Articoli e lettere - 2004

p. Fabrizio Calegari




2004


Lettera agli amici

Dinajpur, 8 settembre 2004

“La sola verità è amarsi”

(R. Follerau)

Carissimi amici,

vi scrivo mentre la stagione delle piogge sta volgendo al termine, grazie al cielo. Quella monsonica è una stagione maledetta che prende per sfinimento.

C’è stato un periodo che di notte, invariabilmente intorno alle 3.00, mi alzavo, facevo una doccia, cambiavo la maglietta fradicia e tornavo – si fa per dire – a dormire.

I vecchi padri dicevano, con tanto buon senso, che l’unico programma in questa stagione è cercare di sopravvivere.

La cosa più fiaccante però è stato ricevere e-mail da fratelli e amici che mi aggiornavano in modo dettagliato sulle loro vacanze…

A quasi un anno dal mio rientro in Bangladesh, mi sembra doveroso mandarvi qualche riga. Non ci sono motivi particolari per un silenzio così lungo. La verità è che una volta dentro il lavoro di tutti i giorni ci si lascia prendere e si trova poco spazio per il resto. A me poi viene sempre il dubbio, scrivendo, che le nostre esperienze di missione possano interessare davvero. Mi spiego. E’ una sensazione provata più volte in Italia quando mi trovavo a raccontare qualcosa degli anni (pochi) passati in Bangladesh: vedevo facce perse, sguardi nel vuoto. Avevo la netta sensazione di parlare ad un pubblico di un altro pianeta, tanta era la distanza che sentivo. Sembrava una fatica inutile: come fare a spiegare cose che necessitano una esperienza diretta? Viene dentro la tentazione di lasciare a ciascuno la sua vita e buonanotte ai suonatori.

Il dubbio c’è ancora. Ma anche la convinzione che tacere sarebbe un’errore più grande. Quindi vado a cominciare.

“Jishu”

Tornare in Bangladesh non è stato né facile né automatico. Le ultime settimane che mi separavano dalla partenza sono state faticosissime. Nonostante non abbia mai preso in considerazione la possibilità di un cambio di missione e pur desiderando davvero di tornare, ugualmente ho sentito tutta la fatica di lasciare tutto di nuovo. Di più: sulla scorta dell’esperienza precedente, ho avvertito la paura di affrontare ancora il Bangladesh con tutto quello che questo comportava. Ero di nuovo di fronte alla mia vocazione nuda e cruda.

Qualche giorno fa, durante la riunione del clero diocesano, ho ascoltato la testimonianza di un sacerdote americano che, povero in canna, da anni vive in città in mezzo ai musulmani, accostando i poveri e gli ammalati, dicendo la Messa da solo al mattino prestissimo, intessendo relazioni e vivendo di quelle. Ad una serie di obiezioni di un prete bengalese che gli chiedeva perché questa scelta e chi glielo avesse fatto fare, padre Bob ha risposto in lingua bengalese con una semplicità disarmante: “Jishu”. Gesù. Ecco tutto. In questo nome, e solo per questo nome, ho trovato anch’io, nel mio piccolo, la forza di partire e tornare.

Il “St. Philip’s”

Ancora però non sapevo dove sarei stato destinato. C’erano alcune ipotesi in ballo.

La prima “avance” l’avevo ricevuta da un confratello di passaggio in Italia: “Quando torni – mi aveva detto – sappi che da me trovi posto”. La proposta, sia per il luogo che per il padre, mi aveva fatto un gran piacere.

Poi nell’agosto di un anno fa ho ricevuto un’e-mail dal vescovo di Dinajpur (col quale avevo già lavorato) che mi offriva, in vista del rientro, un posto come responsabile nell’ostello della diocesi per gli adolescenti delle scuole superiori: il St. Philip. Avevo appena terminato uno splendido campo-scuola con un gruppo di adolescenti dell’Abruzzo. Mi parve un segno.

A dire il vero c’era un terzo progetto, mai veramente decollato e cullato parecchio nei sogni. Ma il confratello col quale speravo di tornare e ricominciare insieme da qualche parte (questo era il progetto), è finito in Cambogia, dandomi un dispiacere e una lezione su cosa sia l’essere missionari.

Una volta rientrato, lo scorso ottobre, mi sono confrontato sia con i miei superiori che con il vescovo. Avevo tempo fino a gennaio per pensarci e anche per ripassare un po’ la lingua bengalese. Astenendomi dallo scegliere ma partecipando alla “trattativa”, alla fine sono stato assegnato al St. Philip’s.

Mi sono tornate subito alla mente le parole che tante volte ho sentito dal mio parroco, quando ero ancora seminarista: “Vedrai che ti faranno fare l’educatore”.

Questo ostello, dedicato a S. Filippo Neri, è nato più di cinquant’anni fa con lo scopo di poter offrire ai ragazzi delle nostre parrocchie di frequentare le scuole superiori, impresa altrimenti impossibile nei loro villaggi.

Succedo a p. Enrico Viganò, che qui, nel ’98, concluse la sua avventura bengalese dopo quasi cinquant’anni di missione. Un grande. Il fatto di essere al suo posto ora, mi ha fatto pensare. Quando ancora ero a Dhaka a studiare la lingua, le due o tre volte che venne giù in capitale ha sempre cercato di convincermi a farmi destinare al St. Philip, chissà poi perché. Tanto che quasi mi ero arrabbiato: mica ero io a decidere! E quando – ormai minato nella salute – l’ho accompagnato all'aeroporto per tornare definitivamente in Italia, con un magone grosso così e la sua voce roca mi ha detto: "Vai, vai da quei ragazzi là!". Un altro segno? Di sicuro adesso mi affido anche alla sua intercessione.

Il fabbricato dell’ostello sorge all’interno di un vasto terreno che ospita anche il Vescovado (proprio di fianco a noi), la Cattedrale, la Parrocchia, un centro catechistico, il Seminario minore, la casa madre delle suore Shanti Rani (Regina della Pace), l’ostello “parallelo” per le ragazze, la scuola, un Ospedale dedicato a S. Vincenzo de’ Paoli. Una cittadella, insomma.

I ragazzi sono circa 120, dentro una fascia d’età che spazia dai 12 ai 19 anni. Molte le diverse etnie: ci sono mahali, santal, oraon, kottrio, munda, bengalesi, raut, ognuna con la sua cultura e la sua lingua, le sue peculiarità e le sue fisime: il kottrio che non mangia maiale e il santal che mangerebbe solo quello; il bengalese che si sente spesso una spanna sopra tutti, il tribale che invece si sente inferiore.

Quasi tutti i ragazzi sono battezzati, ma non mancano eccezioni, la maggioranza provenienti dal mondo indù. Si tratta in ogni caso di famiglie che sono in contatto con la missione e che approvano l’istruzione cristiana che diamo, anche se questo non significa che un giorno sceglieranno il Battesimo.

Basterebbero questi pochi dati per darvi un’idea anche pallida di cosa significhi impostare una proposta educativa in questo contesto, soprattutto quando da almeno due anni i ragazzi sono stati quasi abbandonati a loro stessi.

La fatiscenza di diversi ambienti dell’ostello – me ne accorgevo già nei primi giorni – faceva da specchio alla trasandatezza che trovavo nei ragazzi.

Da questo luogo usciranno ragazzi che saranno domani i nuovi capi-villaggi, i catechisti, i padri di famiglia, forse anche qualche sacerdote. Aiutarli a crescere come persone è una sfida grande e stimolante allo stesso tempo. E’ un lavoro che amo molto e che mi appassiona, anche se spesso non so che pesci pigliare.

Mi riservo di raccontarvi qualcosa di più specifico su questo, con qualche episodio, la prossima volta. Non vorrei dilungarmi troppo e stancare.

Certo non si tratta di un lavoro missionario “classico”, fatto di giri nei villaggi e di parrocchia. Ma, a parte il fatto che nei villaggi ci vado ancora, collaborando con la parrocchia della Cattedrale, lo ritengo importante quanto l’altro. La missione evolve con forme di presenza diverse e non fossilizzate su uno schema solo. Ci stiamo rendendo conto, come comunità di padri del PIME, che il nostro contributo alla vita della Chiesa locale sta mutando. Mentre una volta eravamo noi la maggioranza e la chiesa locale ancora da costruire, oggi ormai c’è un buon numero di preti diocesani e noi comprendiamo che dobbiamo inserirci sottolineando o insistendo, con la nostra presenza, aspetti che il clero locale tende a sottovalutare o per i quali è meno preparato. La formazione è un esempio. Diversi di noi sono ingaggiati nei seminari come formatori o padri spirituali di conventi. E’ un servizio fondamentale.

La missione è un altro. Il prete locale tende normalmente a gestire la parrocchia senza più molto preoccuparsi di entrare in contatto con nuovi villaggi, avviando così nuovi percorsi catecumenali. Noi su questo insistiamo ancora tanto e crediamo che questa apertura sia indispensabile per la chiesa locale, che altrimenti – già intimidita dalla maggioranza musulmana – tenderebbe a chiudersi a riccio.

Nell’affidarmi questo incarico il vescovo mi ha fatto capire che conta non solo sulla mia buona volontà per l’educazione dei ragazzi, ma anche sulle mie buone conoscenze per far quadrare i bilanci dell’ostello che sono in grave passivo.

Ogni ragazzo ci viene a costare, più o meno, circa 200 euro: vitto, alloggio, spese mediche, libri ed iscrizione alla scuola. La famiglia o la parrocchia da cui proviene contribuisce per circa un terzo del costo.

Poi ci sono le spese straordinarie di riparazione nelle quali mi sono già imbarcato perché mi parevano indilazionabili. La fatiscenza di cui sopra riguardava uno dei bagni che abbiamo rifatto, le aule di studio che, una alla volta, stiamo risistemando. Ma altro rimane da fare, pian piano. Per esempio una piccola biblioteca (già finanziata e in via di completamento) e una cappellina i cui costi si aggirano sui 3000 euro. Sono due cose che reputo indispensabili per la formazione dei ragazzi.

Oltre a questo vorrei anche creare un piccolo fondo per borse di studio, in modo che i migliori studenti di ogni classe (sia da un punto di vista scolastico che comportamentale), vengano premiati con l’esenzione di ogni spesa per l’anno successivo. Spero che anche questa proposta aiuti i ragazzi a trovare più motivazioni nello studio.

Ora che da voi ricomincia la scuola, mi permettete un consiglio per gli acquisti?

Fate un regalo ai vostri figli e aiutateli a scegliere magari uno zaino o un quaderno meno firmato e meno costoso, così che con il rimanente possano aiutare un fratello lontano ad andare a scuola anche lui. Anziché la faccia di qualche calciatore, dei Pokemon o di qualche divo della tv, quella di Dulal, Polash, Komol, Gabriel, Kismot…

Un amico di Gaeta, qui con noi in questi giorni, ha voluto contribuire ad irrobustire il menù del refettorio, pagando per un anno intero il corrispettivo di un uovo e una banana a testa alla settimana. Un gesto che mi ha commosso. Normalmente infatti il menù prevede ovviamente riso in abbondanza, carne una sola volta alla settimana, e per il resto verdura. E siccome mangio anch’io con i ragazzi… meglio un uovo in più…

Delitti e alluvioni

Il Bangladesh sembra un paese perennemente in difficoltà. Sempre in bilico. In giugno-luglio c’è stata una pioggia che non finiva mai e che ha messo in ginocchio più di venti milioni di persone, a causa dell’alluvione che ha colpito un terzo del paese. Una tragedia che continua a mietere silenziosamente le sue vittime attraverso colera, tifo, dissenteria.

Stupisce però la grande capacità di accettare la sofferenza. Nessuno, ormai, crede o spera che le cose cambino. L'atteggiamento generale è di rassegnazione ma anche di grande dignità. Si verificano infatti alcune risse mentre si fa la coda per accaparrarsi un po' di cibo, ma una situazione così drammatica avrebbe potuto portare a tensioni sociali ben più gravi.

Curiosamente in Italia si sono accorti della cosa solo dopo quindici giorni che il Bangladesh era sott’acqua: lo abbiamo dedotto dalle telefonate, e-mail, sms ricevuti da parenti e amici preoccupati perché ne aveva parlato il telegiornale. Evidentemente finito il calcio mercato, spenti i fuochi di paglia della politica, e non ancora scoppiato il caso “bandana”, rimaneva poco di cui parlare.

Adesso, dopo l’alluvione, ormai da un mese non piove più e anche questa non è una bella notizia. A rischio, ma per motivi opposti, sono ancora i raccolti. Senza acqua non si può piantare il riso nuovo, che rischia di seccare nei campi.

Non bastasse, a peggiorare situazione generale c’è anche il clima sociale che sta da tempo precipitando e che due giorni fa ha vissuto nella capitale uno dei suoi momenti più drammatici. A Dhaka infatti, al termine di un comizio della sign. Hasina, leader del partito di opposizione di centro-sinistra ed ex primo ministro, alcuni terroristi hanno lanciato bombe a mano nel tentativo evidente di ucciderla. Una ventina di morti e centinaia di feriti, in un’attentato gravissimo che rischia di gettare il paese nel caos.

Alla televisione ho guardato prima la BBC che ha riferito il fatto come prima notizia. Poi ho girato sul telegiornale bengalese e ho visto per i primi dieci minuti l’attuale primo ministro – altra donna, leader di una coalizione di destra che ha come alleati anche gli estremisti islamici – mentre distribuiva generi di conforto alla gente alluvionata.

Solo poi hanno mostrato l’attentato di Dhaka. Classico esempio di tv di regime, anche in democrazia. Roba che nemmeno il Tg4.

Qualche tempo fa la rivista TIME ha pubblicato un’articolo velenoso condannando il Bangladesh come il paese più corrotto del mondo. Noi che ci viviamo ce ne rendiamo conto quotidianamente e non fatichiamo a crederci.

Naturalmente lavorando con i ragazzi devo stare attento, anche senza volerlo, a non dare del loro paese un’immagine troppo nera o pessimistica. Sarebbe facile: la scuola è un disastro, la sanità spaventosa, trovare un lavoro un’impresa… Ho il dovere di far crescere in loro una speranza per il futuro e di crederci anch’io, nonostante le apparenze. La speranza vera del Bangladesh, non mi stanco di ripeterlo loro, sono uomini nuovi. Il sogno è di stare lavorando per questo.

Voi sosteneteci con le vostre preghiere e ci avrete fatto il regalo più grande.

Vi abbraccio tutti con affetto.

Nota prima di andare in stampa: proprio oggi la squadra del mio ostello ha vinto il torneo cittadino di calcio per le scuole superiori. Soddisfazione doppia perché la nostra squadra era composta tutta da tribali (ultimo gradino della scala sociale).