Articoli e lettere agli amici - 2001

p. Franco Cagnasso


2001


Le religioni orientali

marzo

Intervento al convegno "Le religiose in un mondo dalle molte religioni" tenuto nel 2001 alla Pontificia Università Urbaniana, Roma

Si riuniscono normalmente sotto l'unica voce "Religioni orientali" religioni varie e profondamente diverse come il Buddismo, l'Induismo, lo Scintoismo, il Confucianesimo. E' un errore? Una generalizzazione indebita?

In un certo senso sì, tuttavia è una generalizzazione normalmente accettata, percepita come giusta, o almeno non del tutto arbitraria. Come mai?

Perché storicamente queste religioni sono lontane da noi, molto più lontane dell'Ebraismo - di cui siamo figli e che ci è perciò vicinissimo - e dell'Islamismo. L'Europa, mentre ha avuto per secoli incontri, scontri e frizioni con i Musulmani, e ha conosciuto la presenza ininterrotta al suo interno di comunità ebraiche, con le "Religioni orientali" ha avuto invece contatti rari, sporadici. Erano viaggiatori, studiosi, commercianti, missionari che riferivano e narravano, spesso creando un clima favoloso e un senso di esoticità e di mistero. Solo l'epoca coloniale, relativamente recente, ha portato in Asia militari, commercianti, funzionari in numero più alto. E' infatti questa l'epoca in cui cresce l'interesse per le culture e le religioni asiatiche.

Le quali però, anche in epoca coloniale restano pur sempre molto lontane.

Queste religioni sono raccolte sotto il termine comune di "Religioni orientali" non solo per evidenti motivi geografici (cioè perché sono sorte ed esistono soprattutto in oriente), ma anche perché la distanza sfuma i confini, non permette di cogliere i particolari, toglie il senso della profondità, appiattisce e genera, di conseguenza, la sensazione che queste religioni abbiano qualcosa di molto comune. Sono spesso percepite come un tutt'uno affascinante benché lontano, irraggiungibile.

Non si tratta soltanto di una credenza popolare. Studiosi, storici, sociologi, filosofi si sono interrogati e s'interrogano su quanto vi sia o non vi sia di specifico e caratteristico in Oriente e in Occidente, sulle "anime" di questi due mondi.

Spesso si accetta una schematizzazione che risale ad un passato ormai lontano e che ha fatto breccia: l'Occidente è tecnologico, pragmatico, logico, aggressivo, spesso agnostico o ateo; l'Oriente è contemplativo, tollerante, intuitivo, passivo. L'Occidente fa, l'Oriente contempla; l'Occidente pensa, l'Oriente intuisce; l'Occidente divide e distingue, l'Oriente unisce e ingloba, anziché contrapporre compone…

Sembra esserci, fra questi due mondi (al loro interno complessi e diversificati… all'infinito) come un moto di attrattiva e di repulsione insieme, di ammirazione e di timore o sospetto.

Quanto siano vere queste descrizioni è difficile dirlo. Si potrebbe dibattere per ore. E' comunque evidente che si tratta di semplificazioni, e come tali da prendere con molta cautela. Allo stesso tempo, proprio perché semplici, sono facili da ritenere, incidono profondamente sul modo di pensare e di vedere.

***

Con questo primo approccio, ho già indicato qualche elemento che può entrare in gioco nel rapporto fra Occidentali e Religioni d'Oriente.

Tutti sappiamo che l'Occidente sta attraversando un'epoca di smarrimento. Si corre freneticamente verso il nuovo, fino a teorizzare la necessità di lasciare del tutto da parte la storia, il passato, e perciò si guarda con sospetto anche alla religione organizzata, che viene dal passato.

D'altra parte, ci si interroga con paura sul futuro della modernità, della tecnologia, sugli stili di vita, sulla nostra capacità di manipolare la natura e l'uomo.

Ma spesso anche chi teme la folle corsa verso il futuro non si sente di appoggiarsi ad una religione organizzata. Si parla di "pensiero debole" che rifiuta la metafisica, la fede appare come impossibile, le religioni come complici di quegli errori che ci hanno condotto in un vicolo cieco. C'è chi confessa di invidiare i credenti eppure non riuscire ad imitarli, perché siamo nell'epoca del dubbio.

In queste condizioni, percepire - anche se indistintamente e confusamente - che da qualche parte, nel "lontano Oriente" persiste un modo di vivere del tutto diverso, guidato da criteri e valori che qui non ci sono mai stati o si sono smarriti, e che sono capaci di riportare a ritmi di vita più umani, a rapporti sociali più rispettosi, a una vita interiore pacificata, significa provare simpatia e desiderio per questo mondo lontano, significa sognarlo.

Ecco allora studiosi e viaggiatori del mondo anglosassone prima, poi i giovani del '68, che hanno preso la via dell'Oriente, seguiti, più recentemente, da altre categorie - in generale benestanti, rappresentate anche da attori famosi, qualche uomo o donna d'affari, sportivi, turisti…

Questa ricerca è spesso stata delusa. Non si saprà mai quanti sono letteralmente scomparsi in India, Tailandia e altri paesi d'Oriente. Nel 1978 il Console italiano a Bombay mi diceva che il lavoro principale del Consolato consisteva nel rimpatriare connazionali ridotti in miseria, derubati, rovinati dalla droga, squilibrati da pratiche strane nelle quali spesso avevano tentato di unire libertà sessuale e uso delle droghe con ricerca religiosa e pratiche ascetiche anche molto dure comandate da un maestro la cui voce era inappellabile. Persone fragili, per lo più, che si spezzavano del tutto a contatto con esperienze traumatiche.

Ma non è tutto qui. C'è chi ha abbracciato l'Induismo o il Buddismo, chi ha ritrovato Cristo e una fede cristiana viva, iniziando a viverla con intensità, chi è rimasto sostanzialmente com'era, agnostico, indaffarato, ma tiene nel cassetto un libro di yoga e ogni tanto si propone di riprenderne la pratica, e anche chi ha fatto una sua personale sintesi religiosa sincretistica.

L'attrattiva dell'Oriente, si è resa più concreta anche grazie alla presenza di Orientali che si sono trasferiti in Europa e in Nord America per proporre sistemi di meditazione, yoga, metodi di medicina alternativa, filosofie orientali. Spesso abbiamo assorbito mentalità e idee che ci arrivavano in realtà attraverso l'America, ricca di movimenti religiosi orientaleggianti in quanto ispirati all'Oriente oppure, nati da orientali, sono stati profondamente rielaborati e rimaneggiati.

L'idea della reincarnazione non è più vista come una stranezza che si attribuiva a popoli antichi, ma è un diffuso modo di pensare, spesso un'istintiva alternativa ai dubbi sulla sopravvivenza dell'anima (paradiso e inferno) o sulla resurrezione dei corpi. Le pratiche yoga sono anch'esse diffuse in mille modi, con e senza significato religioso, addirittura come pura ginnastica, affiancata da molte altre pratiche che cercando di armonizzare corpo e spirito, vita interiore e salute fisica.

***

Senza pretendere di suddividere le cose buone e quelle non buone fra le molte che vengono dalle Religioni orientali o dall'Oriente in genere, mi chiedo: che cosa spinge verso queste religioni o filosofie? Che cosa si cerca in esse?

Spesso ci si rivolge verso Oriente come sbocco per un bisogno di personalizzare la propria ricerca religiosa.

Si ha del cristianesimo una visione esteriore, superficiale e di massa.

Molti occidentali sono "vaccinati" contro il cristianesimo. La vaccinazione consiste nell'inoculare quel tanto di agenti patogeni che - senza danneggiare l'organismo - lo costringono a produrre gli anticorpi che lo difenderanno per sempre dalla malattia. Molti prendono dal catechismo e dalla sacramentalizzazione quel tanto che, senza cambiare la loro vita, li persuade di conoscere il cristianesimo e di non potervi trovare risposte alle loro esigenze. Così sono "immuni" dall'evangelizzazione.

Tuttavia rimane un bisogno religioso inappagato, e allora ecco l'Oriente, con il fascino di un viaggio verso l'ignoto, dove si è soli a decidere, senza preti né l'obbligo di andare a Messa o di stare insieme alle riunioni, l'attrattiva di una profondità di cui si ha nostalgia.

Stanchi, per ragioni più o meno valide, della loro blanda esperienza di vita cristiana, alcuni temono le risposte troppo sicure, le parole già udite, gli inviti morali già imparati e forse non seguiti. Vogliono sondare, provare, cercare senza dovere subito dire "sì" oppure "no", senza un immediato appello ad un impegno percepito come gravoso.

L'Oriente si presenta meno dogmatico, più duttile ed esperienziale.

Ciò che attira non è un complesso dottrinale che si ritiene più vero del catechismo cristiano. Si conoscono forse elementi dottrinali sparsi che attirano perché sembrano meglio rispondere a certe sensibilità di oggi (come ad esempio il rispetto per la natura e la vita come si pensa praticato dall'Induismo e dal Buddismo, la non violenza, tolleranza, ecc.), ma soprattutto ci si sente attratti da una proposta di fare esperienza di ciò che un maestro ha fatto.

Si impara a familiarizzarsi con il silenzio, con il proprio corpo, con la vita interiore e gradualmente, in parallelo, si acquisiscono le posizioni dottrinali che stanno alla base di queste esperienze. Prima si fa, poi si teorizza.

Il Maestro appare autorevole e profondo, anziché autoritario e rigido come spesso appare il prete, disponibile e accogliente anziché indaffarato ed esigente. La comunità piccola, familiare, motivata, anziché anonima e fredda.

L'Oriente sembra particolarmente adatto ad una cultura come la nostra che ha paura della fede, e spesso la identifica con il fanatismo, il fondamentalismo, l'aggressività. Non propone una fede nell'Altro, ma un'esperienza per se stessi.

Si è polemizzato circa le opinioni espresse dal Papa nel suo libro "Varcare le soglie della speranza" a proposito del Buddismo. C'è chi ritiene che dire che il Buddismo è ateo sia offensivo.

Non entro in merito alla specifica questione, ma è comunque innegabile che il Buddismo non ti dice che devi credere in Dio, tanto meno ti descrive il Dio in cui credere. L'anno scorso su un giornale indiano leggevo un dibattito fra lettori proprio a proposito della possibilità di essere buddisti pur avendo opinioni diverse circa l'esistenza di Dio e di una vita dopo la morte. Nessuno poneva in dubbio tale possibilità.

Spesso ci si accosta all'Oriente fidandosi di un maestro che si presenta come rispettoso di qualsiasi posizione abbia il discepolo, che non vuole cambiare le sue convinzioni o toglierlo dai suoi dubbi, ma portarlo - così come è - a sperimentare la pace interiore, un rinnovamento "morbido".

I figli della nostra società sempre più individualista si sentono attratti da una proposta che non fa aderire ad una comunità ma percorrere un cammino personale; che non propone dogmi ma esperienze; che non chiede di rinnegarsi ma di ritrovarsi, liberandosi dagli affanni e dal dolore.

Il cristianesimo appare a molti prima di tutto con le sue esigenze etiche. Addirittura, spesso si conoscono (male) soltanto alcune di esse: morale sessuale specialmente, e obblighi di pratica religiosa. Oppure, se si è più informati e addentro, si identifica la vita cristiana con l'impegno caritativo, sociale. Magari lo si ammira, ma se ne costata anche l'inadeguatezza a risolvere i problemi del mondo e della nostra società.

A fronte di una religione volontaristica, si pone la proposta di qualcosa che impegna soltanto te, che ti accompagna gradualmente, che puoi lasciare se non ne sei convinto. Qualcosa che si propagherà impercettibilmente, senza rotture e conflitti, portando finalmente te alla pacificazione interiore, e poi la società e il mondo intero.

Il Budda raffigurato con un impercettibile sorriso, che promette distacco e calma interiore, o il "Budda che ride" come è raffigurato spesso in Cina, circondato da bimbi festosi che giocano su di lui sembra più attraente, più accostabile, più umano dell'Uomo sofferente sulla croce e del suo duro invito a seguirlo.

Torno a dire: si tratta di semplificazioni.

Tra l'altro bisogna ricordare che ci sono non soltanto varie religioni in Oriente, molto diverse fra loro, ma che all'interno di ciascuna esistono varianti notevolissime e addirittura opposizioni fino a costituire quasi religioni in sé. Tre sono le vie principali nell'Induismo, ad esempio; e se la via della bhakti viene giudicata più vicina alla mentalità cristiana per il suo discorso sull'amore, quella dell'advaita può far comprendere meglio la trascendenza e quindi la non definibilità di Dio. Il Buddismo a sua volta si divide nei famosi "piccolo veicolo" e "grande veicolo", il primo più facilmente qualificabile come ateo o non teista, il secondo invece colmo di divinità e devozioni. Ma oltre a queste ci sono scuole, correnti, metodi diversi. In Occidente la presenza delle Religioni orientali riflette questa varietà e addirittura l'accresce, perché tutte, specie quando possono contare membri di origine e cultura occidentale, sono reinterpretate e riespresse, a volte con profondi mutamenti, all'interno di questa cultura e mentalità.

***

Come situarci di fronte a queste realtà nuove, che solo pochi anni fa ci erano sconosciute o note soltanto per qualche lettura scolastica?

Non ho ricette. Credo però che un contatto, e anche un confronto sereno e aperto con esse possa essere ricchezza per entrambe le parti se sa cercare allo stesso tempo ciò che unisce, ciò che si può imparare, e ciò che è diverso, ciò che fa essere se stessi nella propria identità.

Non bisogna pretendere di uniformare tutto, di sentirsi bene solo se tutto è uguale, né sentire il bisogno di distinguersi e di eccellere a tutti i costi, come se il bene che trovo nell'altro fosse rubato a me.

Al Sinodo per l'Asia tenutosi in Vaticano nel 1998, è risuonato con insistenza l'appello dei Vescovi cattolici perché in Asia si annunci un cristianesimo che sia più una "via" verso la vita che non l'esposizione di una verità. Il maestro orientale sembra dire: "Io ho fatto così, se vuoi seguimi", anziché "si deve credere questo e fare così". L'accesso alla religione è progressivo e accompagnato.

Il cristianesimo, secondo i Vescovi che sono intervenuti, deve trovare un approccio analogo, che non è rinuncia alla verità nella sua interezza, ma introduzione progressiva e sperimentale ad essa, una pedagogia che tiene conto anche di un certo diverso ordine d'importanza delle cose da credere e da praticare. Occorrono apostoli che sappiano far percorrere un cammino, che rispettino tempi e situazioni diverse delle persone.

I Vescovi parlavano di un'esigenza dell'Asia, dando per scontato che per l'Occidente va bene un approccio più intellettuale e catechetico. "Ma è proprio così? - mi domandavo e mi domando - o non è forse l'accostarsi di molti occidentali alle religioni orientali un segno che anche qui si cerca un'evangelizzazione che parte dal cuore e dalla vita, dal rapporto personale e dal rispetto della libertà?".

D'altra parte, la prassi catecumenale dei primi secoli era simile a quanto sembra essere esigenza di oggi: un'introduzione ad una vita nuova e ad una comunità, più che un'esposizione dottrinale. Il Nuovo Catechismo degli Adulti sembra richiedere gli stessi criteri, i quali però possono essere applicati solo se c'è un notevole cambiamento di mentalità, se si formano maestri e creano ambienti capaci di accompagnare questi cammini.

Ci sono, anche da noi, ambienti che propongono tempi di preghiera, silenzio o servizi di carità in maniera che definirei "de-strutturata", così da permettere a chi li accosta di sperimentare, di percorrere comunque un pezzo di strada. Forse ne occorrono molti di più.

Ricordo un bel libro pubblicato anni fa da un missionario francese in Taiwan intitolato "La profondeur de Dieu" di Yves Raguin. Stimolato dal contatto con il Buddismo, l'Autore proponeva di fare esperienza di Dio anzitutto in se stesso, nella profondità della propria esistenza personale. Dopo di lui molti altri hanno ripreso e stanno riprendendo questo modo di accostarsi al Dio di Gesù Cristo, tuttavia resta dominante nella percezione cristiana l'idea di Dio come esterno a me, spesso è ancora visto soprattutto come un Giudice, un controllore che dall'alto verifica i comportamenti morali dell'uomo.

L'argomento andrebbe molto approfondito.

La fede cristiana, vicinissima alle fedi ebraica e islamica, crede nella "alterità" di Dio, lo invoca come "Padre che sei nei cieli".

D'altra parte, essa presenta anche i temi affascinanti dell'unità profonda che - in Cristo - ci rende partecipi della vita trinitaria. Ci chiede di uscire per incontrare l'Altro, ma ci dice che questo Altro è "più intimo a me di me stesso" (S. Agostino). Non è forse S. Paolo a scrivere che la preghiera è il grido dello Spirito dentro di noi? A presentarci la vita di fede come una fusione sempre più intima tra il nostro spirito e lo Spirito di Cristo?

Un Dio interiore all'uomo non è affatto estraneo alla tradizione dei mistici cristiani, come non lo è nemmeno a molte esperienze di religiosità semplice, popolare.

Il cristianesimo compone trascendenza e immanenza di Dio proprio nei suoi due misteri fondamentali: la Trinità e l'Incarnazione. Accolto nella sua completezza supera il rischio di sottolineare solo un aspetto, l'inaccessibilità di Dio o la sua confusione con il mondo e l'uomo, oppure la divinizzazione dell'io quando, rientrando in se stessi, non s'incontrasse altro che se stessi nella propria impermanenza avvolta dal buio fitto e silenzioso del nulla.

Sembrano discorsi da specialisti in teologia o in mistica, invece possono essere vissuti e di fatto lo sono dal credente più semplice che accoglie il Vangelo con tutta la concretezza umana di Gesù che prende in braccio i bambini, piange per la morte di un amico, viene tentato dal demonio… eppure si proclama "Io sono".

Il Buddismo giunge su una soglia (o forse varca un confine) dove nulla e tutto sembrano avere lo stesso nome, dove l'io si ritrova completamente perdendosi.

Se è vero che il Vangelo ci insegna, e lo Spirito ci ispira a chiamare Dio con il nome familiare di Padre, è anche vero che noi siamo chiamati ad avere un profondo rispetto di Colui che nessuno ha mai visto.

Lo smarrimento del credente di fronte alla maestà di Dio, al suo silenzio, lo stare a bocca chiusa davanti al suo mistero non sono esperienze estranee al cristianesimo!

Ci sono nomi diversi, certo anche contenuti diversi, ma risonanze simili, che possono permettere almeno in una certa misura di comprendere l'esperienza religiosa dell'altro e di apprezzarla.

Credere in Cristo e fare di lui il solo Maestro non significa negare automaticamente tutto quanto altri insegnano. Ci sono Buddisti convertiti al Cristianesimo che vedono la loro adesione a Cristo come il compimento pieno di ciò che cercavano e a cui non rinunciano.

Cristo è Unico perché solo lui è salvezza, solo Lui è maestro nel senso che è criterio per ogni altra realtà. Tuttavia altre realtà esistono e hanno valore, come i santi che vanno imitati e venerati in riferimento a Cristo, ma non annullati o negati.

Cristo è discriminante, specialmente con la sua croce che era ed è tuttora scandalo e follia.

Non può non esserlo, però stiamo attenti che non diventi banalità o caricatura, come spesso avviene. In molti di quei cristiani "vaccinati" contro il cristianesimo di cui parlavo ci sono immagini e idee che identificano la vita cristiana solo con l'idea di sacrificio, disciplina, sofferenza. La croce per loro non è l'incredibile amore di Dio che si carica delle nostre pene per liberarcene, e che ci attira proprio perché così carica di amore e di speranza, ma è il castigo di un Dio terribile e incomprensibile.

Non possiamo dimenticare l'invito a "prendere la croce" per seguire il Maestro. Né possiamo cercare una via che ci anestetizzi contro la sofferenza e i turbamenti della vita. L'invio missionario di Gesù, come le beatitudini, sono bellissimi ma carichi di dramma, il dramma del rifiuto, delle lacrime, della persecuzione e della sconfitta.

Cristo porta la spada, e la sua pace non è quella che dà il mondo. E' una pace che è dono quando noi accettiamo di perdere la nostra vita nel suo nome piuttosto che salvarla ad ogni costo.

Allo stesso tempo però dobbiamo renderci conto che queste realtà possono diventare alienazione se non sono capite nella loro profondità, se sono poste sulle spalle senza che si insegni ad accostarci a Cristo "mite e umile di cuore" per avere ristoro e conforto. La nostra morale e la nostra dottrina appaiono a volte come un carico pesante, e la croce come una sofferenza in più "inventata" da Dio per punirci.

La croce invece non è condanna per chi non ce la fa, è salvezza anche per il ladro crocifisso che nella vita ha sbagliato tutto e fallito. Essa non è proprietà dei credenti o dei buoni, ma segno levato sulle nazioni, tutte, perché tutte in qualche modo possano essere raggiunte dal torrente salvifico del sangue di Cristo.

Presentiamola dunque con coraggio, ma anche con estrema umiltà e concretezza.

Umiltà, perché non è merito nostro e perché anche noi ne abbiamo paura, la fuggiamo tanto spesso. Concretezza, perché essa è la dolente "lettura" della realtà umana. Cristo innalzato sulla Croce raccoglie in sé la sofferenza del mondo, ci ricorda che questa è la sorte di ogni essere vivente a causa della sua condizione mortale e di peccato, del suo egoismo, dell'avarizia e della sete di potere. "Cristo non è salito sulla sua, ma sulla nostra croce" dice S. Ambrogio.

Allora diventa più luminoso anche l'invito alla carità interiore e a quella attiva, dinamica. Non è detto che la forma di "carità organizzata" che caratterizza l'Occidente cristiano degli ultimi secoli sia l'unica né la migliore, anche se ha indubbiamente un grande valore. Tuttavia l'amore deve trovare forme per esprimersi, per essere concreto. Esso è la lotta "contro" la croce, nel senso che accetta la croce per combattere il male che corrode il mondo e che inchioda innumerevoli vite su innumerevoli croci. Così ha fatto Gesù, che ha accettato la morte per vincere la morte, non perché l'amava.

Il cristiano guarda con rispetto alle vie che conducono a personalizzare la ricerca religiosa, che guidano in un cammino di interiorizzazione, che cercano la pace e l'equilibrio interiore ed esteriore - cose tutte che possono rendere migliori. Non solo, ma ha tanto da imparare da queste vie. Prima di tutto ritrovando nella propria tradizione dimensioni perdute o trascurate eppure presenti e forti; e poi anche accogliendo metodi, stimoli, richiami ed esperienze che sono compatibili con il Vangelo.

Stando attento a non cadere nella presunzione di salvarsi con la propria scienza e con la propria ascesi, pone su tutto la luce che la grazia gli dona. Luce di un Dio misterioso e invisibile che si apre a noi e si comunica come fragile bimbo, come appassionato predicatore del Padre, come Fratello che muore per potere attirare e abbracciare tutti traendoli dalle profondità oscure della sofferenza e del peccato che spesso appaiono invincibili.

Messaggio

7 maggio

Manca poco all’inizio della XII Assemblea Generale del Pime, che si aprirà il 6 maggio prossimo, durante la quale si farà una seria verifica su quanto operato dall’intero Istituto in questi ultimi 6 anni, si stenderanno le linee di fondo per il futuro e verrà eletto il nuovo Superiore Generale.Come potete ben intuire è un momento forte per il Pime e già da ora desidero invitarvi a partecipare alla nostra preparazione e a sostenerci durante i giorni dell’Assemblea.

Come? Sia nelle comunità sia privatamente, potete accompagnare l’avvenimento con la preghiera redatta per l’occasione e con una cordiale apertura a chi verrà eletto e alle decisioni che verranno prese.

In particolare, vi chiedo di fare della domenica 6 maggio una giornata in cui pregare per l’Assemblea, invitando ad unirsi a noi tutti coloro che ci conoscono e con i quali o per i quali lavoriamo: comunità missionarie, religiose, parrocchie, gruppi, associazioni, movimenti, scuole. I membri dell’Assemblea si raduneranno in quel giorno alle ore 17 nella cappella della Casa di Spiritualità S. Vincenzo Pallotti a Grottaferrata (Roma), insieme ad amici che vivono nella zona di Roma, per una veglia di preghiera. E le Case del Pime vivranno in comunione con noi questo momento, grazie a quanto organizzeranno la medesima sera.

Vi ricordo, inoltre, che il 2 giugno si conclude ufficialmente l’Anno celebrativo del 150° anniversario di fondazione del Pime.

Ci sono state molte belle iniziative e pubblicazioni, ringrazio il Signore e ciascuno di coloro che hanno contribuito a prepararle. Anche quella giornata, che è Festa di Maria Regina degli Apostoli, sia celebrata con spirito di preghiera, ringraziamento e festa.

L’Assemblea generale celebrerà con la presenza dei Superiori di altri istituti missionari, e nell’occasione p. Gianmarco Grappiolo della diocesi di Savona (Italia) si unirà definitivamente all’Istituto pronunciando la Promessa. Con tutta probabilità presiederà il nuovo Superiore Generale, al quale - chiunque sia - anticipo di cuore i miei auguri più vivi e cordiali.

p. Franco Cagnasso

Le crisi di Paolo. Viaggio nella Corinto di oggi

Settimana di studio su Paolo di Tarso

Ariccia (Casa Divin Maestro), 25-30 agosto 2001

28 agosto 2001

VIAGGIO NELLA CORINTO DI OGGI

Di p. Franco Cagnasso, PIME

Corinto oggi.

Si arriva all’aeroporto la mattina molto presto, al controllo di polizia sono aperti pochi sportelli, ma in compenso i bagagli vengono consegnati in fretta.

Si esce storditi dal viaggio e un po’ confusi dalle scritte in una lingua che non si capisce e dalla confusione; per fortuna si scorge l’amico che aspetta e che sa fare alla svelta lo slalom fra gente che va e viene, carrelli, ascensori, indicazioni di parcheggi, qualcuno che offre hotel e taxi…

Si viaggia verso la città: sono più di trenta chilometri e si vede un po’ di campagna ma non troppa, perché quasi subito iniziano e si susseguono quartieri popolari, stazioni ferroviarie, supermercati, qualche baraccopoli…

Costeggiamo a lungo un canale di acqua densa e sporca. Il traffico del mattino è già intenso e cresce minuto per minuto, caotico e inquinante. Gli autobus sono stracarichi, molta gente va a piedi e si ferma a comprare la colazione alle bancarelle.

Le case sono quasi tutte basse, messe in disordine, mescolate a blocchi di palazzi grandi in cemento grigio. Molta pubblicità, enorme. Non mancano Coca Cola, Motorola, Malboro… Ogni tanto s’intravvede una chiesa, c’è pure una moschea; mi pare di scorgere un tempio indù, ma mi accorgo che è un locale notturno…

L’amico che è venuto a prendermi mi spiega che la città sta crescendo, e la gente arriva da tutto il paese in cerca di lavoro, scuola per i figli, medici quand’è ammalata; arriva anche da altri paesi, e si vede che la folla è cosmopolita, di varie razze. C’è molta disoccupazione, lavoro precario, violenza e microcriminalità. Il commercio è controllato dalle mafie locali, la droga si trova ovunque senza difficoltà e la polizia si lascia corrompere volentieri.

E’ una periferia brutta, volgare.

Finalmente si arriva verso il centro, e vedo grattacieli eleganti, banche, qualche parco mentre l’auto fila su una delle superstrade che attraversano la città. Percorriamo un lungo viadotto che passa molto alto, e di là riesco a dare un’occhiata su un nucleo di case fitte fitte, vie strette, qualche cupola e una bella piazza che costituiscono il centro antico…

Io non sono mai stato a Corinto (né in Grecia) e quella che vi ho descritto non è Corinto.

Ma sono stato in molte altre città del mondo, e fra le tante ho scelto di descrivervi Manila, S. Paulo del Brasile, Città del Messico, Dhaka, Canton, Mumbai, Il Cairo, Taipei, Calcutta, Bangkok…

Con pochissime varianti (i minareti al posto dei campanili, le scritte in cinese piuttosto che in spagnolo o in hindi) quasi tutte le metropoli del terzo mondo sono uguali, con gli stessi ritmi di vita quotidiana e gli stessi problemi e con gli stessi stili nelle periferie.

Non mi è stato difficile richiamarle alla mente per preparare questo incontro. Corinto al tempo di Paolo era città contraddittoria, porto di mare, luogo di passaggio ma anche con il suo orgoglio; città in crescita con mille problemi.

Paolo, come sapete, ha annunciato il vangelo in quella città, dove è nata una comunità cristiana vivace e variopinta. Ci sono rimaste le due lettere che lui ha scritto, e che ci danno uno spaccato dei suoi problemi, che lui affronta con molta concretezza, senza restare nel vago, ma allo stesso tempo collocandoli nel loro contesto ampio, soprattutto fornendo le ragioni, i criteri delle soluzioni che lui indica. Grazie a questo, noi troviamo in queste lettere – che pure hanno alcuni elementi strettamente validi per quel tempo e per quella situazione soltanto – molte indicazioni preziose che ci permettono di visitare le Corinto di oggi usando la Corinto di Paolo come una guida, una mappa che ci orienta nel cammino della fede cristiana dentro una grande città moderna.

1. La solidarietà che si diffonde

Visitando queste grandi città, io sempre approdo a qualche parrocchia, perché vado per trovare i missionari.

La chiesa – forse bella nuova o forse ancora un capannone o una palestra adattata – la casa del prete, le aule di catechesi… Non manca mai un centro di accoglienza per i poveri: ascolto, pacchi dono, forse una mensa; a turno medici, dentisti, infermieri che volontariamente assistono malati senza mezzi e danno medicine

Forse accanto alla porta del piccolo dispensario medico c’è una targa: “Dono della famiglia Rossi – Napoli”, e su quella di un’aula: “In Memory of Mr and Mrs O’Hara – Philadelphia, USA”.

Nei corridoi ci sono i poster variopinti delle paoline, con mari, nevi, cascate e montagne che nessuno dei parrocchiani ha mai visto. C’è anche il resoconto dei bilanci parrocchiali, e l’avviso di una raccolta di aiuti per gli alluvionati in Bangladesh…

A noi tutto ciò sembra ovvio, banale, scontato fino alla noia. Caso mai discutiamo di globalizzazione, G8, tute bianche… ed è giusto. Ma non sarebbe giusto far dipendere la nostra attenzione dagli umori dei mass media e di alcuni politici più abili.

Che c’entra questo con Corinto?

C’entra, c’entra.

Paolo era un viaggiatore infaticabile, un accanito annunciatore del Vangelo – e possibilmente del Vangelo senza troppi fronzoli, ricondotto ai suoi elementi fondamentali e perciò proponibile a tutti.

Nella sua lettera ai Galati però c’è un accenno significativo: quando, nella bufera di polemiche che accompagna il suo modo di evangelizzare, va a Gerusalemme per un confronto con i responsabili della Chiesa, ne esce vincitore e non gli impongono nulla di particolare. Anzi, scrive: “Riconoscendo la grazia a me conferita, Giacomo Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba la loro destra in segno di comunione, perché noi andassimo verso i pagani ed essi verso i circoncisi. Soltanto ci pregarono di ricordarci dei poveri: ciò che mi sono proprio preoccupato di fare” (Gal 2, 9-10).

Non si tratta di una raccomandazione generica, ma di un impegno preciso che Paolo assume perché le comunità che lui fonda aiutino quella di Gerusalemme colpita da carestia e persecuzione. Nella lettera ai Romani Paolo scrive: “la Macedonia e l’Acaia hanno voluto fare una colletta a favore dei poveri che sono nella comunità di Gerusalemme. L’hanno voluto perché sono ad essi debitori: infatti, avendo i pagani partecipato ai loro beni spirituali, sono in debito di rendere un servizio sacro nelle loro necessità materiali” (Rom 15, 26-27).

E nelle due lettere ai Corinzi il tema della colletta trova un posto ampio e ben motivato.

Paolo non si limita a raccogliere un po’ di soldi per accontentare i capi di Gerusalemme; fa di questa raccolta un motivo di riflessione evangelica, e insiste che la ragione fondamentale non è economica ma di giustizia. Per dare un segno di riconoscenza a chi ha loro donato il vangelo, ma non soltanto. “Non si tratta di mettere in ristrettezza voi per sollevare gli altri, ma di fare uguaglianza” (II Cor 8, 13), e si tratta di credere che dalla generosità nasce un bene ben più grande del valore del denaro che si è donato.

Le Corinto di oggi, più ancora di quella di 2000 anni fa, sono immense città caotiche con grandi miserie materiali, morali, spirituali. La comunità cristiana è sempre una realtà minoranza, a volte piccola o piccolissima. Spesso si sente smarrita, e subisce pesantemente i condizionamenti dell’ambiente in cui vive. Però questa impronta data da Paolo è rimasta, anzi si è approfondita ed è diventata più incisiva.

Le comunità cristiane sono luoghi di solidarietà che ha caratteristiche chiare:

- - è quotidiana, non occasionale, pagata con i propri soldi e il proprio tempo, non si nutre di slogan o (solo) di proteste e sa stare accanto a chi soffre

- - è una solidarietà “interna”, tra i fratelli e le sorelle di quella comunità: in parte organizzata (pensate alla S. Vincenzo o alla Caritas) e in parte libera, invisibile e non quantificabile (quanta gente visita i malati, aiuta a tenere i bambini, dà un’elemosina… ricordo un mio amico direttore di banca, andato in pensione appena possibile, che ha dedicato tutti gli anni che gli sono rimasti ad aiutare vecchiette e gente che non era capace di far da sola a preparare i moduli per pagamenti delle tasse, a scrivere la richiesta della pensione, o dell’esenzione dal ticket dei medicinali, ecc. ecc.)

- - è una solidarietà non di ghetto, perché tutte le realtà ecclesiali che io conosco in tutto il mondo sono aperte ad aiutare e collaborare con chiunque, senza barriere di razza o religione – in modi diversi e secondo le possibilità concrete

- - è una solidarietà “globalizzata” perché va ben oltre i confini del proprio territorio. La Chiesa ha una miriade di organizzazioni più o meno ufficiali, clericali, etichettate e una rete fittissima – anche se in gran parte poco visibile e poco conosciuta – di solidarietà internazionale. E’ un continuo scorrere di denaro, ma anche di conoscenze tecniche, di sostegno culturale e spirituale che va in tutte le direzioni e che collega le chiese di tutto il mondo.

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Su questo contesto, si può e si deve innestare – come già avviene – anche una ricerca culturale e politica delle soluzioni ai grandi problemi dell’umanità.

Paolo ha dato il via, non poteva certo prevedere e risolvere tutto. Nella storia la carità ha poi trovato tante forme diverse per esprimersi: dagli ospedali per gli appestati al monte dei pegni, dalle scuole per i poveri alle cooperative per la difesa della terra. Tocca a noi a ogni epoca approfondire, scoprire nuovi risvolti della spinta evangelica che ha portato Paolo ad organizzare la colletta tra tutte le chiese del Mediterraneo. Le Chiese di oggi elaborano e camminano. Provate a guardare le pubblicazioni dell’Editrice Missionaria Italiana (ma non soltanto!) in questi ultimi 30 anni, e vedrete che i problemi della globalizzazione, di uno sviluppo compatibile, dell’abolizione del debito dei paesi poveri, ecc. non sono saltati fuori adesso, nell’editoria cattolica.

Le Corinto di oggi sono città – come dicevo – caotiche e spesso angoscianti. Ma ovunque, grandi o piccole, ci sono queste presenze che educano ad amare Dio non come alienazione e fuga dai problemi, ma come colui che ha preso su di sé le fatiche dell’uomo, che ci ha reso tutti fratelli e sorelle, che ci chiederà conto: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere…” (cfr Mt 25, 31-46).

2. Lo scandalo della divisione

Ho parlato dei campanili che si scorgono in tante periferie delle Corinto moderne, e ho accennato ai minareti. Ma se voi entrate negli affollati quartieri popolari di queste città vi accorgete presto di una miriade di grandi e piccole chiese o gruppi che in qualche modo risalgono a Gesù di Nazareth o ne ricordano il nome: dai cattolici ai luterani, dagli anglicani ai battisti con le loro suddivisioni per nazioni, dai testimoni di Geova alla Chiesa Quadrangolare, la “Chiesa di Dio”, gli Avventisti, e così via… Locali grandi e ricchi, garage con quattro panche… la varietà di proposte è incredibile.

Paolo nelle lettere ai Corinzi ha parole durissime contro la divisione, e ne parla – mi pare – lasciando intravedere due aspetti del problema:

- - gli interessi di predicatori che vogliono fare carriera, o semplicemente far soldi e avere la stima dei Corinzi, e per questo parlano male di Paolo, lo discreditano e calunniano per attirare a sé quelli che lui ha condotto all’incontro con Cristo e alla chiesa; e questo è il problema che ritroviamo nell’esistenza anche oggi di sette e gruppi che si formano e si separano continuamente, che vivono di polemica, per lo più anticattolica, che fanno soldi

- - il sciocco orgoglio dei cristiani che, sentendosi avanti nella vita spirituale, si mettono a discutere fra loro circa la maggiore o minore spiritualità di questo o di quell’altro apostolo che loro preferiscono; e questo (semplificando molto) può essere il problema delle divisioni nelle grandi tradizioni ortodossa, cattolica, protestante tradizionale, ma anche – all’interno di ciascuna – nelle polemiche e lotte fra ordini religiosi nel passato, e fra movimenti di spiritualità oggi.

E’ una piaga aperta, a cui pensiamo troppo poco e che costituisce il vero scandalo dell’evangelizzazione. Paolo ha parole accorate e fortissime contro i falsi apostoli che creano divisioni. Non è dunque esempio di un “vogliamoci bene” a tutti i costi, perché la verità va detta e difesa con forza. Ma anche mette in guardia accoratamente dal lasciarsi dividere per questioni senza sostanza. Che cosa conta l’apostolo? Domanda. Nulla: chi fa è Dio e chi è morto per voi non sono io, né Pietro, né un altro predicatore, ma Cristo.

Inutile illudersi. Nelle Corinto di oggi un grave ostacolo all’accoglienza del vangelo è proprio questo, che non si è capaci di vivere la varietà nell’unità, e che spesso si mette al proprio servizio la verità invece di servirla.

Può sembrare un problema interno al mondo cristiano e alla chiesa, ma non lo è: le conseguenze negative ricadono su tutti.

Infatti è la testimonianza che ne soffre, e con la testimonianza tutto: la possibilità di credere, la gioia del lavorare insieme, l’organizzazione dell’impegno nel mondo, lo scambio e la condivisione delle esperienze…

A Corinto apparivano solo i primi preoccupanti segnali, e Paolo li ha capiti. Purtroppo l’orgoglio e l’avarizia – le due grandi tentazioni che sempre ritornano, hanno portato alla divisione.

3. La libertà, la morale, la tradizione

Le città sono un crogiolo di cambiamenti culturali, e molta la gente pensa alla la città come simbolo di libertà, di trasgressione anche o comunque di possibilità di cambiare ciò che la tradizione e la morale propongono spesso in modo che si sente soffocante.

Oggi queste caratteristiche sono sentite e vissute in modo clamoroso nella discussa California (non tutti i matti sono in California, mi disse un giorno un amico americano, però è certo che tutti i californiani sono matti…) e ciò significa nelle sue città, prime fra tutte S. Francisco e Los Angeles – da dove partono i movimenti sociali, culturali e religiosi più strani e, appunto, trasgressivi.

In modo meno evidente, ma non meno significativo ciò avviene in tutte le città del mondo. Nelle periferie africane, latinoamericane, di quasi tutta l’Asia l’età media degli abitanti è bassissima, spesso più del 50% della popolazione è sotto i 15 anni. Chi arriva in città dalla campagna si lascia alle spalle non solo ritmi di vita e tipi di lavoro ma anche tradizioni e costumi secolari, e anche… i nonni.

I nonni rimasti lontani, i genitori fuori tutto il giorno a cercare di guadagnare qualcosa, i vicini che provengono da regioni, gruppi etnici, nazioni diverse e perciò hanno abitudini, religioni, vita morale diversa… e i ragazzi che vanno a scuola (quella scuola che i genitori non hanno frequentato) e assorbono di lì ciò che li prepara alla vita, che stanno davanti al televisore (presente anche nelle baracche), che vivono o si arrangiano per sopravvivere in strada, che consumano tutti i soldi in videogiochi… assorbono elementi culturali frammentati, diversissimi da quelli da cui provengono, contraddittori e spesso con contenuti lontani dalla loro situazione. Le telenovelas o i polizieschi che infestano le reti televisive di tutto il mondo presentano modelli e situazioni per molti aspetti assolutamente estranee alla vita quotidiana di chi li guarda.

In questo clima di confusione, rimane una parola magica che mette d’accordo tutti: libertà.

Tutti vogliono essere liberi, e persino il ragazzo di strada che sulla strada fa la fame, si ammala, subisce sfruttamento e violenza… spesso ci ritorna e la preferisce non solo al collegio o alla sua sbandata famiglia di origine, ma anche alla casa famiglia e a forme di aiuto molto attento e discreto. Perché? Perché sulla strada si sente libero!

Questa libertà viene evidentemente interpretata da ciascuno a modo suo, come evasione, come possesso di beni, come sopraffazione, come assenza di autorità nella società, nella religione, nella politica, nel pensiero. E’ il sogno implicito o esplicito inseguito da miliardi di persone.

Che c’entra questo con la Corinto di Paolo?

Paolo viene da una tradizione molto particolare nel mondo antico, e molto rigida. E’ ebreo, e quindi segue regole e leggi diverse da quelle comuni, e in più è fariseo osservante e rigoroso.

Ma predica la libertà. Dice che non ci si salva grazie alla propria buona condotta morale, o all’osservanza della legge, o della liturgia; tutto questo lui l’ha vissuto – dice, e ora lo considera “spazzatura”. La salvezza viene invece da Cristo che sulla croce ci fa nuovi e conquista per noi una libertà radicale.

Questo messaggio scandalizza gli ebrei, che lo combattono in tutti i modi; suona invece in un certo senso meno incomprensibile per i pagani. La loro è una religiosità molto rituale. Non vivono certo tutti nell’immoralità, però le loro religioni non si preoccupano della morale. I sacrifici e i riti sono per lo più mezzi per rendersi favorevoli gli dei ma non c’è connessione diretta fra religione e morale, tanto meno fra religione e modo di comportarsi con il prossimo.

I malintesi sono dunque molto facili.

Gli ebrei rischiano di accettare sì la salvezza di Cristo, ma di sentire ancora il bisogno di ricorrere alle leggi e alle tradizioni per sentirsi sicuri, salvati. I pagani rischiano di accogliere la salvezza come sigillo messo sul loro egoismo, sulla sfrenatezza, su una visione settoriale della fede, vivendo una religiosità spiritualista, che interessa la testa ma non incide nella vita.

Paolo combatte con forza queste tendenze, e spiega.

Ricolloca fortemente al primo posto la salvezza come dono di Cristo e non come conquista dei nostri sforzi. Ma con altrettanta forza afferma che liberandoci dalla legge e dal peccato Cristo ci “conquista” con l’amore e che d’ora in avanti la libertà si vive sì, ma nell’amore – che è poi l’unica forma di vera libertà.

Un esempio molto evidente di questo criterio viene dal “caso” delle carni immolate agli idoli: è lecito ad un cristiano mangiare carni che i pagani hanno sacrificato ai loro dèi?

Paolo dice che è perfettamente lecito, perché c’è un solo Dio e immolare agli idoli vuol dire immolare a nessuno. Però, c’è chi non è capace di cogliere questo ragionamento, o di sentirlo fino in fondo. Può esserci un pagano che ti sollecita a mangiare quella carne quasi per prenderti in giro, per metterti alla prova, o un cristiano che ha scrupolo. E allora Paolo non ha dubbi: piuttosto che scandalizzare qualcuno, non mangio più carne in eterno!

Delicato il tema della sessualità. Corinto è città di prostituzione, e qualcuno pensa che non ci sia niente di male ad avere rapporti liberi con chiunque. Paolo ricorda che la libertà donata da Cristo non ci rende schiavi dei nostri istinti, ma padroni. Siamo corpo di Cristo, siamo presi dentro, trascinati nella divinizzazione del nostro stesso corpo, che attende la risurrezione.

Ne deriva una visione della sessualità originale, innestata sulla tradizione ebraica ma riletta alla luce del mistero del rapporto fra Cristo e la Chiesa, dell’incarnazione, e della venuta del Regno. Gesù aveva già detto chiaramente che una sessualità prevaricatrice, di dominio sull’altro è inaccettabile. Il sesso non è strumento di piacere, è espressione profonda di tutto l’essere che si completa con l’essere dell’altro; l’uomo e la donna che diventano uno nell’amore, nel dono reciproco e nella fecondità sono immagine di Dio. Questo è talmente vero, che nel Regno di Dio si può vivere e si vive il proprio essere uomo o donna anche nel celibato.

Paolo riesprime questo annuncio nel difficile contesto di Corinto, con casi gravi di incesto e di libertinaggio.

Esprime anche valutazioni su altri casi, a volte lasciandoci perplessi, come quando parla della presenza delle donne nelle assemblee o della posizione degli schiavi.

Ma proprio questi punti ci aprono alla comprensione di che cosa sia il vangelo nella storia. Non è un prontuario di regole morali da applicare, ma un germe da far crescere.

Di fronte alle molte situazioni che si pongono nella concretezza della vita, Paolo risponde richiamando i principi del Vangelo, che sono quelli che – vissuti bene – certamente portano alla vera libertà della persona, alla sua dignità e capacità di essere nella gioia. Uno schiavo che rinuncia a chiedere la libertà perché vuole amare e salvare il padrone o perché sente che non gli importa più del suo stato di vita, è certamente più felice e maturo di un uomo che per liberarsi opprime altri, odia, si sente infelice.

Detti i principi, anche Paolo poi non è in grado (e nessuno lo sarà mai!) di cogliere tutte le conseguenze che dal vangelo sono possibili per il cammino della società. Camminando nella storia vediamo che alcune sue risposte sulla posizione della donna sono inadeguate oggi; ma peggio sarebbe avere le risposte esteriori dimenticando le ragioni evangeliche che Paolo dà, anche se non ne leggeva tutte le conseguenze.

Paolo infatti non vuole che ci si faccia cristiani per farsi i fatti propri. Come si è visto molte volte nei 2000 anni di cristianesimo, possono innestarsi meccanismi perversi che spingono a farsi cristiani per ragioni false e sbagliate. Lui vuole che si aderisca a Cristo perché ci si sente amati e salvati e si vuole amare, non per avere un po’ più di libertà sociale o per sentirsi spiritualmente progrediti.

Questi sono, identici, i problemi delle Corinto di oggi.

Ci sono i difensori della tradizione, spaventati da ogni cambiamento, e ci sono i predicatori di una libertà assoluta, priva di contenuti e in ultima analisi vuota ed infelice.

La Chiesa in occidente è spesso vista come colei che difende il vecchio, la tradizione, e che ha paura del futuro. In altri posti è invece vista (e temuta) come troppo innovatrice, colei che scalza le tradizioni e soprattutto l’obbedienza all’autorità. I governanti cinesi, thailandesi, vietnamiti, birmani e tanti altri hanno paura del cristianesimo, e con ragione!

Nelle Corinto di oggi chi evangelizza deve fare la stessa fatica di Paolo. Deve riscoprire ogni giorno che solo Cristo salva, non la tradizione o le opere. Ciò gli permetterà di guardare al nuovo senza paura, anzi come occasione di apertura. Allo stesso tempo deve credere e insegnare che inseguire il nuovo e la libertà solo per se stesse ci conduce in un deserto senza speranza, dove si è privi di ogni sostegno che venga dalle culture e dalle regole del passato, di qualsiasi criterio di convivenza, di qualsiasi speranza. E allora si profila all’orizzonte la morte che spesso accompagna l’esperienza dei giovani delle città come ultimo richiamo.

La Chiesa deve continuamente porre a confronto il messaggio del vangelo con le proposte vecchie e nuove della società in cui si trova, e tentare le risposte giuste. Non sempre le trova subito, ma l’essenziale è che presenti la sostanza del messaggio, e vie concrete per viverlo insieme.

Viverlo insieme è infatti dimensione importante, che i Corinzi (di ieri e di oggi) stentano a capire. Che m’importa di mangiare carne se scandalizzo il mio fratello? L’amore ci porta vicino e ci fa vivere esperienza di comunità che sono limitate e anche limitanti per certi versi, ma che sono le “prove generali” del regno di Dio, che mi sostengono e sostengono altri, che testimoniano. Diventano luoghi di aggregazione (come si dice oggi) e di identificazione che nelle città sono particolarmente necessari. Diventano proposta di vita dove spesso sembrano dominare il caos e l’egoismo.

4. La croce e la cultura

Un ultimo accenno ad un campo di “crisi” delle Corinto di ogni tempo.

Paolo scrive ai Corinzi dopo aver annunciato il Vangelo ad Atene, tentando l’approccio culturale. Ha parlato nei circoli filosofici della città, e ha proposto un accostamento al vangelo passando attraverso la tradizione culturale e la religiosità ateniese.

Lascia la città con l’impressione di un fallimento (anche se non totale).

Scrive quindi sottolineando che l’essenziale dell’annuncio non è il veicolo culturale, ma il suo nocciolo puro e semplice, e anche difficile, urtante: Cristo, e Cristo crocifisso.

I semplici (lo aveva già detto Gesù!) sembrano più aperti ad accogliere questo messaggio. Forse perché sono più abituati a soffrire, più desiderosi di essere salvati. Per i colti – sia ebrei che pagani – questo discorso è invece uno scandalo, o roba da matti.

Paolo dice ai Corinzi: se così deve essere, così sia, io non annacquo l’annuncio!

E li prende in giro, perché si ritengono sapienti, perché fanno i raffinati, perché si compiacciono di se stessi. Voi vantatevi pure, io mi vanto delle mie debolezze – scrive – perché queste mi uniscono a Cristo e diventano potenza di Dio così come è accaduto con la croce.

Le Corinto di oggi hanno lo stesso atteggiamento.

Si appoggiano ai sapienti o ai potenti per tentare di risolvere i loro problemi, e vedono la fede come faccenda privata o da donnicciole. Oppure sono disposte a riconoscerle un ruolo positivo, ma solo in quanto servizio sociale. Anche Gheddafi ha invitato le suore in alcuni suoi ospedali, e noi del PIME siamo potuti andare in Cambogia dopo i disastri degli kmer rossi perché il governo comunista aveva accettato le suore di Madre Teresa perché si prendessero cura delle vedove di guerra e dei campi di sterminio…

Ma quando si annuncia Cristo come salvezza, e la croce come via percorsa per la salvezza… ti rispondono che queste sono stupidaggini sorpassate. La cultura spesso è l’idolo delle classi più istruite, un idolo che crea mentalità di elite, come hanno tutti i grandi mezzi di informazione in Italia.

E certe proposte delle culture sono interpretate come via di salvezza per certi momenti storici. Si trova salvezza nel comunismo, nel fascismo, nel liberalesimo. Oggi è la scienza a dettare legge e a salvarci, secondo molti, e non bisogna porre limiti alla scienza che ha ogni diritto perché può risolvere ogni problema. La scienza coniugata all’economia libera.

Il vangelo sarà sempre in posizione dialettica con le culture. Non le squalifica, anzi ne riconosce la necessità e i valori, ma non deve mai identificarsi, lasciarsi fagocitare.

E ciò vale anche per questo momento storico in cui la Chiesa, grazie a Dio, riscopre il valore delle culture (al plurale) e capisce che deve fare i conti con tutte, non identificandosi con quella occidentale.

Vale perché ritorna ovunque (non solo in occidente) il pericolo di porre prima la cultura e poi il vangelo, e di accogliere solo quelle parti di vangelo che sono culturalmente accettate.

Paolo inserisce un cuneo che non permette mai di ricomporre una pace piena fra vangelo e culture. Ci sarà sempre un rinvio oltre, o più in profondità. Ci sarà sempre un rimando ad altre culture, o a fasce di popolazione che vivono diversi modelli, o che sono tagliati fuori dagli schemi delle culture accettate, a cui la chiesa rimanda, a cui il vangelo ci ordina di andare ricominciando il discorso alle radici. Ogni generazione dovrà riscoprire che Cristo “viene dall’alto”, cioè da Dio, però è vero “Figlio dell’uomo”.

Dovrà accettare che Dio si interessa di noi umiliandosi, che ci lava i piedi e ci dice di lavarceli a vicenda. Questo nessuna cultura lo capisce o lo fa proprio fino in fondo: va continuamente riannunciato e riscoperto, come un dono.

Sempre, le città, avranno bisogno di chi vi entra con amore e dice parole che non sono sue, ma del “Figlio del Dio vivente”, perché soltanto lui ha “parole di vita eterna”.