo una possibilità di purificazione religiosa attraverso l'assenza e la debolezza. Nell'esilio esso ha trovato la forza dell'espansione. Il Dalai Lama è un convinto predicatore della non-violenza e della responsabilità universale. In un mondo minacciato di scomparire a causa dell'imperversare dell'egoismo e di sentimenti negativi verso il prossimo, egli riafferma questo principio tradizionale: «Se sei incapace di condividere la tua felicità con chi soffre, non c'è speranza che possa raggiungere l'illuminazione e la stessa felicità».

L'egoismo non risolve i problemi ma li moltiplica. Si tratta allora di mettere in atto una «compassione dinamica» che in concreto significa considerazione per il bene comune e spirito di sacrificio per risolvere i problemi dell'umanità. La religione deve aiutarci a sviluppare un cuore gentile, ad essere più uomini, capaci di controllare i pensieri autodistruttivi d'ira, orgoglio, gelosia, odio, bramosia. La vera compassione si esplica in umiltà, onestà, tolleranza, rispetto degli altri. Di qui nasce la pace.

Il buddhismo tibetano ha insegnato anche a molti occidentali l'autocontrollo, la meditazione, la non-violenza e la compassione.

Questo spostamento di baricentro religioso, causato dall'esilio del Dalai Lama, è servito pure a mettere in contatto il lamaismo con il cristianesimo e le altre religioni. Nella dinamica del dialogo ciò porterà certo buoni frutti.

3.5 Ricordiamo Padre Desideri

Attorno alla città santa di Lhasa ci sono tre importanti monasteri che meritano di essere visitati: Sera, Drepung e Ganden.

Il complesso dei templi e monasteri di Sera si trova a 7 km. da Lhasa, addossato alla montagna, anch'essa divenuta scenario religioso perchè sulle pareti a strapiombo sono dipinti molti Buddha. Gli artisti come scalatori spericolati usavano scale e corde per appollaiarsi sugli spuntoni più arditi.

Nel tempio principale di Sera mi ha impressionato un magnifico thanka di seta ricamata che raffigura il Buddha circondato da uno stuolo di Buddhisatwa. Coloro che fanno il bene non restano isolati: tra essi si crea questa meravigliosa comunione dei santi intercessori.

In questo complesso monastico è stato ospite il missionario gesuita P. Ippolito Desideri. I monaci gli avevano dato libero accesso alla ricchissima libreria dove potè studiare a fondo il lamaismo. P. Desideri era pure libero di celebrare la Messa e di dialogare con i monaci. Nel 1717 egli scrisse in tibetano un sommario della religione cristiana. Nel suo libro egli argomenta contro la teoria della rinascita e del vuoto buddhista e spiega il cristianesimo in forma di dialogo. Il sogno di P. Desideri era non solamente di continuare il lavoro iniziato dal suo confratello P. Antonio Andrade entrato nel Tibet nel 1624 «in cerca di cristiani nestoriani», ma di presentare positivamente il cristianesimo al popolo tibetano dopo aver studiato a fondo le loro categorie religiose.

Sappiamo che la triste vertenza con i Padri Cappuccini, giunti a Lhasa nel 1707, portò alla chiusura della sua esperienza di adattamento.

3.6 Una chiesa in viaggio

Prima di partire per il Tibet mi ero sufficientemente documentato circa la presenza cristiana in questo paese rimasto a lungo «proibito». Da principio speravo di trovarvi qualche traccia esterna di cristianesimo. A nord-est di Lhasa, vicino al monastero di Muru, i Padri Cappuccini italiani nel 1725 avevano costruito un piccolo monastero. Purtroppo l'erezione del monastero era coincisa con una grande alluvione della città. I lama scorsero nel fatto un segno infausto e trovarono questa spiegazione: i lama bianchi hanno profanato la città santa e perciò gli dei sono irritati. Per poco i buoni Padri non scamparono il linciaggio popolare. Ma con il defluire delle acque si calmò anche l'irritazione dei lama e del popolo. Il 4 ottobre 1726 i Cappuccini poterono celebrare la S. messa nella cappella del nuovo monastero. Della loro chiesetta e del loro monastero non esiste però alcuna traccia.

Rifacendomi a piedi i 7 km. dal monastero di Sera a Lhasa, lungo la strada mi sono imbattuto come per caso in una «chiesa vivente»: una ragazza cinese, anche bella, con un piccolo crocefisso al collo. Sì, era cristiana. Era venuta dall'interno della Cina in Tibet e si guadagnava da vivere girando in bici come venditrice ambulante di vestiti. Dopo aver parlato con lei, mi sono detto: «Molto meglio questa chiesa che cammina che la visione di alcuni ruderi». «Non hai paura di mostrare il crocefisso?», le chiesi, «Sono cristiana», mi rispose con semplicità. Mi sarei diversamente trovato a disagio quando le dissi:«Coraggio, Gesù è con te ovunque e tu porti Gesù ovunque».

3.7 Una campana ed una tipografia

Andando a Lhasa avevo un progetto che tenni nascosto anche ai miei compagni di viaggio. Volevo ritrovare la campana che il P. Francesco Orazio da Pennabilli, cappuccino marchigiano, rientrando a Lhasa nel 1741 aveva portato con sè dall'Italia. P. Orazio era un missionario lungimirante. Dopo un primo periodo di permanenza in Tibet, era andato a Roma per chiedere rinforzi. Non gli fu facile perorare la causa tibetana. Alla fine ebbe qualche aiuto e molte promesse.

Tornando in Tibet egli portava con sè una tipografia con caratteri mobili in tibetano che era riuscito ad avere con la collaborazione della Poliglotta Vaticana. Inoltre portava anche una campana. «Che spirito romantico!», nota il suo biografo P. Fulgenzio Vannini.

Possiamo dire che anche i Padri Cappuccini non avevano certo sbagliato formula per il loro inserimento nel Tibet. Prima di tutto essi si erano presentati come monaci ed avevano costruito un monastero, la cui proprietà era intestata al Papa. Il loro comportamento edificante di monaci era riuscito ad attirare le simpatie del Dalai Lama tanto che in loro favore venne emesso un decreto di libertà di praticare e diffondere la religione cristiana. Inoltre i Cappuccini avevano voluto dare importanza alla stampa. Il P. Orazio spese sudori e sangue per tradurre in tibetano gli scritti del cadinale Bellarmino. Anche i Cappuccini miravano a mettersi in dialogo con il lamaismo tibetano.

La missione cattolica in Tibet venne dolorosamente chiusa nel 1745 più in conseguenza della politica religiosa della Cina di allora, che condizionava pure il Tibet, che per effetto di errori commessi dai missionari.

Più tardi, nel 1846, entrarono in Tibet i Padri Lazzariti francesi, Ruc e Gabet. Ma si trattò di una brevissima permanenza. Che cosa restò del lavoro di tutti questi missionari? Non certo una chiesa locale ben piantata. Per ottenere ciò il Tibet richiedeva tempi più lunghi di permanenza.

Leggendo il libro di Heinrich Harrer, «Sette anni in Tibet», avevo partecipato alla sua emozione del ritrovamento nel tempio di Jokhang della famosa campana dei Padri Cappuccini su cui lesse le parole Te Deum laudamus. Già la scelta di queste parole può dirci come la missione tibetana fu un grande atto di fede. Il Te Deum è un grande inno di ringraziamento della Chiesa. Per il P. Orazio la sola presenza di pochi testimoni di Cristo in Tibet era già un motivo di glorificazione di Dio.

3.8 Nei segreti della Jokhang

P. Silvano in conversazione con un monaco tibetano

Sulla base di quella piccola informazione di Heinrich Harrer, che risaliva a prima del 1950, puntai la mia ricerca verso la Jokhang, che egli chiama «la cattedrale di Lhasa».

La sera stessa del mio arrivo a Lhasa andai alla Jokhang, che fortunatamente era vicina al nostro Snow Land Hotel. Il tempio era chiuso . Ciò nonostante i pellegrini giravano attorno ad esso recitando il loro rosario, e molti facevano le loro prostazioni rituali nella piazzetta e nel portico antistante. Ebbi veramente la sensazione di trovarmi davanti al centro spirituale del Tibet. Da lontano il brusio della preghiera dei pellegrini sembrava un ronzio d'alveare in piena attività.

Facendo la circonvallazione del tempio, scoprii la porta d'ingresso del monastero. Entrai in un cortiletto ingombro di travi che servivano per le riparazioni in corso.

Alcuni giovani monaci si fecero avanti come per dirmi gentilmente che forse avevo sbagliato porta. Chiesi loro che mi accompagnassero dal monaco più anziano. Gli anziani del monastero sanno molto e contano molto, anche se il loro nome non figura nelle liste della gerarchia.

Entrai dunque nella stanzetta del Lama Namtul, un amabile vecchietto dallo sguardo triste anche quando si sforza di sorridere. I suoi occhi hanno visto le distruzioni che le Guardie Rosse hanno compiuto nel tempio e nel monastero. Alcuni suoi compagni non li ha più rivisti né ha sentito parlare di loro.

Le pareti della sua cella son tappezzate da immagini del Buddha e del Panchen Milarepa. Ci sono anche le foto del Dalai Lama e del Panchen Lama. Su una credenza decorataa fiorami sono accastellate in bell'ordine tante scodelline di metallo che servono per raccogliere l'olio delle lampade.

Quanto mi presento come un «Jsur lama», un monaco cristiano, egli si commuove e tende le braccia per posarmele sulle spalle. Mi versa del thè tibetano che teneva pronto nel thermos. Gli dico della mia ammirazione per i tanti pellegrini che ho visto attorno allo Jokhang.

Egli mi mostra, emozionandosi tutto, le varie foto del Dalai Lama che teneva dentro una busta di plastica. Poi va a rovistare in un cassetto da cui trae fuori una foto a colori di papa Giovanni paolo II che incontra a Roma alcuni tibetani. Chanden Chanshi Kendar, Tapulama, Tsuturtangda offrono al Papa una sciarpa bianca che rassomiglia al pallio.

Lama Namtul già sapeva dell'incontro che il Papa aveva avuto con il Dalai Lama durante il suo recente viaggio in India. Gli do un'altra bella notizia: il Dalai Lama ha assicurato la sua presenza ad Assisi in ottobre per pregare per la pace con il Papa e con i rappresentanti di tutte le religioni. Il tema della pace sta unificando gli uomini di governo alla ricerca di nuove strategie di distensione, ma più ancora gli uomini di diverse religioni che confidano nella forza della preghiera e nel rinnovamento del cuore.

Ormai è scesa la sera. Lama Namtul mi accompagna sulla terrazza del tempio di Jokhang da cui si gode una suggestiva visione del Potala, circondato da una nuvolaglia foriera di temporale.

Egli mi invita a tornare, perchè vuole prepararmi una lettera da mandare al Papa. A questo punto io gli chiedo se sa qualcosa della campana cristiana che è stata vista nella Jokhang. Ha come un brivido di sorpresa per una domanda così inaspettata. Io gli spiego con calma il significato di questo piccolo segno di presenza cristiana nel Tibet. Egli si schermisce: mi vuole come dissuadere da un'inutile ricerca. Io insisto con amabile fermezza: «La campana è stata vista!». D'altra parte so bene che la Jokhang è rimasta chiusa per circa venti anni. Gli propongo di esplorare insieme i corridoi ed i ripostigli del tempio al mattino presto, prima dell'apertura ufficiale.«Ne parlerò con l'Abate. Lei venga domattina alle sette», furono le sue ultime parole che mi lasciarono con un filo di speranza.

Tornai velocemente all'albergo. E per mia buona fortuna! D'improvviso un vento gagliardo solleva una tempesta di sabbia che invade ogni cosa. La luce serotina del cielo prende una tinta giallastra. Guardando fuori della finestra le case dall'altra parte della strada appaiono come ombre lontane. La strada si è fatta sgombra come se tutti al fischio di una sirena fossero corsi ai rifugi antiaerei. E' questione di venti minuti,e tutto torna come prima. Resta solo uno strato di polvere finissima posatosi un po' dovunque.

Il giorno dopo avevo un altro appuntamento a cui non dovevo mancare : ore 9 visita al Potala.

Senza aspettare la tradizionale colazione a base di yogurt, thè e «momo»(una specie di pagnottella infarcita di verdure e pezzetti di carne cotta a vapore), fornitaci dall'albergo, mi trovai puntuale al primo appuntamento.

Quando bussai alla cella di Lama Namtul egli stava ancora mormorando le sue preghiere. Egli si buttò sulle spalle il mantello color marrone e mi accompagnò alla cella dell'Abate Ghelsan Theng Ju, e si eclissò.

Fui sorpreso di trovare nella cella una donna anziana curva su una stufetta elettrica. Era la madre dell'Abate, felice di servire il figlio che aveva donato al monastero fin da bambino. Ricevetti un'altra scossa di meraviglia quando vidi infilarsi nella stanza, semplicemente scostando la tenda della porta, un ragazzetto di circa sei anni con la testa pelata ed il giubbetto da monaco. Era il nipotino dell'Abate, anch'egli certamente offerto al Buddha.

L'Abate mi fece accomodare vicino a sè su una specie di letto-cassa panca su cui era steso un bel tappeto con la svastica. Di fronte c'era un tavolino laccato a colori sgargianti su cui era aperto un libro tibetano. Altri libri, accuratamente avvolti nella seta, erano accatastati alla testa del letto. Sopra un bell'armadio troneggiava un ingrandimento a colori del Chenrezi e, sotto, due bronzetti del Buddha con in mezzo un lumino acceso. In un angolo una ventina di lumini d'ottone lucido attendevano il loro turno con il loro stoppimo eretto che spiccava sul biancore del burro fuso.

Indubbiamente Lama Namtul aveva parlato di me all'Abate. Costui sapeva che ero monaco cristiano; ma trovammo ancora molto da dirci, prendendo spunto dal mio piccolo crocefisso e dal mio rosario. L'Abate Ghelsan mi ascoltò con attenzione, abbozzando in permanenza un sorriso che rispecchiava la sua serenità interiore. Sua madre vegliava sulla mia tazza di thè perchè restasse sempre colma. L'Abate mostrò visibilmente la sua gioia quando gli parlai della mia visita ai vari monasteri. Poi la conversazione si spostò sul Dalai Lama. Egli emise un sospiro profondo e volse lo sguardo verso la madre, come per raccogliere anche da lei un gesto di partecipazione. Ella ci ascoltava con intensità, nonostante che il bambino le gironzolasse attorno.

Quando introdussi l'argomento della campana cristiana la reazione della madre mi fece intuire che ella poteva saperne qualcosa.

Uscimmo sulla terrazza per poi scendere nel tempio. L'Abate mi indicò una stanza sopraelevata con larghi finestroni oltre cui si intravedevano dei tendaggi ricamati. «Quella è la stanza che il Dalai Lama usava quando veniva allo Jokhang. I turisti non ne sanno nulla, dato che essi normalmente non possono mettere piede in questo settore del monastero. I pellegrini la possono vedere dal portico sottostante per dire solo: "Era là", oppure per chiedersi "Tornerà ancora?"».

Scendemmo nel tempio ad iniziare la nostra perlustrazione. Avevo portato con me la mia pila, sapendo per esperienza che molti angoli dei templi sono lasciati completamente all'oscurità. Girammo lentamente scrutando ogni ripostiglio ed anfratto. Arrivammo proprio davanti alla grande statua del Chenrezi. Ha un diadema tempestato di pietre preziose ed è come assediato da doni e da lampade accese. Il Buddha della compassione ci sorride amabilmente. E' il mio accompagnatore stesso che mi suggerisce di prendere una foto. C'è da dire che di solito per scattare una foto all'interno del tempio bisogna pagare un dollaro.

Ritraendomi dall'altare alzo la testo. Sopra di me ci sono due campane col battocchio ed una corda penzoloni. «Come questa», dico al Lama Ghelsan Theng Ju. Ma non è questa la campana cristiana. Mi viene il dubbio atroce che la nostra visita al tempio sia una farsa organizzata per scoraggiarmi a cercare ciò che mi si vuole nascondere.

Ormai non c'è più nulla da vedere. I pellegrini premono alla porta per entrare. L'Abate mi prega di accostarmi vicino al muro, come per salvarmi da una trave che sta per cadere. Non era una trave, ma una fiumana di gente che all'aprirsi della porta entrava nel tempio correndo, urtandosi, superandosi, tenendo sollevati in alto come trofei lumini, bottiglie di burro liquefatto, sciarpe di seta. Guardai stupefatto. L'Abate aveva un sorriso divertito.

«Ogni giorno è così», mi spiegò. «Chi tocca per primo i gradini dell'altare del Patrono del Tibet avrà una benedizione speciale». Mi viene da pensare al fatto della piscina probatica dove al muoversi delle acque solo il primo che riusciva a buttarsi dentro riceveva la guarigione.

L'Abate mi riconsegnò nelle mani del Lama Namtul, al quale non mancai di manifestare subito il mio disappunto per non aver trovato la campana. Egli sapeva che sarei andato al Potala. «Cerchi nel Potala», mi suggerì. «Durante la rivoluzione culturale molti oggetti della Jokhang sono stati trasferiti nel Potala».

3.9 La gente prima dei monumenti

La ricerca della campana cominciava a prendere un risvolto romanzesco. Non mi diedi per vinto. Durante la mia visita al Potala riuscii a convincere un monaco a chiudere il suo settore di museo, di cui era custode, per accompagnarmi a cercare la campana. Anche gli altri custodi vennero consultati. Mi ascoltarono pazientemente, ma poi tutti scrollarono la testa. Uno mi accompagnò a vedere una campana che di tanto in tanto sentivamo suonare. Non poteva essere quella, anche se era uno degli oggetti più bersagliati dai flash dei turisti. Dovevo rassegnarmi. Non era proprio il caso di impazzire per una campana.

Il giorno dopo andai a visitare il Palazzo d'estate del Dalai Lama. Ora i cinesi hanno democraticamente aperto a godimento del pubblico questo spazio verde: una rarità in tutta Lhasa. Il settore adibito a giardino zoologico mi apparve molto triste, perchè le condizioni ambientali degli animali in cattività erano poco rispettate.

Nel parco di Norbulinka una comitiva di famiglie cinesi, riunite sotto un grande tendone variopinto per il loro picnic, mi invitarono a sedermi con loro a mangiare. Era giusto l'ora in cui si poteva apprezzare qualcosa nello stomaco. Il fracasso del juke-box portatile obbligava un po' tutti ad alzare il tono della voce. Quando si sentivano delle canzonette che orecchiavano motivi di danza, prima i bambini e poi gli adulti, quasi tutti si lasciavano trascinare su un'improvvisata pista d aballo. Era un piacere trovare finalmente gente distesa. I bambini non avevano alcuna soggezione ad avvicinarsi pensando che parlassi il cinese. Quanto al mio «parlare cinese» è meglio non parlarne; posso però dire che riuscivo a farli ridere senza che smettessero di rivolgermi la parola.

Poco più in là anche una famiglia tibetana mi fece cenna di avvicinarmi ad un grande cesto ancora mezzo ricolmo di dolciumi che evidentemente non erano riusciti a finire. Non mi feci pregare, dato che la gente per me è più interessante dei monumenti che pure mi piacciono. Anche con loro trascorsi una bella oretta, godendomi lo spettacolo di un'altra danza, questa volta tutta tibetana, senza l'accompagnamento di canti registrati ma col canto eseguito in diretta. Così non solo risparmiai la spesa del pranzo ma ebbi anche, gratuito, il trattenimento.

Alla sera mi diressi verso la principale moschea di Lhasa al centro del quartiere musulmano. Eravamo durante il ramadan e giusto l'ora del dell'iftar, cioè il tramonto del sole che segna la rottura del digiugno. Sotto un portico, su tanti piccoli tavoli ben allineati che mi ricordavano il giardino d'infanzia, vidi pronte le tazze per il thè da offrire subito dopo la preghiera. L'iman della moschea, dopo aver sentito che venivo dal Bangladesh, un grande paese musulmano mi abbracciò con calore e mi invitò a fermarmi.

La comunità musulmana di Lhasa mi diede l'impressionedi essere fervorosa e compatta. I musulmani del Tibet amano Gesù Cristo e sua Madre, la Vergine Maria: fuori da ogni polemica, anche se inconsciamente, preparano anch'essi il terreno all'annuncio cristiano.

Nel rientrare in albergo mi trovai a ripassare accanto alla piazza della Jokhang. La processione dei pellegrini proseguiva ancora senza sosta. Attratto da quella fiumana, feci anch'io un giro attorno al tempio recitando il rosario. Poi mi avvicinai accanto ad un gruppo di pellegrini , assorto a contemplare coloro che davanti al tempio indugiavano nelle loro prostrazioni. Nell'atrio del tempio altri si affaticavano a far girare una gigantesca ruota di preghiera.

Un giovanotto tibetano, attirò la mia attenzione verso una donna sdraiata per terra, madida di sudore, che faticava a respiraree si lamentava di forti dolori allo stomaco. Era sua sorella. Forse il giovane sperava che io fossi un medico? Mostrando Cristo in croce gli dissi che ero solo un monaco cristiano. Senza che me l'aspettassi, mi afferrò la mano e me la fece posare sulla testa della sorella in segno di benedizione. Quando riaprii gli occhi trovai un'altra mano che mi guidava il braccio perchè ripetessi il gesto di benedizione.

Accondiscesi. Si avvicinarono altre quattro persone, anch'esse per farsi benedire. Non potevo trattenermi dal compiere un gesto peraltro non regolato da alcun rituale, specialmente in circostanze come queste. Attorno a me si formò un gruppo. Mi sentii come assediato. Per chi mi avevano preso? Provai quasi paura, e mi congedai in fretta, o piuttosto scappai, forse spaventato dalla mia impotenza per mancanza di fede.

A chi potevo raccontare ciò che mi era accaduto?

I miei compagni di viaggio mi avevano lasciato celebrare indisturbato la Messa domenicale della festa del Corpo di Cristo in un angolo di un dormitorio comune dell'albergo. Il mio invito ai cattolici francesi e spagnoli era caduto nel vuoto. Che strana faccenda! Coloro che avevano conosciuto Cristo non ne sentivano più l'attrattiva e coloro che non lo conoscevano mi chiedevano di benedirli nel suo nome. In tutto il mio viaggio in Tibet come mi fu penoso cibarmi da solo del Corpo di Cristo!

Ma non posso pensare che nei miei fratelli cristiani si sia del tutto spenta la fame di Gesù. Forse hanno bisogno di qualcuno che, con la forza della propria esperienza, faccia loro questa rivelazione: «Se tu sapessi che cosa troveresti abbandonandoti a Cristo!».

3.10 Una Messa al monastero buddhista

Fu proprio l'ultimo giorno trascorso a Lhasa che mi riservò la gioia di trovare ciò che cercavo.

Al mattino presto ero partito per il Monastero di Drepung a circa 15 km. dalla capitale. Questo bellissimo complesso, iniziatonel 1416, si presenta addossato alla montagna,come una come una cittadella medievale. Qui, all'arrivo dei cinesi in Tibet, vivevano ben 10.000 monaci suddivisi in quattro grandi collegi con annesse cappelle. Ora ci sono appena 435 monaci. Tra essi ho incontrato dei giovani lieti di aver fatto una scelta non solo per nulla incoraggiata dalle autorità cinesi ma anche ormai priva di prospettive di prestigio come una volta. Nel nostro mondo occidentale i conventi si sono svuotati al soffiare del vento della secolarizzazione; qui invece la drastica riduzione è avvenuta sotto il vento del comunismo che voleva fare piazza pulita delle superstizioni religiose. In tutti e due i casi si sono prodotti prima uno smarrimento, e poi una purificazione. La genuina vena religiosa non si è seccata.

Sono rientrato a Lhasa in autostop con una jeep militare nel pomeriggio. Sentivo il bisogno di concludere la mia breve presenza nella città santa con una S. Messa celebrata in tutta calma. Ma dove? L'albergo non si era rivelato il posto più adatto, nonostante la discrezione degli amici turisti. Mi venne un'idea: chiederò all'Abate della Jokhang di avere un posto tranquillo per pregare.

Mi diressi al monastero con tutto l'occorrente per celebrare la Messa. Appena mi rivide, l'Abate mi disse che anch'egli aveva una lettera per il Papa. Nella sua stanza c'erano la madre ed un vecchietto, suo parente. Sorbendomi il thè, gli raccontai quanto mi era accaduto la sera prima davanti al tempio, e cioè quella specie di assalto per ricevere la mia benedizione. «I tibetani sono rispettosi di tutti gli uomini che dedicano la loro vita a Dio: hanno molta fede in loro, e talvolta anche un po' di paura». Quando gli espressi il mio desiderio di avere un posto tranquillo per pregare nel suo monastero, inaspettatamente ricevetti un consenso cordiale: «Lei può rimanere nella mia cella mentre io scenderò nel tempio per la preghiera».

La prospettiva di poter celebrare la S.Messa nella cella dell'Abate della Jokhang mi rese stranamente emozionato dalla ontentezza. Mi venne in mente che nel mio zaino, in albergo, avevo una bella croce di legno proveniente da Gerusalemme. Dissi a Lama Ghelsan Then Ju: «Dopo che avrò pregato andrò in albergo a prenderle un piccolo regalo». Egli mi guardò incuriosito; poi mi diede un lumino da accendere durante la mia preghiera. Uscendo si rivolse alla madre per dirle di rimanere nella stanza nel caso avessi bisogno di qualche cosa.

La madre e il vecchietto restarono accovacciati in un angolo, scrutando in silenzio i miei movimenti. Furono due chierichetti impeccabili. Io mi misi al collo la stola bianca che rassomigliava alla «kata» di cotone o di seta che essi offrivano al Buddha. Il tavolino su cui l'Abate studiava le scritture buddhiste divenne il mio altare per poggiarvi la piccola Bibbia, la patena ed il calice. Per questa Messa il Tibet mi offrì poche gocce d'acqua, quanto bastava per farmi sentire la sua sete di redenzione, che si può placare solo nel calice di Cristo. «Prendete e mangiate, questo è il mio Corpo... Prendete e bevete, questo è il calice del mio sangue...». Il Corpo ed il Sangue di Cristo mi chiedevano di portargli altri commensali. I due tibetani, sempre in silenzio, mi videro mangiare e bere. Forse si saranno chiesti: «Non ce n'è anche per noi?». Io avrei voluto spiegar loro: «Sì questo cibo è anche per voi. Ma forse non l'avevano già ricevuto, desiderandolo nel loro cuore?

Al momento del ringraziamento, resi grazie anche per loro, per l'Abate, che mi aveva ceduto il suo piccolo trono senza sapere che sarebbe divenuto altare e tomba spalancata di Cristo Risorto.

«Grazie, o Signore, perchè hai dilatato in modo così sorprendente il gesto di ospitare me fino a farne il gesto di ospitare Te».

P. Silvano sulla terrazza della Jokhang. Sotto la tettoia a destra c'è il ripostiglio dove si trova la campana di Lhasa

3.11 Chi cerca trova

A questo punto sentivo il bisogno di uno squillo di campana. Quella sera avrei ricevuto anche questo regalo. Ma prima dovevo consegnare all'Abate della Jokhang il mio piccolo regalo. Corsi in albergo per prendere la croce di legno d'olivo, e poi andai in una bancherella per comperare una catenella. Nella cella dell'Abate avvenne l'imposizione della croce. Egli se la girò con devozione tra le mani. Non era una consacrazione episcopale, ma con ciò che aveva sofferto Lama Ghelsan una croce di legno se la meritava!

Intanto era sopraggiunto anche Lama Namtul con la sua lettera per il Papa ed un bel quadretto di Milarepa per me. Uscimmo sulla terrazza per una foto ricordo, e poi rientrammo tutti nella cella dell'Abate.

L'Abate mi fece sedere accanto a sè: «Prima di partire prenda con noi un'altra tazza di thè». Tenendo sospesa a mezz'aria la tazza, non so come, mi uscì una frase che lasciò come elettrizzati i due monaci: «Prima di bere questo thè voglio vedere la campana cristiana».

Crollò come un muro. Nel loro sguardo capii che la campana era ancora nella Jokhang. Lama Namtul mi fece un gesto di supplica, poi si portò la mano sotto la gola, come per dirmi: «Ne va di mezzo la testa».

Era chiaro: avevano paura dei cinesi. Dissi con calma:«Non voglio mettervi in pericolo. Facendo sapere fuori del Tibet che esiste ancora questa campana, anche i cinesi ne saranno contenti perchè sarà una prova che essi hanno fatto di tutto per conservare e rispettare questo segno cristiano». Lama Namtul mi disse che essi non avevano la chiave del ripostiglio, ma che tale chiave era in mano ad un altro monaco. Io tenevo sempre sosopesa in aria la tazza del thè fumante.

Guardando fissa la madre dell'Abate, dissi che non c'era per loro nessun pericolo se mi mostravano la campana. La madre, tenendosi le mani incrociate strette sul grembo , si rivolse con gli occhi verso il figlio. Lei era stata testimone della mia preghiera, Forse da ciò aveva intuito che non avrei potuto far loro del male. Nel suo sguardo lessi la rassicurazione che diede al figlio. Improvvisamente i due monaci uscirono dalla cella, forse per consultarsi o per chiamare il monaco a cui erano affidate le chiavi della «stanza riservata». Quando rientrarono capii che avevo vinto. Ma non dovevo stravincere; anzi sentii di dover subito compiere una rinuncia, quella cioè di avere tra le mie mani una specie di trofeo. Dissi semplicemente : «Grazie». Ed aggiunsi: «Per vostra tranquillità non prenderò nessuna foto della campana. Lascerò qui nella stanza la macchina fotografica e verrò con voi».

Il nostro drappello si mosse. Anche il nipotino, riapparso da chissà dove, ci si infilò dietro. Un monaco ci aprì con sussiego una porta chiusa con due lucchetti. Feci un balzo nella stanza. La campana! Il primo oggetto che mi venne sotto gli occhi. Era quella, alta poco più di due spanne. La rigirai tra le mani e notai subito, come una larga ferita, uno squarcio a forma di elle maiuscola rovesciata. Lessi la scritta:Te Deum laudamus te Dominum. La sollevai per vibrare un colpo. Ne uscì un suono fesso, quasi un lamento. Mi venne da carezzarla. Rilessi ancora accuratamente la scritta. Era proprio scritto: «Te Deum laudamus te Dominum». Evidentemente il signor Heinrich Harrer, che mi aveva messo sulle piste della campana, aveva letto appena le prime tre parole.

Bisbigliai una preghiera. Guardai i monaci: li vidi felici di avermi fatto felice.

Ricorderò per lungo tempo quel thè tibetano. Lasciai che la madre dell'Abate me ne versasse tre o quattro volte. Al momento di prendere congedo, Lama Ghelsan Theng Ju ed io facemmo una preghiera in silenzio e ci scambiammo la benedizione. La madre mi mise tra le mani un pane schiacciato a forma di focaccia. Certo era il pane che lei mi avrebbe dato anche prima se avesse saputo che potevo usarlo per l'Eucarestia.

Anche questo pane, come l'Eucarestia, non era solo per me. Appena uscii sulla piazza della Jokhang mi venne spontaneo spezzarlo in tanti pezzetti per distribuirlo tra i pellegrini. Al mio gesto di offerta, dapprima qualcuno restò perplesso. Quando dissi che era il pane che veniva dal monastero, mi fu quasi strappato di mano. Chissà! Non sarà che un giorno l'Eucarestia andrà quasi a ruba tra le mani dei tibetani?

In questo caso, caro Padre Orazio, tu certamente salteresti a dire: «Preparate un'altra campana, ancora più grande, su cui ci possa stare scritto tutto il Te Deum».

Ma intanto vorrei esprimere una richiesta agli amici cinesi: «Non abbiate premura ad esporre alla Jokhang la campana cristiana. Sappiamo che neppure voi condividete la ferita che le è stata inferta dalle Guardie Rosse. Compite anche questo gesto di "apertura" che vi farà onore».

Per molti turisti cristiani la vista di quella campana ferita sarà forse un aiuto per rimarginare le ferite della propria fede.

4. Sulla via del ritorno

Rilievi della campana di Lhasa

4.1 Sotto le torri di Ghiantze

Ogni viaggio ha il marchio dell'incompiutezza.

Quattro giorni a Lhasa significarono per me appena una degustazione di un ambiente tutto nuovo. Tanti aspetti della sua vita mi erano rimasti nascosti. Mi sarebbe piaciuto, tra l'altro, andare tra i giovani dell'università per cercare di percepire meglio la direzione verso cui si muove il Tibet. Ma non dovevo illudermi: la barriera della lingua non mi avrebbe permesso di andare molto in profondità.

Sulla via del nostro ritorno ci furono due soste significative: una a Ghiantze ed una alla grotta di Milarepa. Ghiantze è sempre stato un importante centro commerciale ed un punto strategico sulla via di Lhasa. Il suo aspetto turrito fa pensare che questa città sia stata una fortezza inespugnabile. Invece proprio qui, nel 1904, il colonnello inglese Francis Yunphusbane inflisse alle truppe tibetane una durissima sconfitta, che fu all'origine di umilianti imposizioni commerciali.

A Ghiantze spicca imponente il Kumbum stupa del XIV secolo, dall'aspetto di una pagoda a quattro ripiani. In ogni ripiano ci sono dodici piccole cappelle finemente decorate.

Nel tempio adiacente si possono ammirare dei bellissimi «mandala» dipinti sulle pareti, vere e proprie mappe, zeppe di disegni evocativi che sostengono la mediazione. In un angolo c'è perfino una specie di «camera degli orrori», ossia una serie di divinità mostruose coperte dalla vista con un grosso tendaggio. Un bel sistema per esorcizzare il pericolo.

Sotto il sole cocente sono salito fino al monastero mezzo diroccato, situato quasi in cima alla collina. Qui vive in solitudine un vecchio monaco che dall'alto può godersi panoramicamente sia la città che la sua lunga esistenza. Circondato da cuscini e da vasi di fiori, cantilenava le sacre scritture buddhiste. Conversando con lui lo rovai ilare ed arguto. E' proprio vero che certi monaci , incartapecoriti nell'aspetto, hanno risorse impensabili ed appaiono scherzosi come bambini.

4.2 Meditazione in poesia

Ghiantze, Shigatze, Tingri, Nyelamu. Il paesaggio mi ripassa davanti come se sfogliassi le pagine di un libro che amo rileggere.

Il ritorno invita alla riflessione ed al ringraziamento. Mi viene voglia di meditare in poesia. Dentro mi canta questo motivo «Signore che ami i Tibetani».

Seduto in corriera vicino a me c'è un giovane inglese, reduce dal Giappone, dove ha trascorso tre anni come insegnante di lingua. Ora mi pungola con le sue domande, che peraltro non disturbano la mia meditazione. «Chi è Dio per lei?». Rispondo: « E' Colui che mi dà continuamente la vita». Cerco di spiegargli semplicemente che nella mia vita mi sento felice appena riconosco ciò che ho ricevuto da Dio e perciò lo ringrazio. Ogni giorno è nuovo perchè Dio non si ripete. Ovunque volga lo sguardo, sento il bisogno di dire: «Grazie per questo deserto, per questo torrente che mi scorre accanto, per queste montagne che hai preparato per me da miliardi di anni... Grazie per questa persona che mi parla e mi ascolta...». «Ma perchè devo ringraziare Dio?», mi chiede il giovane. «Se non ringraziassi Dio significa che sono orgoglioso del mio nulla ed un cieco», gli rispondo.

Lo lascio parlare, gli lascio fare domande, anche se non posso stargli dietro nelle risposte. «Vedi, l'uomo è l'unico essere che può ringraziare perchè riconosce d'aver ricevuto, ed è anche l'unico essere che avverte di aver dentro di sé delle domande di cui non può sbarazzarsi. Che sia proprio Dio a tenerlo sulla corda?». L'idea di camminare «sulla corda» non lo convince, ma non sa dirmi perchè. Io credo che solo la fede ci fa camminare sulla corda della vita, dandoci la certezza che i due estremi sono sottesi dalle mani di Dio. Spesso non vediamo che la corda e prendiamo paura; ci è difficile riconoscerci nelle mani di Dio; un giorno la vedremo chiaramente. Io, tu, il mondo, la storia su quella corda è nelle mani di Dio!

La corriera scende velocemente, ma ormai, conoscendo il nostro autista, abbiamo imparato a fidarci di lui.

4.3 La grotta di Milarepa

Poco prima di raggiungere il villaggio di Nyelamu sostiamo alla grotta di Milaropa. Dalla strada principale si scende verso il fiume Jndrowati.

A mezza costa della scarpata c'è la grotta dell'eremita, incorporata nel monastero distrutto nel 1966 ed ora ricostruito. Il tibetano Milarepa, vissuto nel secolo XI, era approdato al buddhismo passando attraverso la magia. Dopo essere stato iniziato dal maestro Marpa, egli divenne monaco itinerante e poi eremita. Egli predicò con l'esempio e la parola l'impermanenza delle cose e la necessità di fare in sé il vuoto per raggiungere il nirvana. Nella sua raccolta poetica «I centomila canti» egli dice:

«Questo vaso di terra adesso c'è

e dopo un po' non c'è più.

...Dopo aver servito ciò che ha sostanza, cioè la Legge...

Ora sono yogin

e mi applicherò alla mia liberazione».

Da questo poggio si gode un panorama suggestivo: sotto il fiume scorre murmure e schiumoso, più avanti c'è la spianata verdeggiante della risaia, ed in alto brillano i picchi immacolati dell'Himalaia. Forse dal terrazzo della sua grotta Milarepa trovò l'ispirazione per questo canto:

«Il ruscello, l'onda, la schiuma

che vengono a sgorgare dall'oceano

nello stesso oceano tornano a dissolversi».

Attualmente nel monastero ci sono appena sette monaci. Uno di loro, un vecchietto dal volto dolente e dalle mani rattrappite dai reumatismi, ci indica il dipinto che raffigura Milarepa seduto su due cuscini, rivestito del suo mantello di cotone, mentre si porta la mano destra all'orecchio come per mettersi in ascolto di una melodia che viene da lontano. Ai suoi piedi: cervi, cani ed uccelli si beano della sua presenza. Come S. Francesco d'Assisi, Milarepa era divenuto un uomo libero, capace di godere della natura e capace anche di rallegrarla. Il suo sorriso estatico rivela la raggiunta illuminazione.

Nonostante il digiuno quasi assoluto, Milarepa morì ad 84 anni, nel 1123. Alla fine della sua vita egli espresse il desiderio di morire ignorato da tutti, in solitudine, senza lasciare traccia di sè. Ormai non sentiva più il bisogno di predicare ben sapendo che, quando la verità è scoperta, essa brilla spontaneamente.

La biografia di Milarepa dice che, alla sua morte, apparvero nel cielo segni misteriosi, come un chorten luminoso sulla catena dell'Himalaia. La gente ebbe così il sigillo del suo ritorno a Dio.

Aggirandomi nei pressi del monastero notai, poggiata su un muricciolo, una campana con una grande crepa. Scattai una foto a questo simbolo del Tibet. Due campane, quella cristiana a Lhasa e questa buddhista a Nyelamu, portavano lo stesso stigma di sofferenza.

I buddhisti suonano la campana quando entrano nel tempio. Per i cristiani il suono delle campane è come un annuncio festoso della resurrezione.

Ma perchè infierire contro delle campane che erano servite per richiamare agli uomini la loro comunione con Dio? Nella storia del Tibet perchè tanti innocenti hanno subito violenza?

La campana sul muricciolo accanto alla grotta di Milarepa, esposta al sole, alla neve, al vento ed allo sguardo di tutti, con la sua ferita sembra dire: «Ricordiamo». La campana nascosta all'ombra della Jokhanh, con la sua ferita sembra dire: «Perdoniamo». Ma questi non sono i posti per le campane. Anche in Tibet le campane sono fatte per suonare in libertà: «Eccoci, o Signore, davanti a Te. Te Deum laudamus, Ti lodiamo, o Signore!»

4.4 Ultime immagini

Alla Guest House di Nyelamu il nostro arrivo suscitò una mezza baraonda perchè risultò presto che non c'erano letti e materassi a sufficienza. Ma il direttore non perse la calma e andò a farsi prestare i letti dal vicino ospedale.

E' l'ultima serata in Tibet. Qua e là ci sono stanchezza ed anche euforia. Io vado a chiedere al direttore se può indicarmi un posto tranquillo per pregare. Egli mi guarda inquisitivamente. Forse non ha capito bene. Gli faccio lo spelling della parola inglese, gliela scrivo sotto gli occhi, gli mostro la mia piccola Bibba e mi metto a mani giunte. Ha afferrato il concetto. Poi mi dice con calma: «Questo non è un monastero, ma un albergo». La sua risposta inaspettata mi fa scoppiare a ridere. Ridiamo tutti e due. In conclusione, egli finì col mettermi a disposizione la sua stanza. Imprevedibili questi cinesi! Ma anche i tibetani...

Dopo cena, andai a salutare una famiglia che avevo visitato ancora la prima sera del mio arrivoa Nyalamu. Il fumo della stufa invadeva la stanza, che veniva arieggiata solo dalla porta spalancata. Ci accomodammo su un grande pancone-letto. I bagliori del fuoco pian piano mi fecero intravedere le facce degli uomini e dei ragazzi sdraiati sul pancone e quelle delle donne sedute per terra a cardare lana. Mi fu versato thè in abbondanza. Con una chitarra rudimentale cominciarono ad accompagnare le loro nenie piene di malinconia. Anch'io dovetti cantare in italiano.

L'atmosfera si riscaldò, quando le donne tentarono di alzarsi in piedi per danzare.

Ma la stanza si rivelò troppo angusta. Allora, tutti fuori sul cortile, nonostante il vento gelido che scendeva dalle cime nevose. Il canto e la danza richiamarono le famiglie vicine. La fila delle danzatrici si ingrossò fino a raggiungere uno schieramento di quindici donne. Nella catena proprio le anziane sembravano più scatenate nel segnare il passo di danza e nel dare brio al canto.

Dal mio viaggio in Tibet mi porto via quest'ultima immagine che considero di buon auspicio: l'incontro con la gente che ama danzare e cantare anche sotto la sferza del vento gelido.

Al mio ritorno a Kathmandu trovo ancora qualcosa che mi solleva lo spirito. In città stanno replicando il musical «Siddharta: birth of a dream». In occasione dell'anno internazionale della pace, questo musical ripresenta il messaggio del Buddha come una via che tutti possono percorrere. In ogni uomo ci sono le possibilità per divenire strumento di pace come il Buddha.

In un negozio della capitale del Nepal, dov'erano esposti mandala e thanka tibetani, notai un bellissimo thanka cristiano, eseguito dall'artista nepalese Lawrence Sewha. Al centro troneggia Cristo che mostra, come un libro aperto, il suo cuore ferito. Don Franco Demarchi direbbe: il cuore aperto del Creatore. Distribuite tutto attorno ci sono le principali scene della vita di Gesù. I tibetani usano i thanka, dipinti su tela o ricamati su seta, per meditare. E' impensabile la diffusione sia dell'induismo che del buddhismo senza il ruolo della rappresentazione visiva e musicale dei loro ideali religiosi.

Il cristianesimo in Asia deve prendere in maggiore considerazione la strada dell'arte per veicolare il suo messaggio.

In questo viaggio la natura, l'arte e l'occhio interiore dell'amore mi hanno spesso aiutato ad avvicinarmi alla gente di religione non cristiana. Non andai a conquistare i tibetani, ma ad imparare una lezione nuova: imparai come il Signore di tutti ami i tibetani. Ora comprendo, con riconoscenza, che anche questo incontro era stato preparato.

5. Signore, che ami i tibetani

Perchè nel Tibet non muoia la speranza

M'hai attirato nel Tibet, sul tetto del mondo,

a contemplare il tuo cielo sempre mattinale

ed il deserto giallo-rosso,

ma da millenni spugna insaziabile,

a scrutare i volti nuovi di gente che ti ama,

o Signore che ami i Tibetani.

Queste altezze vertiginose e quest'aria rarefatta,

questa immobilità e questo silenzio,

questa parsimonia dei doni della natura,

non hanno impaurito l'uomo che ti cerca,

o Signore che ami i Tibetani.

Le muraglie sbrecciate di villaggi fantasma,

sentinelle mute che spiano le valli,

sono come un papiro lacerato,

testimone del palpito di lontane generazioni,

o Signore che ami i Tibetani

Sul tuo splendido libro un giorno leggeremo

le umili storie travolte dalla frana del tempo

senza lasciare per noi un segno decifrabile,

ma ben fisse nel presente della tua memoria,

o Signore che ami i Tibetani.

Oggi come ieri emigrano i pastori

al passo lento degli yak e delle pecore,

con l'unico fardello di una povera tenda,

in cerca di pascoli

per sopravvivere un'altra stagione,

o Signore che ami i Tibetani.

A questo puntino nero che consultava le pietre

giunse un giorno la voce del Buddha illuminato

a rivelare nella preghiera e nella compassione

il sentiero della luce e della salvezza,

o Signore che ami i Tibetani.

E' la tua amorosa vicinanza

che le ruote di preghiera implorano

e che le bandiere bisbigliano nel vento,

ingegnosi espedienti della povertà dell'uomo,

o Signore che ami i Tibetani.

Ambasciatori del tuo Verbo fatto carne,

i Padri De Andrade, Orazio e Desideri

balbettarono il tuo messaggio d'amore

in queste valli punteggiate di templi e monasteri,

o Signore che ami i Tibetani.

Tace la campa del «Te Deum laudamus»

rinchiusa nel monastero di Jokhang:

con la sua larga ferita è simbolo dolente

di un popolo che condivide la passione di Cristo,

o Signore che ami i Tibetani.

Manda a questo popolo un Milarepa cristiano,

nuovo Francesco, dolce cantore di sorella natura,

fratello che tutti riconcilia con le sue stigmate,

scalatore e pellegrino delle vette dello Spirito,

o Signore che ami i Tibetani.

Gloria al Padre, patria e casa dei profughi,

gloria al Figlio, maestro, amico e salvatore,

gloria allo Spirito, promessa

e pegno del nirvana felice,

gloria a Te, Signore che ami i Tibetani.

Nyelamu, Grotta di Milarepa - 6-6-1986

Il seguito a sorpresa di questa storia

La campana di Lhasa è ancora in attesa di fare risuonare in terra tibetana i rintocchi del " Tw Deum Laudamus Te Dominum". Essa resta custodita in un repostiglio del monastero annesso al tempio della Jokhang.

Fortunosamente tre giovani intraprendenti ne hanno eseguito il calco. La fonderia Colbacchini di Padova ha così potuto farne una replica. La campana pesa 50 Kg e porta visibile il segno della sua "ferita", una incrinatura ad L rovesciata.

La replica della campana è stata collocata sul Roccione di Pennabilli, accanto a tre mulini di preghiera tibetani. Il 30 luglio 2005 Sua santità Tenzin Gyatzo, XVI Dalai Lama e Premio Nobel per la Pace 1989, ha presieduto alla solenne inaugurazione con la festosa partecipazione dei Padri Cappuccini, della popolazione e dei rappresentanti di altre religioni.

In questo modo, il Dalai Lama ha restituito il gesto di amicizia che p. Orazio da Pennabilli aveva voluto stringere con il popolo tibetano attraverso il dono del Vangelo. Nel suo messaggio, il Dalai Lama ha parlato di "religioni accomunate nell'impegno di aiutare l'uomo"; del "coraggio mostrato da p. Orazio nell'affrontare le difficoltà, una missione in una delle zone più difficili del mondo, aiutato da una forza interiore"; di "collaborare tra le diverse confessioni religiose per promuovere la pace".

La campana di Lhasa è tornata là di dove era partita. Il suo rintocco è un'implorazione di libertà e di fraternità tra i popoli e le religioni.

P. Francesco Orazio da Pennabilli (1680 - 1745)

P. Orazio cappuccino missionario pioniere in Tibet

P. Francesco Orazio da Pennabilli, cappuccino, missionario pioniere nel Tibet, è la gloria del Montefeltro. A Lhasa egli ha costruito la prima chiesa, dedicandola a Maria Assunta.

Per annunciare efficacemente il Vangelo, p. Orazio si era dedicato a conoscere a fondo la cultura e la lingua tibetana. Tra le sue opere ricordiamo: un Vocabolario tibetano-italiano di 35.000 vocaboli, una traduzione della Vita del Buddha, del Libro dei Morti e delle Tre grandi vie che conducono alla Perfezione, come pure la compilazione di un Catechismo. In segno di simpatia egli era chiamato lama testa bianca

P.Orazio nel 1741 ha portato a Lhasa la famosa campana del "Te Deum Laudamus Te Dominum". Custodita ora nel monastero della Jokhang, la campana è stata "riscoperta" da p. Silvano Garello nel 1986.

Pennabilli di Montefeltro

Accanto a tre ruote di preghiera tibetane la replica della campana di Lhasa del Te Deum laudamus Te Dominum