Articoli e lettere - 2010

p. Fabrizio Calegari




2010


Con il cuore altrove


Partito. In pochi istanti mi ritrovo già in mezzo alle nuvole, l'Italia là sotto, il capitano che si presenta e dà il benvenuto a bordo.

Inutile tentare di guardare dal finestrino, per ora, si vede poco o nulla. Così come tentare di dipanare la matassa di sentimenti aggrovigliati nell'anima. Questi ultimi giorni sono stati pieni e faticosi. Salutare tutti, tanto al sud quanto al nord, è stato un autentico stillicidio del cuore.

Partire è un po' morire, dice un vecchio adagio. Com'è vero.

Ieri sera mi sono attardato nel Duomo, dopo la messa vespertina, girando lo sguardo d'intorno, quasi a volerne fare provvista: lo spettacolo del rosone illuminato dall’ultimo sole del giorno, la Madonna dell'Aiuto a cui affidare la mia famiglia, l'altare maggiore, il ricordo della prima Messa, gli amici sacerdoti, la gente della parrocchia, e poi gli anni trascorsi a Foggia. La mente si affollava di volti, di esperienze fatte, di incontri, di attimi.

Trovo assolutamente straordinario che le nostre vite abbiano potuto semplicemente incontrarsi, condividendo insieme i giorni e gli anni, le passioni e le sconfitte, le croci e le gioie. Che bello essere stati insieme. Poteva non accadere, invece il tuo Amore lo ha permesso, Signore, come non esserti grato per avermi raggiunto attraverso l'amore di tanti fratelli?

Mentre i sacristi sprangavano la sacrestia, sentivo crescere un tremendo nodo alla gola che doveva trovare una valvola di sfogo. Don Dino era lì al suo posto, fuori del confessionale.

Giusto così, mica è una vergogna piangere. Non sono un pezzo di sasso: la vocazione ha in sé la grazia per essere vissuta, ma non toglie né fatiche né croci, semmai le presuppone.

Quassù, sulle nuvole - mentre le hostess provvedono finalmente a distribuire noccioline e succo d'arancia - mi viene da sorridere pensando all'obiezione sollevata da un paio di giovani di Foggia prima della partenza: "Se ci vuoi bene davvero - dicevano - non te ne devi andare".

Per me è vero l'esatto contrario. Ognuno deve cercare di vivere in pieno la propria vocazione, la propria volontà di Dio, anche se costa, sapendo che questo è il modo vero di amare gli altri. Altrimenti anche il nostro stare insieme diventa appiccicoso, falso, ingannevole. "Dunque - rispondevo loro - è proprio perché vi voglio bene che parto".

C'è una ragazza italiana, qui di fianco a me, che sta leggendo un libretto: ne sbircio la copertina con la coda dell'occhio. Il titolo è un vero best-seller, ma è anche lo slogan perfetto di una certa filosofia di vita assai diffusa: Va dove ti porta il cuore, ovvero lasciati andare ai sentimenti, cavalca l'emozione, segui l'istinto e l'umore del momento. Un'etica fai-da-te dove i valori scompaiono, regna il soggettivismo, si rinuncia a scegliere e quindi a crescere. Figurarsi fare scelte per tutta la vita.

Quando segui questo cuore nove volte su dieci arrivi ancora a te stesso. Al massimo ti apri a pochi intimi. Una tristezza.

Altra cosa il Vangelo. Basta prendere il capitolo primo di Marco in un passo che a me piace tanto. La gente attende Gesù, aspetta i suoi miracoli, le sue parole, e i discepoli - aspettandosi un suo immediato ritorno tra la folla - lo raggiungono dicendo: "Tutti ti cercano". Ma Gesù li sorprende: "Andiamocene altrove, perché io predichi anche là..." (Mc 1,37-39).

Magnifico questo tratto di Gesù, che nessuna folla può trattenere o dire proprio e che non tollera chiusura, particolarismi, ripiegamenti. Una pagina così è come una boccata d'aria in cima a una vetta. La stessa sensazione di libertà.

"Andiamocene altrove", dovunque il suo Amore ci spinge, su rotte e per terre che sarà Lui a scegliere, perché ogni fratello è una terra non conosciuta che attende il Vangelo. Sapendo che Lui sarà con noi. Il beato Giovanni Mazzucconi - primo martire del PIME in Papua Nuova Guinea - scriveva il giorno prima del suo ultimo viaggio: "Non so cosa Egli mi prepari nel viaggio che comincia domani; so che Egli è buono e mi ama immensamente".

Di fianco a me la ragazza del libro ha terminato di leggere e mi chiede con garbo: "Dove sta andando padre?". Con l'indice le indico un volto di Gesù che tengo nella Bibbia: "Anch'io dove mi porta il cuore. Il Suo".

I tortellini di Puthimari

"A tavola! I tortellini sono quasi pronti! "

Tortellini! Dovrebbe sembrarmi normale questo richiamo, tanto più oggi che è il giorno di Natale e questo tipico piatto italiano sarà presente su molte tavole insieme a mille altri. Invece mi trovo a Puthimari, villaggetto sperduto nel nord-ovest del Bangladesh, e il profumo che si va spandendo nell’aria è qualcosa che si può gustare di rado qui.

"Tortellini? ", dico io stupito, "ma dove sei andato a ..."

Fr. Ettore Caserini, occhietti azzurri e furbissimi, mi guarda con l'aria di chi la sa lunga e mi dice soltanto: "Ehh, bisogna conoscere gli amici giusti. I miei ogni tanto mi fanno di questi regali".

Mi mostra l’ultimo pacchetto arrivato dall’Italia: un pezzo di parmigiano, un panettoncino tutto schiacciato, un pacchetto di caffè e, appunto, i tortellini.

Della piccola missione di Puthimari, che sorge su un terreno donato da un amico indù proprio a questo scopo, Ettore è il fondatore e il responsabile unico, dal momento che il padre viene quasi esclusivamente per Natale e Pasqua.

E’ per questo che mi trovo qui, Ettore ha voluto a tutti i costi che venissi a celebrare la messa per la gente del villaggio, nonostante il mio studio della lingua bengalese sia solo all’inizio. Stamani ho tentato di dire la messa usando un messalino con le parole bengalesi traslitterate in caratteri romani e predicando in perfetto italiano: pochi minuti di omelia tradotti prontamente da Ettore. Ho anche battezzato quattro bambini: in un colpo solo ne ho battezzati di più che in cinque anni in Italia.

"Allora com’è andata questa giornata?" - dice Ettore portando a tavola la pentola fumante e il suo prezioso contenuto - "Secondo me te la sei cavata ..."

"...solo nell’omelia..." - replico immediatamente - "Giusto perché era l’unica parte che non potevano capire. Ma il resto... Avrò fatto un quintale e mezzo di sbagli tra errori di pronuncia, confusione di lettere, inceppamenti tali da sembrare un balbuziente... Sono stati degli eroi a non ridere. Io non ci sarei riuscito. "

"Non metterla giù così dura, è così per tutti all’inizio, cosa credi? Uno arriva qui pensando di fare sfracelli, di essere il Superman della situazione e invece deve accettare di imparare un'altra volta ad esprimersi, a leggere e a scrivere, proprio come un bambino. Occorrono tempi lungi." - dice Ettore riempiendomi il piatto.

I tortellini vanno giù che è un piacere, anche il sugo è stato preparato come si deve, con la lingua ne afferro una goccia che sta scappando via.

"Quello che dici è vero Ettore, ed è una cosa sulla quale non mi sono mai illuso, non ho mai pensato di venire qui a fare né Superman né Batman, solo che non è facile smettere di colpo l’attività pastorale di prima, fatta di cento impegni, incontri, meditazioni da preparare... e improvvisamente dimenticarsi di tutto. Ormai tra lo studio dell’inglese e l’altro periodo di studio in India, è un anno che sono fermo, e un altro dovrà passare prima di cominciare a combinare qualcosa tra la gente. Non so se mi spiego. L’ideale sarebbe avere una lingua che tutti possono parlare e capire..."

"Quella la sai già, e non intendo il bengalese" - mi interrompe Ettore. "Pensaci bene. Oggi non hai forse trascorso tutto il pomeriggio con i bambini? E che lingua parlavi?".

Tiro un sospiro: "Beh, dopo quattro-cinque frasi ero già arrivato al capolinea, completamente arenato, ma tu sai come sono fatti i bambini, non ti danno tregua. E’ bastato giocarci insieme, lasciandomi andare alla loro voglia di ridere e di correre, perché mi si attaccassero addosso come un polipo allo scoglio. Il piccolo Ripon, con la schiena conciata a quel modo, se ne stava appoggiato all’albero senza potersi unire ai nostri giochi. Allora me lo sono scarrozzato al collo per tutto il tempo.

Ci vuole così poco alle volte, non sono mica necessarie tante parole per fare capire a una persona che le vuoi bene".

Ettore approva: "Questo è il punto. Fatto salvo il fatto che il bengalese dovrai comunque studiartelo, non pensi che l’amore sia l’unica vera lingua universale capace di superare qualsiasi barriera? Non credi che anche per questa lingua abbiamo un maestro, il migliore, e una grammatica che ci spiega nei dettagli come impararla e parlarla?

Bada che non sto mica parlando di un facile "volersi bene": il Vangelo è una grammatica seria, impegnativa, non ti basta una vita per imparare cosa voglia dire amare come chiede Gesù. Pensa al comandamento dell’amore reciproco, al perdono, alle Beatitudini ..."

"Hai ragione" - dico rigirando il bicchiere vuoto tra le mani - "In fondo a ben pensarci è anche il motivo per cui sono venuto qui in Bangladesh, imparare questa "lingua" e insegnarla a mia volta, perché tutti, un giorno, possiamo parlarla. Il guaio è che spesso mi pare di saperla peggio del bengalese."

"Cos'è, sei già pentito di essere venuto?" - indaga provocatorio Ettore.

Lo guardo stupito: "Pentito? Dopo solo tre mesi? Dai, non scherzare... E poi guarda: se c'è una cosa che in questo periodo continuo a scoprire come un dono immenso è proprio la partenza.

Intanto perché mi ha fatto comprendere di più che il Vangelo è vero, cioè realizza davvero ciò che dice, se lo vivi, e che la sua bellezza sta anche nella sua radicalità, nel suo chiederti tutto.

Non voglio annoiarti dicendoti cose che sai meglio di me, ma vedi, mi pare di capire che la partenza, nonostante mi sia costata - anzi: forse proprio per questo - ha come dilatato nuovi spazi, lasciandomi intuire orizzonti, in me e attorno a me, fino a questo momento impensati.

Ettore mi versa nel piatto la rimanenza dei tortellini: “So cosa vuoi dire. Succede come quando si lascia la valle per salire in montagna: lo zaino pesa, si suda, magari c’è freddo, si cade. Sulla cima però vedi cose mai viste prima, e se le gusti è solo perché hai lasciato la valle”.

Aggiungo: "Pensa quante cose magnifiche perdiamo solo perché non abbiamo il coraggio di lasciare la valle; pensa a tutti i doni che non riceveremo mai solo perché c'è mancata la fede del primo passo. E pensa a tutto quello che invece ci è stato dato dal giorno in cui ci siamo messi in viaggio".

Ettore tace ma mi fa un cenno di sì col capo.

Rimaniamo seduti attorno alla tavola, la tovaglia cerata con i fiorellini che una volta sarà stata anche nuova, i bicchieri spaiati, i piatti sbeccati, la mortadellina e un pezzo di formaggio locale che mangeremo di secondo, il panettoncino schiacciato per dolce.

Poi mi dice: "A proposito: lo sai? Alla mattina, quando è davvero limpido, da qui si riesce a vedere perfino la catena dell’Himalaya...".

Giovedì Santo

Sono fuori allenamento, non c’è niente da fare. Potrei anche incolpare le biciclette bengalesi, scomode e pesantissime, ma la verità più semplice è che non pedalavo da secoli, le gambe rigide e i muscoli induriti ne sono un segno inequivocabile. Quando arriviamo al villaggio scendo senza grossi rimpianti da sella: abbiamo coperto in circa un’ora la breve distanza che ci separa dalla missione di Marianpur, e dunque c’è ancora tempo abbondante prima della Messa, prevista per le sei.

Mi stupisce però il fatto che nessuno sia qui a darci il benvenuto. Dominic, il seminarista che mi accompagna, mi propone di visitare nel frattempo alcune famiglie. Mi sembra una buona idea, e ci avviamo dentro i cortili delle case in fango, molte ancora in costruzione o in rifinitura, perché questo è il tempo giusto per farlo, quello che precede di poco la stagione delle piogge, poi sarà impossibile a causa dell’acqua abbondante.

Ma a mano a mano passiamo in rassegna le case ci rendiamo conto che quasi nessuno - eccetto pochi bambini e qualche donna - è presente nel villaggio: "Saranno ancora nei campi a lavorare", azzarda Dominic che conosce certo meglio di me le abitudini e i costumi locali, anche se ci tiene a precisare che lui è bengalese, e qui invece siamo tra i Santal, una delle molte etnie sparse sul territorio nazionale e la più diffusa nella diocesi di Dinajpur.

E’ bello notare i diversi livelli di costruzione di queste case che, una volta completate, non soltanto sono molto ben fatte, con decorazioni e rifiniture, ma sono anche in grado di resistere molti anni prima di essere ricostruite. I Santal sono particolarmente abili e capaci in questa tecnica, come mi dimostra anche una bambina che con le mani sta decorando la base del muro esterno.

La guardo attentamente mentre con le manine passa e ripassa sulle pareti lisce questo color grigio ricavato usando cenere diluita nell’acqua. Lei rimane serissima, concentrata nel suo lavoro e non mi degna di uno sguardo, ma passandole accanto vedo che alla fine mi segue con l’ultima fessura dell’occhio. E ride.

Quando la gente comincia ad arrivare alla spicciolata dai campi, sono ormai le sette e si è fatto già buio. Tutti vengono a salutarmi secondo la loro usanza: le donne si piegano fino a terra e gli uomini chinano il capo. Tutti chiedono la benedizione del padre, eccetto le persone anziane alle quali sono io a doverla chiedere, in quanto più giovane.

Ci fanno sedere sulle sedie migliori che hanno, e dopo poco si avvicina una donna che si inginocchia davanti a me. Nelle mani stringe una brocca e un piatto, entrambi in ottone lavorato. Chiedo a Dominic: "E adesso, cosa succede ?". "Ti lavano i piedi", dice lui ridendo divertito. "Questa è una tipica usanza tribale di benvenuto per gli ospiti ".

La donna, infatti, è già passata all’opera prendendomi il piede destro e versando acqua fino al ginocchio, mentre nel piatto si raccolgono lo sporco e la terra accumulati nel viaggio. Poi, prima di asciugarmi con uno straccio, si versa nel palmo delle mani un poco d’olio e comincia a spalmarlo sulla gamba e sul piede. Io non riesco a nascondere un filo di disagio, con tutta la gente attorno che guarda me e che mi pone le solite domande di rito: qual è il mio paese, quanti fratelli e sorelle ho e che lavoro fanno, dove vivono i miei genitori... Tento di dire qualcosa ma in realtà la mia attenzione è presa tutta dal gesto della donna, che si sta rialzando per andare da Dominic. Lo trovo un gesto bellissimo, pieno di calore e accoglienza: oggi è il Giovedì Santo, e tra poco toccherà a me fare lo stesso durante l’Eucarestia, ripetendo un atto d’amore compiuto da Gesù una sera di duemila anni fa. La cappella, anch’essa in fango, è stipata di persone che guardano me e Dominic mentre prepariamo l’altare alla fioca luce delle lampade a petrolio, un piccolo calice e le ampolline, un vasetto di fiori di campo, i moccoli di candela che già versano il liquido da un lato. Ho cercato di prepararmi come meglio potevo, ma la concentrazione svanisce presto, perché in pochi minuti, attirata dalle lampade, arriva una nuvola di insetti che iniziano a riempire l’altare. Fosse solo quello. Queste care bestiole hanno la poco felice idea di cominciare a camminare sotto i paramenti e perfino sotto i miei vestiti. Li sento arrivare dappertutto e cerco come posso di arrestarne la marcia senza interrompere anche la Messa: mi ritrovo in un lago di sudore. Dominic, che subisce la mia stessa sorte, legge le letture mentre fuori comincia a piovere, si sente il picchiettio insistente delle gocce sulle lamiere del tetto e l’odore buono della terra bagnata. La gente si stringe, cantiamo.

Quando passo tra gli uomini per la lavanda dei piedi a stento riesco a trovare lo spazio per inginocchiarmi e lavare. Non posso fare a meno di pensare a quando, chierichetto nel Duomo di Monza, seguivo con la brocca don Dino, i bambini tutti carini e pettinati, le scarpe lucide da togliere insieme al calzino fresco di bucato. Qui l’afrore che si respira non è certo quello di un bagno appena fatto, ma questa gente mi ricorda molto di più i pescatori di Galilea, spiazzati quella sera a cena, da un gesto imprevedibile di Gesù. Capisco molto di più, ora, la riluttanza di Pietro, il suo sconcerto nel vedere compiere dal Maestro un’azione che toccava ai servi e agli schiavi: "Sapete ciò che vi ho fatto?". Cosa vuoi dirci Signore con questo gesto? Cosa significa lavarci i piedi gli uni gli altri?

Terminata la Messa c’è ancora spazio per qualche parola di ringraziamento della gente, felice di aver potuto celebrare il Giovedì Santo nel villaggio. Io e Dominic raccogliamo le nostre bici e salutiamo, ma veniamo scortati da un gruppetto di uomini e giovani per un buon tratto di strada, perché temono, data l’ora tarda, che qualche balordo possa darci dei fastidi. Non usiamo neppure le torce, bastano pochi minuti e ci si abitua ad indovinare il sentiero, proprio lì davanti a noi. Adesso - dopo la pioggia - il cielo è di una bellezza incantevole, si vede che qualche angelo addetto agli effetti speciali vuole fare le cose in grande stasera, manca giusto la cometa, ma non me la sento di protestare. Tutti con il naso in su in questi mesi di cometa: ma pensa se anche le costellazioni apparissero una sola volta ogni mille anni, pensa che avvenimento strepitoso sarebbe. Invece siccome sono lassù ogni notte gli diamo a stento un’occhiata.

Improvvisamente qualcosa attraversa la strada, forse un piccolo animale. Metto istintivamente la mano nella borsa a tracolla per prendere la torcia e fare luce, e tocco con le dita la scatola di metallo nella quale ho riposto l’Eucarestia avanzata da riportare in missione: Gesù qui, con noi, sul sentiero. Mi pare di risentirlo: "Sapete ciò che vi ho fatto?".

Come potremmo comprenderlo davvero Gesù? In una sola volta con i discepoli hai inventato l’Eucarestia, il sacerdozio e la lavanda dei piedi. Come possiamo tenere il passo? Come lo posso io, che sperimento solo il miracolo delle mie mani vuote che continuamente donano ciò che non hanno, e ricevono assai più di quel che riescano a dare? Se posso ancora tentare di venirti dietro Signore - un passo dopo l’altro nonostante gli scivoloni, la stupidità, i torpori, i calcoli - è solo perché non smetti di lavarmi i piedi, solo perché continui a farti pane per i nostri giorni. Hai lavato i piedi ai discepoli per mostrarci che Dio è amore che serve, amore che non teme di perdere faccia, posizione, potere. Lo hai fatto per dirci che amare si può, a immagine del nostro Padre celeste.

Gli uomini ora ci lasciano, possiamo continuare tranquilli. Dominic ed io salutiamo di nuovo e balziamo sulle selle, una mano sul manubrio, l’altra che tiene la torcia, Marianpur di qui a poco.

Pedaliamo nella notte in equilibrio precario, viandanti con la vocazione alle stelle del cielo, le gambe che non rispondono e il Creatore nella bisaccia.

Pane e giacinti

Che ore saranno? Ho lasciato a casa l’orologio e adesso per regolarmi mi tocca chiedere a qualcuno per strada. In fondo però non è necessario, tanto devo lo stesso aspettare che faccia buio, non voglio ritrovarmi circondato da curiosi che osservano questo bideshi[1] che parla con i bambini. Non mi sento più libero, mi irritano in modo terribile tutte queste facce che mi osservano come fossi un marziano, ma so che è uno dei prezzi da pagare restando in Bangladesh. Con il favore del buio invece sarà più facile evitare i curiosi e stare con i miei piccoli amici.

Da quando, quasi per caso, ho cominciato a frequentarli, per me sono stati una vera benedizione, non solo perché mi hanno dato modo di praticare la lingua, ma anche perché ho potuto conoscere un poco da vicino la loro vita. Anche adesso che non vivo più in capitale e che di bambini ne ho un mucchio in missione, ogni volta che torno devo fare tappa fissa qui da loro.



[1] Straniero, in bengalese.


Non è stato difficile restarne coinvolto, perché la loro furbizia, l’intelligenza sveglia e i modi accattivanti mi hanno subito conquistato, senza nessuna fatica. Ho ceduto prima ancora di tentare di resistere, anche se non sono bambini facili, talvolta sono prepotenti e arroganti. Conoscendoli passa subito tutta la poesia, quella un po' mielosa e retorica che talvolta infarcisce i commenti su di loro, quella che li vuole sempre tutti carini e incapaci di cattiveria. D'altra parte, penso, si hanno anche tutti i motivi per esserlo, quando si cresce sulla strada.

Cammino rapidamente verso il semaforo del grosso incrocio, dove in genere a quest’ora so che posso trovarli mentre cercano di vendere fiori ai passanti. Li guardo da lontano, riparato dal buio e da un albero. Appena scatta il rosso e le macchine si fermano, la piccola banda si scaraventa sulla strada con il suo carico di fiori, le solite collane di corolle bianche, le solite rose quasi completamente appassite, alle quali qualche goccia d’acqua versata sopra dovrebbe riportare una parvenza di freschezza.

La tecnica di abbordaggio è collaudata: sfoderano il loro sguardo pietoso migliore, ti chiamano con una voce lamentosa e ti accarezzano il braccio tenendo i loro occhi implacabilmente sui tuoi. Per un occidentale che si trova davanti uno di loro è difficile andare via senza mettere mano al portafoglio: si sentirebbe un mostro con un pezzo di ghisa al posto del cuore. Li guardo mentre si destreggiano tra le auto ancora in corsa (quante volte ancora riusciranno ad evitarle prima di restarne vittime?), mentre rimangono pochi attimi ad attendere sullo spartitraffico e respirano per ore il fumo nero e denso che scaricano in quantità impressionante centinaia di baby-taxy.[1] Forse peggio che essere investiti. Quanti saranno qui a Dhaka a fare questa vita? Quanti vivono di espedienti raccogliendo carta, ferro, vetro, tutto quello che potranno poi rivendere, o rubano, o si prostituiscono?

Capiterà anche qui come a Manila, come a Bangkok, dove ci sono alberghi specializzati per i turisti stranieri, italiani in prima fila, che vogliono soddisfare con i bambini le loro voglie perverse? O capita già? Quanti per una paga da fame lavorano fino a quindici ore nelle fabbriche di indumenti che vestiranno la gente dei nostri paesi? Quelli che conosco io almeno hanno tutti una famiglia, e diversi vanno a scuola. E’ già molto, penso. Ma vivono in abitazioni che mi guardo bene dal chiamare case, un tetto di lamiera e quattro pareti di bambù, costruite una sull’altra, sulle sponde di pukur[2] dall’acqua fetida dove tutti scaricano di tutto.

Mentre li guardo mi assale la voglia di andarmene. Siamo così diversi e le nostre vite così distanti! Se anche qualche volta si sfiorano poi cosa cambia?

Mi torna in mente una volta in India. In una casa delle suore di madre Teresa lessi su una parete una frase che mi piacque molto: "Se hai due pezzi di pane | danne uno ai poveri | vendi l'altro e compra giacinti | per nutrirti l'anima". Che è come dire: nutriti di amore e bellezza, due vie sicure attraverso le quali si può intravedere chi è Dio e afferrarne anche solo un barlume. E poche cose mi dicono la bellezza di Dio come i bambini, questi bambini, un incanto che stride con lo squallore nel quale sono immersi. Amore e bellezza, pane e giacinti, due cibi di cui il cuore ha sempre e insaziabilmente bisogno. Una macchina mi passa di fianco a clacson spiegato. Senza accorgermi mi sono fermato in mezzo al passaggio in una stradina laterale, preso dai pensieri. Cosa faccio, me ne vado?

Troppo tardi: Babu mi scorge dal marciapiede e grida agli altri che sono qui. Piantano tutto a corrono senza neppure guardare se arrivano macchine, circondandomi in pochi secondi e coprendomi di saluti e di grida. Giusto quello che ci voleva per passare inosservato... Propongo di andare a sederci un poco distante, in un posto meno disturbato. Là potremo chiacchierare con calma.

Shiuly, una bambina di sette o otto anni, sgrana due occhi e un sorriso contagioso: "Dove sei stato tutto questo tempo?", chiede con foga.

"A Dinajpur, lo sai che abito là adesso! Sto ancora imparando la vostra lingua. Altrimenti come faccio a parlare con voi?".

"Cosa ci hai portato oggi?", mi chiede il piccolo Anarosh palpando il fondo del mio zainetto: veste ancora - e con molta più classe di Pelè - una maglietta del Brasile con il numero 10 sulla schiena che gli diedi una volta.

"Poi ti faccio vedere, prima ditemi come state". Mi rispondono con un coro di "Bhalo!"[3], ma io so che non è vero. Mi basta guardare negli occhi lucidi di febbre un paio di loro per capire che sono ammalati. "Da quanti giorni hai la febbre?", chiedo a Lacky, una delle bambine più grandi. Mi guarda passandosi una mano nei capelli sporchi e arruffati, raccolti con un nastrino di cui non si intuisce più il colore: "Da tre giorni. Piove in casa e di notte ci bagniamo."

Dipty indossa un vestitino che starebbe in piedi da solo tanto è lurido. Mi racconta che casa sua è crollata, l'acqua ha divelto a poco a poco i bambù che sostenevano il tetto in lamiera, ed è venuto giù tutto. Hanno trovato riparo da un'altra famiglia, già numerosa, intanto che rimettono in sesto quel che rimane. Sul piede di Biplop vedo delle croste che non mi piacciono. Gli chiedo cosa è successo. "Idur!", mi risponde. Topi.

Apro lo zaino e distribuisco un po' di vitamine, qualche medicina, disinfetto il piede di Biplop. Poi implacabile, Anarosh torna alla carica: "Allora, cosa ci hai portato? Sapone?".



[1] Mezzo di trasporto popolare e assai diffuso. Si tratta di un comune Ape cabinato e adibito a trasporto passeggeri.

[2] Piccoli o grandi bacini d’acqua scavati nel terreno, a formare degli stagni che servono da riserva idrica durante l’anno.

[3] “Bene!”

Piccola peste. Ha già capito. E' uno spettacolo vederli mentre do via il sapone. Lo annusano, lo passano ancora incartato sulla faccia, farebbero un bagno subito, se potessero.

Dipty mi prende un braccio e mi regala una piccola collana di giacinti bianchi. Non posso rifiutare, anche se vorrei. Fin da subito venendo qui, ho capito di non essere stato io a comprare fiori da loro, ma loro a comprare me.

"Perché ci dai queste cose?", mi chiede Shiuly con un filo di voce.

Rimango di sasso. Non so cosa rispondere. O meglio, la risposta c'è ma non so come dirla. Quanto sono distanti le nostre vite, la mia e quella di questi bambini musulmani. Se anche qualche volta si incrociano, poi cosa cambia? Forse io.

Tiro un respiro profondo: "Secondo te perché lo faccio?". Mi fissa di traverso, come per leggermi dentro. Poi sul viso le si disegna un sorriso dolcissimo: "Perché sei il nostro fratello maggiore" - dice. Vorrei sparire per la vergogna, ma se ci penso è vero: abbiamo tutti dei fratelli minori che ci sono affidati da amare e custodire. E anche questo fa della vita un dono straordinario.

Provo a spostare lo sguardo altrove, imbarazzato, ma Shiuly continua a fissarmi, gli occhi neri che le brillano come due stelle nella notte.

Fra terra e cielo

E' una bella giornata di vento. Marcus tiene il rocchetto di filo con una destrezza tale che pare non aver fatto altro in vita sua. L'aquilone che manovra stretto nelle mani è filato alto alto nel fitto del cielo, evitando l'intrico insidioso dei rami sottostanti. Non avrà che sette anni questo bambino della tribù dei santal, ma lo osservo come si osserva un maestro, io che a trentacinque ancora non so come si governano questi gioielli, costruiti con niente, leggerissimi e arditi. E, a dirla tutta, mi pare proprio una gran scuola.

Seguo con lo sguardo i volteggi e le acrobazie degli aquiloni che anche altri bambini stanno pilotando, ma il pensiero scappa altrove, oltre le chiome degli alberi. Tra poco più di un mese Giorgio e Ugo diventeranno preti ed io non sto nella pelle per la contentezza. Dico: proprio loro due - così diversi ma con la stessa chiamata - verranno a dirci, tra le navate del Duomo e le ali di folla, che non c'é tesoro più prezioso di quello che hanno trovato. Tanto che ci scommettono la vita. Chi l'ha detto che non ci sono più buone notizie?

Ricordo i "sospetti" che mi diedero già nell'anno in cui feci catechismo alla loro classe: le conferme, almeno a me, erano poi arrivate. Difficile non accorgersi dei segni della chiamata. Non che fossero migliori degli altri: forse solo più disponibili al lavoro dello Spirito. In questi anni credo che non sia passato giorno senza che li ricordassi al Signore nella preghiera, tanto era la trepidazione con cui li seguivo, sia pure a distanza. Adesso che il momento è arrivato sento che il cuore non riesce a contenere la gioia e l'affetto, anche se so che non potrò godere quel giorno con loro. Per me è un dolore vero non esserci, ma ogni vocazione ha le sue gioie e le sue fatiche, e bisogna essere pronti ad accogliere tanto le une quanto le altre come doni del Signore, per quanto questo a volte non sia facile. Sono certo che Giorgio e Ugo capiranno.

A loro vorrei dire un grande grazie per ciò che stanno per compiere, per il dono che fanno di se stessi alla Chiesa e perché inevitabilmente la loro scelta mi ricorda la mia e le ragioni che la fanno vivere. Mi ridicono lo stupore di scoprirsi amati gratuitamente e scelti: perché loro due, perché io, e altri no? Un giorno di pochi anni fa, durante un pellegrinaggio in Terra Santa, in un afoso pomeriggio di luglio, mi sono ritrovato a camminare sulla riva del lago di Tiberiade, la brezza che arrivava leggera, gli occhi che come oggi cercavano risposte scrutando l'orizzonte. Come sarà stata la voce di Gesù? E chi era Lui, che raggiungeva anche me, duemila anni dopo aver chiamato i primi discepoli? Ricordo che il cuore fu sopraffatto ancora una volta dal mistero, ma anche da una profonda, indicibile gioia. Capivo - magari solo un poco, forse solo intuivo - che la voce di Gesù la conoscevo, che non mi ero abbagliato seguendola, e che non avrei potuto

confonderla con un'altra perché nessuna mi aveva mai raggiunto tanto in profondità, dandomi la certezza di essere amato. Percepivo che la bellezza di Gesù e della sua proposta erano senza rivali e mi bastavano. Credo che il fascino della chiamata stia soprattutto qui, nell'essere segno della bellezza stessa di Dio. Per anni si è insistito sulle vocazioni presentandone l'utilità, il servizio, l'importanza, e dimenticando che il primo bisogno dell'uomo è incontrare Dio. Sono sempre più convinto che la forza di attrazione di una vocazione sta nella sua capacità di essere segno della bellezza e dell'amore di Dio. Questo saranno Giorgio e Ugo per la gente, per ogni uomo che nel cuore porta il bisogno di incontrarlo pur senza saperlo.

"Tieni, prova anche tu adesso", mi dice Marcus con un tono che non ammette obiezioni, piantandomi il rocchetto del filo nelle mani. L'aquilone è su che volteggia superbo, lo sento che tira mentre tendo il filo per governarlo. Mi dà un brivido vederlo piroettare nel cielo, un'acrobazia dopo l'altra, oppure immobile, stretto nella corrente d'aria. Caspita che bello! Da quanto non mi divertivo così? D'un tratto però ne perdo il controllo e lo vedo precipitare in picchiata dietro il fogliame degli alberi. "L'abbiamo perso!", dico a Marcus con un gesto di stizza per non essermi dimostrato all'altezza. Lui non si scompone, mi guarda con una faccia furba e indulgente insieme, mentre tira a poco a poco il filo di cotone senza spezzarlo. E' questione di pochi secondi e il lavorìo del mio piccolo amico dà i suoi frutti: l'aquilone rispunta prepotente dalle chiome verdi e schizza di nuovo nel blu tra le urla di gioia dei bambini.

Un po' così anche noi preti, sospesi fra terra e cielo, la nostra umanità fragile come un filo, la grazia di Dio che ci salva per vento, i piccoli a farci da scuola. Come si fa a rimanere su in alto, a volare? Come si può fissare l'animo in cielo, nel soprannaturale, restando ancorati a terra, senza rimanere intrappolati nei rami della mentalità solo umana, senza precipitare?

Qualcuno dice che se si guardasse sempre il cielo finiremmo per avere le ali. Forse è vero. Eppure non so, se avessi una risposta sicura non mi troverei così spesso ad arrancare a bassa quota. Ma più passa il tempo più mi sembra che tutto si unifichi semplicemente nel riscegliere oggi, adesso, il Signore Gesù come l'unico mio bene, come l'unica perla preziosa. Non si sceglie di "fare i preti", ma di essere altri Gesù, di avere il suo stesso cuore, di amare come amerebbe Lui al mio posto, di pregare come pregherebbe Lui, di pagare come pagherebbe Lui se fosse qui.

Trovo verissimo quello che una volta madre Teresa disse alle sue suore: “La nostra vocazione non è servire i più poveri dei poveri, la nostra vocazione è appartenere a Cristo”. L'equivoco terribile per noi, a volte, sta proprio nel credere di aver scelto Cristo quando invece si è solo scelto un ruolo. La differenza è enorme e drammatica. Ma la responsabilità non è solo del prete, è anche della comunità. Una comunità troppo ripiegata su di sé, o troppo chiusa su progetti pastorali angusti e senza respiro, non lascia spazio ai doni dello Spirito.

Guardo il contrasto delle piccole mani di Marcus che guidano le mie, enormi, in questa lezione di volo, e penso a un gesto che vorrei tanto fare a Giorgio e Ugo se fossi lì con loro: lo stesso che anch'io ho ricevuto nei giorni successivi all'Ordinazione e che mi che aveva imbarazzato tremendamente, quando la gente veniva da me e mi baciava le palme delle mani, unte con il Crisma. Lo farò, anche se tornerò fra un anno. Sarà come riconoscere in loro non solo gli uomini che avevo lasciato ragazzi, ma la presenza stessa di Dio che li ha cambiati.

Il rocchetto del filo scorre veloce, l'aquilone reclama nuove salite. "Fallo salire, fallo salire!"- mi incita Marcus - "Il vento lo porterà in alto!".

Volate ad alta quota, amici miei. Il Cielo è vostro.

Complice la notte

Sono sveglio da un pezzo. A dire il vero la sensazione è di non essermi addormentato mai, tanto è stato il travaglio. Mi ritrovo in un mare di sudore, le lenzuola e il cuscino bagnati che sanno di muffa, le finestre spalancate dalle quali non arriva nemmeno un alito d’aria, il ventilatore sul soffitto che pare girare per nessuno. Si ha un bel dire che: “Il letto è una rosa, se non si dorme si riposa”. Chi ha inventato questo proverbio non è certo nato da queste parti. Decido di alzarmi e di proposito non guardo l’orologio, non voglio scoprire che manca ancora troppo prima del mattino. Ci si alza sfiniti dopo notti come questa, più stanchi di quando ci si è coricati, solo con la voglia di una doccia fresca e di farla finita con il letto. I vecchi missionari dicevano che durante il borshakal [1] l’unico programma è cercare di sopravvivere: un’osservazione realistica e piena di buon senso.

Afferro la bottiglia di plastica e scolo l’acqua selvaggiamente fino all’ultima goccia, mentre guardo fuori dalla finestra nel cortile della missione, illuminato pallidamente qui e lì da deboli lampadine.


[1] Stagione delle piogge.

Se almeno piovesse. Sembra tutto immobile in queste interminabili notti tropicali, quando il monsone torna con il caldo umido soffocante e il cielo si prepara alla pioggia: ferme le grandi foglie delle palme, fermi noi che al minimo movimento grondiamo sudore.

Accade così che, complice la notte – sempre provvida nell’assecondare la fantasia e il ricordo – il pensiero vada spontaneo ai miei amici con i quali sono stato in seminario, e che adesso sono sparsi ai quattro angoli del mondo. Come stanno e cosa staranno facendo?

Mi basta valicare il cancello con lo sguardo e sono già in loro compagnia: Alfredo, nell’incanto della Papua e Franco tra le ferite della Cambogia, Maurizio e Claudio in Thailandia, Castro e Natale in Brasile, uno sui barconi del Rio, l’altro al sud, Hisa e Pietropaolo che si ritrovano nella metropoli di Hong Kong, Arnaldo e Marco in Giappone, Davide in Guinea Bissau dopo la guerra e Mauro che da laggiù si è ritrovato improvvisamente in Italia, due ruote al posto delle gambe, la vita che cambia. Luca e Francesco qui con me in Bangladesh.

Ma l’elenco è ancora più lungo. Con alcuni si è fratelli sul serio, abbiamo passato anni davvero belli, pieni di passione e di desiderio, cercando di comprendere – la trama della vita in controluce – se non fosse davvero per noi, per me, la voce e la proposta di Cristo. Poi ci hanno spedito dovunque, e lo sa il cielo se eravamo pronti, ammesso che lo si possa essere davvero una volta e per sempre per un compito del genere.

Chi ce l’ha fatto fare? Voglio dire: la lingua nuova, la cultura diversa, la gente, l’assedio dei poveri, il caldo, il cibo, le latrine improvvisate, il fango, le malattie, tante volte la solitudine, straniero sempre. Una bella scommessa. Penso anche con un po’ di fastidio al luogo comune che molte volte ho sentito tra i preti italiani, quando sostengono che ormai è più difficile per loro in Italia che per noi in missione. Io non faccio classifiche, sempre così antipatiche, mi limito a costatare la stoltezza dell’osservazione. Perché riuscire ad inserirsi in una missione non è scontato, è una grazia. Qualcuno ci riesce subito, qualcuno poi, ma è comunque sempre un cammino di anni. Qualcuno non ci riesce affatto e magari mentirà a se stesso pur di non ammetterlo, come se fosse una colpa.

Nessuno di noi sapeva con precisione, nessuno poteva immaginare cosa sarebbe stato. Sì, se ne parlava, si ascoltavano le testimonianze di chi tornava, ma la realtà era talmente lontana da non poterla colorare nemmeno nei sogni. Eppure – fede o follia? – ci siamo fidati. E se lo abbiamo fatto è perché sapevamo di poterci fidare: se si lascia tutto è perché si è trovato qualcosa di più, Qualcuno. Solo l’aver trovato dà pienezza di senso al partire, al lasciare. Senza questa esperienza – quella di sentirsi amati in modo unico e personale da Dio – presto o tardi uno si sentirà come ingannato e sarà tentato di presentare il conto al Signore. O alla comunità.

Mi piace molto e mi affascina questo tratto della nostra vocazione, che racchiude la sua bellezza tutta o quasi in questo consegnarsi al Signore Gesù partendo, nel mettere in stato di precarietà la propria esistenza affidando a Lui tutto, la vita, il futuro, la nuova gente e la nuova terra.

Avessimo scelto noi dove andare avremmo consultato di certo i cataloghi delle agenzie di viaggio: venite da noi, paesaggi mozzafiato, spiagge bianchissime, le spume delle onde, la vertigine delle cime, piscina-e-massaggi-tutto-compreso. Invece no. L’essere qui semplicemente perché mi ci ha portato Lui, non perché l’ho scelto io, a me pare bellissimo.

Qualche giorno fa mi trovavo a dormire in un villaggio santal, casa di fango, un tavolaccio per letto – quello del ragazzo più grande che per far posto a me avrebbe dormito con altri due fratelli – il lume a petrolio al minimo per durare tutta la notte.

E pensavo esattamente a questo: non potrei trovarmi in un posto più diverso da quel che sono io per cultura e storia, cosa faccio qui? Cosa ho a che spartire con questa gente? Piano piano, ma distintamente, ho avvertito crescere una gioia particolare, quella che coincide con il sentirsi liberi semplicemente perché a disposizione del Vangelo. Sono solo un operaio della vigna e non potrei essere altrove che qui. Qui perché con Lui. Questo non solo mi basta, di più: è il meglio che io possa sperare.

Nella cappa soffocante di caldo risuona il gracchiare di un altoparlante e dentro la voce nasale del muezzin che proclama, anche stamattina, che non c’è altro Dio se non il Clemente e Misericordioso Allah. Tento di unirmi anch’io alla preghiera, tra pochissimo ormai farà giorno: “Grazie Signore per tutti questi amici con i quali ho fatto un pezzo di strada. Abbiamo riso così tanto insieme. Tienici per mano e tienici desto nel cuore il desiderio di Te. Ciascuno di noi, non importa a quale latitudine e sotto quale cielo, sta dando quello che può, lo sai, forse perfino il meglio che può. Ma non siamo gli eroi che molti pensano, non almeno la maggioranza di noi. Certo non io. Farfugliamo risposte, mercanteggiamo, andiamo avanti per tentativi. Siamo solo piccoli attori di una storia più grande, più della nostra personale, che pure resta decisiva e immensa. Quante cose belle ci hai fatto vedere! Aiutaci a non smarrire in ciò che facciamo la fede e la poesia, il necessario per vivere.”

Dalla finestra aperta arriva improvvisa una folata di vento che mi sorprende. Tra poco, forse, incomincerà a piovere.

La leva calcistica del 1964

La moto che mi riporta in missione è una Honda 80, poca cosa in effetti, in genere sufficiente per le visite nei villaggi, ma oggi vorrei che fosse più potente. Vado di fretta. E’ il giorno della finale e i bambini staranno aspettandomi in fibrillazione. Infatti, appena varco il cancello sono lì tutti ad attendermi eccitatissimi. Li capisco, vorrei essere al loro posto e non soltanto fare l’arbitro e l’allenatore di entrambe le squadre. So che è una cosa strana, ma i bambini si fidano lo stesso, sanno che non parteggerò per nessuno in particolare.

Le finaliste sono le classi quarta B e quinta A: i bambini arrivano tutti dai nostri villaggi, ma vivono nell’ostello della missione per gran parte dell’anno, così da poter frequentare la scuola. Quest’anno con noi sono più di trecento.

La giornata è calda, il pubblico quello delle grandi occasioni. La partita comincia tra le grida dei bambini che tifano a squarciagola, qualcuno si è anche costruito una bandierina di carta con i colori nazionali, cerchio rosso su campo verde: il sole al tramonto sui campi di riso.

I giocatori indossano quello che possono, i vestiti di tutti i giorni o anche a torso nudo. Niente divise e niente colori, ma entusiasmo tanto: questa è la loro maglia.

Trotterello sul campo con il fischietto in mano, sbraitando allo stesso tempo i suggerimenti che ritengo necessari per gli uni o per gli altri: prima della gara ho fissato le posizioni in campo e le marcature, e adesso mi affanno a farle rispettare.

Dopo dieci minuti la quinta passa in vantaggio. Luis ruba palla al centro e corre verso l’area dove salta due avversari e serve Martin, rimasto liberissimo: tiro e gol. Per forza: “Difesa disposta a presepe”, avrebbe detto Brera.

I bambini di quarta non si smarriscono e cominciano a macinare gioco. Ma là davanti Shunil, per quanto grande e grosso, non riesce a concretizzare. Troppo lento. Alla mezz’ora calcio d’angolo per la quarta. Urlo a Shunil - che ne ha appena sbagliati due - di portarsi in mezzo all’area e cercare il colpo di testa. Dalla bandierina Noni scodella al centro un pallone perfetto. Shunil lo inzucca bene e pareggia. Poi al colmo della gioia mi corre incontro, mi prende la mano e la bacia, come usano fare qui: “Dhonnobad father!”, mi dice, “Grazie padre!”. Mi sento a disagio per tutta questa festa, forse pensa che sia un mago e che l’avessi previsto, invece non sono Herrera, ho solo suggerito la cosa più logica.

Personalmente reputo la quarta B favorita per la vittoria. Nonostante siano più piccoli hanno elementi con maggior classe. Prendi Liton per esempio. Si muove a centrocampo come poche volte ho visto fare da bambini della sua età: vede il gioco e lo sa dirigere, solo che ha delle ossa da passerotto, avrebbe bisogno di qualche kg. di muscoli in più, ma con quello che mangia... Anche Mathias nella fascia mediana e Pitor in difesa sono davvero bravi.

Verso la fine del primo tempo ecco il capolavoro che non ti aspetti. Fischio un fallo al limite dell’area per la quarta. Shom, portierino modesto, sistema bene la barriera e si piazza in porta sul lato opposto. Liton accarezza la palla, la pone nel punto che gli ho indicato e se ne allontana solo di due passi. Poi, con una naturalezza che mi lascia allibito, spedisce la palla dritta nel “sette”, dietro la barriera. E’ un istante: la rete si gonfia, Shom guarda senza poter fare nulla, Liton è sommerso dai compagni, i bambini a bordo campo esplodono con canti e passi di danza. Partecipo anch’io senza ritegno, e al diavolo l’imparzialità, un gol così si festeggia e basta. Perché la magia e la bellezza del calcio è tutta in questa festa che ci raccoglie insieme d’improvviso e ci fa danzare.

Adesso sono curioso di vedere come andrà a finire. La quinta dalla sua ha una stazza fisica migliore (ma mica poi tanto, anche loro mangiano riso...), e forse una certa dose di furbizia. A loro servirebbe un giocatore decisivo in mezzo al campo. Uno come... Platinì? Matthäus? Baggio? No. Io penso ad un altro. Mi basterebbe Pasquale. Già, Pasquale, e chi se lo scorda? Un giorno di un po’ d’anni fa mi aiutò a realizzare un’impresa davvero incredibile.

*****

Quinta elementare, sezione D. Eravamo in tanti noi del 1964, anno in cui a mio parere si coniugarono nei bambini nati qualità e quantità in modo ineguagliato. Così tanti che la scuola non ci conteneva tutti e si era costretti ad andare ad un distaccamento non lontano.

Il nostro maestro - poca voglia di fare scuola e molta invece di pensione - ci portava nel cortile a giocare e lasciava che la ricreazione si prolungasse molto, oltre il tempo stabilito. Noi non chiedevamo di meglio, avevamo tutto il tempo di fare le squadre e giocare sul campetto dell’oratorio che ospitava il distaccamento.

Il maestro osservava divertito tra una boccata di pipa e una risata, il nostro indaffararci a fare le squadre, perché al solito bisognava accaparrarsi i migliori se si voleva vincere. C’era gente come Claudio per esempio, elegante, un leader naturale, terminava la partita senza nemmeno sporcarsi; Mario, un portierone, nonostante un fisico un po' grassottello; Pasquale, che trotterellava in mezzo al campo e pareva passare di lì per caso, ma sapeva tenere e dare palla come nessuno; Stefano, un po’ più cresciuto degli altri, che sfruttava in attacco altezza e forza fisica. E c’ero anch’io, che ero soprannominato Rocca, come il terzino della Roma, perché sulla fascia ero parecchio veloce. Ma io in testa avevo solo Mazzola con i suoi guizzi, i suoi scatti. L’effetto “Grande Inter” era ancora vivo.

Esattamente come davanti ad un plotone d’esecuzione ci si schierava tutti quanti per facilitare la cernita dei capitani designati - due dei giocatori più bravi - e, come da copione, alla fine restavano quelli più scarsi, i “brocchi”, che dovevano ogni volta subire la mortificante selezione: “Piglialo tu questo!”, “No, questo lo tieni tu, io ho già lui che non è capace...”.

Di questa situazione, un giorno, io non ne potei più. Non so dire come mi venne in mente, so solo che toccava a me il ruolo di capitano e quindi ogni possibilità di scelta.

Decisi di cominciare proprio dai meno bravi e, mentre la squadra avversaria si andava rafforzando in modo massiccio, io raccoglievo il peggio sotto lo sguardo stupito dei miei compagni.

Perdemmo alla grande, è ovvio, ma fu solo l’inizio. Mi ostinavo a pensare che si potesse giocare e possibilmente vincere, partendo dai brocchi. Tanto che proprio così furono chiamate le due squadre: quella dei Bravi e quella dei Brocchi. La mia provocazione - senza avere la consapevolezza che lo fosse - continuò fino a contagiare pure altri e mi riuscì di convincere anche Pasquale sulla giustezza dell’impresa. Ma non era facile. Nessuno si entusiasma a perdere - e succedeva di continuo - anche se qualche segnale incoraggiante c’era stato.

Un giorno però, accadde: si vinse e fu una festa da non immaginarsi. Tra gli altri schieravamo: Diego che aveva problemi di vista; Gianni, così gracile da essere soprannominato “scheletro”, Alfredo che in porta faceva venire i brividi ma fuori era anche peggio, Paolo che le ciccava tutte ma che disorientava gli avversari indicando per terra e gridando: “Ah, la merda!”. Si vinse nonostante Mario mi avesse parato con un balzo super un pallone che stava rotolando proprio nell’angolino più lontano, quando ormai pensavo che non ci sarebbe arrivato più. Il gol decisivo lo fece Diego, ritrovatosi smarcatissimo davanti alla porta grazie ad un assist sontuoso di Pasquale. Allora via ad una girandola di commenti, mentre sudaticci e accaldati si risaliva in classe, il maestro davanti come la locomotiva con gli sbuffi grigi della pipa, e noi dietro, i vagoni. Si vinse, e non fu nemmeno l’unica volta.

Cose belle che lasciano il segno. Mi rimase dentro un gioia limpida, saporosa, scoppiettante come le nostre risate laggiù sul campetto: avrei imparato nel tempo a riconoscerla e a capire da dove veniva.

Dio ha tante strade per dirsi.

*****

Alla premiazione per la vittoria si presentano i bambini della quarta. Hanno vinto per due ad uno, nonostante il secondo tempo arrembante della quinta. Consegno ai vincitori una coppetta così misera che mi vergogno anch’io, ma al mercato non ho trovato altro. In Italia i bambini mi guarderebbero disgustati per una roba del genere, qui invece la festa è totale. A ciascuno di loro consegno anche una scatoletta di matite colorate, e quelli di quinta, mogi, mogi, ritirano una penna biro. Liton, timidissimo, riceve nel tripudio generale la medaglia come miglior giocatore del torneo.

Se mi guardo ora - dopo più di vent’anni, qui a bordo campo in una delle missioni del Bangladesh - mi pare non sia cambiato nulla: sto ancora rincorrendo il sogno di quand’ero bambino. E’ strano, non è vero? Quando si è piccoli il sogno e l’utopia hanno il sopravvento su tutto. Si credono possibili imprese lunari e sembrano realizzabili quelle che a tutta prima paiono solo delle favole. Solo più tardi calcolo e realismo da adulti uccideranno la nostra capacità di sognare e consegneranno i nostri desideri al piccolo cabotaggio quotidiano.

Con i “brocchi” mi ritrovo anche oggi, non per una scelta sociologica o, peggio, ideologica. Ci sto perché Dio ha scelto di stare dalla stessa parte, quella dei poveri, dei peccatori: se un padre ha una predilezione è per i figli più deboli. Ci sto perché credo che l’impresa non sia “l’uomo che è riuscito a farsi da solo”, così di moda, ma l’uomo che donandosi per amore permette ad altri di vivere la loro vita in pienezza. Lo so: è un’utopia, diranno molti.

Forse per questo il Regno dei Cieli, come dice Gesù, è solo dei piccoli.

Lo spazio dell’amore

Carissimo M.,

ti ho ricevuto davvero con gioia. Come vorrei che fossi qui con me e potessimo condividere - come tante volte in passato - le cose belle e quelle faticose della nostra vita, faccia a faccia! Hai ragione a rimproverarmi, è davvero un pezzo che non ti scrivo. Ma eviterò di inventarmi delle scuse. La tua lettera l’ho conservata a lungo qui sulla scrivania, insieme ad altre, pure inevase. Ogni tanto la guardavo e mi sentivo a disagio. Forse anche per la consapevolezza che risponderti richiedeva tempo e qualche riflessione. Non è facile, come mi chiedi, raccontarti di quest’ultimo anno. Non sono uomo di sintesi, lo sai. Ma provo ugualmente a risponderti, anche solo per condividere con te un dono che si sta rivelando, ogni giorno che passa, sempre più inestimabile.

E che forse, da solo, può bastare come risposta.

Ti racconterò dei bambini. Te ne avevo già accennato in precedenza, ma solo per chiederti un aiuto e per dirti che erano tanti: 290 quest’anno, bambine e bambine di un’età che varia dai 6 ai 12 anni circa! Lascia allora che ti porti con me a conoscere il tesoro che ho trovato.

Quando ho lasciato l’Italia, tre anni fa, non avrei immaginato di ritrovarmi in questo tipo di lavoro. Eppure, a ben guardare, la passione educativa l’ho sempre avuta. Qui ne sono stato travolto. Preso nella testa, nel cuore, nelle attenzioni, nelle energie. E’ un lavoro nel quale sto cercando di dare il meglio di me, anche nel pensare, nel creare.

Credimi, potrò forse pentirmi di tante cose, tra quelle che ho fatto qui in missione. Mai del tempo speso per i bambini. E’ certamente più facile tirar su case e chiese, o far produrre i terreni, che educare persone. Abbiamo centinaia di bambini, ragazzi e ragazze che passano gli anni decisivi della loro vita - l’infanzia, l’adolescenza, la prima giovinezza - negli ostelli delle nostre missioni. Noi offriamo loro vitto, alloggio, e un’istruzione scolastica e religiosa. Una cosa magnifica, certo: ricevono quello che la stragrande maggioranza non può e non potrà permettersi mai. Eppure a mio parere si può fare qualcosa di più. Altro, infatti, è istruire una persona, altro è formarla.

Ma per farlo occorre spendere del tempo con loro, e fare in modo che la loro formazione diventi una priorità nel lavoro pastorale che svolgiamo. In questi anni ho visto molti modelli di missionario: il pastore, l’operatore sociale, il dottore, il contadino, il monaco. L’educatore - inteso in questo senso specifico - stento a trovarlo.

Dunque, cosa faccio per loro? Intanto cerco di vivere con loro più che posso. Pur in mezzo alle altre attività della parrocchia, l’essere presente il più possibile lo ritengo fondamentale: pedagogicamente parlando una partita a pallone è importante tanto quanto un momento di preghiera. La teoria secondo la quale più della quantità conta la qualità della presenza, è una gran balla inventata da certi genitori “impegnati” per giustificare le loro assenze colpevoli. I bambini, i ragazzi, devono sapere che ci sei. E devono trovarti quando hanno bisogno.

Le occasioni, poi, possono essere le più diverse. Quelle che la quotidianità mi mette a disposizione e quelle che m’invento io.

Quando studiano, per esempio, mi piace andare nelle loro classi e aiutarli in alcune materie, soprattutto l’inglese. Oppure preparo lezioni di geografia, di scienze, spiegando come funziona un vulcano, raccontando delle balene o di come l’uomo è andato sulla luna. In mancanza di libri specifici mi aiuto con i disegni alla lavagna (sono tornato a disegnare dopo una vita!), e con le bellissime foto che trovo sul “National Geographic”.

Una volta ho fatto vedere il computer e la stampante a quelli di quarta e quinta: una cosa spettacolare. Erano lì che guardavano con gli occhi fuori delle orbite lo schermo e quello che dentro stava succedendo. Con dei caratteri un po’ vistosi ho scritto la parola Bangladesh e sotto ho inserito il disegno di una rosa, poi ho avviato la stampante. Quando hanno visto uscire il foglio con sopra quello che c’era sullo schermo, è scattato l’applauso e non stavano più nella pelle per la contentezza e la sorpresa insieme.

Cerco di stimolare la loro curiosità e il loro interesse, ma la mancanza di materiale didattico “ad hoc” è frustrante. Se penso alle possibilità e ai mezzi che un loro coetaneo ha in Italia, mi si gonfia il fegato come una zampogna per la rabbia: libri, televisione, computer, pennarelli, matite… Da voi ad affogarsi di spese ad ogni anno scolastico (eh sì, perché i quaderni devono essere dei Pokemon, lo zainetto dell’Invicta, l’astuccio dell’Uomo Ragno), e qui a stento i bambini con carta e matita, i quaderni fatti a mano con grandi fogli piegati in quattro e cuciti insieme, i libri scolastici di una carta che non va bene neppure per il cesso e con brutti disegni in bianco e nero, le copertine rivestite con le pagine colorate di “Famiglia Cristiana” che scartiamo noi. Non importa se la lingua è incomprensibile, la speranza è sempre quella di trovare una bella foto, meglio se di un calciatore.

Lo so che i paragoni sono a volte odiosi, ma come faccio a non farli? Dovresti venire a vedere per capire cosa voglio dire. Quando i bambini arrivano da noi, all’inizio del nuovo anno scolastico, ci vengono con tutto quello che hanno, in pratica poco più di quello che indossano. Una cassa di metallo contiene tutto il loro tesoro: un paio di magliette o quel che resta di esse, forse un paio di jeans o di calzoncini, un lunghi[1], una gamcia[2], sapone per il bucato di infima qualità che spesso è anche per il bagno, spazzolino e dentifricio in polvere, un pettine e l’immancabile olio di cocco o di colza per ungere i capelli e il corpo, un sacchetto di muri[3] e magari la gavetta con dentro il tor-carry[4] speciale che la mamma ha preparato apposta per loro, i quaderni e i libri di scuola. A parte, la stuoia di juta arrotolata con una coperta lisa e un cuscino, che sistemano sul letto di assi.


[1] Abito maschile caratteristico del sud-continente indiano. Si tratta di un tubo di stoffa annodato in vita e portato come una gonna, in sostituzione dei pantaloni.

[2] Pezza di cotone grezzo, usato per scopi più svariati: normalmente per asciugarsi dopo il bagno, ma anche come perizoma, o come rete da pesca. A volte, perfino, come passino per il tè.

[3] Riso soffiato.

[4] Tipico condimento del sub-continente indiano. Una sorta di spezzatino molto saporito e piccante, che accompagna il riso bollito senza sale. Lo si prepara con carne, o pesce, o solo verdura, a seconda di quello che la famiglia si può permettere. I modi di cucinarlo differiscono a seconda del luogo e dell’etnia.

Tento di essere presente dovunque. Spesso, dopo pranzo, mi ficco nel piccolo dispensario per le medicazioni ai tagli, le abrasioni, le botte, che i bambini mi mostrano. Diversi vengono anche se in realtà non hanno niente, o magari solo un graffietto. Ma è un modo come un altro per ricevere attenzioni e sentirsi accolti. Fuori della porta e davanti alla finestra, i bambini si accalcano per vedere lo spettacolo delle medicazioni. Si divertono da matti a guardare le diverse fasi delle operazioni. Sono cose che fa anche la suora, ma per me anche questo è un modo per voler loro bene e farglielo capire concretamente. E poi - perché negarlo? - mi diverto troppo. Qualche giorno fa ho preparato una sega sotto il tavolo e quando si è presentato Shujon per la medicazione - dopo aver finto una preoccupazione esagerata nell’esaminare la ferita - ho estratto la sega dicendogli che dovevo tagliare. E’ calato un silenzio tombale. Guardandomi con due occhi pieni di orrore, Shujon ha ritirato immediatamente il piede, ma vedendomi scoppiare a ridere ha capito subito lo scherzo. Anche di fuori tutti giù a ridere per il teatrino fuori programma.

Ma ci sono anche momenti di “epidemie”, quando la scabbia, l’influenza, gli orecchioni, ecc. mettono fuori combattimento anche una quarantina di loro. Quante corse all’Ospedale, a tutte le ore del giorno, per portare qualcuno che stava male!

Naturalmente non mancano i giochi. In questi giorni, al pomeriggio, stiamo facendo gli allenamenti di pallone per i più grandi di quarta e quinta. C’è da preparare il torneo di ottobre, la “Four Mission’s Cup”. Una vera bomba. Parteciperanno altre tre squadre da altrettante missioni, e ci sfideremo per un giorno in un quadrangolare. Verranno da Chandpukur, Nijpara e Boldipukur.

La sola prospettiva fa impazzire i ragazzi, che non hanno mai vissuto niente del genere. Ancora non ho deciso la formazione che giocherà, e quindi tutti ci tengono a farsi vedere. Abbiamo schemi di gioco abbastanza collaudati che variano con l’età. I piccoli di prima elementare giocano secondo lo schema 1-60: un pallone e sessanta bambini che lo rincorrono a sciame, dovunque si trovi.

La seconda e la terza, invece, abbozzano una squadra dove si cominciano a distinguere difensori da attaccanti, e infine quarta e quinta, che mostrano un pallido tentativo di 4-4-2.

Lo spettacolo vero però è quando giocano tutti: quattro palloni, quattro portieri, quattro squadre, tutte sullo stesso campo, per un totale di più di 100 bambini! E il bello è che loro si trovano lo stesso: l’importante è colpire la palla quando te la trovi tra i piedi. Ieri pomeriggio abbiamo fatto le prove sui calci di punizione. Ho fatto preparare dal nostro falegname una staccionata di bambù, che fungesse da barriera da scavalcare o aggirare. Una stupidata, a vederla. Eppure sapessi che eccitazione c’era tra i ragazzi. Si impegnano tutti a correre, saltare, tirare. Sembra una cosa seria. In realtà per me anche questa è una scusa. Ogni cosa lo è, pur di centrare l’obbiettivo.

Vedi, quello che è veramente importante per me, quello che è fondamentale, è dare a questi bambini e ragazzi la possibilità di fare l’esperienza di Dio che li ama. Tutto, nella vita dell’ostello, deve essere un’occasione perché possano sperimentare Lui e il suo amore. Anche attraverso il gioco, perché no? Se non diamo loro questo, non diamo niente. Ma se solo si riesce, io sono certissimo che questa luce non sarà persa mai. Rimarrà sempre nel cuore il ricordo di una cosa bella alla quale magari non si saprà dare un nome e un volto preciso, ma di cui si ha nostalgia. Perché è Dio che rivela se stesso anche al cuore di chi non lo conosce.

La storia di Radica, in questo senso, è per me esemplare. Te la racconto perché vale più di un intero discorso. Radica era una bambina non cristiana della tribù oraon, morta poco tempo fa mentre era a casa in vacanza. Stroncata in un giorno, forse per difterite. L’ho saputo una mattina, mentre ero a colazione con p. Emanuele e p. Bonifas. Bonifas era stato al villaggio di Ranidighi il giorno prima, e ci ha raccontato cosa era successo. Pensa: capendo cosa le stava accadendo, Radica ha prima chiesto alla sua famiglia di pregare insieme, ha spiegato che stava andando da Gesù, ha chiesto perdono, e ha infine cercato i padri e le suore della missione. Ed è morta.

Mi credi? Mentre p. Bonifas raccontava - nel giro ristretto della tavola, la frittata con cipolle e peperoncino ancora nel piatto, la tazza di caffè che fumava - ci cercavamo con le lacrime agli occhi, Emanuele ed io, senza trovare parole. Non ero pronto per una cosa tanto forte, capisci? Né mi sarei aspettato da una bambina di dieci anni, mai battezzata, una prova di fede così straordinariamente bella. Ho capito che in realtà non la conoscevo, ma soprattutto che il cuore dell’uomo è un mistero, ed è impossibile pretendere di sapere quale risonanza abbiano nei bambini le cose che facciamo insieme. Cosa cercava Radica, cercando noi, se non quel Gesù che aveva trovato? Io non so spiegarlo altrimenti. Adesso il suo papà, vedendo come è morta, ha deciso di fare anche lui chiesa, la domenica, con gli altri cristiani.

Il grande Romano Guardini scriveva: “Solo nello spazio creato dall’amore, colui che è amato ha la libertà di distendere tutta la sua statura”. La statura di Radica era questa, e non lo sapevamo.

Il sogno è dare a ciascuno, nello spazio dell’amore, la possibilità di rivelare la propria.

Per questo mi sforzo di mettermi al loro livello, di entrare nella loro vita, per capire il loro mondo e tentare di dare, da dentro, il Vangelo. E’ il “farsi uno” di cui parla Paolo: “Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: mi sono fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei (…) Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti per guadagnare ad ogni costo qualcuno.” (1 Cor. 9,19s).

Ho scoperto che questa è la via maestra per entrare in una cultura e provare a farla mia. I bambini sono stati il ponte che mi ha permesso questo passaggio, ancora in corso. Stando con loro ho imparato a pilotare un aquilone, a scoprire il nido del picchio e la tana del topo; insieme abbiamo catturato serpenti e li abbiamo regalati alle suore facendole ululare per la paura; abbiamo preso pesci e molluschi, al fiume, dragandolo con le mani, e ci siamo divertiti da pazzi con i gavettoni nelle giornate torride di maggio. Con le bambine devo trovare altre attività da condividere, diverse da quelle dei bambini. Più dei giochi funzionano altre cose. Sono felicissime quando mi siedo in classe a fare collanine, o quando mi fermo con loro a preparare le ciapati[1] che serviranno per la cena. Ci si trova in una ventina sotto la veranda del refettorio, seduti in terra, ad impastare farina e acqua sulle assi di legno. Alcune con me si dedicano all’impasto, altre ne ricavano poi delle pallottole e procedono alla stenditura della pasta con piccoli matterelli. Intanto che lavoriamo si canta, si raccontano storie, si pettegola su questo o su quello. Si ride molto, con i baffi di farina sulla faccia e la fronte imperlata di sudore da asciugare con il dorso del braccio.

Se uno di loro mi accosta, mi chiede, mi prende per mano, voglio che senta di essere non uno dei tanti, ma importante e prezioso. Voglio che si senta accolto e ascoltato, qualunque cosa abbia da dirmi. Quando ero un lupetto e uno scout, ricordo la contentezza e la soddisfazione quando un capo si fermava con me a parlare, o mi chiedeva un parere. Mi sentivo grande anch’io. Considerato. In una cultura come quella bengalese, dove chi è boro[2] non si abbassa mai al livello del cioto[3], anche (o forse soprattutto!) se sei prete o suora, questo è un comportamento anomalo e scandaloso. Direi perfino rivoluzionario. Ma è evangelico.

Ed è da sempre la pedagogia del Signore: farci sentire unici ai suoi occhi, preziosi. Lui che è Dio, si è fatto uno con noi al punto di farsi uno di noi, ci ha accolti e ascoltati come di più non si potrebbe.

Passerà il Vangelo così? Non ho una risposta certa. Posso solo provarci e sperarlo.

Anche per questo ho pensato di proporre ogni mese, per i grandicelli, una frase del Vangelo da vivere insieme. La spiego e poi si cerca di metterla in pratica. Al sabato, durante il catechismo, ci raccontiamo le esperienze fatte.

Spero così di aiutarli a cogliere - in modo esperienziale e non teorico - il legame tra vita e Vangelo e fare in modo che la parola di Gesù li aiuti ad assumere valori e virtù cristiane: l’amore reciproco, il perdono, la gratitudine, la gratuità, la condivisione, la solidarietà… Ma naturalmente l’effetto è molto più di questo: altrimenti sarebbe solo un utilizzo strumentale del Vangelo. In realtà quella che fanno, nel vivere la Parola, è una vera esperienza del Signore.


[1] Pane di forma rotonda e piatta, tipo piadina, cotto su piastre di ferro.

[2] Grande

[3] Piccolo

Ho visto che dopo un po’ di disorientamento iniziale per la nuova proposta, sono nati tanti piccoli segni e gesti di attenzione e di amore. Naturalmente è fondamentale l’essere presenti per aiutarli a cogliere l’occasione buona o per far notare quella mancata: e questa cosa mette anzitutto alla frusta me che per primo devo vivere questo impegno. Mi pare di essere tornato ragazzino, quando vivere così la Parola mi ha fatto un mare di bene. Del resto le esperienze che vedo lo dimostrano. Questo mese si vive: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere.” (At. 20,35).

Quanti piccoli episodi di condivisione ho visto! La spartizione fraterna dei vestiti, del cibo, delle povere cose che ciascuno possiede.

Faccio la mia parte anch’io, prestando per esempio la bici, per qualche giro nel cortile della missione. C’è sempre la coda per aspettare ciascuno il proprio turno e mi sono già rassegnato a vederla sfasciata, ma non m’importa.

Per me è una tale scuola di umanità e di fede che non la cambierei con nulla.

Ti potrai chiedere, dopo quello che ti ho raccontato, se mi capita mai di dare punizioni. Le evito più che posso, ma talvolta sono necessarie. Ma mai cose pesanti: roba tipo saltare la tv o il gioco del pomeriggio. Spesso è sufficiente uno sguardo severo. Cerco di fare tesoro dei suggerimenti di don Bosco, il quale ammoniva di non ricorrervi se non in casi eccezionali. E, in ogni modo, di non umiliare mai il ragazzo in privato e tanto meno in pubblico. Pensa che quando sono arrivato qui ho trovato le suore e le assistenti che usavano la verga per tenere la disciplina. Nessuna meraviglia, nei villaggi funzione così. L’educatore per loro è assai più vicino al poliziotto che a una sorella o a una madre. L’uso della verga come metodo persuasivo o punitivo, la dice lunga sulla distanza che esiste tra noi a livello di idee e di stili. Ho ottenuto che non la usino più. Ho spiegato loro più volte i motivi per i quali non tollero questo “argomento” nell’ostello. L’educatore (a maggior ragione se prete o suora) deve essere radicalmente convinto che il suo modo di agire, pensare, rapportarsi, lo voglia o no, comunica un’idea di Dio al ragazzo che accosta. Un prete o una suora che usano la verga, che idea di Dio comunicano? Se abbiano capito o no, o non lo usino solo perché io non voglio, non saprei dirlo. Per ora il risultato mi basta. Sono convinto che il ragazzo deve sentirsi amato e valorizzato per quello che è e preso dentro un clima di fiducia e di amore, nel quale anche le punizioni non saranno accettate come rappresaglia ad un errore commesso, ma forse più facilmente comprese come aiuto correttivo. Non poche volte si confondono autorità e autorevolezza. Essere autoritari non è difficile: basta fare il poliziotto. Molto più difficile essere autorevoli, perché l’autorevolezza si fonda sulla credibilità dell’educatore, che è la sua capacità di conquistare la fiducia, di guadagnare il cuore del ragazzo. Ai suoi occhi un educatore è credibile quando vede che è disposto a spendersi per lui. Quanto più ameremo, tanto più saremo autorevoli.

A pranzo o a cena talvolta mangio con loro, anche se la prospettiva non è sempre allettante: stasera c’era gom-bhat[1], mica pasta alla carbonara. Però c’era anche una piccola sorpresa. Ieri, infatti, è venuto il solito omino esperto di api che, mezzo nudo, si è arrampicato sugli alberi e sotto i cornicioni, per prendere il miele dagli alveari selvatici. Ne abbiamo ricavato circa dieci chili di delizia purissima. Praticamente una cucchiaiata a testa, visto che i bambini sono tanti. Comunque abbastanza per fare festa: sono passati tutti a ritirare la loro porzione, col piatto dove già fumava il gom-bhat.

Per non fare ingiustizie mangio una volta con i bambini e una con le bambine. E guai se sgarro.

Qui è tutto un gioco bellissimo di sguardi mentre si mangia in silenzio. Dovresti venire a vederlo. Porto il cibo alla bocca con la mano e mi guardo attorno per cogliere le occhiate, i modi di mangiare, i sorrisi, le risate strozzate in gola. In genere al primo boccone ho addosso una selva d’occhi che mi osservano: vogliono capire se il riso mi piace o no. Uno spettacolo.

Stasera, mentre lavavamo i piatti sotto l’acqua dei rubinetti, Rubel si è avvicinato e con un sorriso furbo mi ha chiesto: “Vediamo Mota o Cikon[2], stasera?”. E’ stato un attimo: non ho fatto in tempo a dire né sì né no, e già c’era chi urlava: “Alèèè! Vediamo Mota o Cikon!”. L’atmosfera è diventa subito elettrica, qualcuno ballava col piatto in mano. Ho cercato di ricomporre la situazione e di aprire una trattativa. In effetti oggi era giorno di tivù, e avevo già preparato qualcosa da vedere: una comica, un episodio di “Sinbad”, un pezzo di documentario sui leoni.


[1] Granturco macinato e cotto insieme al riso.

[2] Letteralmente: il grasso e il magro, i nostri Stanlio e Ollio.

Un’ora e mezzo in tutto, ogni settimana. E’ uno spasso quando faccio vedere fiabe tipo Cenerentola o Pinocchio. Anche se il cartone animato è in italiano e io traduco (ho dovuto preparare parole come fata, grillo, Mangiafuoco, scarpetta di vetro, matrigna…), seguono con un entusiasmo crescente tutta la storia: con sospiri di apprensione quando la balena insegue Pinocchio o quando Gas e Giak prendono la chiave dalla tasca della matrigna e la portano su per le scale; con l’applauso, improvviso come una schioppettata, appena il gatto Lucifero vola dalla finestra e Cenerentola è liberata. Ma da quando ho fatto conoscere le comiche di Stanlio e Ollio (qui sono sconosciuti) mi subissano di richieste. Ridono a crepapelle fino a piangere, e poi imitano subito le gag più esilaranti. Alle dieci e mezza siamo saliti nei dormitori che ancora si rideva.

In camerata, prima di dormire, distribuisco le ultime cose. Nelle tasche dei calzoni ormai viaggio con tre pomate: quella per le infezione della pelle (un flagello), quella per le botte, e quella da spalmare sul petto per la tosse e il raffreddore. Qualche giorno fa sono salito nei dormitori dei ragazzi con una cosa in più, che uso di tanto in tanto: una splendida pistola ad acqua! In pochi minuti è scoppiato un putiferio incredibile. Colti alla sprovvista i ragazzi ci hanno messo un secondo ad organizzare il contrattacco, e subito sono spuntate siringhe di plastica (rubate in dispensario), vecchie bottiglie di detersivo liquido: ogni cosa, insomma, che potesse servire a spruzzare acqua. Per qualche minuto è stato tutto un via vai, dalla camera ai gabinetti, per fare il pieno d’acqua, tutto un colpire e fuggire. Alla fine ho ordinato il cessate il fuoco con una faccia truce che non ammetteva obiezioni, ma tutti sapevano che era una maschera, e la battaglia si è spenta tra le risa. Piccole cose che servono, anche queste, per fare famiglia e per costruire poi un rapporto personale con quanti più posso di loro.

Amo questi momenti nei dormitori, perché si crea un clima di confidenza e complicità particolare: è come se si sentissero più liberi nei miei confronti, senza quella sorta di timore reverenziale, che spesso impedisce loro di essere più spontanei e naturali. E’ sufficiente che mi sieda sull’angolo di un letto perché mi siano addosso subito. Si chiacchiera di tante cose, e loro hanno domande su tutto: sulla religione e sulla mia famiglia, sul pallone e sulla scuola. E c’è sempre qualcuno che alla fine mi chiede di raccontare una storia. Non cedo tutte le volte, ma ci sono momenti bellissimi.

Come qualche settimana fa. Faceva un gran caldo e nei dormitori si soffocava letteralmente, nonostante i ventilatori. I ragazzi mi hanno chiesto di andare a dormire sulla terrazza, e ho acconsentito solo per le classi dei più grandi. Bisognava vederli: sono arrivati con le loro coperte sbrindellate e i cuscini luridi, hanno steso per terra ogni cosa con cura, eccitati come per una gita. Mentre giravo, in attesa che tutti fossero pronti per dormire, è arrivata puntuale la richiesta: “Father, ekta golpo!”[1].

“Che racconto volete?”- ho chiesto sedendomi e lasciando che loro si assembrassero attorno.

“Qualcosa sui santi”- mi risponde più d’uno.

Vanno matti per le vite dei santi. Sul tetto del nostro ostello, accoccolati in cerchio senza poter distinguere bene le facce che avevo davanti, ho raccontato come riuscivo la storia di Francesco e del suo amore folle per Gesù.

Nell’aria calda e senza un alito di vento potevo sentire, mentre parlavo, il respiro regolare di qualcuno che si era già addormentato. Il cielo - appena sopra - era una meraviglia, e sdraiandosi a terra, sul cemento ancora tiepido, l’avevi tutto negli occhi. Stavamo raccolti lì, io con la maglietta fradicia di sudore e il caldo che mi soffocava, loro pronti a dormire con gli stessi vestiti usati di giorno. Ma, in un istante, ho avuto chiarissima la percezione che l’amore stava facendo di noi una sola famiglia. E senza smettere di raccontare, mentre tiravo un respiro profondo, ho pensato: sono felice. Lo sono soprattutto perché vedo felici loro. Sereni. Non credi che la gioia sia uno dei segni più certi della presenza del Risorto tra noi? Io la sua presenza l’avverto anche nell’atmosfera che si respira, talvolta, quando si gioca insieme, o in certi momenti di catechesi, con un clima così bello, con una tale attenzione da parte di tutti, da portarmi a dire cose che non avevo neppure preparato; la vedo nell’amicizia che si crea fra ragazzi di etnie diverse, nell’unità del gruppo.

Pensa che un confratello mi ha detto che alcuni bambini della sua missione hanno chiesto di venire qui, nonostante abbiano anche loro l’ostello, perché in un silenzioso tam-tam pubblicitario hanno sentito da altri che qui ci si diverte. Un giudizio, questo, che invece di imbarazzarmi, al contrario mi inorgoglisce. Il cuore dei bambini vede più lontano del nostro.

Se ho un sogno, per loro, è solo questo: fare della presenza di Gesù in mezzo a noi - non visibile magari, ma certo non meno palpabile - la compagnia quotidiana, perché sia Lui il maestro per tutti. Lui il sale, Lui il sapore. Perché si possa vivere, insieme, già qui sulla terra, un pezzo di cielo.

Ti abbraccio forte,

Fabrizio


[1] “Padre, un racconto!”

Un giorno in settembre

“Che nome date al vostro bambino?”.

Le quattro coppie di genitori che mi stanno davanti - nel piccolo cortile di fronte alla cappella in fango - mi guardano e con un filo di voce dicono i nomi dei piccoli che si muovono tra le loro mani.

Uno di loro comincia a piangere e la mamma si affretta a nasconderlo sotto il sari di un verde stinto: un rumore inconfondibile da risucchio e la fine del pianto, come per magia, sono i segni chiari che il bimbo ha trovato quel che cercava.

Tra la gente c’è un vociare fastidioso. Diversi di loro non sono cristiani, solo dei curiosi venuti a vedere cosa stiamo combinando. I bambini ci mettono del loro frignando e facendosi dispetti. Come se non bastasse arriva un cane e, per cacciarlo via, un ragazzino non trova di meglio che caricarlo di legnate, provocando guaiti assordanti.

Finisco per perdere la pazienza e sono costretto ad interrompere il rito del Battesimo per richiamare l’attenzione di tutti. E’ la Messa, accidenti, mica una sagra di paese!

A pranzo, nella casa del capo-villaggio, non c’è molto da mangiare a parte il riso.

Ci sono periodi così. La gente si arrangia come può per arrivare ai due pasti quotidiani. Fatico a trovare pezzetti di carne in questo tor-curry di pollo, ma il sugo e qualche patatina sono comunque molto gustosi. Faccio i miei complimenti sinceri alla moglie del manjharam[1], che si schermisce portando un lembo del sari sul viso.

Prima di tornare a casa faccio un pisolino per evitare il caldo torrido del primo pomeriggio. Mi stendo su una panca che trovo nella cappellina. Ci sto scomodo, ma basterà.

Nel dormiveglia che mi prende di lì a poco non distinguo più i rumori un po’ ovattati che sento. Ma ad un certo punto avverto qualcosa di viscido e umido che si appoggia al mio braccio. Apro la fessura di un occhio e tanto basta per farmi prendere uno spavento che quasi mi rovescia dalla panca. Eppure non è niente di cui avere paura: sono solo due vitellini che sono venuti dentro e stavano annusandomi con i loro musi mollicci e bagnati. Sono anzi loro due che, vista la mia reazione, si dileguano in un baleno.

Il viaggio di ritorno si rivela presto una trappola. Dopo qualche chilometro, infatti, sono costretto a fermarmi, perché la moto ha deciso che così può bastare e non vuol saperne di proseguire. I tentativi di rianimarla pulendo la candela non sortiscono gli effetti sperati: bisogna spingere. Sontus, il catechista, prende le borse, io afferro il manubrio con vigore e mi avvio imprecando in italiano contro la mia moto nello specifico e contro i motori in generale. In più le nubi scure che vedo addensarsi mi mettono in apprensione. Chiedo a Sontus se ci sia da temere pioggia. Mi guarda con l’aria sostenuta di chi non ha sbagliato una previsione meteorologica in tutta la vita, e spara un “No!” categorico. La verità è che dopo dieci minuti siamo fortunati a trovare riparo sotto un tetto in lamiera, perché nel frattempo è iniziato il diluvio.


[1] Parola santal che designa il capo-villaggio.

Ho una faccia che vale un intero discorso, e Sontus guardandomi capisce che non è il caso di aggiungere una parola, però vedo che sotto-sotto ridacchia. Finito lo sfogo ci rimettiamo in strada e acchiappiamo al volo un van[1], carichiamo la moto e lentamente ci muoviamo verso casa.

Quando arrivo in missione sento salirmi subito la pressione nel vedere la solita coda di persone, sedute in veranda ad aspettare. Ognuna col suo fardello da scaricare sul padre, molti nel tentativo di spillargli quattrini. Ci sono i nuovi e gli abbonati che passano regolarmente almeno ogni settimana. Adesso si è anche sparsa la voce che il parroco è in Italia per vacanza, e molti vengono pensando di fare fesso il vice, che poi sarei io.

Per fortuna ci sono i nostri catechisti che mi fanno da filtro, però nonostante questo è davvero pesante certi giorni dovere fare fronte a tutti quelli che arrivano. Il primo sforzo è di starli a sentire senza farsi prendere subito dal pregiudizio o dal nervoso. Il secondo è di imparare a dire dei no. E’ più facile aprire il portafoglio e aiutare indiscriminatamente, che cercare di capire cosa è davvero necessario. Anche perché la gente spesso non si arrende al nostro primo rifiuto. E’ capace di attendere sotto la veranda tutto il giorno, per poi tornare alla carica. Una cosa logorante.

Ad urtare spesso è la mancanza di gratitudine e l’arroganza della pretesa, come se - per il solo fatto di essere cristiani - tutto gli fosse dovuto.

Cerco con fatica di restare sul sentiero che la parola di Dio mi ha tracciato stamani: “Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità” (1 Gv 13,18). L’amore pretende concretezza, non chiacchiere. E qualche volta esige dei no per il bene del fratello, anche se per me può essere più costoso del sì.

Nella fila di oggi c’è un vecchio che con parole convincenti mi spiega che gli hanno rubato la mucca, tutta la sua ricchezza. Mi chiede senza giri di parole se gliene compro un’altra così da poter vivere. Mi guarda con occhi supplichevoli e mi ritrovo subito in difficoltà, come in molti altri casi pari a questo: aiutarlo o aspettare qualche informazione in più?

Poiché è di Pollibiddhut, un villaggio qui vicino, spedisco subito Sontus a indagare. Io intanto parlo con una giovane donna che ha al collo un bambino di pochi mesi. Più che altro provo a strapparle qualche parola, perché è così tesa da non riuscire a parlare. Visto che è una tribale santal chiamo Patrash e, per metterla a suo agio, la faccio parlare con lui nella loro lingua. E’ una ragazza madre, sola e poverissima. Non si sente bene da diversi giorni e anche il bambino è visibilmente denutrito. Il volto pallido e smagrito della donna tradisce un attimo di disperazione che cerca di mascherare portandosi il bimbo al viso. Alza gli occhi verso l’alto, senza dire una parola, imbarazzata dalle sue lacrime e dalla miseria che la costringe a chiedere. Non c’è solo furbizia e arroganza. Esiste anche una dignità straordinaria nella povertà. E’ quella di chi piange in silenzio, senza un lamento, senza strepiti, come questa donna. Come se le sofferenze accumulate avessero annullato in lei la speranza; come se avesse imparato a restare sola con il dolore nudo, e non le rimanesse che una impotenza rassegnata. Cosa ne so io di questa disperazione? Cosa comprendo di questa miseria? Per stemperare l’imbarazzo prendo in braccio il bambino mentre faccio un po’ di versi per farlo ridere. Mi prende subito un nodo alla gola, appena mi ritrovo tra le mani poco più di niente, dentro gli straccetti dei vestiti. Penso ai neonati italiani, alle pappe, ai vestitini, ai soldi buttati in vaccate che si regalano come bomboniere per i battesimi, e mi viene da urlare. Non ho soluzioni da offrire a questa giovane mamma. Tutto quello che posso fare per lei ora è accoglierla e ascoltarla. Balbetto qualche parola, cerco di rinfrancarla e di darle fiducia. Poi le firmo senza esitazione la carta di ricovero al nostro Ospedale e le caccio in mano qualche taka[2]. Prometto che andrò a trovarla e la lascio dopo aver dato una benedizione a lei e al piccolo.

Dopo le quattro e mezza esco perché il baccano che arriva dal cortile mi ricorda che i bambini stanno facendo ricreazione e mi attira in modo irresistibile. Giocano tutti a qualcosa. Ci sono giochi che vanno a stagioni. Pallone e cricket tutto l’anno e poi a rotazione le biglie, gli aquiloni, hadudu[3]. Questo è il periodo delle trottole. Alcune sono fatte bene, ma altre non sono che grezzi ovali di legno con in mezzo un chiodo a fungere da perno. E’ incredibile l’abilità che anche i piccoli hanno nel manovrare questi arnesi. Il segreto sta nel modo di impugnare la trottola e nel gioco di polso, che deve essere deciso e sciolto al tempo stesso. Un movimento secco che permette allo spago di srotolarsi e di mandare con precisione la trottola a cozzare contro un’altra, che già sta danzando nel cerchio segnato sul terreno.


[1] Triciclo a pedali, dotato di un pianale, per trasporto merci e persone.

[2] Moneta corrente.

[3] Gioco a squadre tipico del Bangladesh.

Chi è sfrattato è una murghi[1], chi rimane dentro invece è un murga[2]. Mi sono cimentato qualche volta, ma con risultati disastrosi, ottenendo solo la compassione dei bambini che tentavano invano di spiegarmi come impugnare e lanciare.

Sontus nel frattempo è tornato a rapporto. E’ stata una buona idea quella di informarsi: al villaggio del vecchio ha appurato che nessuna mucca gli è mai stata rubata, per il semplice fatto che non l’ha mai posseduta! Me lo dice ridendo, ma intanto sento la rabbia per essere stato ingannato. Domani forse ci riderò sopra. Richiamo dentro il vecchio e gliene dico quattro. Lui per tutta risposta esibisce un sorriso furbo che mi irrita ancora di più. Nonostante sia stato smascherato cerca comunque uno sconto, e soprattutto di andare via con qualche soldo in saccoccia. Ma sono irremovibile. Lui capisce che non è aria e va via.

Improvvisamente alcuni bambini mi raggiungono un po’ agitati, e mi dicono di venire perché è entrato un giovane del villaggio qui di fronte a dare fastidio. Lo riconosco appena lo vedo: si tratta di Hilarius e a giudicare da come parla a voce alta e da come cammina, direi che è ubriaco. Intuizione prontamente confermata quando mi avvicino per parlargli. Puzza di alcool in modo insostenibile.

Mi saluta con un entusiasmo eccessivo, tipico di chi è parecchio su di giri. Cerco con calma di sapere cosa è venuto a fare e lo invito a tornare a casa. Ma il risultato è quello di farlo imbestialire, tanto che comincia ad urlare. Con la coda dell’occhio vedo che alcuni dei nostri lavoratori si sono appostati nelle vicinanze pronti ad intervenire in caso di bisogno, ma faccio loro cenno che va tutto bene. Speriamo che sia così. Decido di cambiare strategia e invito Hilarius a sedersi sotto la veranda a fare quattro chiacchiere. Ci rimaniamo più di mezz’ora, durante la quale mi dice di tutto, con la schiettezza che caratterizza gli ubriachi. Anche le cose che, da sobrio, non avrebbe detto nemmeno sotto tortura. Mi racconta, con gli occhi annacquati e persi, della sua vita e delle sue difficoltà; dice di sé e dei suoi amici che come lui bevono o si drogano; parla male dei preti locali ma non dei missionari che, a suo parere, si comportano meglio.

“Perché vi ubriacate?”- gli chiedo facendo riferimento anche ai suoi amici.

“Perché la vita è uno schifo padre!”- mi risponde subito – “Non c’è lavoro, molti di noi non sono quasi andati a scuola, che futuro può esserci?”.

Mi viene quasi da dargli ragione: per molti giovani la situazione è tragica, veramente disperata, e trova come unico orizzonte il collo di una bottiglia o fumi che ti stordiscono. I giovani sono una sfida impellente e difficile allo stesso tempo. Rispetto alle missioni più rurali, qui in città è evidente la trasformazione rapida del mondo tribale giovanile, con il rifiuto di un modello culturale vecchio senza che ce ne sia uno nuovo.

Il numero dei giovani disoccupati è in continua crescita e soprattutto loro subiscono il disagio di questa trasformazione. In loro la povertà umana, se possibile, è perfino più drammatica di quella materiale: un basso tasso di alfabetizzazione, talvolta famiglie disastrose alle spalle, alcool e droga, mancanza di lavoro, formano un cocktail esplosivo impossibile da gestire.

A cena penso a come con p. Emanuele, il mio parroco, ci siamo chiesti molte volte cosa possiamo fare, ma sperimentiamo anche noi l’impotenza. E’ difficile intervenire sulla situazione sociale ed è difficile trattare con questi giovani, che spesso non trovano più il coraggio né la forza di uscire da questa spirale. Per alcuni di loro è già troppo tardi. Arriva il papà di Hilarius, un brav’uomo che mortificato fino alle lacrime mi chiede scusa e si porta via il figlio. Mi rimane dentro un senso di tristezza per come questi ragazzi si stanno buttando via, ma anche la voglia di intervenire dove possiamo quando si è ancora in tempo.

Vado a letto stracco dopo aver preparato un pensiero per la Messa di domani. Ho ancora tempo, e voglia, di leggermi un episodio di “Don Camillo”, che tengo regolarmente sulla sedia di fianco al letto. Fare quattro passi in riva al fiume con Peppone e don Camillo lo trovo sempre terapeutico, oltre che godibilissimo tanto è scritto bene. Poi spengo la luce, sperando di dormire nonostante l’afa opprimente e illudendomi che questa giornata sia davvero conclusa.

Invece a mezzanotte abbondante mi sveglio di colpo e con il cuore in gola. Mi pare di aver sentito delle voci di fuori che mi stanno chiamando. Vuoi vedere che Hilarius non ha smaltito la sbronza ed è tornato? Dentro la ragnatela fitta della zanzariera rimango acquattato con le orecchie tese all’ascolto, le pale del ventilatore sul soffitto che ronzano al minimo, i rivoli di sudore che scivolano sulla pelle. Adesso posso sentire distintamente: “Padre! Padre!”.


[1] Gallina.

[2] Gallo.

Mi alzo prudente, nel buio della stanza, mentre mi tornano in mente i racconti sugli assalti notturni dei ladri alle missioni. Senza accendere la luce scendo in cucina e cerco di capire chi stia chiamando, guardando fuori della finestra. Vedo solo due figure di uomini. Troppo buio per capirne l’identità. Allora torno di sopra e mi affaccio sul balconcino: “Chi siete?” – domando nervoso.

“Padre! Sono io, Bobesh!”- mi risponde uno dei due. Bobesh Kormokar, il nostro riksha-walla[1]: cosa diavolo vuole a quest’ora? Mi risponde tutto agitato che, mentre dormivano, un muro della casa è crollato addosso a due delle figlie. Non sono gravi ma molto ammaccate: i muri sono di fango ma sono pur sempre muri. Chiede la carta di ricovero per portarle all’Ospedale, senza la quale non le accetterebbero, soprattutto a quest’ora. Inutile spiegargli altre cose che mi vengono in mente: ormai sono qui, tanto vale aprire. Scendo e consegno a Bobesh la carta che cerca, non senza mugugnare contro le case di fango che mi hanno costretto alla levataccia.

Nel chiudere l’ufficio rivedo sul tavolo una busta che avevo dimenticato di controllare in serata. Ma so già da dove proviene. La busta è di seconda mano, il vecchio indirizzo è stato cancellato a penna e sostituito con il mio nome. Il modo e la grafia sono inconfondibilmente di p. Cescato[2], direttore dell’ospedale della diocesi, il St.Vincent Hospital, a dieci minuti da noi. Proprio dove sta andando Bobesh adesso. Apro la lettera e controllo. Nel leggere, p. Cescato riesce involontariamente a strapparmi l’ultima risata del giorno, anzi, la prima di quello nuovo. Scrive nel suo stile laconico: “Caro p. Fabrizio, questa sera è venuto da me un vecchio che abita a Pollibiddhut. Dice che gli è morta la mucca e mi ha chiesto di comprargliene una nuova. Siccome è un tuo parrocchiano, chiedo a te: ne sai qualcosa?”.

(Settembre 1999)



[1] Guidatore di riksha.

[2] P. Faustino Cescato (1930-2003)

Il sole dietro le nuvole

La messa è finita da pochissimo - non sono che le sette del mattino - e Martin, il ghirja master[1] di Talpukur, è già qui ad aspettarmi. Ci sono cattive notizie: Maria, la figlia di suo fratello maggiore è morta ieri sera, e mi chiede di andare al villaggio.

Gli dico che vengo senz’altro a benedire la salma. Il tempo di prepararmi e parto con Patrash, il catechista.

Dobbiamo guadare il fiume, l’acqua è poca e possiamo ancora farlo con facilità, ma la stagione delle piogge è cominciata e allora, tra qualche giorno, col fiume ingrossato, per passare all’altra riva sarà necessario caricare la moto sulla barca.



[1] Persona incaricata a guidare la preghiera domenicale nelle cappelle dei villaggi, in assenza del padre.


Sono rientrato da due settimane dall’Italia, dopo la mia prima vacanza, e mi guardo ancora attorno per cercare di ricordare a me stesso dove mi trovo. Provo sentimenti molto contrastanti tra loro. Da una parte la gioia di essere tornato e dall’altra una sorta di stordimento, perché mi rendo conto che bisogna davvero essere matti per tornare in un posto così.

Il Bangladesh era e resta un paese difficile, ancor prima che per motivi ambientali o climatici, soprattutto per la fatica nel rapportarsi con la gente e la loro cultura. Senza contare poi che le prime e le più grosse difficoltà arrivano dai nostri cristiani e non, come qualcuno potrebbe pensare, dai musulmani. Un po’ per forma mentale e un po’ perché abituati per decenni a ricevere, per molti cristiani la parrocchia è solo una mucca da mungere a proprio favore, non importa se a costo di imbrogliare il padre di turno.

Ieri alcuni giovani disoccupati sono venuti da noi a chiedere soldi e lavoro con la solita arroganza e prepotenza. E se ottengono qualcosa se ne vanno senza nemmeno un grazie. Sono cose che fanno gonfiare il fegato come un dirigibile per la rabbia.

La formazione di una nuova mentalità, più partecipativa e responsabile, è la sfida vera che ci aspetta e che chiederà il ricambio di diverse generazioni prima di portare qualche frutto.

Quanta enfasi demagogica inutile sul “dare la vita” per la gente. Se solo ci si mette a disposizione è la gente che decide come prendertela, non noi come darla. Ma bisogna anche trovare il modo di adattarsi e di entrare in questa cultura senza esserne travolti, e senza - per paura o reazione - isolarsi in un fortino. Io questo equilibrio ancora non l’ho trovato. Ce la farò? Me lo chiedo guardando il cielo, indeciso anche lui tra il sole e la pioggia.

Una delle cose belle di questa stagione, così ostica per noi, spesse volte è proprio il cielo, perché l’instabilità del periodo monsonico lo rende volubile e vivace nei cambiamenti repentini, facendogli assumere sembianze e colori del tutto particolari. Allora si vedono le nubi veleggiare intruppate e proporsi, ovattate e spumose, in forme sempre diverse, risaltando sull’immensa distesa dei campi di riso. Al vento piace fare le onde in questo gran mare verde, sul quale le ombre delle nubi - ora lievi, ora minacciose - scivolano rapide.

Sono bellissime le nuvole, quando il sole ne scolpisce da dietro i contorni e le lascia brillare ambrate in contrasto sul cielo cobalto, e il gioco delle luci e delle ombre compie il prodigio dello stupore.

Al villaggio di Talpukur ci sono solo cinque famiglie cristiane della tribù dei Santal, tutte di recente battesimo e poverissime. Ci arriviamo in circa tre quarti d’ora, dopo essere passati sugli stretti argini dei campi che delimitano una coltivazione da un altra. La bambina è distesa sulla veranda di casa, nascosta da una coperta lurida sulla quale già danzano le mosche.

Dentro la casa di fango malmessa, con il tetto di paglia, c’è la nonna a vegliarla: la mamma è scappata in India anni fa con un altro uomo, quando lei era ancora piccolina, e ora vive là con una nuova famiglia. Il padre arriva dopo poco, tutto scarmigliato e con addosso solo il lunghi. Mi accosto alla bambina e sollevo la coperta: avrà avuto al massimo dodici anni, povera piccola. Le accarezzo il volto ghiacciato e chiedo al padre cosa è successo.

Mi racconta che ha cominciato a stare male tre giorni prima, mal di pancia, diarrea e vomito: il caldo micidiale di questi giorni avrà fatto il resto. Non si sarà nemmeno resa conto che se ne stava andando. Hanno chiamato il dottore del villaggio che le ha dato qualche medicina, ma nella serata di ieri Maria è spirata.

Ho già visto altre volte scene come questa, ma non mi abituerò mai: “Perché non l’avete portata subito in ospedale?”, gli chiedo mentre dentro sento montarmi la rabbia.

“Pensavamo di portarla oggi se non migliorava”, risponde lui come inebetito.

“E invece l’avete lasciata morire!”, gli urlo in faccia, “Siete degli stupidi! Tutti quanti! Lo sapete quanto è pericolosa la dissenteria. Come si fa a lasciar morire una bambina così bella? Rispondimi, come si fa?”, dico al padre mentre lo scuoto per un braccio. La nonna comincia a piangere sommessamente e nessuno fiata. Ci sono anche indù e musulmani vicini di casa venuti a vedere. Qui la morte è uno spettacolo che si guarda con rassegnazione, perché sai che essa ti siede a fianco e ti può prendere sempre.

Mentre le donne lavano e ungono la salma preparandola, penso io, per la sepoltura, chiedo al padre dove si trova il cimitero e se hanno già preparato la fossa.

Mi guardano tutti straniti: quale cimitero? Quale fossa? Il fiume qui vicino e c’è ampio spazio anche per il corpo di Maria. Inorridisco e, nel giro di pochi minuti, riesco a perdere le staffe per la seconda volta: “Volete seppellirla vicino al fiume? Così alla prossima piena se la porta via l’acqua? Ma cosa siamo: cristiani o bestie? Se non avete il cimitero, trovate un pezzo di terra vostro e scavateci una fossa. Subito!”.

Gli uomini parlottano un poco e poi tre di loro si alzano e si allontanano con le zappe.

Che tristezza, mio Dio, quando alla povertà materiale si aggiunge quella umana. Quando l’ignoranza e la povertà tolgono tutto alla vita. Che siamo stati creati per Dio non lo si capisce qui, dove la vita non conta nulla e si può morire di niente.

Bisogna aspettare un bel po’ prima che la tomba sia pronta, ma alla fine ci siamo: su una portantina di bambù il corpo di Maria è portato alla tumulazione. Il funerale qui non si usa farlo subito: la rapida decomposizione del cadavere, la difficoltà di avvisare il padre in missione e i parenti per tempo, rendono difficile il rito funebre più completo.

Si preferisce in genere celebrare l’Eucarestia per il defunto di lì a qualche settimana, così che tutti possano partecipare.

Con le foglie verde-smeraldo e lucide del katal[1] aspergo il corpo di Maria e penso a Gesù con la figlia di Giairo: “Talità kum”, risorgi bambina, e godi in pienezza la pace e la gioia nella casa del Padre. Niente più abbandoni, niente privazioni o stenti. Solo l’amore pieno e totale di Dio che è padre e madre. Mi lascia dentro una grande tristezza vedere Maria dentro questo fazzoletto di terra, ma penso che la sua storia è tutt’altro che finita.

Patrash mi fa un cenno con la testa per dirmi che possiamo andare: è una parola, col cuore ingolfato così. Di fronte alla crudezza della quotidianità come ci si sente inadeguati tante volte. E impotenti.

Mentre avvio la moto Patrash si sistema dietro e indica lo stretto argine dove passare. Manovro con difficoltà e m’inquieto. Ma non è per la strada.

Ci sono fatiche che quando si sommano finiscono per sfocare l’orizzonte. Capisco che mi è chiesto ancora una volta di abbandonarmi nel cavo della mano di Dio e fidarmi. “Che cosa importa?” - diceva il giovane curato di Bernanos nell’ultimo palpito di vita - “Tutto è grazia”. Siamo gratuità in radice perché siamo amati. E’ dono tutto: la piccola vita di Maria adesso nella luce e la mia con tutte le sue salite, il tanto che ricevo e il poco che riesco a dare, la sproporzione tra la fedeltà di Dio e la mia saltuarietà, la grandezza del vivere e i pochi frammenti che ne afferro.

Torno a guardare il cielo e lo so: la sfida è riuscire a trasfigurare la prova nella quotidianità e cogliervi dentro l’unica Presenza capace di darle un senso e di illuminarla. Come il sole dietro le nuvole.



[1] Albero da frutto, considerato la pianta nazionale in Bangladesh.

Perle

Problemi di salute mi costringono a tornare in Italia nel 2001, per registrare il motore. Trascorro le ultime settimane di missione soprattutto cercando d’essere presente all’ostello, con i bambini, e terminare con loro un lavoro che tanto mi ha appassionato. Sono giorni che si rivelano ricchi di esperienze intense. Rimango stupito nel constatare che il livello di empatia con i bambini sia ancora più maturo e profondo. E’ difficile comprendere, anche per chi le vive da vicino e con passione, le dinamiche che nascono, crescono e si sviluppano in un rapporto educativo nel corso degli anni. Ci sono risonanze e reazioni che scavano nel cuore e danno risposte imprevedibili nel tempo, come l’acqua di un fiume carsico che - scorsa nel sottosuolo e invisibile allo sguardo - torna d’improvviso all’aperto.

Poche settimane sono bastate per raccogliere tra loro perle di straordinaria bellezza, le prove più certe del lavoro che Gesù ha compiuto in mezzo a noi in questi anni. Nessuno se non lui poteva educarci in questo modo. E niente se non l’amore reciproco, poteva garantirci la sua presenza a guidarci. Queste perle hanno tutte dei nomi e dei volti precisi, ma sono fatte anche di sensazioni, istanti, parole, o anche soltanto sguardi, impossibili da descrivere. Ho provato ugualmente a raccontarne qualcuna: intanto per non essere il solo a goderne il riverbero, e poi quasi per saldare una sorta di debito, che sento di avere contratto con chi è stato capace di regalarmi anni di gioia profonda.

Matul

Sono due anni che Matul non perde occasione per ricordarmi che vuole essere battezzato. Lo fa con una insistenza ferma e commovente insieme, perché si vede che crede a quello che dice.

Ma la sua famiglia e il suo villaggio non sono cristiani, ecco la ragione per la quale - lui lo sa bene - non possiamo dargli il Battesimo. Rischieremmo di caricarlo di una responsabilità maggiore delle sue forze. Eppure sono convinto che Matul riuscirà a stupirci. Vedo come prega e come segue il catechismo con entusiasmo e vedo come è pronto ad aiutare gli altri. Ha un cuore limpido, indubbiamente aperto all’amore del Padre, così come può esserlo un ragazzino di dodici anni.

Matul appartiene ai kormokar, una casta indù dedita alla lavorazione dell’argento e dell’oro: anelli, bracciali, collane, orecchini. In casa sua purtroppo però i guai non sono pochi e tutti legati al papà: senza un lavoro e bevitore incallito, col vizio di picchiare la moglie ogni volta che torna a casa ubriaco.

Qualche settimana fa Matul mi chiede di parlare insieme. I tratti del viso tradiscono una preoccupazione evidente: “Devo andare a casa” - mi dice infatti senza preamboli - “Mio padre continua a picchiare la mamma e io devo andare a proteggerla. In casa non c’è nulla da mangiare. Se non vado io che sono il più grande, chi provvederà ai miei fratelli?”.

“Non vuoi finire la scuola?” – gli chiedo sapendo già la risposta.

“Non ho scelta, padre. Lavorerò nei campi e l’anno prossimo manderò qui all’ostello mio fratello più piccolo. Lo prenderete padre?”.

Gli dico di non preoccuparsi che lo prenderemo senz’altro, ma che voglio anche lui qui. Non posso permettere che non finisca la scuola, eppure comprendo che per ora non c’è altra soluzione.

Passano alcune settimane e poco prima di tornare in Italia lo faccio chiamare dal villaggio per sentire da lui come sta andando. “Adesso va meglio, padre. Papà da quando sono a casa ha smesso di picchiare la mamma. E io guadagno qualcosa, anche se non molto. Ma ho già deciso che fra qualche mese andrò da mio zio ad imparare a lavorare l’argento e l’oro, così poi avrò un lavoro sicuro per tutti”. Poi, con una foga pari all’entusiasmo, dice tutto d’un fiato: “Voglio venire al raduno dei catechisti ogni primo venerdì del mese. Così imparo e posso guidare io la domenica la preghiera nel villaggio. Il nostro catechista molte volte non viene e nessuno ci aiuta a pregare. Posso venire padre? Eh, posso?”.

La maglietta lurida, i calzoncini strappati, le mani che non sono più da studente ma portano i segni evidenti del lavoro nei campi, Matul mi siede di fronte sorridente e semplice come sempre. Che perla! Lo abbraccerei, tanto è l’affetto che provo per lui. E’ raro trovare un ragazzino così maturo e determinato nel fare il bene. Molte volte gli avevo detto - quando tornava alla carica per il Battesimo - che nessuno poteva impedirgli di seguire Gesù: anche senza Battesimo poteva pregare, venire a Messa, leggere il Vangelo e metterlo in pratica. Nessuno poteva impedirgli di amare ed essere un discepolo vero del Signore. Matul sta prendendo sul serio il Vangelo.

Per gli studi non mi rassegno a perderlo, li merita come nessuno. Ancora non so come, ma troveremo una strada.

“Certo che potrai venire”- lo rassicuro. E Matul si illumina come se gli avessi dato una medaglia.

Dulal

Spesso, quando mi incontra, mi strizza l’occhio in segno di complicità con un sorriso contagioso. Tra i ragazzi di quinta Dulal è il leader riconosciuto, pur senza possedere le caratteristiche che fanno, di un ragazzino tra gli altri, un capo. A calcio, per esempio, è piuttosto scarso. Non è prepotente: non l’ho mai visto litigare o alzare le mani su qualcuno. Certo, a scuola è sempre stato tra i migliori, con un’intelligenza vivace. Ma non è questo. E’ che Dulal possiede un ascendente naturale sugli altri. Forse anche per un certo coraggio ad esporsi, quando occorre.

Questi ultimi mesi passati insieme sono stati per me una sorpresa. Capita talvolta – soprattutto quando i bambini sono tanti e di quest’età – di accorgersi improvvisamente di qualcuno, di rimanerne colpiti e sorpresi come di fronte ad un panorama apertosi di fronte, inatteso e splendido. E ho capito che questo ragazzo oraon[1] è un autentico fuoriclasse, aperto e disponibile al lavoro di Dio. Ho visto la cura e l’attenzione che ha avuto con Gabriel durante la sua malattia. Non lo ha lasciato un momento, di giorno e di notte. E sono diventati amici per la pelle, lui oraon e l’altro santal[2]. Cose che forse succedono solo all’ostello, dove i pregiudizi e le chiusure che si respirano nei villaggi fra una tribù e l’altra sono molto più allentati.



[1] Etnia tribale.

[2] Etnia tribale.

Una mattina viene a cercarmi perché ha capito che Gabriel vuole scappare. Mi avvisa e riesco ad evitare la fuga. Un’altra volta invece – dopo una pesante punizione inflitta da p. Roby (il padre bengalese che mi ha sostituito) a tre bambini di terza – viene a chiedermi di fare qualcosa per evitare il peggio, perché tutti in classe stanno piangendo. Io non sapevo nulla e casco dalle nuvole.

Cerco una mediazione tra p. Roby, che aveva esagerato ma che non poteva perdere la faccia, e i bambini che andavano comunque puniti. Troviamo una soluzione e ritorna la serenità in classe: Dulal mi guarda e mi strizza l’occhio.

Molte volte la sera, mentre stava accanto a Gabriel nel dispensario, mi fermavo a parlare con loro. Dulal aveva cento domande sulla religione e su Gesù. Avido di sapere e capire. E non perdeva una parola di quel che dicevo.

Una sera mi confida che vuole andare in seminario, dopo la quinta. L’ha deciso la sua famiglia, e lui è d’accordo, ne sente il desiderio. Cerco di fargli comprendere che la vocazione è un dono di Dio: non tocca a mamma o papà decidere se devo diventare prete, ma è il Signore che mi farà capire cosa vuole da me.

“Cosa devo fare per capirlo?”- mi domanda a bruciapelo.

“Preoccupati solo di una cosa, Dulal: ama Gesù, più che puoi. E Lui ha detto: “A chi mi ama mi manifesterò” (Gv 14,21). Preoccupati solo di amare. Il resto verrà. Può darsi che il Signore ti chiami davvero, ma dovrai essere tu a sentirlo. E per questo ci vogliono tempo, preghiera e pazienza.”

La mattina del mio ritorno in Italia mi chiede di aspettarlo, dopo la messa, perché vuole confessarsi. Terminata l’Eucarestia attendo in fondo alla chiesa, mentre Dulal è seduto sulla panca davanti, in prima fila. Passano i minuti ma non si decide ad alzarsi. Poi qualcosa accade, perché alla fine lo sento piangere sommessamente e scoppiare in singhiozzi. Non capisco cosa stia succedendo e vado a sedergli accanto. Ha il volto nascosto tra le braccia e scosso dai singulti: “Cosa faremo adesso senza di lei?”- dice alla fine.

Questa non me l’aspettavo. Cerco di minimizzare: “Vedrai che non cambia nulla. Avrete lo stesso chi starà con voi e vi aiuterà. Non temere.”

“Non è vero, non sarà lo stesso! Lo sappiamo tutti qui che non sarà lo stesso!”- mi risponde agitato.

Mi ritrovo confuso e imbarazzato. Non tento più giri di parole. “Ascolta Dulal. Nemmeno per me sarà lo stesso. Vorrei non dovervi lasciare, ma non è possibile. Talvolta dobbiamo accettare momenti difficili nella vita come questo. Ci aiuterà a crescere. E poi non vi lascio mica soli – gli dico indicando il tabernacolo – Gesù sarà qui sempre, ogni volta che vorrai. E’ Lui che dobbiamo cercare. Se tu lo farai qui e io in Italia, vedrai che un giorno ci ritroveremo”.

“Posso abbracciarla?”- mi chiede senza riuscire a frenare le lacrime. E mi si aggrappa al petto subito, senza attendere la mia risposta. Lo stringo stupito e commosso da un gesto che non è ordinario per questa cultura, ma che dice di più di infiniti discorsi.

Roton

La prima cosa che mi ha mostrato, rivedendomi di ritorno dalla vacanza in Italia, è stato il crocefisso di legno che portava al collo. Glielo avevo dato prima di partire, su sua richiesta. Poi mi dice con gli occhi che brillano: “Padre! Io e mia mamma possiamo prendere il Battesimo!”

Ero già stato informato della cosa, e ne ero davvero felice. Anche Roton, come Matul e qualche altro, insisteva da tempo per ricevere il Battesimo, ma erano mancate fino ad ora le condizioni necessarie. Figlio terzogenito di una vedova, Roton viveva in un villaggio non cristiano e anche per lui valeva il pericolo di essere rifiutato dal suo clan tribale in caso di conversione. Un peso troppo grande per un ragazzo. Ora però si era spostato con la mamma a casa del fratello maggiore, al villaggio di Kalpara, vicino alla missione e con parecchie famiglie cristiane. La situazione era cambiata.

Ci prepariamo per il gran giorno con alcune classi di catechismo sui sacramenti. Per il resto Roton è prontissimo: è buono come il pane, generoso. Sensibile alle cose di Dio. Ripenso ad esempio allo scorso anno, quando Angelus e Roton si trovavano entrambi, a turni diversi, in infermeria ad assistere altri bambini ammalati. Era il mese di luglio e insieme cercavamo di mettere in pratica la frase del Vangelo: “Ogni volta che avete fatto che avete fatto queste cose a uno dei miei fratelli più piccoli l’avete fatta a me.” (Mt.25,40). Cercai di spiegare loro che occasione magnifica era quella: in ognuno di quei fratellini c’era Gesù! Aiutando loro aiutavano lui, a lui portavano il riso, per lui l’acqua, le medicine… Angelus e Roton hanno continuato a fare lo stesso servizio di prima ma era cambiato radicalmente il modo e il movente, lo si vedeva a occhio nudo.

Li vedevo gioire per quegli atti d’amore e ne ero felice. Sapevo che un’esperienza anche piccola come questa, lasciava un segno profondo dell’amore di Dio in loro.

La domenica del Battesimo è stata una festa. Con tutta la classe quinta siamo andati a Kalpara e con il resto della comunità cristiana abbiamo accolto Roton e sua mamma. Roton aveva scelto per sé il nome di Agostino ( “perché – mi spiegava - da giovane ne ha combinate tante…” ) e di Monica per la mamma. Splendida combinazione.

Dopo la Messa guardavo Roton raggiante distribuire le gilapi[1], e mi sentivo felice. Condividere i doni più preziosi con le persone che ami non può che riempirti di gioia.

Proshanto e Shagor

Due flagelli. Due autentiche pesti. Capaci di raccontare bugie con la stessa credibilità con cui leggerebbero una pagina di catechismo. Alle loro spalle famiglie disastrose, o quasi. Proshanto è un bengalese di Saidpur, suo padre un filibustiere e questo direbbe già tutto. Anche due fratellini sono qui all’ostello con lui per cercare di tenerli il più possibile lontano da casa. Ma la china di entrambi – l’abbiamo capito presto – è la stessa, se non peggio, del loro dada[2].

Shagor invece è santal. Ha solo la mamma che vive con una figlia e fa onestamente quello che può, perché il marito è scappato chissà dove con un’altra donna.

Amici e complici nelle loro imprese, Shagor e Proshanto sono stati per me una scommessa. Sarebbe stato facile mandarli a casa e infischiarsene. In effetti Proshanto una volta ce l’ho spedito, ma si trattò di una decisione temporanea. La situazione era diventata insostenibile e dovevo tutelare anche la presenza degli altri bambini. Lo riprendemmo dopo due mesi, e credo che sia stato un bene. Da quella volta almeno un po’ è cambiato.

Sono convinto che un ostello come il nostro abbia il dovere di aiutare i bambini non solo quando sono “bravi”. Ci vorrà più tempo e certamente più pazienza, ma non possiamo tirarci indietro. Ovvio che quando i bambini da seguire sono 300, bisogna tener conto anche di chi li cura, perché ne bastano tre o quattro particolarmente “brillanti”, perché saltino i nervi a tutti.

Il rapporto con loro è cambiato anzitutto quando hanno capito che non avrebbero mai ricevuto da me punizioni corporali, cosa purtroppo normale per la cultura bengalese. Questo fatto e il tentativo di dare loro fiducia parlandoci spesso insieme e coinvolgendoli in piccole responsabilità, ha sbloccato la situazione. Hanno capito che potevano fidarsi, che cercavo il loro bene.

Ultimamente durante una classe di catechismo si erano lamentati del comportamento di una loro assistente, delle punizioni e del fatto che li picchia. Situazione delicata. Anch’io non tolleravo questo modo di fare, lo ritenevo un errore enorme, ma dovevo aiutarli a capire. Il problema era sottile perché legato alla loro cultura, per la quale un “grande” non si abbassa mai al livello del “piccolo”, e se può non perde occasione per umiliarlo. Ho detto: “Penso che abbiate ragione. Cercherò di spiegarle che sbaglia. Però pensate anche un po’ a come vi comportate tra di voi. Non usate forse gli stessi metodi? Non siete forse prepotenti con i più piccoli? E’ vero o no che li usate come schiavetti quando potete, comportandovi un po’ da mafiosi? Anche voi li picchiate e fate processi sommari appena fanno uno sbaglio. Perché allora rimproverare a p. Roby quello che è normale per tutti?”.

Pausa e silenzio totale in aula. Avevo toccato un punto vitale. Ma è su questi che deve risplendere la novità del Vangelo: com’era il comportamento di Gesù? Lui che era Dio, come si è comportato con i piccoli, i deboli? Non si è forse fatto loro servo per amore?

Il pomeriggio trovo Proshanto e Shagor sotto la veranda di casa ad aspettarmi.

“Avete una grossa responsabilità verso i più piccoli, tutti e due.” - li anticipo serio - “Lo sapete che impareranno anche da voi guardandovi, esattamente come voi avete imparato da altri. Cosa volete essere per loro, un aiuto oppure un ostacolo?”

“Ci impegneremo, padre.” – assicura Proshanto – “Ci proveremo. Lo so che possono sembrare solo parole, ma ci proveremo”.



[1] Dolci.

[2] Fratello maggiore, in bengalese.

E Shagor, esibendo una faccia da schiaffi da fiera campionaria: “E’ stato molto bello stamattina a catechismo. Siamo venuti qui solo per dirle che ci è piaciuto molto.”

Furbi come delle volpi questi due. Mi piacciono proprio per questo.

Simon

Con i più grandi di quarta e quinta abbiamo fatto catechismo sul bel libro di Jean Vanier: “Ho visto Gesù”, scritto con parole semplici che scaldano il cuore e belle figure da colorare. Dopo ogni lezione chiedevo sempre cosa li avesse colpiti di più e perché: quale frase o quale figura. Di solito venivano fuori delle risonanze molto belle. Era un modo per abituarli a meditare con semplicità sulla figura di Gesù. Una mattina Simon alza la mano: “A me è piaciuta la figura a pagina undici” – dice indicando un disegno nel quale si vede Gesù che cammina tenendo il braccio attorno al collo di un ragazzo accanto a lui.

“Perché ti piace questa figura?”- domando mentre tutti lo guardano.

“Perché si vede l’amore di Gesù. Come un amico. Anche se sbagliamo ci dà lo stesso fiducia.”- dice con qualche fatica Simon.

“Ti è mai capitato di fare questa esperienza con lui?”- gli chiedo senza neppure immaginare la risposta che mi darà. Simon ci mette un attimo a rispondere. Si vede che è un po’ a disagio. Poi dice ridendo: “Ieri”.

Immediatamente ripenso al giorno prima, quando l’avevo mandato a mangiare da solo con Marcus per punizione. Si erano picchiati davanti a tutti in refettorio e la scena non mi era piaciuta per nulla. Quando vado a cercarlo nel dopo pranzo, lo trovo dopo un po’ di ricerche sulla veranda dei nuovi bagni. Piangeva come una fontana e non aveva ancora toccato cibo. Il suo piatto di riso era lì davanti a lui, intatto. Mi viene subito il timore di essere stato troppo duro con lui, anche se non avevo alzato la voce o manifestato rabbia. Mi siedo accanto e gli chiedo se piange per via della punizione. Simon mi risponde di no con la testa. E continua a negare anche quando, insistendo, gli chiedo se qualche mia parola o gesto lo hanno ferito. Allora gli metto un braccio attorno al collo e gli ho domando con dolcezza perché piange in quel modo. Tra i singhiozzi mi risponde che la suora lo ha sgridato con parole dure e gli ha dato uno schiaffo.

Con la suora avrei fatto i conti più tardi. Adesso c’era Simon da consolare, e sono restato con lui fino a che non si è calmato e ha cominciato a mangiare.

“Ieri” – mi ha risposto Simon ridendo e abbassando subito gli occhi.

Due spiccioli

(Scritto al mio rientro in Bd, nell’ottobre 2003)

Stiamo attraversando l’India. Ormai il più è fatto, il Bangladesh è qui a poche ore.

Con me e p. Giampaolo viaggiano due giovani bengalesi che hanno studiato da noi in Italia e un’equipe di dottori italiani che andranno a Khulna, nell’ospedale delle suore di Maria Bambina, per diversi tipi d’interventi. Alcuni si fermeranno per 15 giorni, altri un mese. Il tutto gratis per i poveri: la sanità italiana non è solo scandali e disservizi. Una dottoressa del gruppo è di Genova: ha occhiali grandi che risaltano sul viso magro. Mi offre, con l’accento tipico della sua terra, un pezzo di focaccia comprata freschissima stamattina. La divoro, per quanto è buona. Un ultimo pezzetto d’Italia che gusto con il palato.

E’ una fase del volo nella quale mi sento un po’ più tranquillo e incline al sondaggio dei riverberi interiori. Sto cercando di monitorare il cuore, avvertendone le palpitazioni, le ferite, le strette. E’ inutile cercare di addolcire la pillola. Fa male, e anche parecchio.

Riprendo un cammino che si era bruscamente interrotto più di due anni fa, in modo molto doloroso. Allora fu faticoso lasciare il Bangladesh. Lo è adesso lasciare l’Italia. E’ mai possibile partire senza sentirsi lacerati ogni volta? Sembra quasi paradossale, ma non è così.

E’ vero piuttosto che il cuore dell’uomo, il mio, vive di relazioni e d’affetti, non cessa d’amare e di accogliere, dovunque sia piantato. Noi preti siamo una razza strana: chiamati ad amare con profonda umanità e allo stesso tempo a non attaccarci a nessuno. Una bella sfida. Ho pianto anche stavolta, non c’è stato niente da fare. Del resto la tensione accumulata è stata tanta, dovevo pur dare la stura alle emozioni compresse: è capitato con la stessa persona, come sette anni fa.

Nella testa, come diapositive in dissolvenza, ritrovo i volti che fanno parte della mia vita: la famiglia, i miei fratelli, i nipotini.

Al momento dei saluti la mamma non è riuscita più a trattenersi. Aveva già fatto uno sforzo notevole nei giorni precedenti. Mi ha detto: “Non fare caso alle mie lacrime, sono contenta che parti”. “Chissà se non lo eri!” – le ho risposto tanto per stemperare il clima. Ma avevo anch’io poca voglia di fare battute.

La nonna l’ho salutata stamattina sul bordo del suo letto, in cuffia e vestaglia da notte, le parole biascicate senza la dentiera, la sua benedizione per me e la mia per lei. Con l’età che ha, non è infondato pensare che sarà difficile rivedersi.

Padre Mariano è voluto venire anche in aeroporto, nonostante ci fossimo visti ieri. E’ davvero un fratello. Per un anno ho accarezzato l’idea di poter tornare insieme e cominciare una presenza missionaria da qualche parte. Lui aveva già pensato anche dove. E invece. Gli auguro tutto il bene possibile per la Cambogia, ma non smetto di sperare che possa tornare in Bangladesh, prima o poi.

Provo il servizio radio dell’aereo che offre, tra gli altri, un canale che trasmette canzoni italiane. Mi sintonizzo e nel giro di pochi minuti faccio un salto nel paleolitico. Mi vengono propinate nell’ordine: “Piove” di Modugno; “Se piangi, se ridi” di Bobby Solo; “L’immensità” di Dorelli; “Io tu e le rose” di Orietta Berti. Praticamente cancellati gli ultimi quarant’anni di musica. Quando le cuffie ci sparano nelle orecchie le note di “Zingara”, Giampaolo e io non ci teniamo più dal ridere. Accompagnandomi col gesto della mano e la bocca in playback, faccio la Zanicchi anni ’70, il trucco pesante, il naso aquilino non ancora rifatto: “Prendi questa mano, zingara…”

Lascio passare la hostess che mi guarda col sorriso obbligatorio d’ordinanza, poi mi alzo e dal vano bagagli frugo nello zaino fino a tirar fuori l’ultimo numero di “Modus Vivendi”[1], che mi è arrivato ieri. Giusto in tempo o era meglio perderlo? Vediamo. La grafica è migliorata, le parole si leggono, è già qualcosa. Pure gli articoli, per quanto brevi, mi pare abbiano del sugo. Anche questo è un piccolo miracolo, conoscendo gli autori. Infatti due di loro si smascherano per quello che sono poco dopo, nel delirio della doppia intervista. Ci sono volute due persone per partorire questo capolavoro. Un caso tipico di arrocco tra piedi e cervello.

Intanto però, mi mancano. Soprattutto gli adolescenti. Non è quasi passato giorno senza che in qualche modo (lettera, e-mail, sms), qualcuno si facesse vivo. Anche ieri, con la lettera di Benedetta, e perfino intorno a mezzanotte, quando Ilaria mi ha telefonato parlando sottovoce perché in casa tutti dormivano. Devo confessare che per me la vera fatica è stata quella di tornare a casa dopo il campo, nonostante l’avessi terminato sfinito. Ma come? Adesso che comincia il bello bisogna andar via? E’ nel dopo che la vera sfida inizia, quando ormai un po’ conosci i ragazzi e ti devi inventare qualcosa ogni giorno per farli crescere, nutrirli.

Ma non tocca più a me, almeno non direttamente. Perché comunque, come canta T. Chapman nella struggente “The promise”: “Although I've travelled far / I always hold a place for you in my heart”.

Rivedrò invece, tra qualche giorno, decine di altri volti che ho conservato nel cuore a lungo: Angelus, Roton, Matul, Juel, Gabriel, Joseph, Pores, Dulal… Che voglia di rivederli! Non li ho traditi, posso dirlo. Ho lavorato con tanti ragazzi e giovani in questi due anni di Italia, ma nessuno li ha sostituiti nel cuore.

Se ho trovato la forza di tornare è certamente anche grazie a loro.

Non c’è dubbio che torno diverso da come sono venuto la prima volta. Non posso dire di non conoscere il paese e le difficoltà che mi aspettano. Mi accorgo di essere spaventato dall’idea stessa di dovermi misurare di nuovo con il Bangladesh e la sua gente. Temo, inutile nascondermelo, di dover alzare bandiera bianca una seconda volta, di non farcela, di soccombere di nuovo sotto il peso delle tensioni. Torno con una consapevolezza maggiore dei

limiti e delle pochezze che mi ritrovo come bagaglio a carico.



[1] Foglio di collegamento del Movimento Giovanile Missionario di Roseto degli Abruzzi.

Mai come ora so bene che non ho letteralmente nulla da offrire alla missione del Bangladesh. Sono povero come i poveri che incontrerò di nuovo. Sono la vedova che butta due spiccioli nel tesoro del tempio. E senza avere la sua fede.

Allora, perché torno? E a fare che cosa? Voglio dire: al di là del compito specifico che mi verrà chiesto, cosa penso di poter fare rientrando?

Mi viene in mente una sola risposta. Talmente semplice da sembrare banale, ma non ne trovo altre di uguale fascino e concretezza. Se torno, è solo perché credo che tu Signore Gesù, continui a fidarti di me, e a chiedermi, con forza e tenerezza insieme, di raccontare il tuo nome amando. Torno per offrire, come riesco, come posso, la mia porzione di amore. E per dire, attraverso il mio, l’amore Tuo per ciascuno. Arriveranno i programmi, le strategie, i distinguo, le “priorità pastorali”, ma in fondo la vita è tutta qui. Non abbiamo cose più importanti o urgenti da fare se non amare.

Se poi guardo alla mia di vita - piena di contraddizioni e miserie, come anche di doni stupendi - non trovo altra luce capace di incantarmi e coinvolgermi come il Vangelo. Anche stavolta sento di dover scommettere tutto sulla Tua Parola. Un azzardo che si rinnova e non è mai uguale, non è mai fatto una volta per tutte. Perché nel frattempo cambiamo noi e Tu ti inventi proposte nuove. Me lo ha ricordato in modo doloroso ma efficace anche Mariano che, a cinquant’anni suonati, abbandona una missione conosciuta per cominciare un cammino nuovo, che non sa dove lo porterà, ma nel quale intravede la Tua chiamata.

Provo a dirtelo: ho paura Signore, ma sono qui. Vedi di tenerne conto.

Oggi, 15 ottobre, è Santa Teresa d’Avila. Mentre chiedo succo d’arancia - “No ice, please”, “Enjoy your drink” - ripasso a memoria uno dei suoi pezzi più belli, cercandovi la pace del cuore e l’abbandono che mi è chiesto:

Niente ti turbi

né ti sgomenti,

tutto si dilegua,

Dio non si muta.

Con la pazienza

tutto si ottiene;

con Dio nel cuore

non manca mai nulla:

solo Dio basta.

Provo a ricantarmela con calma, più volte, mentalmente. Scandisco parola per parola. E alla fine non ho dubbi: è assolutamente meglio della Zanicchi.

Una lettera inutile

(Scritto per il Movimento Giovanile Missionario di Roseto degli Abruzzi)


Anche stanotte ho dormito poco, così mi sono alzato con la luna di traverso per il nervoso. Capirai: l’umidità è al 100%, praticamente nuotiamo. Le copertine dei libri si arricciano, suoi vestiti c’è la muffa, a tavola il sale si trasforma in acquetta e durante la Messa, all’elevazione, l’ostia fa “blap” e si piega. Mi è perfino venuta una forma di micosi fastidiosissima che provoca un prurito tremendo.

In mezzo a tutto questo, l’amica Mafalda non trova niente di meglio da fare che venire a rompere chiedendo di scrivere qualcosa per il Campo scuola dei ragazzi dell’MGM[1] di Roseto! Ma cosa devo scrivere?

Mi sfogo con il Crocefisso che tengo appeso davanti al mio letto, lo stesso che ho ricevuto alla partenza per il Bangladesh. Ci faccio delle belle chiacchierate: ho imparato da don Camillo.

“Non ti pare di esagerare? – mi dice il Cristo – “Guarda quanta gente in questo momento ha guai ben peggiori di questi”.



[1] Movimento Giovanile Missionario di Roseto degli Abruzzi.

“Hai ragione Gesù” – dico chinando il capo per la vergogna – “Perdonami, mi ha preso un minuto di rabbia tropicale[1]”.

Siamo in piena emergenza alluvione, c’è un terzo del paese sott’acqua, una folla di poveracci si accalca sulle zone asciutte aspettando un aiuto da qualcuno.

La televisione ieri sera parlava di almeno 21 milioni di persone senza più nulla: non una casa, non un pezzetto di terra, non un piatto di riso.

Qui al nord per ora siamo tranquilli. Ma mancano ancora almeno due mesi alla fine della stagione delle piogge: cosa accadrà se dovesse continuare a questi ritmi?

“Gesù” – dico io con la voce che un po’ mi trema – “Non potresti fare qualcosa?”.



[1] Rabbia tropicale: malattia endemica che ogni tanto colpisce i missionari. Complice la stanchezza e il logorio della stagione monsonica, la “rabbia tropicale” coglie all’improvviso ed è in genere di breve durata. Pare che i missionari del Bangladesh siano più esposti di altri a questo problema, perché colpiti simultaneamente due volte sulla testa dai raggi del sole: quelli che arrivano direttamente e quelli che, andando a colpire l’Himalaya alle nostre spalle, vengono riflessi sulla nuca, provocando così l’effetto cottura.

“L’ho fatto” – mi risponde con dolcezza il Cristo dalla croce – “Ho fatto te, ho fatto voi. Io provvedo ai poveri del mondo anche attraverso di voi. Queste tragedie sono ancora il segno che manca una fratellanza vera tra i popoli, manca la comunione, l’amore fraterno”.

Non so bene cosa dire, mi rigiro le mani senza trovare uno sbocco.

“Perché non scrivi queste cose ai ragazzi del Campo? – mi suggerisce Gesù – Sono certo che sono sensibili a quello che sta capitando”.

“Sensibili???” – faccio io sbalordito – “Scusami ma tu non conosci gli adolescenti, Gesù. Sono sensibili solo ai loro drammi, il più grande dei quali adesso è spalmarsi una crema solare protezione 8 e scendere in spiaggia a fare un bagno. Se anche gli raccontassi numeri e dettagli, so già che risponderebbero: “L’alluvione? Ah sì, l’ho visto sul Tg4…”. Capisci? Il Tg4! Perfino peggio dell’alluvione.

E poi i ragazzi non saranno nemmeno gli stessi, manco mi conoscono. Cosa gli scrivo sulla missione che non li annoi? Ma dai, me li immagino già che sbuffano, mentre ascoltano quello che ho scritto, e pensano: “E che palle ’sta missione! Sono le solite cose che abbiamo già sentito milioni di volte! La fame, i poveri, noi che abbiamo tutto e loro niente, i sensi di colpa… le solite menate!

Hanno ragione: sono le solite menate. Tanto a loro cosa cambia? Non sanno un tubo della miseria e anche se gliela racconto non gliene può fregare di meno. Basta cambiare canale ed è fatta. Cosa danno di là? Ah, c’è la De Filippi con la sua scuola di ragazzi che vogliono diventare famosi. Si fanno una flebo di queste vaccate e sono di nuovo addomesticati con sogni prefabbricati, precotti e premasticati. E neppure si accorgono dell’inganno. In fondo sono abituati a portare vestiti pensati da altri.

Oltretutto, Gesù, se gli raccontassi queste cose finirei per dare la solita idea assistenzialista della missione. Invece noi non siamo qui per fare gli operatori sociali o l’organizzazione non governativa: non siamo né Emergency né Medici senza Frontiere. Siamo qui per raccontare Te, Gesù, con la vita. Come se fosse facile”.

“Neppure per me lo è stato, ricordi?” – mi dice Gesù dalla croce – “E poi non ti pare di essere troppo duro con questi ragazzi? Non è facile neppure per loro la vita, se nessuno li aiuta”.

“Io troppo duro, Signore? Nooo, credimi. Dovresti vederli! Arrivano al Campo con le valige piene di cose inutili, con 60 paia di vestiti di cambio perché non-si-sa-mai-che-possano-servire, beautycase zeppi di creme, shampi, deodoranti, profumi, gel… e non sto parlando delle ragazze, eh! Parlo dei maschi! Figurati le altre…

Mica gliene importa dei poveri! Alla sera si infilavano in un supermarket e tornavano come cammelli carichi di roba da mangiare.

Non parliamo poi dei cellulari, Signore. Stanno lì a smanettare per mandarsi sms e poi, quando si devono sedere in gruppo per la condivisione, non riescono a spiccicare parola guardandosi negli occhi.

Con i genitori che telefonano 3-4 volte al giorno: un cordone ombelicale che non finisce mai! Come fanno a crescere???

Anche con gli animatori è stata davvero dura. Mi costringevano ad orari notturni per le riunioni di verifica, con Barbara che già è impapita[1] di giorno, figurati la sera, Mafalda che dormiva con la bocca aperta, Ciccuccio che aveva problemi ad articolare un discorso per via dei fritti da digerire… Ho dovuto fare i salti mortali. Alla fine non ce la facevo più!”.

“Deve essere stato tremendo” – mi dice il Crocefisso, e mi pare di coglier come una leggera ironia nella sua voce.

“Certo che lo è stato” - faccio io un po’ risentito - “Quando è finita ho tirato un sospiro di sollievo!”.

“Ma se è stato così terribile - mi domanda Gesù - com’è che mi parli di loro tanto spesso? Quando sei tornato mi pareva di aver capito che era stata un’esperienza bella e non terribile…”

“E’ stato un Campo straordinario, Gesù - dico io arrendendomi - “E i ragazzi splendidi. Tanto che alla fine ho capito che ci siamo salutati senza separarci. Sto solo cercando di ingannarmi per sentire meno la nostalgia. Tra qualche giorno cominciano, sai. Vuoi metterci una mano? Quest’anno c’è p. Luca: che speranza hanno di cavarsela? E ancora non sanno che dopo due giorni lui avrà consumato di notte la scorta alimentare di una settimana!”

“Padre Luca farà benissimo, vedrai. Anche meglio di te, cosa credi?” - mi dice Gesù con tono di rimprovero.

Abbasso gli occhi: “Non credo niente, Signore: temo solo che se Luca fa troppo bene poi mi dimentichino”.

Sento che Gesù mi guarda con tenerezza: “E se anche fosse? - mi dice - “Non ti basto io?”. Trattengo il fiato per qualche istante, perché ho capito dove vuole arrivare. “Perdonami Signore, sono solo un povero prete con il cuore fragile e la testa piena di stipidaggini. Dico di amarti ma poi mi attacco a tutto e a tutti, ti baratto e svendo in modo vergognoso. Prometto una fedeltà che non sono in grado di assicurare neppure per qualche istante. Non fosse per te sarei già chissà dove”.

Il Cristo crocefisso mi dice solo: “Ma tu sei chissà dove. Ti ci ho portato io qui, non ricordi?”.

“Lo so Signore e amo questo lavoro. In effetti stare con 120 adolescenti tutto l’anno è un po’ come vivere un campo lungo 12 mesi… Tra loro ci sono bengalesi, tribali oraon, santal, raut, mahali, khottryo. La maggioranza è cristiana, ma ci sono anche diversi indù e tribali che vogliono diventare cristiani. Vivere con questi ragazzi è un’avventura straordinaria. Ti ringrazio di avermi portato qui tra loro. Difficile è difficile, ma non mi lamento. Se in Italia i problemi dei ragazzi nascono dall’abbondanza, qui nascono dalla miseria. Manca, normalmente, una consapevolezza anche solo accennata sul senso della propria vita. Non c’è l’abitudine a riflettere sui problemi, a registrare le proprie emozioni. La preoccupazione principale, inconsciamente, è quella di riempire la pancia e di passare gli esami, trovare un lavoro. Sto cercando di aiutarli a costruirsi una vita interiore degna di questo nome. E’ davvero un’impresa, Signore. Però lo trovo un lavoro fantastico. Voglio dire: crescere con loro in tutte le varie attività della giornata, dando loro fiducia, spronandoli al meglio, cercando di accendere in loro l’interesse per le cose belle. Mi basterebbe che in tutte queste cose facessero anche solo una piccola esperienza di Te. E’ qui che li voglio portare, perché fatto questo è fatto tutto.

Ma capisco che per dare loro qualcosa devo prima essere ricco io. Devo cercare d’essere l’amore in tutto ciò che faccio con loro, dalla preghiera al gioco”.

Resto un momento in silenzio. Ho dentro una domanda che mi preme: “Perché amare è così importante, Gesù? Perché Dio e il mio vero “io” li trovo al-di-là di me, nell’amare il fratello, anzi, nel vivere il fratello?”

“Perché così è fatto Dio, che è Amore – mi risponde Gesù – E voi siete fatti a immagine e somiglianza di Lui. L’amore è Dio in voi, voi in Dio. Pensa: Io in te e tu in Me. Non ti basta?”.

Mi piace da matti quando parla così, perché capisco che è vero e che solo Lui è capace di illuminarmi la vita in questo modo e di darle un senso.

E proprio per il mestiere che faccio ho anche la grazia di poter vedere le meraviglie che lo Spirito compie nell’animo dei ragazzi che accosto: ricordo certi colloqui o certe confessioni al Campo scuola. Come guardare un pittore da dietro mentre sta pian piano dipingendo un paesaggio unico, affascinate. Lo vedo adesso nelle trame semplici dei giorni ancora verdi di questi ragazzi. Posso dirlo: quando un giovane scopre in Gesù l’Amore e trova in lui la vita, o almeno comincia ad intuirla, non importa se sia italiano, bengalese o santal: i suoi occhi brillano di gioia allo stesso modo. Gli occhi di Cittho, 16 anni, un ragazzo indù che si sta avvicinando con la sua famiglia al cristianesimo. Ieri sera, come ogni fine mese, è venuto a portarmi, su un foglio, le esperienze fatte vivendo la frase di vangelo che ogni mese insieme cerchiamo di mettere in pratica. Rimango di sasso quando le leggo, per la loro concretezza e profondità. Significano, senza ombra di dubbio, che Gesù sta operando in lui, facendogli capire cose che da solo non potrebbe.

Sarà dura ma il nostro è un mestiere impagabile. Certo, avverto anche tutta la mia pochezza e stupidità: “E’ una vita che cerco di venirti dietro con risultati penosi, Gesù: ti stancherai di aspettarmi?”.

Non ho neppure bisogno di alzare lo sguardo per la risposta. La conosco da sempre.

Poi gli dico: “Allora, cosa scrivo ai ragazzi?”.




[1] Dialetto abruzzese: istupidita, intontita, confusa.

Storie di ragazzi, bambini e dintorni

(Qui ho raccolto sotto lo stesso titolo raccontini pubblicati in diverse circolari. Mi sembrano comunque tutti legati a questo tema)


Topu

Sorpresa. Topu mi chiede di parlare insieme. Timidamente, come nel suo stile. Nella sua classe, l’ottava, è il più brillante negli studi, e che non finirebbe mai di fare domande su tutto: storia, geografia, religione, scienze. Qualsiasi argomento è buono. Si vede che è curioso e ha sete di sapere. Si vede che è un indù e non un tribale come tanti suoi compagni. Non lo dico per dispregio nei confronti dei tribali: che gli indù siano generalmente più portati agli studi e che abbiano maggior interesse nel farlo è un dato di fatto innegabile. Fa parte della loro storia e della loro cultura. Cose che invece non sono nel bagaglio normale dei tribali: altra mentalità, altro approccio alla vita. Fin dalle elementari Topu ha studiato nelle nostre missioni e nei nostri ostelli, ricevendo un’istruzione cristiana come vuole la nonna con la quale vive, dopo la morte della madre e le seconde nozze del padre. Era con me negli anni che ho trascorso alla missione di Suihari e posso dire di conoscerlo abbastanza bene.

So che il papà non vede di buon occhio questo approccio troppo ravvicinato al cristianesimo. Apprezza le nostre scuole ma la stima finisce lì.

Mi siedo con Topu nel mio ufficio sulle sedie di plastica colorate: verde per me, azzurra per lui.

Per questi ragazzi non è facile parlare in privato di loro, manca l’abitudine a farlo e manca soprattutto una consapevolezza un po’ profonda della propria vita.

Ma non è il caso di Topu che, al contrario, è sensibilissimo.

Mi metto dunque nella disposizione d’animo di ascoltare con attenzione anche perché Topu usa vocaboli un po’ alti per me e un suo difetto di balbuzie rende ancora più complicata la faccenda.

Parte da lontano, confessandomi la sua difficoltà a vivere la frase di Vangelo che questo mese cerchiamo di vivere. Mi cita alcuni episodi nei quali ha capito la fatica di adeguare alla parola del Vangelo il suo comportamento. Ma proprio in questa fatica riconosce la novità e la bellezza della parola di Gesù. Bellezza e novità che lo attirano molto. Poi mi snocciola alcune domande sulla vita e la fede: perché ci sono dolore e peccato? Come fare a comprendere la volontà di Dio sulla mia vita? Tanto per gradire. Cerco come posso di rispondere, anche se mi trovo presto ingolfato, senza vocaboli appropriati, senza molta lucidità nella spiegazione. Fa un caldo-umido maledetto e sudo come una fontana. Mi ritrovo a parlare di Dio con fatica quando vorrei invece essere brillante per aiutare Topu a capire. Nel cuore faccio offerta a Gesù anche di questo: faccia breccia lui dove la povertà delle mie parole non riesce. Questo mi rende più tranquillo. Quello che conta è amare questo fratello che ho davanti. Le risposte verranno.

“Come faccio a capire cosa Dio vuole da me?” – mi chiede di nuovo Topu.

Lascio perdere ragionamenti troppo complicati. Preferisco partire da un paragone più semplice: “Quando due amici si vogliono bene è logico che finiscano per conoscersi sempre di più e, proprio perché c’è amore tra loro, condividano le cose più belle che vivono. Così Gesù: se lo amo e cresco nella sua amicizia, Lui mi sommerge col suo amore e pian piano mi fa capire cosa desidera da me. Ma è necessaria questa amicizia”. Gli leggo un passo di Giovanni: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi”.

“Capisci cosa intende dire Gesù?” – chiedo a Topu. Ma mi accorgo che è preso dalla commozione e non riesce a rispondere. Gli occhi si riempiono presto di lacrime che non può trattenere, anche se ci prova. Gli tremano le labbra mentre parla e non riesce a coordinare bene le parole, ma il senso di ciò che dice mi è straordinariamente chiaro e commuove anche me.

“Io voglio essere cristiano padre, ma non posso essere battezzato e non so fino a quando, perché mio padre non vuole. Come faccio a seguire Gesù così? A scuola i compagni mi dicono che sono indù ma io rispondo che sono cristiano. Cosa devo fare? Era da tanto che volevo parlarle di questo ma non trovavo mai il coraggio… Siccome non sono battezzato temevo che lei non mi avrebbe dato importanza.” – mi dice Topu mentre tira su col naso di continuo e si asciuga le lacrime.

Eccolo qui il punto. C’è voluto un po’ ma ci siamo arrivati. Non è la prima volta che mi ritrovo ad ascoltare un ragazzo che mi dice la sua voglia di ricevere il Battesimo. Ma è sempre un momento che mi emoziona perché c’è dentro in fondo tutta la mia vocazione, tutto il senso della mia chiamata e presenza qui in missione. Avverto subito di trovarmi di fronte ad un luogo sacro, nel quale davvero devo togliermi i calzari prima di addentrarmi. E’ l’opera di Dio in un’anima. E’ l’Artista che con colori e pennello sta creando uno dei suoi capolavori.

Cerco di spiegarmi con dolcezza. Chiedo a Gesù di darmi solo le parole che servono. Le altre ce le metta Lui.

“Il tuo cuore non ha segreti per Dio, lo sai Topu, non è vero? Lui è Padre e conosce tutto di noi. Conosce anche il tuo desiderio di essere suo figlio. E sa che per l’opposizione di tuo papà non puoi per ora essere battezzato. Questo a lui basta. Forse arriverà il giorno in cui sigillerai anche con il Battesimo questo desiderio. Ma per Dio Padre tu sei già suo figlio. Per Gesù sei già suo discepolo. Non basta un sacramento, per quanto importante, per assicurarci la nostra conversione a Gesù. Ci sono tanti cristiani che sono battezzati, ma non vanno a Messa, non pregano, non vivono secondo il Vangelo. Gesù sa cosa c’è nel tuo cuore, conosce il tuo amore per Lui. Tu sei già “battezzato” per il tuo desiderio.

E poi guarda: è vero che non puoi ricevere la comunione o confessarti, però puoi pregare quando vuoi, puoi leggere il Vangelo, meditarlo e soprattutto viverlo. Puoi amare, la cosa che a Gesù sta più a cuore. Chi ti può impedire di amare?”

Non so quali di queste parole lo convincano, però mi sorride rasserenato. Che mistero il cuore di un uomo!

“Sono contento che lei sia qui con noi” – mi dice prima di andare via.

Citthro

Anche lui un indù. Anche lui con un grande desiderio di essere cristiano. A 16 anni Citthro frequenta la settima, un po’ in ritardo sui tempi normali, ma non è un caso isolato. Tanti ragazzi cominciano in ritardo la scuola, oppure dopo aver frequentato quella del villaggio ed essere approdati a quella di città, si vedono retrocessi di un anno o due addirittura, per evidenti carenze di formazione rispetto agli altri.

Il suo papà da qualche anno si sta avvicinando al cristianesimo. E’ un buon uomo, semplice e anziano. Potrebbe essere suo nonno. Quando ci siamo incontrati, la prima volta, non ho potuto non chiedergli come mai due figli in così tarda età. E lui è partito in uno di quei bellissimi racconti da saga familiare. Maggiore di cinque fratelli, ha dovuto promettere – la sua mano in quella del padre morente – che avrebbe badato ai fratelli fino al loro matrimonio, e solo dopo avrebbe pensato al proprio. Finisce il racconto che ancora stringe le sue mani callose per ricordare la fedeltà a quel patto: “Il Signore però poi mi ha benedetto con questi due figli, che sono la mia consolazione nella vecchiaia. Sarà Citthro a decidere se diventare cristiano, io mi adeguerò alla sua scelta con tutta la famiglia”. Intanto Citthro si ritrova solo quando torna a casa, perché non ha nessuno che come lui nel villaggio stia facendo lo stesso cammino. Tutte

famiglie indù. E’ una sofferenza che mi confida, perché non poche volte si ritrova a dover subire le prese in giro degli amici e l’incomprensione dei parenti.

Lo dice con un misto di semplicità e fierezza, come se queste fatiche avessero già formato in lui uno spessore di fede.

Ma non mi faccio illusioni. So bene che le pressioni della comunità sono enormi e so per esperienza che i convertiti dall’induismo possono essere imprevedibili. Proprio per la capacità tipicamente indù di fagocitare e digerire altre fedi e culture, non poche volte è successo che alcune famiglie solo qualche anno dopo il battesimo siano tornate all’induismo. Giusto qualche giorno fa Jogonnath mi rivelava dispiaciuto che il fratello maggiore vuole convincere il padre a tornare indù, dopo che solo un anno fa hanno ricevuto il Battesimo.

Citthro continua la sua strada. Ogni mese è il più fedele a consegnarmi su un foglio le esperienze fatte nel vivere la frase del Vangelo che viene proposta. Esperienze concrete, belle, che rivelano un cammino più profondo di quello a prima vista intuibile. A me interessa questo. Se c’è un’esperienza vera del Signore e del suo amore, il resto verrà.

Con i piedi

Una finale di pallone è sempre un momento un po’ speciale. Lo è ancora di più quando diventa la seconda nel giro di dieci giorni. La squadra del St. Philip’s ha prima vinto il torneo cittadino per le scuole superiori ed ora, passato il primo livello, si gioca la finale del torneo dei distretti. Ci siamo arrivati dopo cinque partite dure, tutte vinte. La nostra squadra rappresenta la scuola e, nella folla che stipa lo stadio di Dinajpur, ci sono tanti compagni musulmani che tifano per noi. Questo per me è un doppio motivo di orgoglio: i nostri giocatori, infatti, sono tutti cristiani e tribali. Due categorie, in una società come quella bengalese, marginalizzate o addirittura disprezzate. Per i ragazzi si tratta di un’occasione di riscatto come forse non capiterà più in vita.

Lo scorso anno perdemmo stupidamente la semifinale e ricordo come ci bruciò, anche per il fatto che la squadra era veramente buona e, sapendo che diversi dei grandi sarebbero andati via, pensavo che non avremmo avuto un'altra possibilità quest'anno di creare una formazione altrettanto competitiva.

Non potevo sbagliarmi di più. La squadra di quest'anno è stata persino migliore. Cinque partite vinte nettamente una dopo l'altra, fino alla finale vinta 2-0. 16 gol fatti e nessuno subito. Asfaltate squadre che, viste giocare nei giorni precedenti, mi avevano un po' preoccupato. I ragazzi sono stati bravissimi, hanno superato le mie aspettative, migliorando di partita in partita, giocando con un 4-4-2 pronto a diventare un rombo quando necessario. Avevo visto dei progressi negli allenamenti ma non mi aspettavo, soprattutto a centrocampo, questa qualità.

Se penso che quando sono arrivato, l’unico schema di gioco era quello “a sciame” (tutti dietro al pallone dovunque si trovasse), e che la palla più che giocarla la fiondavano, posso consolarmi.

A bordo campo faccio fatica a trovare spazio per muovermi, c’è una calca di ragazzi che non capisco siano qui per tifare o per vedere me sbraitare ordini in bengalese e arrabbiarmi in italiano quando si sbaglia. La verità è che sono nervoso, ho anche rotto l’ombrello nell’agitarmi.

Vinciamo 2-0, meritatamente, e pazienza se la partita è stata bruttina, anche a causa della pioggia. Ad ogni gol un’invasione di campo, in perfetto stile Bangladesh.

In questi giorni non sono mai riuscito, prima della partita o durante l’intervallo, ad isolarmi con la squadra per parlare con loro. Attorno avevamo sempre una folla di gente che commentava, consigliava, sgridava, dava pareri non richiesti. Impossibile descrivere la festa che si scatena appena l’arbitro fischia la fine.

Dopo la consegna della coppa i ragazzi vogliono fare una preghiera di ringraziamento. C’è silenzio, finalmente. Segno di croce. I compagni musulmani ascoltano e alla fine invito anche uno di loro a pregare. Poi via di nuovo per la festa. Ai ragazzi dell’ostello ho promesso che oggi c’è carne e dolce per tutti.


Senza piedi

Uno pensa che alla fine a certe cose ci si abitua. Invece. L’ho incontrato per strada due volte, la sera, ritornando a casa. Se ne stava sdraiato sul cemento del marciapiede, un piccolo telo di plastica sotto la schiena. Magro e con addosso solo un paio di calzoncini blu, quasi rasato a zero, dormiva a pancia in su con le mani a cuscino intrecciate dietro la nuca. La bocca aperta in un respiro regolare. Tranquillo. Come fosse la cosa più normale e rilassante dormire in mezzo al traffico di Dhaka, con il rumore e lo smog delle macchine proprio di fianco, il piscio e le feci di tutti che mandano un odore da togliere il fiato, la folla che passa, la polvere, la spazzatura, la totale indifferenza. Come fosse naturale restare lì, senza i piedi mangiati da qualche ustione, due moncherini al termine delle gambe, la ciotola dell’elemosina vuota.

Sono tornato più volte di giorno per cercare di conoscerlo. Per dirgli cosa poi? Non l’ho mai ritrovato. L’ho solo guardato dormire, quelle sere, senza trovare il coraggio di ascoltare il cuore che mi gridava: “Portalo via di qui! Portalo via!”.

Ci sono volte che ci si sente trafitti e impotenti e dentro vien solo voglia di piangere o gridare. Sono le volte che credi di guardare un bambino e invece è Gesù in croce.


Mezzo chilo di riso

Il preside della nostra scuola mi informa che si stanno raccogliendo aiuti da distribuire alla gente di una zona qui vicino colpita dall’alluvione. Mi chiede di donare una quota corrispondente a mezzo chilo di riso per ogni ragazzo dell’ostello. Di riso ne abbiamo stivato diverse tonnellate, dal momento che ogni giorno ne consumiamo quasi un quintale. Potrei dare quello che chiedono con facilità. Si tratta però di far partecipare anche i ragazzi e chiedere loro in che modo vogliono offrire questo mezzo chilo per ciascuno. Altrimenti perderemmo un’occasione per crescere nel dono.

Raccolgo proposte classe per classe e rimango stupito dal loro entusiasmo nel rispondere. Per raccogliere il riso necessario alcuni suggeriscono di rinunciare a due colazioni – cioè a due piatti di riso – altri ad una cena e di aggiungere soldi, altri ancora di saltare la carne una domenica – l’unica di tutta la settimana! – e aggiungere soldi per colmare la cifra stabilita. Alla fine decidiamo insieme di eliminare la carne per una domenica e di rinunciare a una colazione.

Se penso a quanto sia importante questo gesto di rinuncia, che diventa dono per gli altri, a questo riso che per loro è tutto e anche di più, provo un misto di orgoglio e di tenerezza per i ragazzi.


Ismail

6 dicembre, fine d’anno scolastico. Prima che i ragazzi vadano a casa per le vacanze, facciamo festa assieme preparando una ricreazione con un po’ di numeri. Io organizzo la pesca con premi raccolti durante l’anno e cose comprate qui. Tutti riceveranno qualcosa. Le magliette da calcio taroccate di Zidane, Maradona, Ronaldo, Crespo, Vieri, che mi ero portato dall’Italia, risaltano sul tavolo e sono ovviamente le più desiderate. Sontus e George perdono la bava davanti al palco per tutto il tempo, sperando di essere loro tra i fortunati. Invano: le pigliano altri, che il calcio lo masticano assai meno di loro. I ragazzi sono contenti e ci danno dentro con le danze e i canti. Sono contento anch’io, mi pare che il bilancio sia positivo, pur con tante cose da migliorare.

Mentre ci si prepara per andare a dormire, Ismail - diciottenne santal - mi si avvicina per parlare. Fosse stato per lui, in tutto l’anno mi avrebbe detto sì e no dieci parole, compresi i buongiorno, tanto è timido. Anche adesso è imbarazzato, ma sorride e mi dice sottovoce: “Ha mantenuto la sua parola padre, grazie!”. Casco dalle nuvole: che parola avrei mantenuto? “All’inizio dell’anno, cominciando questo nuovo lavoro, lei ci disse che non poteva prometterci nulla tranne una cosa: che ci avrebbe amato. Questa parola l’ha mantenuta.” – mi dice Ismail, mentre torce il suo berretto di lana con le mani.

Sento di arrossire fino alla punta dei capelli. Come quando da studente il professore si complimentava per un compito riuscito, ma io dentro ero pieno di vergogna perché sapevo di aver copiato e di non avere nessun merito.


Shagor

Questa è una storia che mi hanno raccontato. Una di quelle storie che solo i bambini possono creare.

Shagor in bengalese significa mare ma è anche un nome proprio che viene dato spesso ai bambini. Nella città di Khulna c’è n’è appunto uno che si chiama così, vivace come tutti i suoi coetanei ma praticamente solo. La mamma, abbandonata dal marito da anni, deve lavorare tutto il santo giorno per procurare il riso per due. Niente scuola per suo figlio, che vaga per la città vivendo di espedienti in compagnia di una capretta.

Un giorno, a causa di una brutta caduta, Shagor si rompe il braccio. Il problema è trovare un ospedale dove andare: non ci sono soldi e bisogna sperare in un aiuto dal cielo. L’aiuto arriva. La mamma di Shagor viene a sapere che c’è un ospedale dove curano anche chi non può pagare. E’ l’ospedale gestito dalle suore di Maria Bambina e la superiora, sr. Tecla, si occupa del caso. Bastano pochi giorni e Shagor si rimette in sesto: tre pasti assicurati ogni giorno, le cure amorevoli delle suore, altri bambini con cui giocare e cantare, sono ragioni più che sufficienti per ritrovare piena salute. Torna a casa dopo un paio di settimane.

Passa qualche tempo e un giorno sr. Tecla se lo vede ricomparire davanti: stesso bambino e stesso braccio rotto. Troppo perché una suora esperta come lei non cominci a sospettare qualcosa. Sono sospetti fondati. Chiacchierando con il bambino e facendolo parlare, alla fine scopre che è Shagor stesso che si è rotto il braccio di nuovo. Era l’unico modo che conoscesse per tornare in ospedale e ritrovare le attenzione e le cure delle suore. Quelle stesse che lo avevano fatto sentire amato. Vivo. Prezioso.


Iscrizioni

Alle iscrizioni per il nuovo anno scolastico, per i “cuccioli” di classe sesta si presentano 46 bambini intorno ai 10-12 anni. Procediamo ad un esame su alcune materie scolastiche per darci modo di capire un poco il loro livello di preparazione, ma soprattutto per avere un appiglio a cui aggrapparci per giustificare quelli che manderemo a casa. Quando abbiamo i risultati raduno tutti e comunico i nomi di quelli che resteranno. La maggior parte non ha passato l’esame, ma li pigliamo lo stesso: avranno un anno per crescere nelle loro capacità. Li vedo tesi e lo so: tutti sono venuti qui con la speranza di restare. Tornare a casa vorrà dire per tanti non poter continuare la scuola. Non è giusto, mi dico. D’altra parte più di venticinque non posso prenderne. Sono già tanti. Ad uno ad uno si alzano quelli promossi, mentre gli altri restano seduti, immagine simbolica che mi intristisce.

Uscendo, Rubel mi corre di fianco. Lo conosco da quando aveva 6 anni e praticamente è rimasto alto uguale. Come allora ha sempre quell’allegria e quel sorriso che mi mettono istintivamente di buonumore. “Padre!” – mi dice agitato e felice – “Avevo una paura matta di non passare!”. “Invece ce l’hai fatta, hai visto?” – gli faccio dandogli di gomito.

“Sì, però senta qua! – dice Rubel prendendomi la mano e portandosela all’altezza del cuore. Non c’è bisogno dello stetoscopio: dentro il petto da passerotto sento il cuore che pare che voglia schizzare fuori tanto batte forte.

Un anno nuovo

Si ricomincia. Avverto la gioia profonda e la voglia di rimettermi in gioco con i ragazzi. Ho un po’ di idee per le proposte formative di quest’anno. Una è andata in porto proprio in questi giorni e ne sono soddisfatto. Suor Rina – una suora bengalese che ha studiato psicologia in Italia – mi ha assicurato un paio di incontri mensili per le classi dei più grandi. Darà la possibilità ai ragazzi di conoscere meglio se stessi e a me quella di conoscere meglio i ragazzi.

L’altro ieri abbiamo fatto la festa di benvenuto per i nuovi 36 arrivati: canti, danze, scenette, dolci e… lavanda dei piedi. Come lo scorso anno ho

voluto lavare i piedi a tutti i nuovi, così come la gente usa fare nei villaggi quando arriva un ospite. Prima si versa l’acqua fino al ginocchio, poi si asciuga e infine con l’olio di colza si unge e massaggia. Lo trovo un gesto bellissimo, molto denso, pieno di accoglienza e di attenzione per l’altro. Oltre al fatto che rimanda dritto-dritto al Vangelo.

E’ un momento che vivo proprio con la consapevolezza di essere qui solo a servizio dei ragazzi: “Sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27). Mentre ungo i piedi di Paulus e l’odore pungente dell’olio di colza m’impregna le mani, vedo una cicatrice che porta sullo stinco: “Si ricorda? – mi dice Paulus – Me l’ha curata lei.” Ci metto un po’ ma poi ci arrivo: una caduta giocando a pallone e brutto taglio curato con punti adesivi e mercurio cromo. Roba di cinque anni fa. Mi piace questa cosa. Dei miei ragazzi conosco anche la storia dei piedi. Mica poco.


I migliori

Consegno le borse di studio a dodici ragazzi che si sono distinti lo scorso anno per risultato scolastico e impegno nell’ostello: scuola, vitto e alloggio saranno totalmente gratuiti per un anno. Con il computer ho preparato un diploma con il nome di ciascuno, così che il premio sia anche visibile. Nel riceverlo, qualcuno è imbarazzato come se stesse rubando, qualche altro quasi piange. Io sono orgoglioso per loro. Soprattutto perché i migliori studenti della scuola – che conta centinaia di ragazzi, in maggioranza musulmani – sono i miei ragazzi. Hanno preso quasi tutte le migliori posizioni per ogni classe. Alla faccia del razzismo bengalese che vuole i tribali inferiori e meno brillanti. Eccoli qui i tribali: dategli una possibilità e, almeno a scuola, non sono secondi a nessuno. Ma i primi a non crederci sono i ragazzi stessi, tanto è forte il senso di inferiorità. Ecco perché queste borse di studio sono uno stimolo e un rinforzo positivo enorme.

“Avete visto?” – domando ai ragazzi alla fine. “E allora, chi sono i migliori?”. Silenzio.

“Chi sono i migliori?” – ribadisco alzando la voce. “Noi” – risponde qualcuno debolmente.

“Chi sono i migliori???” – richiedo gridando e portando una mano all’orecchio come per sentire meglio le loro risposte. “NOI!” – gridano finalmente tutti quanti. E rimaniamo così a guardarci, ridendo e battendo le mani.


Polas

Mentre guardo i ragazzi che giocano a cricket, Polas, 19 anni, mi si siede accanto, all’ombra di una pianta di mogano. E’ in classe decima, nel gruppo dei più grandi.

“La sa una cosa, padre?” – dice Polas venendo subito al dunque. “Da quando abbiamo cominciato a vivere ogni mese una frase di Vangelo, qui non è più come prima!”.

“In che senso, scusa?” – faccio io che di cambiamenti così radicali non ne ho visti.

“Lei sa che qui tra noi ci sono molte etnie diverse. Prima i litigi e i contrasti per questa ragione erano moltissimi. Quasi ogni giorno, si può dire. Adesso non è più così. E io sono convinto che è proprio grazie alle parole proposte del Vangelo”.

Sono sorpreso a metà. Da una parte lo sono perché dove non ti aspetti o non vedi miglioramenti a volte altri li vedono e li conoscono. Quante volte è capitato! Dall’altra invece non mi meraviglia, perché sono convinto che il Vangelo vissuto cambia la vita, le abitudini, le tendenze e anche le culture. E’ il Signore Gesù che opera, ed è Lui che i ragazzi incontrano, vivendo le sue parole.


La casa di Shumon

Approfitto di qualche giorno di vacanza per andare a trovare qualcuno dei ragazzi nei loro villaggi. E’ sempre una bella occasione per imparare a conoscerli meglio. Vedere dove abitano, incontrare i loro genitori, spesso rivela lati nascosti ma importanti della loro storia e del loro carattere. E poi è bello anche solo stare insieme al di fuori del solito ambiente.

Shumon vive con due sorelle e la mamma, vedova da tanti anni. Sono stati battezzati da poco insieme al resto del villaggio, uno dei più miserabili della parrocchia. Tutti e tre i figli sono studenti nei nostri ostelli, prima nelle elementari e ora alle superiori. Non avrebbero avuto altrimenti modo di andare a scuola: la mamma si arrangia come può, a volte anche in modo non proprio lecito. Non è un mistero che la donna abbia più volte fabbricato vino di palma da vendere ai musulmani, la cui presenza non è mai gradita nel villaggio, specie sotto i fumi dell’alcool. Condannarla sarebbe facile. Di fatto le è stato chiesto espressamente di abbandonare questa pratica se voleva ricevere il Battesimo. Poi guardo la loro abitazione e capisco ogni cosa: una casetta di fango le cui pareti paiono stare su con lo sputo, un tetto di

paglia che non reggerà le prossime piogge, una stanza e un letto solo che deve bastare per quattro, quando i ragazzi sono a casa, pochi stracci per vestiti appesi su una lista di legno. Difficile immaginare una miseria maggiore. Eppure i ragazzi sono cresciuti che sono uno splendore. Shumittra, la maggiore, ha ormai 19 anni. Da tempo la mantengo negli studi, perché lo merita e perché un villaggio non ha speranza di riscatto se non nell’educazione dei figli.

Shumon è il classico adolescente formato bengalese: in pochi mesi è cresciuto in modo pazzesco, sviluppandosi per il lungo e mettendo in evidenza solo le ossa. Prendendolo in giro lo chiamo “shupari”, come la palmetta di betel che cresce alta, dritta e magra. E lui ride, mostrando tutti i denti bianchissimi, con un sorriso da bravo ragazzo.

La mamma mi siede vicino sul bordo del letto, di fianco ai cuscini sudici.

Mi mostra il certificato della borsa di studio che a gennaio ho consegnato anche a Shumon. E’ evidente che ne è orgogliosa. Non si tratta solo del fatto economico. C’è molto di più in quel pezzo di carta. Una mamma lo sa. Shumon se lo è guadagnato con un risultato scolastico brillante e un’ottimo comportamento nell’ostello. Dare un premio così a ragazzi come lui riempie di gioia.

Mentre Shumittra di fuori si sta prodigando per prepararmi un tè, la madre mi fa capire che c’è qualcosa di cui vuole parlarmi. L’angoscia traspare palese dal suo viso di donna ancora giovane ma invecchiato dalle fatiche, logorato dalla miseria. Indossa un sari liso e sporco e ha i capelli raccolti in qualche modo. Le vedove ancora oggi, in Bangladesh, soffrono una condizione di emarginazione e degrado che non è differente da quella dei tempi di Gesù. Mi racconta che il padrone del terreno sul quale c’è la loro “casa” vuole venderlo e quindi le ha intimato di andarsene. Tempo per sbaraccare: un mese.

Finisce il racconto e non può trattenere un rivolo di lacrime che scivola via sulle guance sciupate. Gli occhi sono due pozzi di rassegnazione. Le prendo una mano, anche per destarmi da un magone che sta prendendo anche me, sarà che sto invecchiando.

Shumittra entra con il tè, versato in un bicchiere d’acciaio. Sorride debolmente guardandomi e capisce l’argomento del colloquio. Mi offre anche qualche biscotto che io giro subito alla mamma. Il tè è pessimo, fatto al modo tribale, col sale e lo zucchero insieme. Però non lo do a vedere, ne trangugio qualche sorsata facendo attenzione a non ustionarmi la lingua e vilmente faccio i miei complimenti a Shumittra. Lei si schermisce ridendo imbarazzata.

Mi viene in mente che proprio qualche giorno prima ho sentito che non lontano da qui, in un altro villaggio, la Diocesi sta offrendo delle casette in muratura ad alcune famiglie cristiane che si stanno trasferendo lì. Sono certo che ce ne sarà una anche per la famiglia di Shumon. Mentre comunico a tutti questa idea, mi guardano come se parlassi da un altro pianeta. Garantisco che la cosa è possibile, che mi darò da fare. Stavolta è la mamma a prendermi la mano. Cerca di baciarla ma istintivamente la ritraggo perché mi mette a disagio.

“Una casa in muratura!” – dice trasognata la donna. “Non ci sarà più da preoccuparsi che i muri crollino durante la stagione delle piogge…”.

Shumon è accoccolato in un angolo della stanzetta. Nella penombra vedo che sorride.

Pettegolezzi

Prendo un risciò per andare in città a fare compere. L’uomo che mi porta e pigia di lena sui pedali, ad un tratto si volta e sorridendo affabile mi chiede: “Come va, padre, tutto bene?”. Lo guardo interdetto. Sono certo di non conoscerlo ma, evidentemente, lui conosce me. Dai tratti somatici non mi pare cristiano, però per conferma glielo chiedo. “No padre, sono musulmano!” – mi dice. “E allora come fa a sapere chi sono?” – chiedo io che adesso sono curioso di sapere. “Ma qui la conoscono tutti! Lei lavora all’ostello con i ragazzi, vero?”. Faccio di sì con la testa, anche se continuo a non capire.

“Vede? Da quando lei lavora qui, sono tutti contenti!” – mi dice voltandosi pericolosamente il mio nocchiero, che guarda me e non la strada.

Tutti? Tutti chi???

“I ragazzi!” – mi fa lui come se fossi l’unico stupido a non saperlo.

Questa poi. Per la serie: “Il paese è piccolo e la gente mormora”. Non so se l’amico musulmano, pedalando, si sia accorto della differenza di carico. Dopo le sue parole sono certo di essere aumentato di peso.


Al fiume

La temperatura mite e le belle giornate ci invitano a fare una capatina al fiume. Ci andiamo anche per pescare le vongole sepolte nella sabbia, che cucineremo il giorno seguente.

I ragazzi sono eccitati anche se il posto è qui vicino, una mezz’oretta a piedi. Scegliamo un tratto di fiume dove l’acqua è bassa ed è più semplice setacciare e meno pericoloso per i più piccoli. Ci dividiamo le zone e in fila, uno dopo l’altro, si comincia a dragare il fondo con le mani. Non può sfuggire una vongola! Ogni tanto qualcuno acchiappa anche un pesciolino e ogni volta sono scene di festa. Riusciamo a riempire cinque sacchi, ci sarà da mangiare per tutti.

C’è tempo in abbondanza, prima di pranzo, per giocare sulla riva o in acqua. I ragazzi rivelano una confidenza naturale col fiume. Io ho portato un coccodrillo gonfiabile che diventa subito preda dei più piccoli. Col passare delle ore mi accorgo che c’è tutta una vita che, verso mezzogiorno, cresce attorno al fiume: ci sono i pescatori con le loro barche sottili e le reti stese ad asciugare, le donne a lavare i panni, i bambini che, come noi, si divertono a pigliare qualche mollusco, qualcuno fa il bagno. Possiamo anche gustarci, a qualche metro di distanza, un magnifico esemplare di martin pescatore sorvolare dapprima la zona, fermarsi poi come sospeso su un punto preciso e infine buttarsi in picchiata in acqua, per uscirne subito dopo con la sua piccola preda. Splendido. Finiamo in acqua anche noi, i tuffi, gli schizzi, gli scherzi, con una voglia di giocare che prende tutti.


Due frutti di guava

Ci sono ragazzini che il Padreterno ha creato con una dose supplementare di energia. Provare a controllarli è come tentare di arginare un fiume: ti darà retta per un tratto ma poi sbucherà fuori da un’altra parte. E tenerli in classe a studiare come chiudere un uccello in gabbia, visto che sembrano dotati di ali.

Rashel è uno di questi. Non bastasse, è anche di una simpatia contagiosa, che sprizza dagli occhi che sembrano ridere sempre, anche quando ti guarda serio.

Un anno fa il padre muore improvvisamente per infarto: sarà il quinto di sette genitori che perderemo tra i ragazzi in un anno e mezzo. Anche questo dice la precarietà della vita in Bangladesh. La mamma si ritrova giovane vedova con tre bambini di cui Rashel, 12anni, è il maggiore. Questo fatto sembra cambiare qualcosa in lui, che da allora studia con più impegno - il talento non gli manca - e riesce a stare seduto anche per più di mezz’ora senza alzarsi. Spesso però lo trovo ancora in giro. Ed è in questi frangenti che spicca una delle sue doti fondamentali: saper inventare, lì sui due piedi, senza esitazioni, tutte le scuse possibili per giustificarsi e vendertele come plausibili. Un professionista della balla raccontata ad arte.

Ieri l’ho beccato assente a studio per l’ennesima volta. Vado a cercarlo e, mentalmente, mi preparo due paroline per dargli una strigliata.

Sto per salire in camerata per vedere se è lì, quando mi sbuca davanti, trafelato dopo aver sceso le scale di corsa. Ha giusto un attimo di esitazione vedendomi all’improvviso. Io non ho il tempo di dire nulla - la mia faccia è già tutta un discorso - ma soprattutto lui non me ne da il tempo. Mi porge la mano, aprendola: sopra ci sono due frutti di guava. “Sono andato di sopra a prenderli per lei”, mi dice guardandomi fisso senza tradirsi. Ma gli occhi ridono. Vorrei ridere anch’io per la prontezza con la quale è riuscito a girare la frittata: riesco a trattenermi con grande sforzo e gli mollo uno scapaccione affettuoso mentre lo rispedisco in classe. I frutti li ho messi sulla mia scrivania a maturare. Profumano.


Carlus

Quella di Carlus è una storia dolorosa, come tante qui. La mamma era in cinta quando è morta in circostanze misteriose e drammatiche un anno e mezzo fa. Quando è arrivata al nostro ospedale era ormai troppo tardi, anche per il bambino. Il marito è stato quanto mai vago sul malore che l’aveva colpita da qualche giorno: diceva e non diceva. Il dottore, invece, non ha avuto dubbi sulle cause del decesso: tentativo di aborto procurato. I particolari che ha poi aggiunto al racconto mi hanno riempito il cuore di orrore e di angoscia.

Carlus, che ormai ha 18 anni, non sa nulla di questo, anche se forse comincia a sospettare qualcosa. Intanto però non è più lo stesso. Se prima era un introverso, ora si è chiuso ancora di più e sorride sempre meno. Solo coinvolgendolo nel gioco lo vedo tornare sereno, con lampi di gioia pura. Diverse volte ha voluto parlare insieme di ciò che è successo e dei problemi che restano a casa, dove c’è un fratello minore che cresce senza una guida e rischia di perdersi. Sul padre non può fare nessun conto, anzi: spesso è ubriaco e violento. Avrei una voglia matta di prenderlo per gli stracci quest’uomo, che ha spezzato la sua famiglia e pensa di averla fatta franca. Queste ingiustizie mi bruciano dentro senza risposta, perché poi penso al ragazzo e non oso fare più niente.

Adesso che è in decima, l’ultimo anno, Carlus vuole fare bene per poi tornare a casa e dedicarsi al fratello, che lo scorso anno è stato bocciato. E anche se qui i fratelli e sorelle maggiori sono ancora un’autorità in famiglia, fa fatica a farsi ascoltare perché l’altro si ribella.

Nel nostro ultimo colloquio, pochi giorni fa, mi diceva queste preoccupazioni, la fatica di studiare col pensiero a casa. Aveva il volto contratto, indurito, come preso da una rabbia che non voleva liberare ma pronta ad esplodere. Anche le lacrime erano trattenute a forza. Ne cadeva solo qualcuna, ma si vedeva che erano un fiume.


Angeli custodi

Festa dei Santi Angeli custodi. Una bambina dell’orfanotrofio qui vicino mi corre incontro con un fiore e mi dice: “Auguri, oggi è la sua festa!”.

“Come la mia festa?”, dico sorpreso.

“Massì!”, fa lei con una di quelle facce tipo addesso-ti-spiego-io-com'è-la-faccenda. “Oggi è la festa degli Angeli custodi, no? Loro sono mandati da Dio per aiutarci, proteggerci e consigliarci, no? E lei non stai facendo questo per noi? Quindi è la sua festa!”. E mi pianta il fiore in mano. Lo dice sorridendo ma convinta e io non trovo modo di contraddirla, tanto rimango di stucco e tanta è la gioia. Una piccola perla, perché dentro c'è un'intuizione profonda, di quelle che solo i bambini hanno e che noi spesso smarriamo.

Appassionatamente

Per noi italiani il gioco del calcio è una passione viscerale che dura nel tempo, a dispetto della presunta maturità e saggezza che l’età dovrebbe portare con sé. Dateci un pallone e torniamo ragazzi, anche se magari il modo di giocare non è più quello di prima. Io per esempio, mi sono accorto che nel praticarlo sono diventato meno irruente e istintivo. Ora sono più posato, più incline al passaggio breve o al lancio lungo, meno alle galoppate sulla fascia e più attento alla posizione dei compagni. Tendo a fermarmi per vedere meglio il gioco, a fare l’allenatore in campo.

Effetti dell’età, della pancetta, e dell’umidità maledetta della stagione monsonica, che mi obbligano a corricchiare, fermarmi per respirare facendo finta di guardare dov’è il compagno smarcato, quando invece ho la vista annebbiata e il fiato mozzo, trascinando penosamente per il campo i resti di un passato glorioso. Non si dovrebbe permettere ai grandi giocatori di umiliarsi così, lasciando che mostrino le crepe che il tempo inesorabilmente apre nel fisico e nella volontà. Uno dovrebbe smettere sulla cresta dell’onda, lasciando dietro di sé solo bei ricordi e polvere di stelle. Invece eccomi qui a mangiarla, la polvere, perché mi ostino a giocare. D’altra parte bisogna che qualcuno insegni qualcosa a ’sti benedetti ragazzi sul gioco più bello del mondo. Come faccio a tirarmi indietro?

“Passa! Passaaa!!!” – grido a Sontus che non ne vuole sapere di dare la palla. Mi pento subito di averlo fatto, perché sbraitare mentre corro mi toglie il poco fiato che ho. Finalmente recupero un pallone e lo allungo in un corridoio per Shumon, che corre sulla fascia e si accentra al limite dell’area, lasciando partire un diagonale per l’accorrente Gabriel. Tocco di piatto destro e palla alla sinistra del portiere, rimasto allochito al suo posto, una foto.

Approfitto dei festeggiamenti per defilarmi e sedermi a bordo campo, esausto, sotto un albero. Quaranta minuti di gioco mi hanno prosciugato e non solo a parole. La maglietta è zuppa.

Un gruppetto di ragazzi mi circonda subito ma chiedo spazio e aria, altrimenti scoppio. Commentiamo la partita e le prestazioni di alcuni prendendo in giro Prontish, che corre con il petto in fuori, tipo galletto.

Joseph, 12 anni, mi si accuccia accanto e si strofina la testa contro il mio braccio. Lo prendo sotto l’ala e lo stringo un po’ per coccolarlo. Una ragione c’è. Il fratellino di tre anni è morto qualche giorno fa, annegato nello stagno, in un metro d’acqua. Un bambino bellissimo e vivace, più ancora di Joseph che pure è un esemplare da esportazione, quanto ad esuberanza.

Sono andato al loro villaggio per il funerale ed è stato straziante. Quando sono entrato nel piccolo cortile della casa in fango, c’era già molta gente radunata, gli uomini e le donne in gruppi separati. La mamma e la sorella maggiore, quando mi hanno visto si sono lasciate andare ad un pianto violento e a grida isteriche. Si sono gettate per terra e mi hanno afferrato i piedi, guardandomi con le loro facce stravolte. Anche altre donne facevano da coro, amplificando questo rito del dolore che è il loro modo di elaborare il lutto. Il padre, al contrario, sedeva piangendo senza strepiti, ma si capiva che era distrutto.

Sotto la veranda il corpo del piccolo Joy Agustin era circondato dai parenti che lo stavano ungendo secondo l’usanza dei tribali santal. C’erano anche vicini di casa indù e musulmani, che partecipavano al lutto, soprattutto le donne. Le ho viste piangere. Solo una mamma sa cosa significa, quel figlio poteva essere il loro. Scosso dal contesto che mi turbava e ricordando la festa che Joy mi faceva ogni volta che venivo, durante la Messa mi ha preso una commozione profonda che non ho neppure cercato di nascondere. Da tempo ho imparato che non tutte le lacrime sono un male.

Adesso che Joseph è qui a cercare un po’ di consolazione non posso negargliela. Tanto più che non capita mai: non c’è l’abitudine a cercare o a dare gesti d’affetto, non è nella loro cultura. Un abisso di differenza con gli adolescenti italiani.

La partita prosegue, tra le urla del tifo e qualcuno che canta. Francis mi raggiunge sotto la pianta con in mano un libro che mi porge: “Lo ha letto?” – mi dice mostrandomi “Ventimila leghe sotto i mari”, versione bengalese. Figurati, Verne l’ho divorato da ragazzo. L’occasione è troppo ghiotta per non avventurarmi nei dettagli sulle trame degli altri suoi libri che abbiamo in biblioteca. E’ come mettere un’esca sull’amo: i ragazzi abboccano subito, le facce che ho davanti e gli occhi dilatati mentre ascoltano del capitano Nemo o del viaggio al centro della terra, promettono di assaltare lo scaffale alla prima occasione. La biblioteca l’abbiamo inaugurata solo qualche settimana fa insieme alla Cappella, entrambe piccole ma funzionali. D’altronde altro spazio non l’avevo. Le ho volute fortemente perché credo che siano indispensabili per la formazione dei ragazzi, ognuna con la sua specificità. La prima per aprire la mente, la seconda il cuore.

C’è voluto un po’ di tempo prima di realizzarle, ma adesso godo nel vedere come i ragazzi le utilizzino. In biblioteca li trovo sdraiati per terra, seduti sulle sedie, appoggiati al muro o sui gomiti, mentre divorano libri, cartine storiche, geografiche, scientifiche, mentre affondano gli occhi nelle illustrazioni del “National Geographic”, pur senza capire nulla di un inglese troppo difficile per loro. E naturalmente poi fioccano le domande su un sacco di argomenti. Abbiamo raccolto circa 300 titoli tutti in bengalese e alcuni volumi di enciclopedia per ragazzi in inglese dove almeno ci sono belle illustrazioni colorate, indispensabili per capire e conoscere cose mai viste. Mi dà un gusto matto vederli come ero io da ragazzo, e gioire di cose che è loro diritto godere. Mi pare un atto di giustizia nei loro confronti.

La cappella la tengo meno d’occhio, nel senso che non vado certo a vedere chi c’è dentro. Voglio che si sentano completamente liberi nel loro rapporto con il Signore Gesù, senza sentirsi controllati. Mentre passo via vedo le loro ciabatte lasciate di fuori un po’ a tutte le ore del giorno. In Asia, in qualunque tempio o casa si entri, lo si fa sempre scalzi. E’ un segno di rispetto per il luogo sacro nel quale si entra. Molto biblico.

Dentro abbiamo preparato un bel tabernacolo con due bassorilievi in fibra di vetro: raffigurano le scene evangeliche della lavanda dei piedi e della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Le ho scelte per il loro significato eucaristico e per mettere al centro, assieme a Gesù, anche la figura di due ragazzi: il ragazzino che offre il cesto con i pani e i pesci e l’apostolo Giovanni, un diciottenne. Ho chiesto che si vedesse lui in primo piano mentre Gesù gli lava i piedi. Due figure nelle quali i ragazzi possono identificarsi quando le guardano.

Entrambi i bassorilievi e il crocefisso, appena sopra il tabernacolo, sono opera di un giovane artista locale. Un indù. Conosce il vangelo più di tanti cristiani e ha già fornito parecchie opere alle nostre chiese sparse in Bangladesh.

Ai lati abbiamo messo due quadri: la Madonna a destra e S. Filippo Neri, nostro patrono, a sinistra. Di lui conserviamo anche una reliquia, custodita in una bella scatola di ottone. Ho voluto anche una vetrata con plastiche colorate per dare atmosfera. Non è Chartres, ma al tramonto, quando il sole filtra attraverso, fa la sua bella figura.

Per i ragazzi è stata una sorpresa fino all’ultimo, perché tutto era top-secret.

Non ho lasciato entrare nessuno fino all’inaugurazione. Poi mi sono goduto lo spettacolo: “I bambini fanno ooh” poteva fare da colonna sonora.

I ragazzi adesso hanno di un luogo “bello” dove possono, a qualunque ora del giorno, incontrarsi con il Signore Gesù, crescere nella sua amicizia stando con Lui. E anch’io ho un posto dove posso finalmente insegnare loro a pregare. Forse non è un caso che qualche giorno fa Rupen, oraon di 11 anni con un’anima trasparente, mi abbia detto: “Non ero abituato a stare da solo davanti a Gesù. In genere preghiamo sempre insieme. Un po’ avevo paura. Adesso però mi piace tantissimo. Non riesco a non entrare almeno due o tre volte al giorno”. Questo, più di qualunque altra cosa, li farà crescere.

Vedo arrivare Proshonno, lo stavo aspettando per l’aggiornamento: “E allora?” – gli chiedo con un filo d’ansia.

“Si è scusato!”- mi risponde senza nascondere un po’ di meraviglia. I ragazzi esultano.

Ieri il professore di agricoltura lo ha picchiato con la verga. Oltretutto senza una ragione valida, ammesso che ne esista una. I segni sul braccio sono evidenti. Niente di strano in Bangladesh, lo fanno la maggioranza dei professori. Tanto normale che nessuno dei ragazzi si è mai sognato di lamentarsi o di venirmelo a dire. Le prendono e tacciono.

Io l’ho scoperto per caso. E anche quando li ho invitati a raccontarmi queste cose, c’è n’è voluto di tempo perché lo facessero davvero. Paura di ritorsioni. La paura ti frega.

Stavolta però sono stati bravi e mi hanno detto subito cosa era accaduto. Ho parlato personalmente con il professore e, con bei modi, cercando le parole giuste per non urtarlo anche se lo avrei strangolato, ho preteso le sue scuse. Adesso che lo ha fatto, i ragazzi sanno che è loro diritto rivendicare un trattamento diverso. E’ una battaglia di giustizia, lunga e dura perché, senza fare guerre inutili, cambiare un costume radicato è difficile. Ma “gutta cavat lapidem”…

“Ci canta qualcosa?” – mi domanda Shemol, che ha una bella voce. I bengalesi vanno matti per il canto.

“Quella che stava cantando anche stamattina” – insiste. Capirai. Ne avrò cantate una dozzina almeno. Anche il canto, come il calcio è una passione. Avvio le basi musicali e canto a squarciagola. Certo, ci fossero Mario e gli amici si farebbe una jam-session, ma bisogna accontentarsi. Repertorio vastissimo: quando ci vuole, ci vuole. I ragazzi mi ascoltano da sotto la finestra e da dietro la porta di camera: una volta l’ho aperta di scatto e ne ho beccati cinque piegati ad ascoltare.

“Quella che sembrava un po’ triste. Faceva na-na-na-na-na…” – prova a spiegarsi Shemol senza demordere, e alla fine capisco qual è. “I ’te vurria vasà”, bellissima canzone napoletana. Ne canto un pezzetto e mi ascoltano attentissimi. Acuto finale, applauso.

“E passa questa palla!” – grido spezzando l’incantesimo tutto ad un tratto. Sontus si intestardisce a giocare da solo in una serie di inutili dribbling fino a che non perde la palla. I ragazzi accanto a me se la ridono perché sanno che con lui finisco sempre per arrabbiarmi.

Vorrei scappare a fare una doccia, mi sento tutto appiccicaticcio e non mi piace. Invece non posso, perché Kismot torna alla carica sulla discussione che abbiamo avuto ieri sera. La sera, più ancora che la mattina, i ragazzi sono inclini alle domande e alla confidenza.

E, non di rado, sono domande che riguardano la loro vita. Ma per arrivare alle domande “nodali” c’è voluto del tempo. Sono stato a lungo sotto esame, radiografato, testato con domandine-tranello o allusive.

La fiducia è una conquista, non è venduta a buon mercato. E non è data unilateralmente su tutto il fronte della relazione con loro, ma concessa di volta in volta a seconda della necessità. Insomma, una scalata continua. In questo caso essere straniero è un piccolo vantaggio, perché

con me si sentono più liberi. Le domande che fanno a me normalmente non le farebbero ad un prete locale. Troppa vergogna o troppa paura.

Ci sono, naturalmente, momenti molto intensi. Ieri sera in classe decima – quella dei più grandi, età media 18 anni – per due ore sono stato letteralmente tempestato di domande. Il tema, manco a dirlo, è “Il Tema” per un adolescente (solo per l’adolescente?): amicizia, affettività, sessualità. Argomenti che sono un tabù ancora molto forte, nella cultura bengalese e tribale.

L’occasione del dibattito è stata innescata da un loro ex-compagno di scuola che, proprio pochi giorni prima, era scappato con una ragazza del villaggio. Entrambi cristiani-cattolici, si capisce. Qui in Bangladesh la separazione tra maschio e femmina è netta, senza alcuna possibilità di contatto che non sia lo sguardo fugace, il sorriso incrociato, qualche breve parola occasionale, fuori da scuola o per strada. Mai o quasi un colloquio a tu per tu, magari appartato. Nel villaggio sarebbe già uno scandalo. A scuola le classi sono divise e anche in chiesa a destra le ragazze a sinistra i ragazzi. Siccome poi i matrimoni sono combinati dai rispettivi genitori, quando due si piacciono e credono di amarsi (in realtà si sono visti solo qualche volta), non trovano altra scelta che la fuga insieme, in genere con la complicità di qualche parente che occulta la coppia per qualche giorno e permette l’irreparabile. Di fronte al “fattaccio” spesso i genitori capitolano e acconsentono alle nozze, pur senza entusiasmo.

Insomma: è stato un fuoco di fila di domande per due ore – prima con cautela, come assaggiando il terreno, poi con sempre maggior confidenza – su tutti i temi spinosi che un adolescente vive sulla sua pelle e che comincia a scoprire come un pianeta misterioso.

Io ne sono doppiamente contento: intanto perché ho l’opportunità di entrare nel loro mondo e conoscerlo di più, cercando di aiutarli a capire aspetti fondamentali della nostra vita; poi perché se trovano il coraggio di fare certe domande, pur con visibile imbarazzo, vuole semplicemente dire che si fidano.

Abbiamo toccato anche punti molto delicati, legati alla loro cultura e all’idea che hanno della donna, ritenuta ancora almeno un gradino sotto, quando non una proprietà privata del maschio.

Ecco perché Kismot, uno dei più intraprendenti nel dibattito, adesso mi chiede arrossendo: “Perché quando vedo una ragazza che mi piace, divento caldo come se avessi la febbre?”.

Ridiamo tutti, di gusto. Prometto che stasera, in classe, tornerò sull’argomento.

Suona la campana di fine ricreazione. Ci sono le docce. Sontus passa via con un ghigno furbo e mi strizza un occhio. Incorreggibile, non cambierà mai.

Gli altri ragazzi si alzano ma io resto ancora un po’.

Ogni tanto, come adesso, mi piace guardarli da lontano e riempirmi gli occhi di meraviglia. Ormai siamo insieme da quasi due anni, con tanti da molto di più. Ci conosciamo meglio, ci fidiamo di più gli uni degli altri, ci vogliamo bene, lo so.

Li guardo e mi stupisco nel vederli crescere, dentro e fuori, adolescenti con i brufoli e i primi baffi, i desideri che nascono, i sogni di piccolo cabotaggio, la voglia di felicità che ci portiamo dentro tutti. Mi fa tenerezza vederli aprirsi alla vita, cercare ciascuno il proprio spazio, la propria identità. Li osservo in prove tecniche di seduzione, mentre si pettinano allo specchio, prima di andare a scuola, un giorno la riga a destra, un altro in mezzo, un altro ancora a sinistra, cercando la botta decisiva. A volte gli sguardi si incrociano, ci sorridiamo con complicità. Un lavoro appassionante come nessun altro.

Mi pare d’essere qui tra i ragazzi come il contadino che ascolta Dio maturargli il riso attorno alla casa.

Partenze

Abbiamo salutato la classe dei più grandi. Lasciano l’ostello dopo aver sostenuto l’esame scolastico più importante, un po’ come la nostra maturità. Lo abbiamo fatto con un momento di preghiera, durante il quale i ragazzi partenti ne hanno letta una che diceva tra il resto:


“Signore Gesù,

ora che comincia

un nuovo cammino per me,

voglio impegnarmi, sul tuo esempio,

ad amare tutti, senza fare distinzione

tra grandi e piccoli,

ricchi o poveri, colti o ignoranti;

ad amare per primo, senza aspettare una ricompensa;

a riconoscere e amare Te in ogni mio fratello,

soprattutto i più deboli e bisognosi,

i piccoli, i poveri

e quelli che nessuno ama.”

Parole importanti, come una promessa fatta davanti a tutta la nostra comunità.

Io ho consegnato loro una Bibbia e una gamcia, uno strofinaccio grezzo che qui in Bangladesh è comunissimo per molteplici usi. L’ho presa a simbolo dell’impegno a servire i fratelli come Gesù, che durante l’ultima cena ne usò una per lavare i piedi ai discepoli. Dandola ho ricordato loro questo nostro unico dovere: quello di amare.

Poi fiori per tutti, abbracci, qualche lacrima, tanta emozione.

Anche la mia. Siamo stati insieme tre anni e mezzo, con alcuni anche di più perchè li avevo con me in parrocchia già nove anni fa. Mica poco.

E’ stata una splendida classe, scolasticamente brillante, vivace, con la quale si è instaurato un rapporto speciale di fiducia reciproca, di responsabilità condivise, di maggiore libertà. Diciassette ragazzi, tutti tra i diciassette e i vent’anni, con un’amicizia bella tra loro, nonostante diversi caratteri forti e quattro etnie differenti.

La prima classe nella quale mi sono sentito accolto davvero e la prima, in quattro anni, che ho promosso all’esame per me più importante: quello della vita quotidiana nell’ostello.

Non sono mancati momenti di fatica e frizioni, ma sempre ho colto da parte loro la voglia di crescere e imparare. Una voglia che, alla fine, ha pagato.

Vado a ripescare dall’archivio la foto di gruppo scattata all’inizio di quest’anno.

Ci sono tutti, in piedi e accosciati. Li rivedo, partendo da destra, in piedi: Utpol, elegante, il nostro miglior centrale a calcio; Polas, brillante e acuto; Rubel, un timido che trovava coraggio quando c’era da farmi un gavettone; Johon, scatenato durante le recite; Lucas, il capitano della squadra di basket; Topu, vulnerabile e sempre in ricerca; Ronjit, il cantautore che non t’aspetti; Bipul, atletico e insicuro; Ismail, il buon senso. Accosciati: Dulal, trascinatore entusiasta; Roni, un miracolo di tenuta; Obinash, una caparbietà commovente; Shushil, mite e mai una parola di troppo; Francis H., domande, domande, domande; Proshonno, l’intelligenza di chi deve solo sfiorare i libri per passare; Robi, sveglio dietro una faccia d’angelo; Francis M., casinaro e irrequieto.

Provo a tirarne fuori quattro dal mazzo e a farne un primo piano. Quattro ragazzi diversi, quattro etnie differenti: un bengalese, un oraon, un kottrio, un santal.


Roni

Ad ogni anno nuovo che cominciava, lo guardavo dormire durante lo studio serale, io in piedi davanti al suo banco, lui con la testa reclinata indietro, la bocca aperta, un rivoletto di bava a lato, il volto non esattamente il ritratto dell’intelligenza e mi domandavo ogni volta se ce l’avrebbe fatta ad essere promosso. L’ha sempre spuntata: anche quest’anno – e bene – al termine dell’esame più impegnativo.

Se poi penso allo stato d’animo col quale per due anni ha convissuto, credo che ci sia qualcosa di eroico nei suoi risultati. Il padre di Roni è malato. Matto. Ha perso progressivamente il buon lavoro che aveva, ha costretto la moglie a scappare da casa col figlio più piccolo, vaneggia di avere capacità taumaturgiche capaci di curare malanni e vive di lavoretti che rimedia.

Roni da due anni non vede la mamma, gli è proibito espressamente dal padre. La sente di tanto in tanto col mio cellulare. All’inizio la odiava per averlo lasciato e non aveva compreso la follia del padre. Io non osavo dirgli la verità. Adesso essa è talmente manifesta da non lasciare dubbi. Quando è a casa in vacanza e deve vivere con lui, Roni non esce nemmeno per la vergogna di sentire quello che la gente in villaggio dice sul suo conto.

Mi confidava queste cose piangendo, una sera che diluviava e lui aveva trovato il coraggio di sfogarsi. Poi altre volte, dopo questa, è diventata una abitudine vuotare il sacco e liberare le paure, il dolore. Tempo fa mi ha detto di aver notato di essere cambiato, cresciuto in meglio e di essere migliorato anche a scuola. Vero, l’avevo visto anch’io.

Tra qualche mese Roni inizierà il collage a Dhaka. Finalmente vicino alla mamma e lontano dal padre. Ieri mi ha ringraziato per averlo sostenuto e ascoltato: “Senza il suo incoraggiamento non ce l’avrei fatta”, mi ha detto. “Ma va là!”, gli ho detto, mollandogli una pacca da fargli perdere l’equilibrio.


Dulal

Lo conosco da quando era alle elementari, uno scriciolo d’uomo, pieno di allegria, espansivo e con una sensibilità speciale. La sua presenza era un’iniezione di gioia. Anche adesso che ha 19 anni ed è alto solo un metro e cinquanta, questo ragazzo della tribù oraon ha conservato le caratteristiche di allora. Ma, a dispetto della statura fisica, è quello che, come maturità umana e spirituale, è cresciuto più di tutti. Difficile non accorgersi del lavoro che Dio ha fatto in lui.

Ha dei talenti rari, Dulal: la sincerità e la trasparenza nei rapporti, l’attenzione ai bisogni degli altri, il senso di responsabilità e di leadership naturale che esercita positivamente, la voglia di comprendere la nostra fede e di crescere spiritualmente, la passione nell’annunciare il Vangelo che gli sprizza dagli occhi illuminati, quando te la comunica. Un fuoriclasse.

Le nostre chiacchierate, sempre ricche, durerebbero ore se non lo interrompessi a un certo punto, perché ha una fila di cose da chiedere, tutte segnate diligentemente sul suo quaderno e mai banali.

Mi stupiscono la maturità nei giudizi e la profondità di certe intuizioni, le prese di posizione controcorrente di fronte a tutta la comunità. Lo faceva anche quando non era il più grande ed era ancora più difficile esporsi così.

Recentemente, durante una settimana formativa per 200 ragazzi di tutta la diocesi, ha fatto delle proposte e degli interventi che mi hanno lasciato di sasso. Perché nelle sue parole appassionate c’era la sintesi di quello che stiamo proponendo all’ostello, ma visto con gli occhi di un tribale. Mi è parso così straordinariamente bello da commuovermi di gioia. Guardando Dulal, ecco: mi sembra che il futuro sia già cominciato.


Topu

Se Dulal era l’anima entusiasta della decima, Topu ne era l’anima inquieta.

Brillantissimo a scuola, orfano di madre fin da bambino, un padre che lo rifiuta – e per un figlio è peggio che se fosse morto – Topu è il classico timido estremamente sensibile che arriva alle lacrime quando si emoziona. Gioca bene a basket, divora libri su libri e aspetta con la bava alla bocca il quinto volume di Harry Potter tradotto in bengalese. Formalmente è ancora un indù, ma a tutti gli effetti, per formazione e desiderio, è cristiano. Da anni vuole ricevere il battesimo, ma prima le obiezioni del papà e poi il fatto di essere solo al villaggio senza una comunità cristiana a sostenerlo, hanno fatto sempre rimandare la scelta. Che deve essere sua e di nessun altro. Io non gli faccio nessun tipo di pressione, anche perché ci pensa già da solo a tormentarsi.

Durante la Quaresima abbiamo visto un film su San Pietro. Bello perché i ragazzi hanno potuto farsi un’idea della comunità dei primi cristiani e rendersi conto che tante problematiche che essi vivevano allora, le vivono oggi anche loro.

Topu né è rimasto colpito in modo profondo e per giorni e giorni non mi ha dato tregua con domande a raffica. Lo ha impressionato non solo Pietro ma anche Paolo, il modo in cui entrambi affrontano il martirio. Non credo che tra la gente in Italia abbia avuto la stesa risonanza. Altro è essere cristiani in Italia, altro esserlo qui. La conversione comporta davvero un passo decisivo e pieno di difficoltà.

Ad inquietarlo è il dubbio sulla sua fedeltà una volta ricevuto il battesimo: “E se poi tradisco?”. Ho provato a spiegargli che questo dubbio è vero per ciascun cristiano, prima di ogni grande

scelta, non solo per il battesimo: non è lo stesso prima del matrimonio o prima dell’ordinazione? Chi di noi è in grado di assicurare fedeltà a Dio per tutta la vita?

Sappiamo già che non saremo fedeli, che tradiremo, che avremo dubbi, incertezze. Il cristiano è uno che è consapevole non solo della propria debolezza ma soprattutto dell’amore infinito e fedele, lui sì, di Dio Padre. E di questo si fida.

Dopo l’esame, prima che andasse a casa, viene a fare due chiacchiere sul suo futuro. La speranza di tutti gli studenti, anche degli scarsi, è quella di poter andare a Dhaka al miglior collage del paese. Scuola cattolica, naturalmente, gestita dai missionari Holy Cross.

Topu però – pur avendo questo desiderio e pur meritandolo come nessuno, visto che ha preso il massimo dei voti – non ha avuto la lettera di presentazione del parroco. Con essa egli si fa garante dello studente e carico di tutte le spese. Senza, non c’è speranza di ammissione. Ogni parrocchia può mandarne solo un paio e i posti erano esauriti. Mi comunica quindi che inizierà il collage qui a Dinajpur.

Lo fisso per un po’, poi gli sparo la mia proposta: “La lettera te la do io”. Topu mi guarda, le dita irrequiete che si annodano tra loro: “Anche se non sono ancora battezzato?”. “Questo è un problema tuo, non mio”, gli dico secco. “Quando i tempi saranno maturi, se lo vorrai, farai anche questo passo, non temere”.

Ha un fremito, gli occhi si riempiono subito di lacrime: “Le costerà parecchio…”, balbetta senza riuscire a continuare. “Questo invece è un problema mio, non tuo”, gli rispondo sorridendo.


Lucas

Per più di tre anni una spina nel fianco, ma anche una delle sfide più stimolanti. Lucas non è un ragazzo facile: è generoso e disponibile ma ha un carattere spigoloso, facilmente permaloso, diffidente. Ci siamo scontrati più volte, anche a causa di incomprensioni puramente “culturali”: mai dare per scontato che le tue parole e i tuoi gesti siano accolti con lo stesso significato che intendevi dargli. I malintesi a causa della cultura diversa possono essere tanti e fonte di contrasti. Lucas sembrava li andasse a cercare apposta pur di trovare una ragione di scontro.

Ho avuto la netta impressione di vedere in lui una rabbia nascosta a covare, che veniva chissà da dove. Infatti a volte esplodeva, nel gioco ad esempio, o nelle discussioni. Lucas ha una dote che è anche un suo limite: nel gruppo è portato al comando, ma in un modo che rasenta l’arroganza. Fa molta fatica a chiedere scusa, a riconoscere il proprio sbaglio o a perdonare nel caso sia stato offeso.

Però è migliorato molto in questi tre anni e mezzo, è cresciuto. Conosce i propri limiti e cerca sinceramente di cambiare in meglio. Non mi avrebbe cercato così spesso per parlarne altrimenti. Non sempre si è fidato, anzi, ma sempre ha mantenuto un rapporto aperto e franco, nonostante gli attriti.

Non è stato facile per me stargli accanto, soprattutto recuperare ogni volta il rapporto dopo le fratture. Ma avevo nel cuore una certezza che si è fatta strada via, via, soprattutto dopo aver visto le condizioni della sua famiglia: Lucas “doveva” testarmi per vedere se esistesse un adulto di cui potersi veramente fidare, uno che non lo molli alla prima difficoltà.

Se gli abbracci non mentono - quello che mi ha dato al saluto pareva un placcaggio da rugby - credo di avere avuto ragione, alla fine.

Li ho guardati andarsene ognuno con le sue quattro carabattole, i libri, ma soprattutto i sogni, le speranze e le ansie per il futuro. Quattro o cinque entreranno in diversi seminari, la maggioranza tenterà la fortuna dove e come potrà. Spesso non potranno proseguire per mancanza di fondi. Purtroppo io, anche volendolo, non posso imbarcarmi in troppi aiuti quando ho già le spese ordinarie che sono tante. Come me, e anche di più, le nostre parrocchie.

Il risultato è che la nostra comunità cristiana (con una maggioranza di tribali, marginalizzati e oppressi), non ha dottori, avvocati, agronomi, ingegneri, periti, architetti... Mi piacerebbe poter aiutare di più tanti dei ragazzi che conosco e che meritano di andare avanti. E' un investimento che non so che risultati potrà dare, su dieci magari solo la metà arriverà fino in fondo, ma so che è necessario provarci.

Salutandoli, ho detto loro semplicemente: “Buon viaggio, ragazzi. Questa è sempre casa vostra, venite quando volete”.

Compieta

Prima di andare a letto mi ritrovo, stasera, davanti all’icona che p. Fulvio[1] mi ha dipinto e regalato prima della partenza per il Bangladesh: Gesù e il buon ladrone. Dipinte a lato le parole: “Oggi sarai con me in paradiso”[2].

Mi piace tanto perché mi ci ritrovo. Nel ladrone, intendo, e nel fascino straordinario della promessa di Gesù: cosa sarebbe della nostra vita senza la fede in quella futura?

E’ qui che termino la giornata. Gli orientali lo chiamano l’angolo della bellezza. Quello che io so è che l’anima ha bisogno di fermarsi e di ritrovarsi in uno sguardo.

Cosa resta di oggi? Cosa rimane dei gesti, dei propositi, dei desideri, dei tentativi e degli slanci? Ci sono stati, o tutto è scivolato via senza attrito, senza convinzione? Sono più le cose riuscite o i fiaschi?

Cosa resta della vita, un frammento dopo l’altro, i giorni che si sommano, quando può spezzarsi improvvisamente e presentare il conto?

Sarei pronto? Me lo chiedo, mentre faccio istintivamente di no con la testa. Ecco perché il buon ladrone è la mia prima speranza.

La seconda sono i ragazzi, la mia scuola quotidiana di ascesi umana e spirituale: sono loro che mi fanno crescere e mi ricordano, concretamente, la pazienza di Dio con me.



[1] P. Fulvio Giuliano (1939-2007), missionario in Amapà e per molti anni padre spirituale nel Seminario Teologico di Milano e Monza.

[2] Lc. 23, 43

Prendi qualche giorno fa, per esempio. Durante una discussione con i più grandi di decima, per la terza volta in pochi giorni mi sono sentito ripetere: “Lei non capisce”. Senza nessuna intenzione di offendermi, rimarcavano solo quello che, a parer loro, era palese: per ragioni linguistiche o culturali – vai tu a sapere – io non capivo. A freddo riconosco che avevano ragione. Ma sul momento mi sono sentito ferito, m’è sembrato troppo e me ne sono andato arrabbiato, non senza aver alzato la voce.

Sono riuscito a tenere il muso, in un’interpretazione da Oscar, per tre giorni. Il guaio però è che non era da Vangelo, così alla fine ho mandato il mio orgoglio e la mia dignità di educatore a quel paese, che tornassero il più tardi possibile. Guai a lasciarsi fregare dall’orgoglio: “Che cosa importa? Amarti importa!”. Non so più quanti anni fa ho imparato questa frase e non so più quante volte mi ha aiutato ad uscire dalle sabbie mobili del calcolo umano. Cosa importa far valere le proprie ragioni, vere o presunte, restare stizziti e offesi, coccolare il proprio io ferito, se poi non amo?

Mi sono seduto con loro e ho chiesto semplicemente e sinceramente scusa. Ho chiesto pazienza con me, perché lingua e cultura possono essere un ostacolo e perché un aspetto del mio carattere – qui ormai lo sanno anche i sassi – mi porta a reagire prima ancora di aver capito bene i termini della questione, nonostante i tentativi di correggermi. Il risultato è che il rapporto con loro è cresciuto, così la stima e l’affetto.

Polpa, mica cotica: abbassarsi e chiedere scusa ha pagato, ancora una volta.

L’aspetto culturale resta non solo una fatica, ma anche, spesso, una sorpresa. Il loro mondo interiore, la psicologia, il modo di manifestare o no le emozioni, sono terre che ancora tento di esplorare senza capirne i confini e le ampiezze. Anni fa giudicavo con una certa nettezza e negatività (tipica dei nuovi arrivati), quella che per me era una mancanza di sensibilità. Adesso mi guarderei bene dal farlo. Non tutti abbiamo lo stesso modo di trasmettere emozioni o di lasciar filtrare il vissuto. E il fatto di comunicarli a fatica non significa che non ci siano.

La conferma mi è arrivata, in duplice copia, pochi giorni fa in due chiacchierate che mi hanno dato una gioia profonda.

Tajel è un diciottenne santal. Pur senza avere grandi numeri, scolasticamente parlando, si è impegnato sodo e ha ottenuto ottimi risultati, tanto da meritarsi la borsa di studio dell’ostello. Non solo. L’ho visto maturare in modo evidente, nonostante non sia certo uno che ami mettersi in mostra. Ma tante cose, dall’atteggiamento ai gesti, mi hanno fatto vedere che è cresciuto.

Una sera mi ha raccontato un episodio di un anno fa, forse il seme di questa maturazione. Tornato a casa per le vacanze di Natale, lo raggiunge la notizia che il parroco arriverà per dare il Battesimo a diverse famiglie del villaggio. Un evento atteso per anni, forse una decina, tanto che Tajel, sulle prime, non ci crede: “Altre volte era successo che arrivasse la voce e poi, invece, niente”. Stavolta però accade, il Battesimo è dato davvero. Mi dice Tajel con un sorriso largo e le lacrime che vengono giù allegre anche loro: “Dopo il Battesimo non riuscivo a crederci. Per una settimana sono rimasto stupito e felice”. Gioia e stupore sono ancora così forti da emozionarlo di nuovo dopo un anno, al solo rivivere il fatto. Eppure, per un anno, non una parola, non una condivisione. Conosco adolescenti italiani che ne avrebbero fatto un manifesto, lo avrebbero comunicato subito, smanettando sul cellulare. Lui no, ha tenuto dentro tutto, e non solo perché gli manca il cellulare.

Grande Tajel! Emoziona anche me vederlo così felice e penso al Battesimo e a dove sia finita la consapevolezza, l’entusiasmo, la commozione per questo dono immenso in me, in tanti cristiani.

Non passano che pochi giorni ed è Shumon stavolta, a condividere altri doni, ma anche lui non subito: due esperienze accadute durante le ultime vacanze, tre mesi fa. Unico figlio maschio di una vedova, Shumon passa le vacanze lavorando sui trattori che caricano sabbia dal fiume. Paga giornaliera per 10 ore di lavoro: 90 taka, poco meno di un euro.

Verso le due del pomeriggio, con gli altri lavoratori sosta per il pranzo in posti lungo la strada, dove per poche taka si può mangiare su una panca e sotto un tetto.

Un giorno arriva una donna a chiedere la carità: in braccio tiene un piccolo e un altro lo ha per mano. Nessuno la degna d’uno sguardo. Shumon, senza troppo pensarci, le cede metà del suo pranzo, riso e verdura. Un musulmano, seduto lì vicino, gli chiede: “Perché lo hai fatto?”. Shumon non risponde e la cosa finisce lì.

Qualche giorno dopo, altro posto dove mangiare e altri poveri. Questa volta è una ragazzina, anche lei ovviamente con fratellini a carico. Sul collo porta ancora fresca una lunga ferita che cerca di nascondere con un lembo del sari. Shumon la accosta e comincia a parlarle, le chiede cosa sia successo. Storie di ordinaria violenza, le ferite non sono solo esteriori. La rivede due giorni più tardi e dopo averci parlato ancora un po’, le lascia sfilare nella mano 45 taka, metà della sua paga. Lei stupisce, vorrebbe rifiutare. Infine gli chiede: “Sei cristiano?”. “Perché me lo chiedi?”, le dice Shumon che stavolta trova qualcosa da ribadire. Si sente rispondere: “Perché siete voi che vi comportate così”.

Shumon, mentre parla, sprizza una contentezza che solo l’imbarazzo riesce a velare. Il pudore del bene.

“Si ricorda qualche mese fa, quando ci ha proposto di vivere quella frase di Gesù: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”?[1] Allora non la compresi sul serio. Adesso mi pare di aver capito per la prima volta cosa significa”.

Fioretti di un ventenne, metà oraon e metà santal, prove tecniche riuscite di radicalità evangelica di una freschezza e di una bellezza disarmanti. Una vita cristiana, la mia, che non provochi domande (“Perché lo hai fatto?”, “Sei cristiano?”), può davvero dirsi tale?

Ad arrossire stavolta sono io, mentre con gli occhi torno allo sguardo dell’icona.

I conti, alla fine della giornata di oggi e di quella di sempre, li farà Lui. Quel che ci sarà da pagare pagherò, sperando di strappare un biglietto di entrata, anche in ultimo, purché si passi. Stasera ho soprattutto gratitudine da offrire, non solo sconti da chiedere.

E mi ripeto: cosa abbiamo di più bello e grande da dare alla gente, ai poveri, più del cibo e dei vestiti, di scuole e di ospedali, pure necessari, se non il Signore Gesù? Senza, tutto il resto è fuffa.


[1] (Gv 13,35)