Schegge di Bengala - 2019

p. Franco Cagnasso

2019

26/12

Natale insolito – Pasticceria acrobatica 

29/11

Vertigine – Manipolazione – Creatività – Incidente - Cipolle 

21/11

Bilancio – Ponte aereo - Incontrarsi 

2/11

Assedio

14/8

Bro. Jacques - Char

12/7

Antonietta e Martin - Competizione - Tripura    

27/6

Galera – Malattia - Luna

27/5

Integratore – Limbo - Evangelizzare 

25/4 

Pasqua – Dissociazione - Parlare 

19/4

H - B - N - D - ? – Prospettiva - Pregiudizi 

30/3

Secessione - ImmiEmigrati

2/3

Inutilità 1Inutilità 2 - Anniversario 

18/2

Oppressione

12/1

Benefattori – Fantasie 

182

Dhaka - 26 dicembre 2019

 

Natale insolito

In Bangladesh ci sono quindici centri della Ramakrishna Mission. Ne conosco due, uno è a Dinajpur, confinante con l’area dove si trovano la casa del vescovo, scuole e ostelli vari, ospedale diocesano, casa madre delle suore locali, parrocchia; l’altro è a Dhaka, non lontano dal prestigioso Notre Dame University, “fiore all’occhiello” della Chiesa cattolica nel campo educativo. In entrambi, accanto al tempio con la statua di Ramakrishna, il fondatore di questo movimento riformato dell’induismo, ci sono scuole, monastero, noviziato, iniziative per i malati e i poveri. Ero stato una volta al Centro di Dhaka, per un  incontro fra cristiani, musulmani, indù su “la ricerca di Dio”. L’intervento cristiano sottolineò la ricerca nel povero e nella carità, il musulmano nella sottomissione e nell’obbedienza, l’indù nella meditazione. Molto interessante. A Dinajpur, l’anno scorso il Vescovo era stato invitato a parlare del Natale proprio la mattina della festa, e quando ho saputo che quest’anno p. Francesco era invitato a presentare lo  stesso tema la sera della vigilia, a Dhaka, ho colto l’occasione. Arriviamo verso le 18. All’ingresso ci accoglie un poster molto grande che annuncia l’evento, con un’immagine di Maria e del Bambino incoronati, stile ottocento europeo. All’interno del tempio campeggia un’altra immagine, molto bella, di Maria e Gesù, circondata di fiori, frutta, bastoncini di incenso. Per mezz’ora circa, un piccolo coro canta nenie in una lingua a me sconosciuta, mentre pian piano arrivano i fedeli, e un monaco accompagna le melodie facendo ondeggiare lentamente la fiamma di una candela, o un braciere di incenso, davanti alla statua. Poi invitano Francesco al tavolo dove siedono due monaci, che presentano l’iniziativa: “Noi seguiamo la nostra religione ma rispettiamo e onoriamo le altre. Il nostro fondatore ha voluto che si celebrassero ogni anno la nascita di Gesù, e quella di Budda.” A quanto so (purtroppo molto poco) la Ramaskrishna Mission eil Ramakrishna Moth (monastero) hanno avuto origine alla fine del 1800 da alcuni indù che, al seguito della spiritualità del monaco Ramakrishna, desideravano rinnovare l’induismo a partire dalle sue Scritture, anche accogliendo elementi buoni e validi da altre culture e religioni; di grande importanza, fra l’altro, il completo superamento della struttura culturale e mentale delle caste, e l’attenzione viva e concreta ai poveri, e ai sofferenti.

 

Dopo le presentazioni e altri brevi interventi, sono ripresi i canti, in bengalese, e pure di “carrol” natalizi in inglese. P. Francesco ha parlato poi per 45 minuti. In un intervento molto denso e vivace ha spiegato il senso dei termini Gesù, Cristo, Messia, Signore, Figlio di Dio; l’attesa del popolo ebraico, la risposta dei discepoli all’annuncio di Gesù che “il Regno è giunto a voi”. Erano circa 300 le persone ad ascoltarlo, con interesse e attenzione. Una preghiera finale, i ringraziamenti, e poi non poteva mancare (siamo in Bangladesh!) il taglio di una torta, più tante fotografie. Siamo ritornati a casa con pacchi e pacchettini di regali, soprattutto frutta, e contenti. Una veglia natalizia insolita, ma bella. Ho pensato che quest’anno i Magi non sono andati da Gesù, ma Gesù è andato dai Magi...

 

Pasticceria acrobatica

L’autobus si chiama VIP, cioè “Very Important Persons”, come dice una scritta sul fianco, scrostata e impolverata. Appare in condizioni generali pericolosamente al di sotto della media cittadina, ma scorgo qualche posto disponibile e, messe da parte le paure (avrà i freni?) e gli scrupoli (posso infiltrarmi fra le “Persone Molto Importanti”?) salgo a bordo. L’autista è degno del veicolo: partenze a strappo, arresti a blocco, zigzag arditissimi fra buche, rikscia, pedoni... no, i pedoni no: sono loro che devono scostarsi se vogliono salvare la pelle... Due o tre fermate, e sale al volo un giovanotto che regge sul palmo di una mano un largo vassoio con... che cosa diavolo è quella roba? Sembra una polenta appena scodellata da una grossa forma per torte. Gialla è gialla, ma come fa a essere polenta? Non ne ho mai viste in Bangladesh... Il giovanotto sembra perfettamente a suo agio. Parlotta con le passeggere della prima fila, mentre io aspetto (desidero?) il momento in cui, per uno scossone più violento degli altri, rovescerà la polenta sulla testa di una di loro o, in alternativa, sollevando il vassoio per far passare chi entra o esce nel corridoio fra i sedili, raggiungerà le pale del ventilatore provocando una tempesta di polenta. Ad un certo punto, abbassa il vassoio, e tira fuori dalla polenta una specie di grosso sigaro avvolto in una foglia verde. Lo porge con un sorriso ad una robusta signora in “burka”, che gli dà qualcosa (soldi?) e si mette a mangiare sotto il velo. Guardo meglio: la presunta polenta, rotonda, dall’altro lato è bianca, e qua e là sui fianchi ben rifiniti occhieggiano le punte di altri simil sigari verdi. Mi viene un dubbio: che sia una torta alla crema? Malvagiamente mi dico che potrò scoprirlo quando si rovescerà, o finirà nelle pale del ventilatore. Ma il giovanotto, agilissimo, ondeggia, molleggia, si piega, si alza e si gira secondo le esigenze del viaggio, e la polenta/torta rimane saldamente sul vassoio, che a sua volta rimane saldamente sul palmo della sua mano. Altri passeggeri comprano e mangiano altri presunti sigari con evidente soddisfazione, e io mi avvicino pericolosamente alla decisione di comprarne uno per assaggiarlo. Poi, il pensiero di moltitudini di germi e batteri mi assale, e vigliaccamente rinuncio. Il mio vicino di posto sembra non mostrare interesse alla faccenda finchè si alza, sfiora la torta e scende. Il giocoliere tortifero s’illumina di gioia, e si siede accanto a me. “Bravo – penso io - così si rovescia adesso, mi devasta i calzoni e mi riempe i sandali...”Ma non succede, e ho modo di guardare da vicino. Non è polenta, nè torta alla crema, potrei chiamarla uno sformato di cocco grattugiato, colorato di giallo, o bianco, certamente con “colori consentiti dalla legge” e rigorosamente biologici... Conversazione: fra  i rumori del bus e della strada, i clacson, e la pronuncia del giovanotto, non capisco quasi niente, se non che lui stesso è autore del capolavoro, e che quello che resterà della montagnetta di cocco grattugiato ha come destinazione una festa di nozze. Vuole che compri un “sigaro”, e al mio “no” sorridente non s’arrende: prende un grosso pizzico di cocco e me lo mette in mano: “Assaggia, te lo regalo io!” Sì, è proprio cocco con un po’ di zucchero e tanto colore, oltre all’invisibile legione di germi e batteri. Il pasticcere acrobatico scenderà poco prima che scenda io, dicendo che si augura di rivedermi, e che senza dubbio la prossima volta comprerò il “sigaro”. Probabilmente ha ragione.

  

p. Franco Cagnasso

181

Dhaka - 29 novembre 2019

 

Vertigine

Speravo di andare anche a Gaeta, durante le mie recenti vacanze in Italia, ma non ci sono riuscito. Mi dispiace per gli amici che non ho potuto incontrare, e perché a Gaeta c’è un posto che amo moltissimo. È piccolo spiazzo sulla sommità della Montagna Spaccata, a strapiombo sul mare. La vista di giorno è splendida, ma ho nostalgia delle ore che vi ho trascorso di notte,  incantato dal cielo stellato, di una bellezza indescrivibile, esagerata, che lentamente fa germogliare gioia profonda e poi scivola in uno sgomento meravigliato. Le stelle, piccole luci attaccate alla grande coperta blu del cielo, lasciano intuire i miliardi di anni in cui hanno viaggiato attraverso l’universo per arrivare a me, ora. Portano il messaggio di un mondo inimmaginabile nella sua vastità, e mi parlano della mia piccolezza e della mia brevità, che sfiorano il nulla. Una di loro potrebbe inghiottire nel suo fuoco smisurato il mondo intero in cui vivo, in un attimo. Come lo strapiombo sul mare quando mi accosto al margine, l’inafferrabilità dell’infinito crea un senso di vertigine che attrae e spaventa. Allora di là, da quella roccia che profuma di mare e sembra volermi avvicinare al cielo, mi volto verso altre luci più vicine e familiari, dentro le case sulla costa lontana. Per ognuna di esse immagino una famiglia riunita a guardare la televisione, un giovane che studia, una cena solitaria o una festa gioiosa, un momento di amore, o di paura desolata. Vite diverse, vicine, infinitamente piccole. Eppure immense. Ognuna è un mondo completo di pensieri, sentimenti, desideri, sofferenze, speranze. Ognuna di loro può accogliere in sé, nella sua fragilità, l’infinito e il suo mistero. “Padre nostro”, il nome che Gesù dà al Signore dei mondi, sgorga spontaneo come una speranza stupefatta.

 A Dhaka questo non s’immagina neppure...

Mohakhali, aggrovigliato incrocio di strade accanto a una delle più grandi stazioni di autobus di Dhaka Nord. Nella sera illuminata da luci polverose e disordinate di lampade e di auto, il frastuono caotico del traffico, l’agitarsi continuo di persone di ogni tipo vengono aggrediti dall’improvviso, lacerante urlo degli altoparlanti appesi ovunque; richiama alla preghiera, e sembra voglia sfondare,brutalmente,quel poco di intimità con se stessi che a stento sopravvive nel correre affrettato di pedoni e viaggiatori ammassati su autobus stracolmi, nell’attesa stordita di mendicanti e venditori. Mi trovo avvolto dallo sgomento del mistero della vita. Milioni di persone, ognuna un universo di realtà diverse. Si ignorano o si tengono per mano, tornano a casa stanchi, vanno al lavoro, pensano, odiano, si aggrediscono o si aiutano... sono più numerose le stelle, o gli abitanti di questo mondo? È più profonda la profondità del cielo, o l’intimo di ciascuno di noi? Miliardi di cuori e di menti, di storie... la vertigine del nostro esistere, del tentare per un istante di intuire chi sono le innumerevoli persone che in questo momento si stanno incrociando in questa piazza, attente a non inciampare nei tombini, a non farsi rubare il portafoglio, a inseguire un sogno che solo loro  conoscono, a non lasciare che l’angoscia del futuro le spezzi.

I palazzi tengono lontano il cielo, e le luci disordinate le cancellano; ma ci sono piccoli squarci di  buio da cui scorgi umili, insignificanti, tristi stelle, timido richiamo ad una realtà che ci sovrasta ma sembra non riguardare più noi, qui, uomini della città. Sgorga dalla memoria la domanda che è preghiera: “Che cosa è l’uomo perché di lui ti ricordi? Il figlio dell’uomo perché te ne curi?” (Salmo 8, 5). L’interrogativo suona quasi disperato, perché questa umanità come schiacciata sulla terra appare insensata, e sembra non sentire nemmeno l’urlo impudico che la chiama alla preghiera. Eppure sgorga di nuovo, inatteso, il “Padre Nostro”, che dà pace.

Proprio come nella limpida, silenziosa bellezza della Montagna Spaccata.

 

 

Manipolazione

La tecnica è sempre uguale: qualcuno infila su facebook, nella pagina gestita da un indù, o un buddista, o un “ateo”, frasi o immagini di cui i media non riferiscono nulla, se non che sono offensive nei confronti dell’islam o del Profeta. Come un fulmine, la notizia diventa “virale”, e – divulgata, ingrandita, ripetuta in mille modi -  diffonde rabbia fra migliaia di persone che neppure sanno che cosa sia “facebook”; incita alla vendetta, si esalta con gli slogan a “difesa”dell’onore della propria religione, esige la pena capitale per i colpevoli. Si arriva presto alla violenza, a saccheggiare, incendiare case, raccolti e altri beni di fedeli della religione del possessore della pagina blasfema. La polizia interviene in ritardo, impotente per il numero enorme degli assalitori. Corre ad arrestare il “colpevole”, e parte la denuncia con la richiesta della condanna a morte.

L’ultimo di questi episodi è avvenuto il 20 ottobre scorso sull’isola di Bhola, dove la polizia – sopraffatta – ha sparato ammazzando alcuni dimostranti e facendo aumentare il furore. Questa è la quinta volta in pochi anni che, quasi in fotocopia, accuse, aggressioni, fughe, incendi, morti e feriti si rinnovano. È anche la quinta volta che i colpevoli non vengono identificati, e gli unici a finire in carcere, da cui escono dopo molto tempo e molta fatica, sono gli accusati di blasfemia – anche se è chiaro che nessun indù, buddista, ateo, cristiano o quant’altro, può essere tanto imbecille da mettersi in un pericolo del genere; non c’è argomento che tenga, né prova di innocenza che possa placare: era la loro pagina , devono essere impiccati.

Ovvio accusare il fondamentalismo di parti del mondo islamico, il fanatismo di chi, non conoscendo altro che slogan ripetutigli ossessivamente, s’intruppa furibondo per aggredire un “nemico” che non esiste, come le famiglie indù costrette poi a vivere nel terrore per anni – o ad andarsene.

Già, andarsene. Ma è proprio dalla massa ignorante dei fondamentalisti di campagna che partono queste provocazioni facili da creare per chi è esperto di computer, ma non certo per un contadino semianalfabeta? È il gusto di opprimere gli “infedeli” che dà il via? Le autorità non arrivano a concludere le indagini perché hanno paura dei fondamentalisti?

Sembra proprio sicuro che, vicino a coloro che vengono aggrediti, picchiati e costretti a fuggire, ci siano altri pronti a occupare le loro terre, o contenti di veder distrutte le loro attività commerciali. Le autorità hanno ovviamente paura dei fondamentalisti accecati dalla rabbia, ma forse ancora di più conta l’intoccabilità di “pezzi grossi”, magari impegnati in politica, per i quali è facile trovare un “hacker” compiacente, far circolare una notizia falsa, e poi vedere che cosa succede, aspettando che la paura costringa a fuggire, e la preda rimanga disponibile. Come avvoltoi.

 

 

Creatività 

Tempo fa una scheggia informava che in un paese della provincia di Patuakhali (nel centro-sud, non lontano dal mare), stufi di lamentarsi per una strada resa assolutamente impraticabile dal fango, per richiamare l’attenzione delle latitanti autorità, i cittadini locali avevano accuratamente trapiantato riso sulla strada, trasformandola in un campo. Se il riso sia giunto a maturare e abbia dato un buon raccolto, non lo so. So però che le autorità hanno continuato a dormire, e gli sfortunati (e inzaccherati) passanti hanno dovuto escogitare altro: hanno costruito un ponte. Non perpendicolare alla strada, per attraversarla, ma parallelo, per costeggiarla lungo il tratto impossibile a percorrere. Purtroppo il ponte, in bambù, soddisfa le esigenze dei pedoni, ma non degli automezzi...

 

 

Incidente 

Il tribunale ha condannato a morte sette terroristi accusati di essere coinvolti a vario titolo nell’assalto terroristico a un ristorante di Dhaka, dove, il primo luglio 2016, trovarono la morte 22 innocenti, fra cui 9 italiani, e 5 terroristi. “Giustizia è fatta”, hanno inneggiato in molti. Ma nessuno ricorda altri due coinvolti nella tragedia. Uno, Shaon, era lo sguattero del ristorante, l’altro, Saiful, il pizzaiolo. Arrestati per sospetto di complicità, il primo è morto in ospedale pochi giorni dopo, con ferite da schegge e vistosi segni di percosse. Il secondo pure è morto, mentre era in custodia della polizia la quale, dichiarando che a seguito delle indagini si era accertata la loro innocenza, ha informato della loro morte, dichiarandola “dovuta a incidente”. Poi sull’evento è piombato il silenzio, e sulle famiglie dei due l’isolamento: non hanno potuto vedere le salme dei loro cari, seppelliti di nascosto insieme ai terroristi, lo stigma di collaboratori dei terroristi rimane, il “risarcimento” che lo Stato ha dato alle famiglie delle vittime, bengalesi e straniere, a loro è stato negato. Il padrone del ristorante – ora trasferito altrove, e con altro nome -di sua iniziativa passa loro mensilmente 100 euro ciascuna.

 

 

Cipolle

È recente la scheggia che parla delle cipolle. Il loro prezzo sui mercati era salito talmente che il governo ha organizzato un ponte aereo per fornire il Paese del prezioso ingrediente di cucina, tentando di calmierare il mercato e minacciando di severissimi castighi ai profittatori. Il prezzo è calato un poco, ma poi s’è ripreso; non mi risulta che alcun profittatore sia stato castigato.Il Ministro dell’Agricoltura ha dichiarato che “ci vuol altro: per tener bassi i prezzi ci vuole abbondanza di prodotti, non interventi di reparti speciali delle forze dell’ordine...”. Corre voce che commercianti di riso, di cui presto ci sarà il raccolto principale, abbiano seguito gli eventi con interesse e si stia profilando un simile problema – in misura e con conseguenze ben più gravi – per quel prodotto, essenziale per la dieta di tutti in Bangladesh.

  

p. Franco Cagnasso     

180

Dhaka - 21 novembre 2019

 

Bilancio

La sparuta ma baldanzosa pattuglia di missionari del PIME in Bangladesh si raduna al completo 4 volte all’anno: un ritiro spirituale, un “corso di aggiornamento” ultrasintetico su un tema che c’interessa, due “assemblee” con valutazioni, scambi, progetti. Ogni incontro significa pure informazioni, chiacchiere, confidenze, arrabbiature, consigli, degustazione di pizza, pasta al forno e via cucinando. Ogni quattro anni, fatto un bilancio più accurato del solito, si eleggono il nuovo “Superiore Regionale” e quattro consiglieri. L’assemblea del 12-15 novembre scorso era di questo tipo, e questa “scheggia” ne approfitta per aggiornare anche voi.

 

Quanti siamo? La relazione del superiore uscente dice 24, di cui un missionario laico Pime,  21 preti Pime, 2 preti associati. “Fasce di età”: anni 30-39 = 4 (di cui uno, indiano, arrivato nuovo nuovo due giorni prima); 40-49 = 4; 50-59 = 3; 60-69 = 4; 70-79 = 8. E poi? E poi, 90 e oltre = 1, al quale però abbiamo dato un saluto pieno di affetto, auguri e rammarico pochi giorni dopo l’assemblea. Ora dunque siamo 23; p. Adolfo L’Imperio è in Italia, nella comunità di Lecco, dove ha ritrovato tanti amici dei bei tempi (se mi legge, certo commenterà: perché, questi tempi non sono belli?). P. Adolfo è l’ultimo di noi arrivato qui in quello che si chiamava Pakistan orientale; nel 1971 si è goduto 10 mesi di terribile guerra di secessione o indipendenza che dir si voglia, a seguito dei quali,  senza muovere un passo, si è ritrovato in un altro paese, il Bangladesh. Ha lavorato nei villaggi Santal, nella Caritas prima ancora che nascesse, ha fatto pastorale, organizzato scuole e ostelli, s’è tuffato nell’enorme sforzo compiuto dalla piccola chiesa bengalese per riabilitare milioni di persone che guerra e cicloni avevano ridotto alla fame. Ha progettato decine di edifici: chiese, scuole, conventi, seminari e anche una nunziatura. È stato superiore regionale ed economo generale (a Roma), ha mangiato tre tonnellate circa di gelati e cioccolato (record raggiunto in pochi anni, perché ai “bei tempi” i gelati qui non si trovavano), ha raccontato un’infinità di battute e barzellette, ha pregato un sacco...

 

Proveniamo da: Brasile (1), Camerun (2), Colombia (2), India (2), Italia (17). Lavoriamo in tre diocesi: Dinajpur (11), Rajshahi (6) e Dhaka (6). La panoramica delle attività comprende le missioni “classiche”, parrocchie dove ci si cura della pastorale fondamentale: insegnamento del vangelo, sacramenti, associazioni formative e di preghiera, assistenza ai malati, catechismo, preparazione al matrimonio, visite a villaggi e centri periferici, catecumenato, ostello per ragazzi e ragazze (generalmente responsabilità delle suore, come il dispensario medico). Oltre i confini parrocchiali: formazione di laici, religiose, seminaristi, strutture di servizio sanitario, iniziative per disabili, pubblicazioni, bambini in strada, “microcredito” (inventato dai missionari, non dal premio Nobel Yunus), formazione giovanile e vocazionale, formazione tecnica, momenti ricreativi, pellegrinaggi, incontri ecumenici e interreligiosi e varie altre cose che ora non mi vengono in mente... Da qualche anno accogliamo giovani (al momento 21) che vogliono entrare nel PIME, fino ad accompagnarli a entrare nel seminario delle diocesi bengalesi, qui a Dhaka, per poi proseguire nel seminario internazionale del Pime, a Monza. Cinque bangladesci sono già missionari Pime a pieno titolo, e si trovano in Papua Nuova Guinea, Filippine, Italia, Camerun, Brasile.

 

L’ultimo incontro – anche per bocca di p. Lourdh Xavier, pimino indiano eletto recentemente consigliere generale e in visita da noi - ha ribadito che non dobbiamo stancarci di “partire”, “lasciare”, “iniziare”. In concreto, non siamo fatti per fondare un ospedale, una parrocchia o una grande scuola e gestirli a tempo indeterminato. Cerchiamo luoghi e ambienti che rispondono al nostro “carisma”, e quando ci pare che altri possano andare avanti,  magari anche meglio di noi, volentieri passiamo loro la responsabilità, per ricominciare altrove.

 

Insomma, siamo quattro gatti ma di chiasso ne facciamo. 

 

 

Ponte aereo

Per quale motivo l’India abbia improvvisamente chiuso l’ esportazione di cipolle al Bangladesh, non lo so. Le cipolle costavano, secondo le stagioni, circa 70-80 taka al chilo; se per un qualche motivo toccavano i 100, ne parlavano i giornali. Questa volta, in pochissimi giorni, siamo arrivati a quota 280! Alle massaie bengalesi puoi togliere praticamente quasi tutto, in qualche modo sanno arrangiarsi. Ma le cipolle – quelle proprio no! Il Paese è piombato nel panico e nella rabbia, il governo ha fatto indagini, ha rassicurato, ha minacciato castighi severissimi ai profittatori e poi ha dovuto agire direttamente. Primo provvedimento: vendite a prezzi calmierati, per i poveri, che devono andare a cercare il tesserino, e poi correre ai luoghi dove stazionano i camion di pronto soccorso culinario, rischiando di soffocare o rimanere schiacciati sotto i piedi delle folle accorse, o di arrivare all’agognata meta quando il cassone è già vuoto... Ma ci vuol altro! Per risolvere il problema, bisogna agire su più fronti. Frenetiche trattative continuano con paesi produttori di ogni parte del mondo, numerose navi cariche di cipolle navigano a tutto vapore verso i porti bengalesi, i contadini anticipano il raccolto delle cipolle per approfittare del momento magico, e il governo ha organizzato un ponte aereo. È di oggi la notizia che sono appena arrivati i primi “cargo” di cipolle provenienti dal Pakistan, su aerei dell’Azerbaigian, altri sono in arrivo, dal lontano Egitto e non solo; la compagnia aerea nazionale ha assicurato che farà di tutto per dare la precedenza alle cipolle, e che i prezzi di trasporto saranno scontatissimi.

 

 

Incontrarsi

Il nome è impegnativo: Shalom, pace. L’obiettivo è meraviglioso: migliorare i rapporti fra le varie denominazioni cristiane, e fra fedeli delle religioni presenti in Bangladesh. I membri attivi non sono in verità moltissimi: tre formano la spina dorsale, la mente, le braccia e le gambe del “movimento”: Suor Anna Maria, delle Missionarie dell’Immacolata (meglio note, in Bangladesh, come “Pime Sisters”), P. Francesco Pime e Fratel Guillaume, comunità di Taizé. Ci sono inoltre tre o quattro persone di varia provenienza sinceramente interessate ma non sempre presenti; in testa, come interesse e partecipazione, i membri della Church of Bangladesh (Anglicani), e qualche “simpatizzante attivo”; mi onoro di essere fra loro.

 

Non ci sono sede, bilancio economico, biglietto da visita, fotografia con il Papa, un premio ricevuto da qualche parte per lo zelo dimostrato... Tuttavia, quatti, quatti, i quattro gatti di Shalom nell’anno che sta per terminare hanno organizzato:

 

1.      Una preghiera ecumenica per celebrare il Natale nella Chiesa Armena, abitualmente vuota perché non ci sono più armeni in Bangladesh. Presenti, almeno 100 persone di diverse denominazioni cristiane e, per la prima volta, anche nuovi cristiani del gruppo etnico Bom.

 

2.  Nella sede del seminario Church of Bangladesh, incontro con un leader spirituale della Ramksrishna Mission (indù), presenti una cinquantina di giovani, cristiani di varie denominazioni. Incontro interessante, anche se azzoppato. Shalom  infatti voleva che una cinquantina di indù partecipasse, ma il leader invitato a parlare non s’è sentito di acconsentire: troppi gruppi e tensioni fra loro, c’era rischio che la faccenda finisse male. Insomma, non è solo fra i cristiani che abbiamo bisogno di  ecumenismo...

 

3.  Incontro fra due studiosi, un cristiano e un musulmano, che hanno commentato il documento firmato dal Papa e dal grande Imam del Cairo in Abu Dhabi mesi fa. Ottima accoglienza da parte dei partecipanti, in perfetta “par condicio”, cioè oltre 100 studenti universitari, metà cristiani e metà musulmani.

 

4.  Nei locali della chiesa pentecostale, mezza giornata di incontro sul tema “Battesimo nello Spirito”. Hanno parlato la cattolica Dora Rozario e Asa Khan, pastore della AG (Assemblee di Dio, pentecostali), oltre 150 persone hanno ascoltato, interrogato, condiviso, cantato e pregato.

 

Poco, se consideriamo che in Bangladesh Dhaka vivono 180 milioni di persone? Dice un proverbio citato come cinese: se sei preoccupato perché devi fare un viaggio di mille miglia, incomincia a fare il primo passo.

 

p. Franco Cagnasso

179

Rajshahi - 2 novembre 2019

 

Assedio

Sono bastati pochi mesi da quando i primissimi “smartphone” hanno iniziato la loro trionfante conquista di centinaia di milioni di clienti di ogni età, sesso, nazionalità, linguaggio, professione, condizione economica, religione, opinione politica, stato sociale, condizioni di salute... ed è iniziato l’assedio: ma come, non hai lo smartphone? Dapprima non osavo chiedere che cosa fosse, poi me lo misero in mano, e un caro amico che sta a Hong Kong dedicò parecchio tempo a spiegarmi quante cose può fare, e come, con innegabili vantaggi pratici, cercando di convincermi che anche io posso imparare. Alla fine mi diede il colpo di grazia: me lo regalò. Fu così che – tornato in Bangladesh con lo smartphone - tutti mi dissero: finalmente! Mal gliene incolse, perché dovettero poi perder tempo e pazienza a spiegarmi e rispiegarmi come usarlo, ricominciando cento volte. Alla fine lo regalai a mia volta (e mi scuso pubblicamente con chi me lo aveva donato), ma ricominciò l’assedio, che si è intensificato durante le mie vacanze in Italia, appena concluse.

Devo ammettere che a volte ho sfiorato il crollo delle possenti mura che impediscono agli assedianti di vincere... Dopo due mesi di assenza dal Bangladesh, ho telefonato a Bibha. Fa la bidella a mezzo tempo, e poi corre a far pulizie presso varie famiglie, due ore qua e tre là per avvicinarsi all’impossibile, cioè far quadrare i conti. Ha due figlie che studiano, e il marito gravemente malato di reni. È di lei che ho parlato in una “scheggia”, lei che ogni tanto si prende qualche bastonata da creditori che non si rassegnano ad accettare la realtà: i soldi non li ha e non potrà mai sanare i suoi debiti. Le ho chiesto come sta, ma c’è voluto parecchio a persuaderla che ero proprio io e che telefonavo a lei, proprio a lei, e proprio dall’Italia! M’ha detto che il marito sta peggio, ha bisogno di un ricovero, di altre medicine e soprattutto della dialisi, e ha aggiunto altri problemi poco allegri. Ma era così incredula e contenta che mi fossi ricordato di lei, che non la finiva più di ringraziare, emozionarsi, cinguettare e balbettare. Finché mi ricordai che il tempo passava, la spesa cresceva, e tagliai corto. Chiuso il cellulare mi fulminò un pensiero: con uno smartphone e il WhatsApp, avrei potuto lasciarla parlare più a lungo, e senza spesa (dicono). La mia granitica resistenza vacillò: che sia il caso di... Mi ripresi subito: “No, sta tranquillo: che te ne fai dello smartphone con il WhatsApp, se tu lo hai, ma lei no?” Rimasi fermo nella mia decisione di comprare quell’aggeggio soltanto se e quando ne metteranno in commercio uno che può prepararmi anche il caffè con panna. Ma...

Prima di ripartire per il Bangladesh, mia nipote Sara proditoriamente me ne ha regalato uno. Penso che conosca bene la storia del cavallo di Troia...

 

p. Franco Cagnasso

178

Esino Lario (LC) - 14 agosto 2019

 

Bro. Jacques

Nato nel 1940 nella Svizzera francese, aveva appena terminato la preparazione come Pastore nella sua Chiesa, quando si sentì chiamato ad entrare nella Comunità Ecumenica di Taizè, diventando “Frere Jacques”. Con alcuni Fratelli e con alcuni Francescani, trascorse qualche tempo negli Stati Uniti; poi – non potendo ottenere il visto per lavorare in India accanto a Madre Teresa – fu orientato, assieme ad altri, al Bangladesh. Vi rimase più di 40 anni. Il suo “carisma” era l’insegnamento, che continuò fino a pochi mesi dalla morte, accaduta il 30 luglio scorso in un ospedale vicino a Taizè.

La sua comunità era a Mymensingh, e lui la tenne sempre, fedelmente, come punto di riferimento, partecipando ai momenti spirituali, formativi, di programmazione, e in amicizia con gli altri Fratelli. Ma risiedeva a Dhaka, nel Seminario Nazionale Cattolico di Filosofia e Teologia, dove ho vissuto con lui per nove anni. Poche parole, gran lavoratore, lettore accanito, di molti libri ammucchiati in seminario aveva fatto l’unica biblioteca, su temi filosofici e teologici, degna di questo nome in Bangladesh. Aveva insegnato... quasi tutto. Svariati corsi sulla Bibbia, la sua materia, al seminario cattolico e a quello anglicano, e poi greco ed ebraico, metodologia, ecumenismo, escatologia, storia... quando c’era una lacuna da colmare, ricorrevano a lui, che si preparava coscienziosamente, e insegnava puntigliosamente senza perdere una lezione. Dopo la brutta caduta che lo costrinse a ritornare in Francia, con il femore rotto aveva voluto terminare i corsi avviati, esaminando gli alunni mentre era a letto, debole e dolorante.

Lo invitavano spesso per conferenze, incontri, corsi presso istituzioni diverse, e comunità cristiane di varie denominazioni: anglicani, battisti, chiese di Dio, cattolici, “mennoniti”... Era a suo agio con tutti. Una curiosità: ogni settimana teneva due ore di ebraico a un gruppetto di intellettuali convertiti al cristianesimo. Parlava pochissimo di sè, e scoprii quasi per caso che la sua denominazione di origine era la Chiesa Riformata Svizzera. I seminaristi, oltre ad appoggiarsi molto a lui per gli studi, su qualsiasi tema, si confidavano e sfogavano volentieri con lui, che ascoltava, commentava spesso con ironia, incoraggiava con fare burbero. Aiutava anche economicamente non pochi giovani a frequentare l’università.

Non era mai stato a Roma; diceva che non gli interessava andarci. Combinammo uno scambio di inviti: lui mi accolse Taizè, io accolsi lui a Roma, e ne fummo contenti entrambi.

Aveva un cruccio, che potei scoprire grazie alla confidenza che lentamente crebbe fra noi: si sentiva accolto ovunque, nelle comunità cristiane, ma pochi, pochissimi elaboravano con lui le domande che la sua presenza “ecumenica” creava. “Brother Jacques vive e prega con i cattolici, partecipa alla eucaristia anglicana, frequenta i battisti...” come mai? Perchè? che significa? È giusto? Se lo chiedevano, magari ne parlavano fra loro, ma non ne parlavano con lui, quasi avessero paura di offenderlo, o di entrare in un’area proibita. Era un “caso anomalo” da non toccare, guardato con curiosità, anche ammirazione, ma pure con sospetto e timore. Penso sia la situazione anche degli altri Fratelli di Taizè in Bangladesh, le cui iniziative di preghiera e riflessione raccolgono cristiani di diverse denominazioni, e giovani di diverse religioni, e sono bene accolte da parecchi preti e pastori, ma sembrano non incidere su un atteggiamento di solito chiuso e sospettoso – quando non malevolo – nei rapporti fra cristiani di diverse denominazioni, e fra credenti di fedi diverse. Per me è stato una testimonianza viva di come accogliersi pur nelle differenze, di come dare valore prima di tutto alla nostra appartenenza battesimale a Cristo e alla sua Chiesa che è una, anche se frammentata dalle nostre incomprensioni teologiche, storiche, a volte da questioni di economia, potere, orgoglio. “Ti ringraziamo, Signore, per avergli dato questo dono” ha scritto Fratel Alois, attuale superiore della Comunità di Taizè.

 

Char

Gange e Brahmaputra, che sgorgano dall’Himalaya, nel loro lungo percorso accolgono molti fiumi, prima di confluire, da ovest e da nord, nel Bangladesh. Poi di dividono in mille bracci che formano il grande delta del sud del Paese. Queste enormi masse di acqua continuamente erodono gli argini “mangiando” campi, villaggi, città, e depositano sabbia, formando nuove isole a pelo d’acqua, instabili, anche molto grandi, chiamate “char” (pron. “ciar”). A partire dagli anni ‘70, il Bangladesh, sostenuto dall’Olanda e dal Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo, ha cercato di utilizzare queste isole, allo stesso tempo allettanti e rischiose. Infatti, come si intuisce facilmente, sono soggette a cicloni e inondazioni devastanti; inoltre, essendo “terra di nessuno”, sono meta di poveracci che sfidano qualunque rischio per occupare spazi dove sopravvivere. Spesso l’occupazione inizia prima che il “char” emerga del tutto: durante i mesi asciutti, sperando che non avvengano inondazioni fuori stagione, ci si trasferisce là: è sorprendente la rapidità con cui le terre – appena affiorano - si coprono di erba ed arbusti buoni per il pascolo, permettendo anche di coltivare legumi, zucche, angurie... Poi bisogna andarsene, prima che l’acqua sommerga di nuovo tutto.

Quando un char si stabilizza, secondo la legge chi già vi abita diventa proprietario della terra che utilizza, tutto il resto è proprietà del governo, che interviene dapprima afforestando il char, per dieci o quindici anni, poi passa a opere di rinforzo e protezione. Il char dunque si popola gradualmente, e rimane a lungo una specie di “Far West” senza controlli, senza strutture scolastiche o sanitarie, servizi civili, forze dell’ordine... Insieme ai poveracci che vi rischiano la vita per sopravvivere, anche i ricchi delle coste vicine ci mettono le mani. Con i loro uomini, chiamati con un termine che si potrebbe tradurre “bastonatori”, creano aree di influenza imponendo la loro “protezione” in cambio di un “affitto” e di complicità, controllano il commercio, impongono la loro legge.

Attualmente sono 185 i char abitati in Bangladesh, spesso punti di passaggio della droga, rifugio di ricercati. Da quando, tre anni fa, il governo ha iniziato a prendere sul serio la loro minaccia, vari “covi” di terroristi sono stati trovati proprio su remotissimi “char”, specie nel nord.

Una scheggia di qualche tempo ha già accennato ai char, a proposito dei Rohingya. Esperti, governo e agenzie varie pensano se sistemarvi alcuni di loro, visto che l’area in cui si trovano ammassati - privi di libertà di movimento, di scolarizzazione regolare, di documenti, di possibilità di lavorare – è ormai completamente deforestata e gli spazi per ogni famigia sono ristrettissimi. Sul “Bashan char”, nella zona di Noakhali, potrebbero trovar posto e lavoro centomila Rohingya. Pochi, visti che sono un milione, ma meglio che niente. Però, a quali condizioni? Come organizzare la loro permanenza sul char tenendoli isolati perché non si integrino con i bengalesi, costringendo così il Bangladesh a sistemarli per sempre? Come impedire loro di andare e venire tra terra ferma e char per commerciare, pescare, mimetizzarsi fra i bengalesi? I Rohingya stessi non sanno se accogliere o no questa proposta: è allettante, ma equivarrebbe ad una rinuncia a tornare in Myanmar, che avrebbe un pretesto in più per non concedere l’agognata cittadinanza. E’ questo un punto chiave del problema loro e dei rapporti fra i due paesi: sia il Myanmar da cui provengono, sia il Bangladesh dove si sono rifugiati, negano loro la cittadinanza, e nessuno li vuole.

 

p. Franco Cagnasso

177

Dhaka - 12 luglio 2019

 

Antonietta e Martin

“Pronto, sono Martin. Ti ricordi di me?” “Sì, certo che ti ricordo. Come stai?” “Ho avuto un po’ di malanni nelle scorse settimane, ma ora sto meglio. D’altra parte, tu sai come sono conciato... Insomma, è così e va bene così. Ascolta: da tanto non ci vediamo, continuo il mio lavoro di contabile al Centro Assistenza Ammalati, e ho avviato una piccola scuola per chi vuole imparare ad usare il computer. Gli amici non mi mancano, con i soldi me la cavo... Ora però devo dirti una cosa importante, la vuoi sentire?” “Sì, certo. Dimmi”. “Antonietta, mi vuoi sposare?” - “Sì”.

Ovviamente non ho stenografato nè registrato esattamente le parole che si sono scambiati Antonietta e Martin, entrambi di etnia Santal, da ragazzi compagni di giochi al villaggio. Però è certo che, subito dopo la conversazione, Antonietta ha parlato con la mamma e con il fratello maggiore (il papà non c’è più), richiamando poi per confermare il suo consenso. E io, il 10 luglio, ho avuto la gioia di benedire il loro matrimonio, celebrato a Rajshahi nella cappella di Snehonir. E’ la “Casa della tenerezza”, dove vive la comunità di disabili in cui Martin e’ stato accolto e che lo ha accompagnato a terminare il college, imparare l’uso del computer, dell’harmonium, della tobla, affrontare momenti difficilissimi, avere fiducia in se stesso, farsi tanti amici. Poi ha “preso il largo” organizzando la sua vita in autonomia, pur continuando a considerare “Snehonir” come la sua famiglia e a partecipare ai momenti importanti della sua vita e alle sue iniziative.

Martin, che ha 35 anni, era un ragazzo sano e pieno di energie quando – giocando al pallone – ebbe una brutta caduta seguita da dolori che si aggravavano giorno per giorno. Operato più volte, ha le gambe orribilmente contorte e paralizzate, e a causa della spina dorsale offesa, non può neppure sedersi. Vive sdraiato su una barella che ha le ruote, su cui lo portano al posto di lavoro, alle attività che lui stesso organizza o a cui lo invitano, esercitando la sua “leadership” naturale nonostante la grave invalidità. Non so molto di Antonietta, ma mi ha dato l’impressione di essere una donna semplice, di grande maturità, e di avere acconsentito con una gioia pacata, profonda e solida. Forse l’invito di Martin ha risvegliato un amore rimasto inespresso per tanti anni?

La loro decisione ha suscitato in tutti stupore, in alcuni scandalo, persino rabbia; papà e mamma di Martin, che vivevano con lui, se ne sono andati e nel giorno delle nozze erano assenti. Diverse persone mi hanno invitato a persuadere Martin a non sposarsi, dando per scontato che pure io considerassi assurdo quel matrimonio. Ma dialogando con pazienza, ho visto che molti progressivamente hanno dato spazio ad una riflessione salutare e positiva; hanno incominciato a guardare a questa insolita coppia come ad un uomo e una donna che si sentono creati l’uno per l’altra, più che ad un “handicappato” e una “normale”. Un prete mi ha detto: “Mi hanno aperto gli occhi, e capisco che una persona disabile ha diritto non solo alla carrozzella e alla compassione, ma alla mia attenzione umana e pastorale, e anche il diritto di esprimere in pieno i suoi doni e le sue capacità”.

I ragazzi e le ragazze di Snehonir, nel giorno del loro “sì”, erano raggianti. Anche i piccoli, non ancora in grado di fare una riflessione precisa su ciò che vedevano, percepivano che qualcosa di bello e di importante stava accadendo.

Antonietta, Martin, tanti auguri. Il Signore vi benedica! 

 

Competizione

Si chiama “Shopna”, cioè “sogno”: giovane, carina e sfortunata. Attacca bottoni, a mano, in una fabbrica di abiti, guadagnando ogni mese i 52 euro con cui deve mandare avanti la baracca; baracca in senso proprio, visto che non si può dare altro nome al luogo dove abita, e in senso figurato, visto che vive con genitori, suocera, due figli piccoli, e deve mantenere tutti. Il marito, oberato da debiti e spaventato dai creditori, è scappato tre anni fa senza lasciar traccia. Questa volta “Sogno” viene da me afflitta perchè la figlia, che frequenta la prima elementare “ha avuto un brutto risultato”. “Bocciata?”chiedo. “No, però la maestra dice che devo mandarla a lezioni private, e io non posso...” Piange. Insisto per saperne di più e finalmente spiega che nella sua classe è soltanto sedicesima – su trentadue. I miei tentativi di consolarla minimizzando la gravità della faccenda non hanno successo... Si sente sventurata e scoraggiata. La scuola in Bangladesh vive di competizione, i genitori ne sono ossessionati, gli insegnanti ci guadagnano, i figli sono oppressi, nevrotizzati, resi antipatici dallo stupido orgoglio di chi ottiene un punto in più del vicino di banco e dall’invidia di chi è “solo” secondo. Cosa insolita per me, ho persino “tuonato dal pulpito” contro questa mentalità devastante. “Gesù non dice ‘Beati quelli che arrivano primi’. Che i vostri figli facciano il loro dovere, che vengano promossi, e lasciate perdere se sono primi, secondi o decimi” Tutto inutile, naturalmente. L’ansia del primo posto e la sottile inimicizia con chi compete non si placano. Quest’anno, in tutto il Bangladesh, un numero insolitamente alto di studenti sono stati bocciati all’esame di maturità, e il numero dei suicidi o tentati suicidi è impressionante; insieme a questi, anche casi di giovani che erano stati promossi, ma non con il punteggio desiderato. Dai quattro, cinque anni di età i bambini si affannano da una ripetizione all’altra. Costretti negli spazi ridottissimi degli appartamenti di Dhaka, senza giochi e senza spensieratezza, passano dalla sedia dove si studia in casa a quella accanto a chi dà “ripetizioni”, a quella davanti alla TV (breve premio concesso a chi ha studiato assiduamente). A rendere il quadro più desolante, si aggiunga che il tutto è puro esercizio di memoria, e che il vero problema non è imparare, ma prevedere le possibili domande per memorizzare le risposte. Bisogna pagare le ripetizioni, e bisogna sapere che i testi scolastici distribuiti gratuitamente (quasi) dallo stato non bastano: bisogna assolutamente comprare i “bigini” di appoggio, con le sintesi da memorizzare, e istupidirsi su quelli. Le poche scuole che fanno diversamente sono scuole “di prestigio” che certo un povero non può permettersi. – Le scuole cattoliche o di varie denominazioni cristiane? Sono anch’esse afflitte da questa frenesia competitiva; ma di solito si preoccupano che gli insegnanti insegnino, e molte offrono ripetizioni gratuite; per questo vengono apprezzate.

 

Tripura

Non saprei trovare il suo villaggio di origine; Michael è un Tripura, popolazione aborigena che vive sparsa sulle colline sud orientali del Bangladesh e oltre il confine con l’India, nello stato indiano che prende il nome da loro, il “Tripura State”. Terzo di 6 fratelli e sorelle, era entrato in seminario dai religiosi della Santa Croce, uscendone dopo il liceo ma ben deciso a continuare gli studi. Con quali risorse? Lavoretti, qualche aiuto sporadico, molti sacrifici; stava arrancando per frequentare l’università quando qualcuno ha “fatto la spia” segnalandogli il nome di p. Franco che “aiuta molto gli studenti”. P. Franco, fatte le indagini del caso, gli ha trovato una piccola borsa di studio sperando di liberarsi così dall’assedio. Si illudeva. Michael continuava a chiedere e io continuavo ad arrabbiarmi con lui, cercando di capire che cosa stesse combinando. Tentavo, come faccio con tutti, di “agganciarlo” perchè si aprisse a condividere la sofferenza che era evidente nel suo volto teso e nei suoi occhi smarriti. Ascoltava le mie domande, i miei consigli, le mie sfuriate che cercavano di scuoterlo, restando semplicemente zitto. Non capivo il perchè: alcool? droga? ricatti? O era un po’ stupido? Scoprii che si era messo in testa di far studiare anche le due sorelle e il fratello minori. Fu il carissimo amico Annibale Salvi a persuadermi: “Non lasciarlo, un ragazzo così nella bolgia di Dhaka si perde per davvero, se rimane solo”. Non lo “scaricai”, ma dopo quattro anni di aiuti, incontri, tentativi di colloqui, era ancora una sfinge.

L’altro giorno è arrivato sorridendo, mi ha salutato con calore e subito mi ha detto che “Trisha (la prima delle due sorelle minori} aveva passato l’esame Intermediate, e Trisna (la più piccola) era promossa al secondo anno”. Momento magico: il muro è crollato, e Michael mi ha detto tante cose che per anni si era tenuto dentro. Del papà che beve e picchia la mamma, della sorella maggiore disabile, sposata e poi abbandonata con due figli, della mamma che lavora a giornata e non ce la fa più, della sua solitudine in università. “Noi Tripura siamo quasi tutti cristiani. All’inizio forse le conversioni erano motivate anche dalla prospettiva di avere aiuti, ma ora gli aiuti sono pochi eppure nessuno parla di tornare indietro. Ma la generazione di mio padre è una generazione perduta, annegata nell’alcool. Avevamo terre, mio padre le ha vendute tutte per quattro soldi che ha sprecato in pochi giorni. Il mese scorso, al consiglio di villaggio qualcuno ha proposto di proibire l’alcool, ma è stato pesantemente minacciato dal grosso gruppo dei bevitori. Ci stiamo vendendo ai Bengalesi. Altri gruppi aborigeni – i Mandi ad esempio, o i Marma – sono più compatti, più solidali e attenti alla loro cultura. Per questo riescono a usufruire delle poche facilitazioni offerte dal governo agli aborigeni, hanno alcuni in posizioni significative nella società; noi restiamo con le briciole. E’ un’angoscia, che vivo pure in università. Ora abbiamo formato un gruppo di studenti che vorrebbe “rifondare” il nostro modo di essere Tripura, immersi nel mondo moderno. Abbiamo anche lavorato a scoprire e recuperare ragazzi e ragazze che alcuni musulmani avevano ricevuto in affido da famiglie poverissime, con la promessa di farli studiare. Li avevano messi in varie madrasse, cancellando ogni loro identità tripura, facendoli musulmani all’insaputa dei genitori, insegnando l’arabo... erano irriconoscibili”. Ora abbiamo paura che saranno i Rohingya a dare il colpo di grazia. Padre, capisci perchè ti ho perseguitato per portare qui le mie sorelle, e mio fratello?”

Ci siamo abbracciati.

p. Franco Cagnasso

176

Dhaka – 27  giugno  2019

      

Galera

Iftar, letteralmente “break-fast”, “rompi-digiuno”, è  lo spuntino che i musulmani mangiano ogni giorno al tramonto, durante il mese di Ramadan, appena scatta il momento in cui termina  l’obbligo del digiuno. E’ un momento di gioia e socializzazione, ci si offre a vicenda riso soffiato, frittelle saporite, acqua fresca, noccioline, pasticcini... Di solito il tutto avviene spontaneamente, fra vicini di casa, di ufficio, di negozio... ma ci sono anche gli “Iftar” organizzati, ufficiali, su invito, consumati in eleganti ristoranti e con cibi deliziosi. Ci sono Iftar su invito del datore di lavoro, del politico di zona, del boss mafioso, del partito che vuol farsi benvolere, del benefattore che invita i mendicanti... Il 28 aprile scorso il BNP (Bangladesh National Party), all’opposizione ormai da molti anni, ha organizzato un Iftar con illustri invitati, fra cui parlamentari del partito al potere, l’Awami League. Un  gesto di pace in un mese che invita tutti alla conversione e alla spiritualità. Al momento giusto, i convenuti però si trovarono davanti non profumati vassoi da cui servirsi in abbondanza, ma un gran numero di sacchettini di carta con la razione individuale, “ognuno prenda il suo”.

Un iftar magro magro, di cui si fece pure conoscere il prezzo: 30 taka (0.33 euro) per ogni porzione. Per chiedere un contributo? No, per far provare ai presenti che cosa sia un “iftar da galera”, di cui devono accontentarsi i carcerati, e a cui è sottoposta la Presidente del BNP, la signora Khaleda Zia, in prigione ormai da oltre un anno, condannata per corruzione e in attesa di numerosi altri processi. Il BNP sostiene che si tratta di una condanna politica, data ad un’innocente che ora si intende eliminare facendole mancare le cure di cui ha bisogno, e anche rifilandole iftar da 30 taka l’uno – provate che cosa vuol dire!

 

Il vero problema però è che i sacchetti sono andati solo a quelli del suo partito, perchè gli invitati parlamentari dell’Awami League avevano fiutato il trucco, e nessuno di loro aveva accettato l’invito.

 

Nessun miglioramento dunque per la povera Khaleda? Il direttore della prigione ha fatto sapere che, se fa domanda, si prenderà in esame la sua lamentela.

 

 

Malattia 

La scheggia “Pasqua”, qualche settimana fa accennava a una giovane mamma che aveva rischiato di morire per appendicite, non avendo risorse per farsi operare. Ecco un commento che ho ricevuto:

 

Caro padre Franco, tu fai bene ad evidenziare il segno pasquale di una persona guarita dalla sua infermità, proprio come nel Vangelo vediamo tante volte operare Gesù.

Però, a me sembra che sia giusto, se non necessario, evidenziare anche l’iniquità di un sistema in cui i medici sono sostanzialmente pronti ad uccidere (perché lasciar morire una persona che si potrebbe salvare non è diverso da ammazzarla) i pazienti che non possono pagare. Quante altre (...) persone sono morte in questi giorni perché nessuno poteva e voleva pagare? Davvero non c’è nessuna altra spesa meno urgente a cui il Bangladesh potrebbe soprassedere per salvarle?  Un abbraccioMario

 

 

Caro Mario, la malattia in Bangladesh è una tragedia per milioni di persone. Un sistema di assistenza sanitaria nazionale c’è per alcune categorie: i militari, che hanno ottimi ospedali; i “Combattenti per la libertà” (i nostri “partigiani”) nella guerra del  1971, che ricevono cure gratuite; il personale politico di alto livello, alcune categorie di dipendenti statali. C’è anche un’assistenza fornita da strutture: ospedali statali dove, pagando un “ticket” alla portata di tutti, chiunque ha diritto di essere ricoverato, visitato e di avere una diagnosi. Poi? Poi deve procurarsi i pasti, fare i molti esami richiesti, comprare le medicine prescritte (sempre una lista lunghissima), se è il caso anche bende e gesso o altro materiale sanitario. La spesa dunque è alta e prolungata, anche se il paziente può restare in ospedale gratis.

 

Ci sono strutture private, moltiplicatesi ovunque in questi ultimi decenni: grandi e moderni ospedali dove si compiono anche operazioni molto sofisticate, e clinichette raffazzonate in qualche modo. Ovviamente, vengono aperte per guadagnarci, e tutto si paga, a prezzi più o meno alti.

 

Quasi  non esiste un sistema di protezione del lavoro dipendente. I lavoratori a giornata (sono tantissimi) perdono tutto il guadagno se si ammalano, ma anche il lavoratore assunto stabilmente, se una malattia si prolunga oltre i pochi giorni, viene licenziato e rimane da subito senza stipendio.

 

Questo il sistema. Prima di parlare del suo funzionamento, metto le mani avanti: quando si entra in simili argomenti, arriva ben presto l’osservazione: “Sì sì, certo! Ma non credere che in Italia... Qui siamo peggio, roba da matti, sfacelo, catastrofe, orrore...” Non pongo in dubbio queste valutazioni, ma io non intendo fare paragoni: se dico che in Bangladesh piove, non voglio far capire che in Italia c’èil sole, intendo solo dire che in Bangladesh piove – oggi.

 

L’ospedale che ricovera gratuitamente è positivo. Il problema è l’affollamento: per avere l’ammissione bisogna fare “code” per settimane, o mesi, andando e tornando ogni giorno. Ammissione spesso significa un posto per terra, nei cameroni, a fianco dei letti, o in veranda. Quando non c’è più neanche quel posto, ti dicono di pagare per avere una “cabin”, una microstanza. Mentre attendi in fila, devi difenderti da chi ti accosta per toglierti dai guai. Alcuni promettono di farti “passare avanti”, di portarti dove c’è un medico migliore, di farti avere la “cabin” gratis... in cambio di mance adeguate; oppure insistono: “Non fare l’esame nel laboratorio dell’ospedale governativo: “Costa meno ma il dottore non vale; vieni dove ti accompagno io, e il dottore ti aiuterà meglio...” Un prezioso consiglio, da ricompensarsi con una adeguata somma... Oppure ancora: “Vieni dove non c’è coda!”, e ti lasciano davanti allo studio dell’odontoiatra invece che quello del cardiologo che serve a te. Se da tre giorni sei coricato per terra e nessuno si ferma da te, qualcuno attirerà l’attenzione di un medico – in cambio di una mancia. Occorre un’operazione? E’ gratuita: basta provvedere aghi e filo di sutura, sangue, prodotti per l’anestesia, persona che ti assista e quant’altro può servire. E naturalmente, visto che la lista di attesa è  lunga, bisogna ricordare al chirurgo che ci sei anche tu: una busta con il tuo nome e qualcosa dentro...

 

Difficile immaginare come possa cavarsela chi non ha familiarità con l’ambiente, non ha conoscenze, sta male, e non capisce i cartelli che indicano i vari reparti, specialità, regole, ecc.

 

Perchè il paziente deve comprarsi le medicine? Qualcuno dice che il governo non le passa; altri dicono che le passa, ma... Un’infermiera mi ha spiegato che quando arriva un quantitativo di medicine, queste vengono esposte in una sala a cui accedono, in successione gerarchica, il primario, seguito dagli assistenti, poi le infermiere professionali e infine le junior. Ognuno prende quello che crede, le medicine riappariranno – in vendita – nei negozietti che pullulano accanto agli ospedali, e ciò che avanza viene usato per gli ammalati. E’ così ovunque? Non lo so. Da qualche parte lo è.

 

Dicevo che alcuni ospedali fanno operazioni anche molto sofisticate. Conosco persino i prezzi degli “stent”, i famosi “anellini” che sbloccano le arterie del cuore: economici quelli indiani, medi quelli europei, costosissimi quelli americani; ma la durata è proporzionata al costo. Operazione bene, per  l’assistenza post operatoria, e – più in generale – per l’igiene... Vi risparmio descrizioni poco piacevoli...

 

Anche il medico di buona volontà  e onesto non sa come muoversi, e ovviamente non può curare gratis tutti quelli che non possono pagarsi il trattamento – o che dicono di non poterlo fare. Ovvio che i disonesti ci sono, fra i medici e fra i malati o sedicenti tali, e ci sguazzano (sì, lo so... anche in Italia...).

 

I poveri (sono tanti!), anche se hanno uno stipendio, non riescono ad andare oltre il paracetamolo. Ma anche chi ha risorse, se si trova davanti ad un problema “normale” come il diabete (qui diffusissimo), un calcolo renale, e cose di questo livello, deve affrontarle facendo debiti. Spesso la famiglia allargata interviene, ma ovviamente non può continuare a lungo. Le Suore di Madre Teresa, “esperte” in ammalati poveri, non s’avventurano a prendersi responsabilita’ per malati cardiaci, renali, e affetti da tumori. Neppure loro ce la fanno ad imbarcarsi in dialisi, chemioterapie, radioterapie, o cure diabetiche pesanti.

 

E allora? E allora niente: questa è la situazione. E noi abbiamo ogni giorno a che fare con persone che devono affrontarla, spesso senza averci mai pensato prima, e senza rendersi conto che non possiamo aiutarli. E’ una sofferenza grande per loro, e anche non poco per noi.

 

 

Luna

I più fedeli lettori delle “schegge” sanno che la data della festa islamica “Id-ul-fitr”, con cui si conclude il mese di digiuno, è fissata in base alle fasi lunari (come la Pasqua per i cristiani). E sanno anche che in Bangladesh, a differenza di quasi tutti gli altri paesi islamici, si stabilisce la data non in base ai calcoli astronomici, ma in base alla vista. Quest’anno, i calcoli dicevano che la festa sarebbe caduta il 5 giugno. Il 4 giugno era nuvolo, e alle 17 cominciò a circolare la voce che le festa sarebbe stata il giorno 6. La conferma ufficiale venne poco dopo, perché  l’apposito comitato per l’avvistamento della luna, presieduto dal Ministro della religione, tra le 18.30 e le 19.00 del 4 giugno non la vide. Festa rinviata. Radio e TV confermarono, con la consueta autorevolezza, e la gente incominciò ad andare a dormire pensando ad un altro giorno di digiuno. Senonchè, alle 23 circa qualcuno (ma non si sa chi) da qualche parte in Bangladesh vide la luna, presumibilmente avvisò il Comitato, che immediatamente diede ordine a radio, TV e altoparlanti su rikscio che giravano per le strade, di avvisare: basta digiuno, la festa è il 5.

 

Adesso il comitato e il ministro sono in una bufera politica. C’è chi sostiene che alle ore 23 in quel tal posto la luna non è visibile in nessun caso, c’è chi insiste: che ci sta a fare il comitato, se ascolta il primo sconosciuto che gli ha detto di aver visto la luna? E poi, che la si veda o no, la luna c’è ed è a quel punto – nuvole e non nuvole, comitato o non comitato... A proposito: perché non aboliamo il comitato?

  

p.Franco Cagnasso   

175

Dhaka – 27  maggio  2019

Integratore

Bastano pochi giorni di osservazione per capire che si tratta di un topo decisamente audace, che ha trovato la strada per entrare in cucina e mangiarsi quello che vuole... Trappole? Veleni? I nostri giovani conoscono altri metodi. Analizzano le abitudini del roditore, si appostano, lo colgono in flagrante e con un unico colpo bene assestato lo neutralizzano. Poi ci vogliono due patate, un po’ di spezie, la divertita complicità della cuoca, e a mezzogiorno il topo comparirà in tavola sotto forma di spezzatino. Buono, anche se un po’ troppo piccante per i miei gusti.

 

Quest’arte l’hanno imparata da piccoli, quando – dopo il taglio del riso – scorrazzavano per i campi alla ricerca delle tane dove i topi avevano accumulato le scorte di riso per i tempi di magra. Scoprirne una voleva dire mangiarsi il riso, e anche il topo arrostito.

 

Che orrore! Fino a questo punto tirano cinghia i vostri studenti?

 

Su molte scatole di pillole e polveri varie vendute in farmacie italiane, si trova una scritta che dice più o meno così: questo prodotto non sostituisce una dieta sana ed equilibrata, ma può aiutare a... Seguono parole vaghe, intese a suggerire che poi si sta meglio ma – per carità – noi non garantiamo nulla. E c’è pure la raccomandazione: Non superare le dosi giornaliere indicate. Mi pare si chiamino “integratori alimentari” e che vadano abbastanza di moda.

 

Ecco, la nostra dieta è sana ed equilibrata, ma perchè non fare uso di questi “integratori alimentari” che tolgono dalla circolazione roditori importuni? Quanto alla dose... il topo era grosso e ben pasciuto, ma anche se qualcuno non ha partecipato al banchetto, un topo per sette commensali certamente non supera la dose giornaliera indicata: piccola, ma insaporita dal ricordo di epiche giornate di caccia con gli amici ai tempi dell’infanzia...

   

 

Limbo

“Che fine hanno fatto i Rohingya?” Me lo chiede un’amica, e la risposta è presto data: tutto fermo.

 

L’ondata di immigrati in fuga del Myanmar risale agli ultimi mesi del 2017. Si dice che fossero 750mila, da aggiungere ai due o trecentomila fuggiti negli anni precedenti. Questa volta, a scatenare l’esercito contro di loro fu un attacco di ribelli Rohingya, che uccisero oltre venti militari di un presidio. Seguirono incendi di villaggi, letteralmente rasi al suolo, uccisioni, arresti, stupri, con l’evidente obiettivo che i Rohingya se ne andassero togliendosi dalla testa l’idea di ritornare.

 

La prima reazione del Bangladesh fu di tenere i profughi al di là del confine, anche con la forza. Ma presto si scelse la via dell’accoglienza umanitaria. I Rohingya sono musulmani, e la maggioranza dei bengalesi non avrebbe accettato una posizione dura verso di loro. Inoltre, il rifiuto dei profughi avrebbe posto il Bangladesh sul banco degli accusati, insieme ai Birmani, mentre l’accoglienza avrebbe suscitato benevolenza, appoggio politico e aiuti internazionali. Intanto, i due paesi continuavano con il loro ritornello: i Rohinghya non hanno la cittadinanza perchè in passato l’hanno rifiutata, e perchè sono bengalesi, tornino a casa loro – ripete il Myanmar; i Rohingya sono birmani, che tornino a casa loro – ripete il Bangladesh.

 

L’accoglienza fu sempre accompagnata da disposizioni – tuttora in vigore - perchè i profughi non lascino i campi, non abbiano un impiego, non frequentino scuole e non ricevano documenti  bengalesi; anche l’uso dei telefoni cellulari è proibito. Accorsero numerose organizzazioni internazionali, governative, e non governative che si spartirono gli impegni: sistemazione logistica, cibo, igiene, salute, problemi ecologico-ambientali, istruzione, ecc. Fiumi di denaro invasero la zona del Cox Bazar, dove i campi sono collocati, facendo schizzare in alto i prezzi di hotel, ristoranti, case in affitto, beni di consumo... mentre una bella fetta di ciò che era destinato ai profughi finiva sui mercati fuori dei campi. Le disposizioni severissime ovviamente non riuscirono a “sigillare” quasi un milione di persone nel ristretto spazio collinare in cui sono ospitati. I Rohingya, la cui fama fra i bengalesi locali era già tutt’altro che buona, divennero temuti per la loro disponibilità a spacciare droga,  e a servire per vari tipi di “lavori sporchi”, fra cui la tratta di persone (donne e ragazzi). All’interno dei campi la sicurezza divenne un problema sempre più grave; dicono che dal tramonto fino al giorno seguente le forze dell’ordine bengalesi non si fanno vedere: tutto è in mano ai boss Rohingya. Non mancarono la propaganda e l’addestramento di terroristi, inquadrati in gruppi e gruppuscoli di varie denominazioni, tanto che il governo espulse quattro organizzazioni non governative islamiche, accusate di propagandare il terrorismo. Sull’altro versante, gruppi conservatori si opposero in maniera sempre più forte a organizzazioni non governative che – come il BRAC, la Caritas, World Vision, si occupano di educazione anche delle donne, di diritti, di contraccettivi, ecc.

 

Sul piano politico, il Bangladesh cercava appoggi a destra e a sinistra, ottenendo tantissimi elogi e incoraggiamenti, ma non riuscì a scalfire due macigni posti sulla sua strada: la Cina e l’India, che trovano conveniente appoggiare il Myanmar. Il quale, a sua volta, ha sempre risposto in modo evasivo, tirando per le lunghe senza mai dire “no” a chi parlava di rimpatri. Disse che potevano rimpatriare quelli che avevano documenti e titoli per avere la cittadinanza (pochissimi); poi che doveva preparare villaggi e strutture per accoglierli; poi che avrebbe effettuato rientri sperimentali. Nell’autunno scorso sembrava che fosse pronto il posto per qualche migliaio di profughi. Ma  i prescelti declinarono l’invito: “Non ci fidiamo, e vogliamo la cittadinanza”.

 

D’altra parte, se il Bangladesh scegliesse di cambiare politica e di integrare i Rohingya, si scontrerebbe con la dura opposizione dei bengalesi della regione, irritati da questa ingombrante presenza.

 

Nei mesi scorsi si parlò di sistemare circa centomila profughi su un’isola quasi disabitata sul delta del Gange/Bramaputra. Un’isola affiorata recentemente, a pelo d’acqua, dove per garantire la sicurezza sarebbero necessarie non poche opere costose. Non si parlava di integrazione, però chi volontariamente avesse accettato di andare lì in attesa di una soluzione definitiva, avrebbe potuto lavorare e gestire la propria vita con una relativa autonomia – sempre dentro i confini dell’isola. Ma  nessuno ha accettato la proposta, e del progetto non si sente più parlare.

 

È davvero un problema spinoso, e per ora il Bangladesh deve accontentarsi degli elogi (e dei soldi) per la sua scelta di accoglienza, nonchè del fatto che probabilmente l’ONU dichiarerà che il Myanmar ha commesso un vero e proprio genocidio: una piccola consolazione...

 

Dunque? Dunque siamo in stallo. Non si dice apertamente, ma si sa che... non si sa che pesci prendere. Chi ha paura sono gli  aborigeni che vivono nell’area a nord di Cox Bazar, una quindicina di gruppi etnici, animisti, buddisti e anche cristiani. Già hanno sul collo il fiato di bengalesi che occupano le loro  terre abusivamente con il consenso e l’appoggio delle autorità; ora vedono aggiungersi questi profughi venuti da lontano, che non hanno nulla da perdere e che – pur essendo mal visti – sono comunque più vicini ai bengalesi di quanto siano loro, per ragioni di lingua (simile al dialetto parlato a Chittagong), religione, tradizioni. Per quel che può valere la mia opinione, anche io penso che succederà proprio così: si sistemeranno gradualmente nel Chittagong Hill Tracts, a spese delle minoranze che vi abitano da secoli.

 

  

Evangelizzare

Appena letto il discorsetto familiare che il 20 maggio scorso il Papa ha rivolto ai missionari del PIME che hanno partecipato, a Roma, alla recente “Assemblea Generale”, sono sceso per salutare alcune ammalate e ammalati ospiti per qualche giorno del nostro “Sick Shelter”, il “Rifugio dei malati” che sta al piano terra della casa del PIME a Dhaka: tre stanzette con otto lettini in tutto...

 

Ora rileggo e riprendo alcuni pensieri che Francesco fa emergere, specialmente citando la lettera di Paolo VI “Evangelii Nuntiandi”, “il documento pastorale più grande del dopo-Concilio”.

 

Il punto chiave è Gesù: «non c’è vera evangelizzazione se il nome, l’insegnamento, la vita, le promesse, il Regno, il mistero di Gesù di Nazareth, Figlio di Dio, non siano proclamati» (Esortazione Apostolica Evangelii nuntiandi, 22). Ma non siamo noi che, per iniziativa nostra, e nemmeno soltanto in obbedienza ad un comando, facciamo l’evangelizzazione: “La prima parola, l’iniziativa vera, l’attività vera, viene da Dio e solo inserendoci in questa iniziativa divina, solo implorando questa iniziativa divina, possiamo anche noi diventare - con Lui e in Lui - evangelizzatori» (Esortazione Apostolica Evangelii gaudium, 112).

 

“Inserirsi nell’iniziativa divina” significa non soltanto parlare, insegnare, ma   “trasformazione missionaria della vita e della pastorale». Non si tratta di “cercare nuovi soci per questa “società cattolica”, no, è far vedere Gesù: che Lui si faccia vedere nella mia persona, nel mio comportamento; e aprire con la mia vita spazi a Gesù.”

 

Infine, ci invita a  rileggere la lettera di Paolo VI: “Negli ultimi numeri, quando descrive come dev’essere un evangelizzatore, parla della gioia di evangelizzare. Quando San Paolo VI parla dei peccati dell’evangelizzatore: i quattro o cinque ultimi numeri. Leggetelo bene, pensando alla gioia che lui ci raccomanda”.

 

La gioia? L’ho letta nei volti dei malati con cui ho appena chiacchierato, donnette timide che si guardano intorno ad occhi sbarrati, ancora stupite di aver trovato qualcuno che le ha accolte, organizzate, accompagnate qui e che domani le accompagnerà a fare i controlli medici di cui hanno bisogno e che da sole non potrebbero mai permettersi. Sono musulmane, come l’unico uomo che fa parte del gruppetto: mantiene moglie e due figli mendicando, perchè ha una gamba amputata. Il loro incontro con Gesù è questo. Mi parlano del medico che anni fa ha avviato questa iniziativa nella loro zona, remota e arretrata: un neozelandese che ha vissuto per e con i poveri, e che – lo sanno bene - era cristiano. Ogni anno trascorreva un mese di riposo, preghiera, meditazione in una missione, e undici mesi fra loro, a servirli.  Sanno che anche noi siamo cristiani. Ci guardano cercando di capire, di decifrare l’enigma del nostro comportamento, magari anche soltanto dei nostri sorrisi, della nostra preghiera, del nostro ascoltarli e parlare con rispetto. Si chiacchiera, si scambia qualche battuta scherzosa. Poi una di loro mi prende da parte e mi sussurra: “Sa, noi qui siamo contente, ci volete bene, come ci voleva bene il dottore. E se lei non si offende, glielo dico: noi preghiamo molto per voi”. “Preghiamo”: usa il termine “doa kora”, che è quello della preghiera spontanea, non della preghiera obbligatoria.

 

Mentre mi allontano con la gioia di questo incontro, mi viene in mente una nota degli Atti degli Apostoli (5, 12-13) a cui non avevo mai prestato attenzione: ““Molti segni e prodigi avvenivano tra il popolo per opera degli apostoli. Tutti erano soliti stare insieme nel portico di Salomone; nessuno degli altri osava associarsi a loro, ma il popolo li esaltava”. Perchè “nessuno degli altri osava associarsi?” I commentatori non hanno risposte precise. Era paura? Forse, o forse no. Potrebbe essere, come in queste donnette e in questo mendicante, il pensiero che si tratti di qualcosa che è troppo grande per loro, abituati a essere ultimi, trascurati, rassegnati a rimanere quello che sono – ma capaci di guardare con occhi di riconoscenza e di ammirazione. Non è anche questa evangelizzazione, cioè buona notizia? Qualcuno pensa a te, con affetto, e questo qualcuno è un discepolo di Gesù.

 

p. Franco Cagnasso

174

Dhaka – 25  aprile 2019

 

Pasqua

Pinerolo (Torino), 1954. Dopo le vacanze estive al termine delle elementari, vengo a sapere che Zanni, un mio compagno di classe, non s’è iscritto alla “Scuola di Avviamento Professionale”; è morto per un’appendicite acuta. Abitava lontano dall’ospedale, i suoi erano poveri, non sapevano come portarlo, temevano di non poter affrontare la spesa... Ho pensato a lui tante volte!

    

Kaliakoir (Bangladesh), 20 aprile 2019, mattino della Vigilia di Pasqua. Prodip, padre di cinque bambini piccoli, si sente dire dal medico dell’ospedale locale: “Tua moglie per la terza volta ha un attacco di appendicite acuta. Se non la fai operare subito, la perdi.  Se non puoi pagare per i due giorni di degenza già fatti, e per l’operazione, portatela via subito. Ti ho già ridotto il costo da 30 a 26mila taka, di più non posso fare”.

 

Mentre mi preparo per andare alla Veglia pasquale, alle 21, Prodip mi telefona: “Mia moglie è stata operata, sta bene. Padre, non so che cosa dirti. Grazie. Ci hai dato una vita nuova!”

 

Giro a voi il loro grazie. Anche per me, questo fatto è un poco di vita nuova. Una Pasqua.

 

 

Dissociazione

Samuel, fino a pochi mesi fa, faceva parte del gruppo di studenti di College che vivevano con il PIME in parrocchia. Poi ha lasciato, e sta cercando una strada per realizzare altrove la sua voglia di aiutare il prossimo in necessità. Si è accollato la responsabilità di sistemare una scuola in condizioni precarie, a rischio di chiusura, caparbiamente tenuta aperta da vari insegnanti volontari, per assistere ogni mattina oltre cento giovani “diversamente abili”, in una zona rurale molto povera del sud.  Ha partecipato qui a Dhaka ad una settimana di formazione per giovani coinvolti in opere sociali, organizzato e finanziato dal governo, iniziato proprio la vigilia di Pasqua. “Un buon corso – mi dice – bene impostato e interessante.” Unico cristiano fra i 72 altri partecipanti, da loro – musulmani -  è venuto a sapere delle stragi di cristiani in varie chiese, e in vari hotel dello Sri Lanka. Unanime il dolore e la partecipazione che tutti hanno espresso, senza ombre di giustificazione: è una vergogna che dicano di agire in nome dell’islam. Certo quello non è il nostro islam... Ma questo atteggiamento, che ritengo ampiamente maggioritario, non è ancora riuscito ad esprimersi in azioni comuni, di massa. Troppa paura di essere considerati musulmani tiepidi, filo occidentali? Imbarazzo davanti a chi li accuserebbe di ignorare i morti innocenti dei bombardamenti americani? 

 

 

Parlare

Takbir Huda, un commentatore del quotidiano Daily Star, sul numero del 20 aprile racconta di essere andato, venerdì  12 aprile, alla settimanale riunione di preghiera (jumu’ah) nella moschea del suo quartiere, una delle più grandi di Dhaka. L’Iman predicatore – scrive Takbir - ha toccato vari temi, spiegando le regole del digiuno del prossimo Ramadan; ha anche affermato che sedersi sulla riva del lago per fare il picnic è contro le regole del Corano.- In quei giorni erano in fermento, e lo sono ancora oggi, molti ambienti giovanili, e i media hanno un argomento che non lasciano cadere, mentre la polizia e i politici si sono svegliati da un torpore non involontario, e si danno da fare per portare alla luce (o forse per coprire meglio) ciò che è accaduto in una grossa madrassa (scuola coranica) di Feni, cittadina dell’est Bangladesh. Là, una diciottenne studentessa della madrassa, Nusrat, che proprio in quel giorno avrebbe sostenuto l’esame di più alto livello “Alim”, è stata attirata sul tetto di un edificio amministrativo della scuola, legata, cosparsa di cherosene e data alle fiamme. E’ morta quattro giorni dopo, facendo in tempo a dire molte cose.

 

Di Nusrat ho visto pubblicata una sola fotografia, sempre la stessa, probabilmente scattata “in posa” in un negozio fotografico: capo velato, evidentemente non per coprire i capelli, ma per mettere in risalto un viso con labbra pesantemente truccate, e sguardo obliquo da donna fatale… Dava fastidio questo atteggiamento “poco islamico”? Forse sì, ma c’era altro. Nusrat era da tempo vittima delle pesanti molestie sessuali del direttore della scuola, uomo di prestigio, prima membro del partito Jamaat-ul-Islam e poi dell’Awami League, che è al potere. Stanca di  resistergli, Nusrat si era messa d’accordo con la famiglia ed era andata a denunciarlo. La polizia ha registrato di nascosto il suo colloquio con l’ufficiale; in realtà un interrogatorio pieno di allusioni pesanti e di sottintesi molto chiari; poi lo ha messo “in rete”, dove è subito diventato “virale” mentre lei e la famiglia hanno iniziato a ricevere minacce. Tuttavia, forse Nusrat è riuscita a trovare qualcuno che si è messo dalla sua parte, e il Direttore della Scuola è stato arrestato. Immediatamente, centinaia di studenti della madrassa hanno organizzato manifestazioni di protesta per il suo arresto, sfilando per  chiedere il suo rilascio “immediato e senza condizioni”, e la punizione della ragazza. La quale, invece di ritirare, ha confermato la denuncia. Due gruppi di studenti hanno avuto il permesso di parlare al Direttore in carcere, e pochi giorni dopo oltre 15 di loro, maschi e femmine, si sono organizzati per liberare la madrassa da una simile peste. Sul tetto, le hanno ingiunto di ritirare la denuncia, e anche di “concedersi” al leader del gruppo. Non ha ceduto, l’hanno bruciata viva.

 

Come mai nessuno ha sentito le sue urla? Si chiede il giornalista. Come mai la polizia – anzichè indagare e agire - ha cercato di ridicolizzare e svergognare la ragazza? Come mai il direttore della madrassa si sentiva così ben “coperto” da decidere di farla ammazzare in quel modo? Come mai un sostegno così massiccio, un’omertà così disgustosa da parte di centinaia di studenti? E si chiede pure: un fatto del genere, di cui tutta la città parla, non merita una parola nel sermone settimanale, dove si criticano coloro che vanno a fare il picnic al lago piuttosto che coloro che insidiano, ammazzano, collaborano, tacciono? 

  

Forse sta avvenendo una svolta, nella mentalità del Bangladesh. Le notizie di stupri, anche di gruppo, pestaggi, uccisioni, suicidi di donne, anche di bambine sono sempre più frequenti. Non credo che ci sia nulla di nuovo, se non il fatto che se ne parli, e che si facciano più intense le iniziative perchè questi comportamenti non passino sotto silenzio, come “mali inevitabili”, o forse neppure tanto come mali, visto che “così sono fatti gli uomini”, e tocca alle ragazze o alle famiglie stare attenti…

  

Per me questi eventi angoscianti sono anche un invito a pensare a ciò che avviene “a casa nostra”. Ci hanno costretto, non importa se a volte con molta ipocrisia e con evidenti fini di lucro, a scovare fra noi la pedofilia, le sue coperture e anche complicità. Ci siamo scoperti affetti da una miopia ingenua, ma assai dannosa.

 

Se Takbir Huda mi chiedesse: voi cattolici, nelle omelie domenicali, ne avete parlato? Dovrei rispondergli che ci sono state iniziative di coscientizzazione, piani di intervento educativi, disposizioni precise di vescovi e superiori; ma nel rapporto diretto, nella pastorale ordinaria con le comunità dei fedeli, mi sembra di no – salvo eccezioni che non saprei indicare.

 

p. Franco Cagnasso

173

Dhaka – 19 aprile 2019

 

H – B  -  N  -  D - ?

Tutti sanno che cosa sia Hollywood.

Beh, forse esagero: magari c’è pure qualcuno che non lo sa. Nel caso, chieda.

Hollywood è in America – del Nord. Cioè negli Stati Uniti d’America. Mi pare che sia a Los Angeles. Se sbaglio, fatemi sapere.

Quando l’industria cinematografica Indiana decollò rapidissimamente, e si sviluppò avendo il centro a Bombay, qualcuno ebbe un’idea veramente geniale, destinata ad avere risonanza mondiale e a durare nel tempo: perchè non chiamiamo il centro produttivo cinematografico di Bombay “Bollywood”? Certo il nome evocherà qualcosa, e tutti capiranno che anche noi siamo importanti, moderni, emancipati, artistici, disinibiti, e ricchi. Il nome ebbe fortuna, e crebbe una galassia di giornalisti che nutrivano giornali, radio e TV – ora anche internet – di “gossips” (per chi non sa l’inglese: pettegolezzi) sugli attori e le attrici di Bollywood, proprio come quelli di Hollywood. Forse la risonanza è un poco minore, ma non tanto, se non altro perchè l’India quanto a popolazione non ha da invidiare nulla a nessuno! Difficile invece capire dove sia maggiore la stupidità.

Poi il governo indiano disse che Bombay era un nome spurio, dato dai colonialisti, e lo cancellò sostituendolo con Mumbay. Ma Bollywood non divenne Mollywood, rimase Bollywood…

I particolari non li conosco, ma so per certo che un bel giorno anche in Nigeria ci si chiese: non potremmo anche noi avere un’idea geniale, originale, moderna, tale che basti pronunciare un nome per capire il valore della cinematografia nigeriana? Forse che siamo da meno di americani e indiani? Fu così che si iniziò a parlare di Nollywood. E si va avanti, e tutti capiscono quanto valgano attori, attrici, registi, produttori, costumisti, e comparse nigeriani.

Il Bangladesh non sta a guardare. Vero è che competere con la gigantesca India sarebbe presuntuoso, e che il pubblico bengalese continua a preferire le telenovele e altri programmi televisivi indiani a quelli locali… ma, insomma, forse un nome originale, moderno, trasgressivo, innovativo, emancipato, evocativo potrebbe aiutare – vero? Fu così che si cominciò a parlare di Dhollywood. Per favore, cogliete l’originalità del nome: pur essendo l’iniziale del Bangladesh B, qui noi non abbiamo Bollywood (che si confonderebbe con l’India), ma prendiamo le due (non solo una!) prime lettere del nome dell’immensa capitale Dhaka, e le appiccichiamo al bestione con tante teste che ci chiama “ollywood” + una iniziale.

E allora lasciatemi sognare. In Italia, riusciremo un giorno a liberarci del provincialissimo, banale, ovvio, decrepito nome “Cinecittà”? Ma non ci vergognamo? Che bello sarebbe poter dire con giusta fierezza: Iollywood!

 

 

Prospettiva

Per qualunque cosa, c’è sempre un’altra prospettiva, e conoscerla fa bene.

Dopo questa profonda considerazione filosofica, vengo al punto. La giovane primo ministro della Nuova Zelanda, di cui ricordo il volto (un volto disastrosamente poco adatto a un politico, perchè dà la penosa sensazione che pensi prima di parlare…) ma non il nome, ha commosso il mondo, almeno il mondo islamico del sud Asia, dopo la tragedia accaduta a Christchurch, nel suo Paese, quando un fondamentalista cristiano ha ucciso in due moschee 40 musulmani radunati in preghiera e ne ha feriti 19. La commozione non viene dal fatto che abbia pronunciato nuove, più indignate parole per stigmatizzare l’accaduto, ma perchè:

-    Non ha detto “vedremo, aspettiamo di capire, forse è un pazzo isolato, ecc.” Ha subito parlato di terrorismo. Non ha parlato di “musulmani” immigrati colpiti da un cristiano di nazionalità australiana, ma di “noi neozelandesi” colpiti da questo atto terroristico, usando in ogni intervento questo “linguaggio inclusivo” che evita il “noi e loro”.

-    Ha fatto in modo che il nome dell’attentatore non venisse diffuso e il suo volto non venisse fotografato: un metodo intelligente e non violento per frustrare un narcisista come lui.

-    Non si è presentata con l’atteggiamento del generale che arringa le truppe per sconfiggere il nemico, sicuro che “la vittoria sarà nostra…” ma come una persona sinceramente addolorata e preoccupata, che invoca il buon senso delle persone di pace, l’unità di tutti, e che fa subito approvare una legge per controllare meglio a chi vanno in mano le armi che si producono e vendono.

-    Quando il presidente turco Erdogan – noto per la sua delicatezza e per il suo tatto – ha detto che avrebbe fatto introdurre la pena di morte in Nuova Zelanda perchè il colpevole venga  impiccato, e che spedirà a casa in una bara chiunque accosti la Turchia con animo anti-islamico, lei ha risposto: “ Chiederò al mio ministro degli esteri di andare di persona a parlargli, per capire bene che cosa dice e perchè”

-    Quando nelle moschee s’è pregato per i defunti, ha partecipato stando insieme ad altri, all’esterno, anche lei silenziosamente in preghiera, con il capo coperto.

A ben vedere, niente di straordinario. Ma molti musulmani si sentono assediati dalla “islamofobia” di chi vede solo il terrorismo di origine islamica, di chi ha paura dell’islam e tenta di isolarne tutti i fedeli, di chi non vede o non capisce comportamenti che polarizzano le differenze, colpevolizzano i musulmani e offrono pretesti per il terrorismo – che ha anche altre origini, ragioni e matrici. Perchè – si chiede qualcuno – dopo una strage in una scuola americana si parla di malato mentale, e dopo una strage in una scuola pakistana nessuno parla di far ricorso allo psichiatra?

 

 

Pregiudizi

Dal 2003 fino ad oggi aiuto economicamente, e con i miei saggi consigli, un ostello per bambini poverissimi della popolazione Marma, di religione buddista. Conosco bene il fondatore e direttore, di cui mi sento amico e di cui ho parlato in qualche scheggia. Del “comitato” che lo aiuta fanno parte anche due monaci buddisti di una pagoda nella cittadina di Bandarban, nel sud.

Non molto tempo fa, quasi in contemporanea, io venni accostato da una suora e lui, il direttore, dall’abate di una pagoda.

La suora disse a me, con rammarico e con insistenza, che sbagliavo ad aiutare quell’ostello, perchè i monaci picchiano i bambini regolarmente, con il bastone. Lo sapeva per certo, ed era in pena per i bambini.

L’abate disse al mio amico che sbagliava ad appoggiarsi ad un prete cattolico, che aveva come unica intenzione quella di convertire lui e tutti i bambini.

Entrambi erano molto convinti, sicurissimi. Neppure riuscii a dire alla suora che i due monaci lasciavano il monastero e andavano all’ostello, al massimo per due o tre ore al mese. Ancor meno riuscii a dire all’Abate che stesse tranquillo: mi guardo bene dal vendere la mia religione comprando le conversioni…

Ma, tant’è: loro lo sapevano di sicuro!

 

p. Franco Cagnasso 

172

Dhaka – 30 marzo 2019

  

Secessione

Il 26 marzo, giorno della proclamazione dell’indipendenza del Bengala Orientale (Pakistan Orientale) dal Pakistan, e della nascita del Bangladesh, si celebra con intensità crescente ogni anno. Si mette sempre più in evidenza il ruolo di Sheikh Mujibur Rahman, padre dell’attuale primo ministro Sheikh Hasina e “Padre della Patria”, popolarmente e affettuosamente noto come “Bongobondhu”, “amico del Bengala” - ucciso in un attentato nel 1975. Si insiste perchè la storia non venga distorta, e qualsiasi contraddizione o critica alla storia ufficiale è distorsione. Si dà importanza ai termini: il prossimo obiettivo è che l’ONU riconosca come “genocidio” la strage effettuata dai Pakistani nella notte fra il 25 e il 26 marzo 1971 – quando l’esercito entrò silenziosamente e senza preavviso nelle università e nei principali luoghi di cultura, uccidendo a freddo tutti i leader e potenziali leader politici e culturali del Bengala.- Quest’anno, il quotidiano “The Daily Star” s’è preso il gusto di festeggiare l’indipendenza dando i numeri. Offre ai lettori alcuni fondamentali dati economici, e sociali, per confrontare la situazione del Pakistan Occidentale e del Pakistan Orientale nel 1971 con quella del Pakistan e del Bangladesh oggi. Il commento è sobrio, ma le cifre sono evidenti: l’indipendenza ha portato il Bangladesh (che fino al 1971 era il “fratello piccolo e povero” del Pakistan Occidentale) a sorpassare il Pakistan in molti campi rilevanti.

Attuale numero di abitanti : Pakistan Occidentale, 207 milioni / Bangladesh, 170 milioni

Aspettativa di vita nel 1972-73: P. Occidentale 54 anni / Bangladesh 47 anni (7 anni in meno)

Nel 2018-19: Pakistan 66 anni / Bangladesh 73 anni (7 anni in più)

Reddito medio per abitante nel 1972-73: P. Occidentale 180 dollari / Bangladesh 120 dollari

Nel 2018-19: P. Occidentale 1.641 dollari / Bangladesh 1.827 dollari

Esportazioni nel 1972-73: Pakistan Occidentale 760 milioni di dollari / Bangladesh 377 milioni di dollari

Nel 2018-19: Pakistan 23 miliardi di dollari / Bangladesh 36,6 miliardi di dollari

Prodotto interno lordo nel 1972-73: P. Occidentale 10,6 miliardi di dollari / Bangladesh 6.28 miliardi

Nel 2018-19: P. Occidentale 320 miliardi di dollari / Bangladesh 300 miliardi

Dicevo che i commenti del quotidiano sono pochi e sobri: parlano le cifre… Ma un cenno ironico non poteva mancare: riguarda la “infame” affermazione dell’allora Segretario di Stato Americano Henry Kissinger, che nel 1974 affermò: “Il Bangladesh è un cestino senza fondo”. I fatti gli hanno dato torto.

 

 

ImmiEmigrati

Ovviamente, ogni immigrato è anche un emigrato.

Allora, chi è’ che lascia il Bangladesh come emigrante per diventare immigrato altrove?

Partono famiglie benestanti, che vogliono stare ancora meglio. Normalmente hanno le carte in regola perchè – proprio in quanto benestanti – sono accettate volentieri in alcuni paesi. Vedo per non pochi cattolici un processo graduale di trasferimento, magari iniziando dal figlio che riescono a far studiare in Canada, Australia o Malaysia, e poi pian piano ricompongono la famiglia nel nuovo paese.

Partono persone che si mettono in evidenza per capacità professionali; ci sono società internazionali che si fanno avanti offrendo loro un buon stipendio, buon posto, viaggio pagato,

visa facile da ottenere e quant’altro occorre. Spesso la meta è un paese del Golfo, dove si lavora a contratto, non si può portare la famiglia e, finito il lavoro, si torna a casa. Le infermiere sono richieste; una scuola per infermiere a Uttara (vicino a Dhaka) fondata e gestita da Americani, accoglie solo ragazze che andranno a lavorare negli USA – ovviamente se passano gli esami.

 

Partono lavoratori qualificati con appositi corsi relativamente brevi (anche la Caritas organizza corsi di un certo prestigio, in vista di un lavoro all’estero, così pure il governo e vari enti) e anche non qualificati. Ma solo se hanno, o possono procurarsi, i mezzi per pagare intermediatori, biglietti di viaggio, documenti, cioè parecchie migliaia di dollari o euro. Parecchi partono dopo aver venduto l’ultimo campo che avevano, o dopo aver contratto debiti (con le carte in regola, o presso strozzini), garantiti da qualche parente.

Ma allora, fra i partenti non ci sono i poveracci, quelli “veri”? Quelli che non riescono a mantenere la famiglia e tanto meno a far studiare i figli, che non hanno un campo da vendere? Ci sono. Di solito si tratta di giovani che si spostano dal villaggio e affollano zone portuali, stazioni, aree industriali alla ricerca di un lavoro qualunque. Qualcuno li tiene d’occhio, poi un bel giorno li accosta e offre loro di andare a lavorare in Malaysia, Medio Oriente, Taiwan e altrove, in cambio di una somma decisamente modesta in rapporto ai costi di mercato. Diciamo 36.000 taka, circa 400 euro. Il giovanotto o la ragazza ce la mette tutta, vende quello che ha, chiede aiuto a destra e a sinistra e poco dopo si trova con in mano un passaporto (falso), e viene portato in un luogo – solitamente isolato – gestito dai mediatori, dove aspetta di partire. Strettamente proibito allontanarsi. Dopo un po’, gli diranno che l’occasione di lavoro è sfumata, però c’è un’alternativa: un buon posto in Libia. Veramente, per averlo occorrono 5.000 euro, ma niente paura: se non li hai, li restituirai lavorando nei primi due anni – o poco più…

Si parte. Verso un’isola disabitata del Golfo del Bangala, ad esempio, o un luogo nascosto nella foreste della Thailandia orientale: sequestro dei documenti, impossibilità di fuggire, cibo scarsissimo, malaria, e botte. Botte che vengono registrate e mandate al suo villaggio perchè la famiglia le veda e si affretti a pagare un riscatto, altrimenti la va male. Ci sono gruppi organizzati soprattutto nelle zone costiere del Bangladesh, che si occupano di questo compito umanitario: mandare notizie alla famiglia perchè paghi, e loro si incaricano di passare i soldi agli aguzzini. Se pagano, a volte tornano a casa, altre volte vengono riaffidati ad un altro gruppo che ricomincia la storia daccapo; altri ancora proseguono e arrivano in qualche paese ben lontano da quello che gli avevano promesso, senza documenti, né lavoro, né la minima idea di che cosa possa fare. Per molti, alla fine arriva anche la Libia, dove non dormiranno su un letto di rose…

Un’inchiesta, condotta per tre anni da due enti per i diritti civili della Malaysia, ha confermato quello che riempì per qualche settimana le pagine dei giornali negli anni 2014-15: barconi rifiutati dalle guardie costiere di Thailandia, Malaysia, Indonesia, carichi di Rohingya soprattutto, ma anche Bengalesi, portati via con una promessa di lavoro e poi ridotti in schiavitù. Si scoprirono fosse comuni dove venivano gettati quelli le cui famiglie non pagavano, o che morivano di stenti. Poi la Thailandia fece inchieste, scoprì’ che non pochi pezzi grossi malaysiani e thailandesi erano coinvolti, fermò alcune di queste organizzazioni, e non se ne parlò più. L’inchiesta sostiene che dal 2012 al 2015 oltre 170mila persone incapparono in questa rete. Il fenomeno non è finito, e ogni tanto i giornali bengalesi pubblicano la notiziola che un gruppo di ragazzi o ragazze, che era in attesa di essere deportato, è stato scoperto e liberato…

 

p. Franco Cagnasso

171

Dinajpur - 2 marzo 2019

 

 

Inutilità - 1                

29 gennaio 2019 

        

Carissimo Franco,                                                                                                          

ho potuto guardare in tivù diversi momenti della GMG a Panama. Ieri ho seguito parte della conferenza stampa del papa con i giornalisti, sul volo di ritorno. Una delle domande era sul perchè i giovani, ma in generale molte persone, sono lontane e indifferenti alla chiesa. Mancano i testimoni, ha detto il papa. Non gli eroi, ma chi vive quello che pensa e dice. Io aggiungo che spesso non mi chiedono cosa ne penso, ma solo se continuo a vivere come dicevo e come dico. Ti confesso che è davvero tanto difficile. Sai, per grazia di Dio conosco diverse persone impegnate a dimostrare con la vita la loro fede, ma io no. Io sono dentro queste mura e confido che le mani di chi opera nel mondo siano anche le mie. Dopo i fatidici tre anni tornerà a casa un mio amico missionario comboniano che fa il medico in Sud Sudan. Gli dico sempre che deve farlo anche a nome mio, perchè lì non ho potuto arrivarci. Perciò ti ripeto quanto anche tu sia prezioso. Mi vergogno quasi a dirti che sono con te, perchè io in fondo sto nella mia casa riscaldata con la luce, l'acqua corrente, il cibo sicuro...  Scusami lo sfogo, ma mi sento così inutile e mi pare di non avere proprio una vita tanto semplice.

Maria            

Aveva circa vent’anni Maria, frequentava l’università  con buoni risultati, era appassionata di scoutismo, vivace e comunicativa. Pensava di andare in missione e dedicarsi a chi soffre. Poi… dopo una lunga giornata di mal di testa insopportabile piomba nel buio. Due mesi di incoscienza da cui riemerge per una vita assolutamente nuova ed impensata, con le capacità intellettive intatte, ma paralizzata, incapace anche di inghiottire. Cure interminabili e complesse la conducono a una condizione in cui parla, ma con una certa fatica, può lentamente scrivere al computer, si nutre con un sondino. Il cervello pieno di idee, domande, sogni, il cuore pieno di affetti e sofferenza, un caparbio aggrapparsi alla fede, anche se arida, la tenacia di ricominciare ogni giorno l’indispensabile “prendersi cura di sè” ma anche il comunicare con il mondo, riflettere, tenere aperto un dialogo con Dio senza “devozionismi” e smancerie, a volte conflittuale, mentre cerca di trovare il Vangelo nella sua esistenza, che rimane chiusa fra quattro mura, eppure ostinatamente aperta al mondo che la appassiona, indigna, la scandalizza e la fa fremere per ciò che vorrebbe dire e fare in mezzo a tante stupidità e a ottusi egoismi.            

E’ per “colpa” sua, che continuo a scrivere queste “schegge di Bengala”. Qualche anno fa, demotivato e stanco di dibattermi fra troppi impegni, avevo deciso di smettere. Stavo scrivendo l’ultima scheggia, di congedo, quando mi arrivò una sua lettera. Non ci conoscevamo, nè mai avevo sentito parlare di lei.  Mi raccontò qualche cosa di sè, mi disse di aver letto vari miei articoli con cui si trovava in sintonia, che le piacevano. Decisi che valeva la pena di continuare: se non per altri, per lei.            

Ora le ho chiesto il permesso di far diventare “scheggia” quanto lei mi ha scritto due mesi fa, la mia risposta, la sua replica. Ha accettato volentieri; la ringrazio, anche a nome di chi ci legge.

 

 

Dhaka, 30 gennaio 2019

Carissima Maria,                                                                                            

credo di intuire la tua frustrazione, il "sentirti inutile" perchè - davanti a tante cose che senti giuste e che vorresti fare - ti trovi impotente e "reclusa".

Per chi, come me, è chiamato a tante attività, e ha tanti rapporti, questa sensazione è meno evidente e frequente, ma ogni tanto affiora - anche con forza: "tutto questo correre, fare, parlare, animare... dove arriva? a che serve?" Si dice che è una goccia in un oceano. E' meno ancora; ne vale la pena? Non sono forse una trottola impazzita che gira vorticosamente... su sè stessa?        

La risposta che trovo non è che la "goccia" tutto sommato è abbastanza grossa (!), o che la trottola - gira gira - arriverà da qualche parte, ma che dobbiamo accettare la nostra condizione di povertà e piccolezza, essere ciò che siamo stati chiamati ad essere e fare ciò che possiamo fare senza far conti e pretendere risultati, ma affidando tutto all'amore di Dio. Ciò che davvero ci sta a cuore (amore, pace, rispetto, fraternità...) non è misurabile, e nemmeno si trasmette su vie chiare e precise come i treni sulle rotaie o le onde radio, ciascuna sulla sua lunghezza. Sono microscopici frammenti di infinito il cui valore sta non nell'essere un po' meno microscopici, ma nell'essere davvero frammenti di INFINITO, di Dio, di AMORE. Ecco perchè s. Teresa (se non sbaglio) dice che un atto d'amore vale più di tutto, e Paolo dice che qualunque cosa uno faccia, anche la più eroica, vale nulla senza amore. Papa Benedetto ha scritto che la beatitudine di "coloro che piangono" si riferisce a chi piange per i mali del mondo e per non poterli eliminare, ridurre, abolire; è beato perchè piange il pianto di Cristo; è unito a lui che ha percorso instancabilmente tanti villaggi per portare l'annuncio del Regno ed è finito in croce - la tortura più significativa dell'inutilità, quando Gesù è assolutamente impedito di fare qualsiasi cosa perchè tutto ciò che ha fatto è da buttare, e quindi si inchioda e poi si butta via anche Lui. Finisce in croce grazie al tradimento di un discepolo. Si può immaginare un fallimento più grande?        

La croce, momento della massima inutilità di Dio.        

Non so se circola ancora nelle parrocchie una preghiera diffusa anni fa, che dice che Cristo non ha più mani, ha le tue. Tu dirai che le tue non le ha, perchè non le puoi usare per svolgere le attività che sarebbero di Gesù. Forse la risposta è che le tue sono così unite alle sue che sono insieme, crocifisse, inutili dell'inutilità di Cristo stesso.        

Che però ha mosso e muove milioni di persone, perchè sulla croce ama. Quando tu ti dispiaci della tua inattività, lo fai perche ami il bene, le persone povere, sofferenti, ignoranti, e vorresti aiutarle. Nella fede, e sulla pista che Gesù ci ha tracciato, noi diciamo che questo è un "frammento di infinito" del massimo valore, senza il quale tutto il resto non vale, e che invece vale anche se non c'è null'altro.      

Qualche piccolo, piccolissimo segno che questo mistero di fede non è assurdo, ci viene donato.

(continua)

Franco Cagnasso      

 

 

Inutilità - 2

Ho interrotto la scheggia precedente al punto in cui dico che abbiamo qualche piccolo segno che l’inutilità, se è vissuta con amore, non vale meno di una vita attiva spesa a fare cose buone. Riprendo: tu dici che conosci persone impegnate "a dimostrare con la vita la loro fede ma io no, io sono dentro queste mura...". 

Ma tu sì, invece! 

Credere e amare nelle tue condizioni "dimostra" tanto quanto, e probabilmente più che occuparsi dei migranti o dei bambini abbandonati, cosa che (per fortuna) possono fare e fanno anche molti non credenti. E', in un certo senso, complementare. 

Il credente che può lavorare per qualche obiettivo buono, deve dare il segno che l'obiettivo ha qualcosa di più, ha un "oltre" che viene dalla fede. Ma anche senza credere a questo "oltre", tante cose più o meno si fanno. 

Per te la domanda è più diretta, radicale, priva di alibi; e così la risposta. Anche tu hai dubbi e difetti, e ogni fede ne ha, ma il contesto in cui la vivi, quello della tua impotenza che ti dà apparire e sentire di essere inutile, parla una lingua "diversa dal solito", pone domande che molti non si porrebbero. E' quello che scopro sempre di più frequentando persone handicappate, specialmente mentali, che non si capisce nemmeno se possano credere o no,

eppure silenziosamente ti interrogano con la loro stessa esistenza: perchè? a che servono? roba da buttar via? Inutile, anzi, ingombrante e dannosa? La mia amica Naomi, giapponese, che davvero ha la vocazione a stare con loro, mi dice: parlano un unico linguaggio, quello degli affetti, spesso soltanto balbettati ma sinceri, è il linguaggio dell'amore e null'altro; è il linguaggio di Dio...

Tu chiedi a noi, missionari indaffarati, di essere le tue mani. Fai bene a chiederlo!!! Ricordacelo spesso. Ricordaci che il nostro lavoro non basta e spesso può essere inutile e controproducente addirittura, o ambiguo ("lo fanno per convertirci... qualche interesse ce l'hanno di sicuro, ecco perchè aiutano... li paga il Vaticano o l'America... approfittiamone, visto che sono così fessi...).

Il nostro lavoro vale se è intriso di quello stesso amore che anche a te viene donato dallo Spirito, e che vivi nella tua condizione di “reclusa”. La tua coerenza sta nel restare fedele – cioè nella fede – nonostante che la vita sia “ingiusta” con te e tu non possa viverla come vorresti; e la mia coerenza sta nel restare fedele nella donazione del mio servizio attivo, nonostante le fatiche e i fallimenti. Non chiediamoci chi vale di più, crediamo che il dono che ci è fatto, di credere, è appunto un dono che ci rende “servi inutili” ma riconoscenti e gioiosi, e perciò testimoni – tanto in Bangladesh quanto nella tua stanza. E possiamo così anche sostenerci a vicenda, vivere la comunione dello Spirito che ci ha fatto sentire in sintonia già prima ancora di conoscerci.

Maria, a noi missionari ricorda anche che dobbiamo essere umili. NON siamo eroi. Sei più "eroica" tu (anche se per fortuna non ti interessa esserlo) che credi e preghi come sei capace di farlo, ogni giorno, nella tua "clausura" forzata. Una cara amica che ho conosciuto a Roma negli anni '70 e ritrovato poi a Dhaka quando per alcuni anni è stata qui per lavoro, aveva una famiglia disastrosa, con diversi membri afflitti da malattie mentali gravi. Faceva tutto il possibile per loro, con fatica e sofferenze immense, sempre sotto tensione, e senza apparenti risultati. Ci ricordava qualche volta che i fortunati siamo noi perchè se abbiamo difficoltà e fatiche, tuttavia stiamo facendo qualche cosa che abbiamo scelto, che riteniamo abbia un valore. Ma chi si trova in condizioni simili alle sue, fatica e soffre per cose che non vorrebbe, che non ha scelto, per cui magari viene emarginata, non compresa... costoro hanno una vocazione "più alta", se cercano di accettare con amore. Non lo diceva per vantarsi, ma in condivisione, e io le davo perfettamente ragione. Non so se conosci gli scritti di don Divo Barsotti, il quale insiste spesso che il momento di vicinanza più intima a Cristo è quello della sofferenza, non quello del bene che si fa (e che - potendo - ovviamente bisogna fare!).

Quindi sono io a chiederti: aiutaci. Con la tua pazienza e le tue impazienze, con i tuoi desideri inappagati, con il tuo rammarico di non poter fare, con la vivacità per cui ti interessi di tante cose e persone, ti appassioni, interroghi, tessi rapporti...

Non solo sulla croce, anche in altri momenti Gesù ha fatto capire di sentire la sproporzione fra ciò che poteva fare e ciò che lo circondava: "ebbe compassione delle folle" e chiese aiuto, l'aiuto della preghiera al "padrone della messe", e l'aiuto degli amici che ha chiamato e che ha mandato. Ma ha, o hanno, messo a posto tutto? No. La storia continua uguale: si sente compassione della folla, ci si muove per quanto si può, e poi si intuisce che ti aspetta la croce e che proprio quella in qualche modo, purificherà l'amore e renderà autentico il servizio.

Mons Van Tuang, arcivescovo di Saigon, imprigionato per il tradimento di un suo prete, e tenuto 16 anni in carcere senza processo, ha salvato la sua salute fisica e mentale dicendo a sè stesso: non perderò tempo ed energie a pensare se e quando potrò uscire; mi impegnerò ad amare coloro che ho vicino. Cioè chi? I carcerieri, visto che non c'è altro... E cercando di farlo, ha amato il mondo intero. E' morto qualche anno fa, ma anche ora, con le riflessioni che ha lasciato, particolarmente efficaci proprio perchè zampillano da un’esperienza così ingiusta, dolorosa e inutile, aiuta il mondo intero

Un abbraccio grande

p. Franco

    

3 febbraio 2019

Carissimo Franco, 

ricordi il film ALIEN (è dei tuoi tempi, ambientato nello spazio) quando ad un certo punto, ad un malato disteso sul letto, schizzava fuori dalla pancia un mostro tipo polipo? Ecco, così mi sembra sia successo a quanto ti voglio dire: è schizzato fuori. 

Spesso ti ho parlato di un mio carissimo amico salesiano che ora è a Chisnau, in Moldavia, come missionario. Prevengo la tua risposta e affermo che siamo tutti missionari e tutto il modo

è terra di missione. Ogni luogo ha le sue difficoltà, ma lì è come essere nel deserto: finché eroghi servizi -doposcuola, pomeriggi estivi, merenda…- hai l’oratorio pieno, ma poi, il nulla. Conosco don Tiziano dal 1986 quando arrivò prete novello al nostro oratorio. Pensa che è anche focolarino, ma di quelli doc che non danno sui nervi per il loro ostentato sorriso (d’altra parte, io ho una cognata focus doc!). E’ davvero una persona esplosiva e piena di positività. Condividiamo la passione per Mafalda e quindi io spesso gli racconto vignette di Quino. L’ultima presentava Felipe (amico di Mafalda, quello coi dentoni) che andando a scuola passava per il parco dove c’era la statua di un personaggio famoso. Sul piedistallo c’era scritto: “all’indomito eroe, per le sue preclare imprese”. Felipe lo guarda e pensa: “Così sono capaci tutti". La bravura sta NELL’ESSERE STANCHI E CONTINUARE A COMBATTERE.

So che è frustrante darti tutto - senza risparmio - e non avere niente. Però mi chiedo quale sia il successo che ci aspettiamo. Sono la prima ad ammettere che mi piacerebbe che tanti venissero ad omaggiarmi (non a elogiarmi), mi sembrerebbe così di avere la garanzia di vivere una solitudine meno anonima. Ma anonima a chi? Quando ero in clan ci domandavamo spesso che differenza ci fosse fra noi e il CAI (club alpino italiano). Entrambi camminiamo in montagna con lo zaino, dormiamo in tenda, mangiamo sul fuoco o buste knorr... e anche tu in fondo cosa fai di diverso da un ragioniere o da un infermiere o da uno psicologo? Sono convinta che la spinta propulsiva sia la differenza. Nel salmo si dice che invano si costruisce la città se non lo fa il Signore. Allora credo non sia tanto spaventoso essere una trottola impazzita, ma impazzire e basta. So che non è facile tararsi continuamente per far rimanere al centro Gesù. Riconosco che io sono molto più fortunata di te, perchè i miei limiti mi mettono sempre al tappeto. Non sono così virtuosa da rinunciare a priori alle scelte più facili, sono loro che decidono per me. Lo so che tu mi capisci se ti dico che Dio sapeva quanto fossi debole e nella mia grande debolezza mi ha resa invincibile, ma non perchè io ne abbia le forze. Le mie forze umane si esaurirebbero in un paio di ore, e il resto del giorno? Io possiedo la testa di una libellula, ma in un fisico da bradipo.

Maria

 

28 febbraio 2019

Carissima, 

allora, d’accordo: i tuoi amici missionari e io cercheremo di essere le tue mani e i tuoi piedi che non puoi usare come vorresti; tu cercherai di essere il nostro cuore, sempre sollecitato ad amare, anche la gente con cui noi siamo e lavoriamo, ma spesso irritato, deluso, incapace di capire e di accogliere. Quanto al cervello, ognuno usi il suo meglio che può, magari facendosi aiutare da Felipe e da Mafalda.

E Alien? Per i film io sono schizzinosissimo, è raro che mi organizzi per guardarne uno, e il più delle volte me ne vado dopo i primi 10 minuti. Alien non l’ho visto e non lo vedrò… ma ci capiamo lo stesso.

Un abbraccio grande

p. Franco   

 

 

Anniversario

Pian piano, il gruppetto di missionari del PIME in Bangladesh sta smettendo di essere identificato come come “I missionari italiani”. Mentre gli italiani sono diminuiti di numero e aumentati di età, sono arrivati missionari di altri paesi: Cameroun, Brasile, Colombia, India - per ora – mentre sono in attesa di ottenere il visto di entrata e unirsi a noi – oltre a un italiano – un missionario della Guinea Bissau e un altro dall’India. Ogni tanto poi, compaiono missionari del PIME bengalesi, che ritornano per le loro vacanze dalle missioni in cui si trovano: Cameroun, Guinea Bissau, Papua Nuova Guinea, Filippine, direzione generale dell’Istituto a Roma (…perchè, non è una missione anche quella?).

Durante l’assemblea che abbiamo tenuto a Dinajpur (la “capitale” del PIME in Bangladesh) il 26 e 27 febbraio scorsi mi guardavo in giro, e non nascondo che mi sentivo soddisfatto. Mi è venuto in mente che si potrebbe celebrare un anniversario, perchè questa ricchezza di presenze è stata avviata quasi 30 anni fa, settembre-ottobre 1989, quando il PIME ha scelto di aprirsi ad accogliere anche persone provenienti da paesi “a maggioranza non cristiana. Fino a quel momento questo non accadeva per due motivi: il PIME si sentiva in qualche modo legato alle sue origini di istituto che esprime la missionarietà della chiesa italiana, rimanendo in vari modi legato ad essa, e il PIME voleva spendere tutte le sue energie nella fondazione di chiese

locali, preoccupandosi di formarne il clero, per cui indirizzava ai seminari diocesani (fondati dal PIME stesso), coloro che chiedevano di unirsi a lui.

L’assemblea generale speciale del 1971 aveva ribadito questi principi, fermando un piccolo inizio di accoglienza di membri indiani, avviato negli anni precedenti. Era la risposta al problema che per gli stranieri era diventato praticamente impossibile ottenere visti per lavorare in India, e per questo si prospettava la necessità di lasciare parrocchie e opere fondate da noi, fino a scomparire gradualmente – come era ormai avvenuto nel Bengala occidentale e sarebbe avvenuto anche nell’Andhra Pradesh, dove avevamo creato tante comunità cristiane, parrocchie, diocesi, scuole, ospedali, centri sociali e così via. Ma la maggioranza ritenne che questo motivo non fosse compatibile con le nostre caratteristiche. Entrare nel PIME per lavorare poi nel proprio paese era qualcosa di inedito, e avrebbe messo in crisi vari aspetti della nostra tradizione, anche spirituale. Fu una scelta difficile e anche dolorosa, specie per coloro che ci credevano, e ancora di più per i confratelli indiani (fra cui diversi miei amici personali); ma ne condividevo le motivazioni, e la sostenni.

Nell’assemblea generale che si svolse 18 anni dopo a Tagaytay (Filippine), si decise invece per l’apertura – e io mi espressi a favore. Voltagabbana? Non penso. Le motivazioni erano altre, e le modalità di apertura furono elaborate in modo da garantire che il PIME rimanesse se stesso, aprendosi però alle realtà diverse nel frattempo maturate e di cui stavamo diventando meglio coscienti. 

Quali? Era più chiaro che la missione non si poteva identificare con il partire da “paesi cristiani”, in pratica Europa e Americhe, verso “paesi non cristiani”. I primi erano sempre meno identificabili come tali, e i secondi stavano arricchendosi di chiese che – pur fortemente minoritarie – erano tuttavia vivaci e feconde; ci si era convinti che la missione non è un “di più” doveroso solo per coloro che hanno “vocazioni” in abbondanza, o addirittura preti che rimangono disoccupati; è una dimensione della chiesa stessa, grande o piccola che sia. Il PIME dunque, accogliendo membri di paesi “a maggioranza non cristiana” non doveva aver paura di defraudare quelle chiese, doveva invece aiutarle ad esprimere la loro dimensione missionaria anche all’estero, perchè questo avrebbe contribuito alla loro maturazione e crescita, oltre che a offrire aperture, metodi, mentalità nuove nelle tradizionali “missioni”.

Si stabilì dunque che non si trattava di “cercar vocazioni” per la sopravvivenza dell’istituto; piuttosto, alle chiese che avevamo fondato o in cui operavamo da tempo, potevamo proporre anche il nostro istituto come strumento di missione a dimensione universale. La regola, molto semplice, fu stabilita in questi termini: chi entra nel PIME viene mandato ad operare in paesi diversi dal suo, segno di una chiesa – anche piccola e giovane – che si apre al donare, e stimolo nuovo per la chiesa che lo riceve.

Inoltre, l’accoglienza di missionari da queste chiese doveva essere decisa caso per caso, in armonia con gli episcopati locali.

Si iniziò subito, non mancarono fatiche ed errori; ma ora, guardandomi intorno nell’aula della nostra piccola assemblea, ascoltando gli interventi, pensando a dove lavorano i miei confratelli – sia italiani sia di “paesi a maggioranza non cristiana”, mangiando e pregando insieme… sentivo una grande gioia e soddisfazione. E’ stata una scelta giusta, direi provvidenziale. Io, italiano, entrato nel PIME ben prima che loro nascessero, sono ben contento di ascoltare, guardare, scambiare esperienze, idee e programmi con questi missionari africani, asiatici, latino americani. Insieme, esprimiamo meglio la realtà di una chiesa universale, ovunque a casa propria e ovunque straniera. 

 

p. Franco Cagnasso

170

Dhaka, 18 febbraio 2019

Festa di S. Alberico Crescitelli, PIME – Martire

 

Oppressione

Ecco un commento alla scheggia “Benefattori”, del 12 gennaio scorso:

 

Caro padre Franco, tu parli di questa cosa con il tuo consueto “umorismo disincantato”, ma io sono indignato del comportamento di questi “benefattori”, che in realtà hanno agito come farabutti patentati. Possibile che non ci sia modo di mandarli in galera per usura e violenza privata?

    

Caro Mario, grazie! So che il mio modo di presentare fatti del genere può sembrare cinico, penso che sia un tentativo per gestire la sofferenza e l'impotenza che sento; e per fare intuire che non si tratta di un caso straordinario, ma quasi “normale”.

     

Possibile che non ci sia nulla da fare? Di usura non sento mai parlare, ma in casi di violenze sulle donne, o su bambini, qualcuno ha il coraggio, e l'aiuto, per sfidare la situazione. Se il papà della famigliola di cui parlo non fosse gravemente ammalato, e la mamma non fosse costretta a dare tutto il suo tempo per raggranellare ciò che neppure basta a sopravvivere, potrebbero appellarsi a recenti leggi in difesa delle donne e dei bambini, che hanno reso “temibile” una denuncia. Se si appoggiassero a organizzazioni per i diritti, potrebbero persino avere qualche eco su alcuni mezzi di comunicazione. Ma…

 

Va dato per scontato che una denuncia alla polizia richiede parecchi soldi, e può essere ad alto rischio. Se i “benefattori” stanno politicamente “dalla parte giusta”, tanto per cominciare la polizia rifiuterebbe di accettare una denuncia contro di loro. Rifiutati dalla polizia, e minacciati pesantemente, le vittime capirebbero alla svelta che devono tacere e cambiare indirizzo. E se i “benefattori” non avessero “agganci”? Potrebbero a loro volta sporgere una “contro-denuncia”, accusandoli di qualsiasi cosa venga loro in mente. Poi, mentre la loro denuncia – grazie ad adeguate mance – giace in un cassetto, le vittime saranno coinvolte per anni in udienze, rinvii, carte da bollo, spese con uscieri, falsi testimoni, improvvisati consiglieri, mentre il loro avvocato tirerà per le lunghe più che può, prima di dimostrare che sono innocenti. Conclusione tutt’altro che garantita, se chi denuncia ha i soldi per corrompere il loro avvocato difensore, o il giudice.

 

Innumerevoli famiglie di sottoproletariato vivono una miseria che è sempre unita al disprezzo, all’essere indifesi, sfruttati da ogni parte fino all’ultima goccia di sangue. Impegnano tutto il loro coraggio e le loro energie nell’impresa gigantesca di sopravvivere a disoccupazione, fame, mancanza di casa, debiti, malattie, angherie di ogni sorta: dalla “mancia” quotidiana al vigile perchè li lasci pedalare su un rikscio, alla “tariffa” per avere due secchi d’acqua dopo ore in fila, dalla percentuale all’incaricato di vendere il riso a prezzi calmierati, al maestro che vuole soldi per promuovere il figlio a cui non ha insegnato nulla, a chi impone un “affitto” sul terreno demaniale dove hanno la loro baracca… la lista è lunga, lunghissima. Spesso poi sono i poveri stessi che si fanno violenza e s’imbrogliano a vicenda, perchè non conoscono un altro modo di vivere.

 

I genitori di questo "caso" sono preoccupati anche per la figlia di 14 anni, perchè lo stupro singolo o collettivo per "dare una lezione" a qualcuno non è impossibile. Recentemente, uomini del partito che ha vinto le "elezioni" hanno violentato per vendetta donne che personalmente,

o i cui fratelli, o mariti avevano sostenuto gli avversari. Nel 2001, quando l'attuale opposizione andò al potere, i casi furono tanti e gravi: il "metodo" non è prerogativa di una delle due parti...Nella situazione di cui parlo io la politica non c'entra, ma - nonostante ci siano anche in Bangladesh reazioni indignate e impegni concreti per cambiare la mentalità e punire i colpevoli - che questo sia un metodo efficace e relativamente frequente per agire contro qualcuno è idea diffusa e praticata. Franco 


p. Franco Cagnasso

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Dhaka, 12 gennaio 2019

  

Benefattori

Sei anni di età, sempre allegra e vivace nonostante la grandissima povertà in cui vive e il papà gravemente ammalato di reni, questa volta la bimba entra e si siede senza dire una parola. Ha un cerotto sulla fronte, è tristissima. “Che è successo?” le chiedo. La mamma interviene accarezzandola: “Un maramari...”. Mi sembra strano che un bisticcio fra bambini, anche se “maramari” significa che sono passati alle botte, possa averla ferita e stordita così. Pian piano li accompagno a dirmi di più. La famiglia ha un debito con alcune persone che lavorano in una “Organizzazione non Governativa” di cui non mi dicono il nome, che fa prestiti ai poveri. Avevano chiesto in prestito una grossa somma per curare il papà, ma l’incaricato, considerata l’evidente insolvibilità della famiglia, lo ha negato. Poi, con due impiegati dello stesso ufficio, è andato a trovarli a casa, per mostrare loro quanto fossero spiacenti, e quanto si preoccupassero per la loro situazione. Così tanto, che erano disposti a dare personalmente il prestito che l’ufficio non poteva concedere. Hanno consegnato circa 3.000 euro (lei guadagna circa 50 euro al mese) e – non avendo loro restituito nulla, nel giro di pochi mesi il debito, dicono i “benefattori”, è salito, con gli interessi, a circa 7.000 euro. Gradualmente le esortazioni sono diventate minacce finchè, visto che le parole non fanno effetto, sono passati a vie di fatto. Ogni pochi giorni, la sera, irrompono in casa e li picchiano con un bastone. Hanno picchiato anche il malato, ma soprattutto la moglie. La bambina no, scappa nell’altra stanza e la lasciano stare. Ma questa volta, aprendo la porta con violenza, l’hanno colpita (involontariamente!) alla testa e ha dovuto ricorrere ad un ospedale. Sinceramente non so perchè lo facciano. Chiunque può capire che non riusciranno mai a pagare, e che le botte non portano soldi in tasca ai debitori – di conseguenza neppure ai creditori. Ma il trattamento, di cui in precedenza mi avevano detto solo qualche cosa, continua e lei è rassegnata. Un principio diffuso qui è che se si vogliono soldi dalla famiglia della moglie, bisogna picchiare la moglie fino a che – impietositi – i famigliari sganciano. Che abbiano scoperto, o abbiano il dubbio che – trattandosi di cristiani – abbiano alle spalle qualche straniero da cui spremere quello che vogliono?

 


Fantasie

Supponiamo, fantasticando, che in un paese democratico di questo mondo – uno qualunque, sia chiaro che non mi riferisco a nessuno in particolare – ci sia al potere un partito molto forte, con una coorte di partitelli d’appoggio. Nelle passate elezioni, l’opposizione si  era ritirata per protesta lasciando campo libero a loro. Così,  per 5 anni partito e partitelli si sono abituati a far da soli, e avrebbero piacere di continuare allo stesso modo. Che si potrebbe consigliare loro? Poichè, come si sa, si tratta di salvaguardare, anzi di aumentare gli spazi democratici, potrebbero anzitutto rassicurare tutti dicendo che le elezioni ci saranno e saranno libere e giuste, con garanzie per tutti. Intanto, continuino a governare, senza badare ai boicottaggi e complotti dell’opposizione continuamente in agguato – i complotti infatti sono antidemocratici. Il governo deve assicurare la giustizia, per questo potrebbero far giudicare e impiccare i sostenitori di un partito antidemocratico che in passato avessero commesso crimini contro l’umanità. Sarebbe anche bene combattere contro la corruzione, facendo processare e condannare al carcere persone che avessero ignobilmente approfittato della loro posizione per intascare soldi. Come per esempio la capo dell’opposizione e molti membri del suo partito. 

Non si preoccupino troppo se diversi avversari politici “scompaiono” e le famiglie li cercano invano: è un problema “fisiologico” anche nei paesi democratici più avanzati. All’avvicinarsi delle elezioni, ricordino che i dipendenti statali meritano un vistoso aumento di stipendio, e persuadano gli imprenditori ad aumentare un poco quelli dei lavoratori. Non dimentichino di concedere ai principali movimenti religiosi quello che vogliono, anche se non è proprio del tutto costituzionale, e nominino una buona commissione elettorale che vigili notte e giorno sull’imparzialità. Riconoscendo l’importanza dei mezzi di comunicazione sociale, li aiutino a propagare notizie veritiere, punendo con il carcere i giornalisti  che diffondessero notizie false,

deformando la realtà o caricaturando chi – al governo – si sta prodigando per il bene di tutti. Proteggano i membri delle forze dell’ordine se persone coinvolte nella droga, o nella politica, dopo essere scomparse, o dopo un arresto, rimangono vittime di “fuoco incrociato” e muoiono: sono cose che capitano.

Si fissi poi la data, concedendo un tempo non troppo lungo per la campagna elettorale, per non  dare spazio a disordini e illegalità. Dovendo aumentare la vigilanza, ricordino che aumenta anche l’impegno delle forze dell’ordine, per questo accolgano con gratitudine i giovani di buona volontà che vogliono venire in loro aiuto. Come? Per esempio, se ci sono assembramenti di folla dove si odono discorsi non rispondenti al vero, i giovani intervengano e con bastoni, mazze, spranghe, machete e altri strumenti persuasivi, e facciano capire ai presenti che stanno commettendo un errore e che se ne devono andare. Poi li denuncino per violenza sediziosa. Se certi paesi esteri, maestri del dubbio, volessero mandare “osservatori internazionali”; niente in contrario, anzi! Purtroppo però, c’è poco tempo per espletare le pratiche necessarie ad ottenere il visto di ingresso, e solo pochissimi richiedenti potranno entrare nell’immaginario paese di cui parlo. Gli altri? Spiacenti, ma bisognava chiederlo prima.

Intanto, i corpi di polizia, per guadagnare tempo, preparino i rapporti sull’ordine pubblico durante i comizi tenuti dall’opposizione, prima che i comizi stessi avvengano, così potranno subito denunciare le violenze, e arrestare senza indugio i colpevoli. Il fatto che a volte, fra le centinaia di persone denunciate per violenze e altri gravi reati, ci siano anche nomi di individui defunti da anni, paralitici, o all’estero, non ha rilevanza, perchè si tratta di errori su cui si farà un’inchiesta imparziale. Nei comizi del partito al potere, bisogna avvisare gli uditori che potranno avvicinarsi ai seggi solo coloro che voteranno per loro; a questo scopo, nel giorno delle votazioni, persone di buona volontà si dislocheranno nei punti di accesso ai seggi, persuadendo gli aspiranti votanti a far sapere quali intenzioni abbiano, onde evitare che incorrano in gravi errori e – magari – votino male. Nel giorno fatidico, entrati nei seggi, i rappresentanti del partito di potere noteranno che quelli dei partiti opposti non sono venuti. Pur con dispiacere, decideranno comunque di procedere, per non ostacolare il cammino della democrazia. Anzi, per facilitarlo, provvederanno a introdurre nelle apposite cassette un buon numero di schede pre-votate che rimpiazzino la mancata votazione di chi – per malattia o altri validi motivi – non potesse recarsi alle urne. A sua volta, chi ci va verrà gentilmente sollecitato a non perder tempo: si risparmi la fatica di andare in cabina, appoggi la scheda sul tavolo e tracci la croce sul simbolo del partito giusto; in caso fosse incerto, gli osservatori aiutino indicando con il dito dove si debba appoggiare la matita; se occorre, traccino loro stessi la croce: per la democrazia, siano disposti a svolgere anche i servizi più umili. Grazie a tutto ciò, nel giorno delle elezioni si conteranno (dico a caso, per fare un esempio) soltanto poche vittime, 18 morti, e circa 200 feriti.

Così, il popolo esprimerà il buon senso e il patriottismo che ha sempre dimostrato. Agli oppositori andranno 10 seggi, agli altri 288. E questi ultimi potranno dichiarare con fierezza che i risultati dimostrano una verità evidente – anche se era stata malignamente messa in dubbio da alcuni: si è trattato di un trionfo della democrazia!

 

p. Franco Cagnasso