Articoli e lettere agli amici - 2009

p. Franco Cagnasso


2009


La missione dei mucchietti

Missionari del Pime - Gennaio 2009


Seduta per terra, la donna fruga nel mucchio di riso davanti a sé. Pazientemente tira fuori uno per uno sassolini, legnetti, formiche, e altri non identificati. Per distrarsi, li raccoglie in mucchietti …

La mia missione è anche un po’ così: Dhaka è il mucchio di riso, e io cerco. Che cosa?

Arriva, quasi di soppiatto: “Ho faticato a trovare la chiesa. Voglio sposarmi, presto”. Si intravede che è questione di pochi mesi… Filippina, lavora fuori città, in una delle immense aree dove enormi fabbriche di abiti e maglie crescono squallide. “E lui?”. “E’ cinese, solo e smarrito come me”. “Cattolico?”. “Non aveva mai sentito parlare di Dio, è pronto a fare tutto quello che voglio”. Li incontro insieme, lui è tutto un sorriso, capisce pochissimo inglese. Spiego, quando non afferra, lei ripete o ricorre al traduttore elettronico tascabile. Altri incontri, dispensa, matrimonio, e scompaiono di nuovo. Si ripresentano per battezzare il bambino. Lui è sempre sorridente, bisogna ancora usare il computer, ma qualche progresso c’è stato…

Primo mucchietto: gli stranieri in Dhaka, provenienti dai quattro angoli del mondo. Non hanno problemi economici, ma di solitudine, adattamento, rapporti familiari. Quando trovano una chiesa la considerano come un’oasi dove gustare un po’ di ombra, acqua fresca, amicizia…

Leggo il suo nome sul portatile che squilla, e vado in fibrillazione. Non rispondo. Richiama. Niente. Richiama tre, quattro, cinque volte. “Pronto, Dottor Hassan, come sta?”. “Benissimo, grazie ad Allah onnipotente e alle sue preghiere. Ho voglia di vedere la sua faccia sorridente, carissimo amico.” Già, mi ha chiamato carissimo amico ancor prima di vedermi, nominandomi erede della sua “amicizia” con altri missionari. Parla per 25 minuti, dicendo di tutto e di più.

Siamo in settembre, insiste che devo assolutamente andare con lui, la mattina di Natale, a presentare gli auguri a Suor Mary, ex direttrice della scuola dove ha studiato sua figlia. Ha conosciuto i cristiani da ragazzo, e ora vuol tenere i contatti. Pasticcione, noioso, ma onesto e devotissimo. Convinto che io segua la sua stessa pratica, mi ripete sempre: “Mi raccomando, sia fedele alla preghiera di mezzanotte, la più gradita a Dio!” E io che a mezzanotte dormo come un ghiro…


Secondo mucchietto: i “battitori liberi” di ogni religione, nazionalità e lingua, che hanno voglia di sentire qualcosa di diverso, di assistere a un altro modo di pregare, di trovare appoggio nelle loro posizioni religiose aperte. Qualcuno è fuori di testa, ma bisogna ascoltare pure lui, o lei. Anche se mi mandano in bestia quando arrivano all’improvviso e non se ne vanno più, dopo tutto suonano una musica un po’ insolita, sono interessanti, a volte mi diverto pure…

Rekha è un chiodino, un bimbo smunto in braccio, il vestito di cotone leggero è pulito, ma reclama qualche chilo in più. Partecipa alla Messa, poi mi cerca. “Sono musulmana, mio marito è cristiano. Ha un diploma, ma fa il bracciante perché le famiglie ci hanno cacciato quando ci siamo innamorati,. Con fatica tiriamo avanti, ma ora occorrono medicine per il bimbo…”. Hanno cercato rifugio in un angolo degradato della metropoli, scomparendo nel mucchio. Dopo un mese si ripresenta con il suo Ashish. Sembra un ragazzino, i due figli la sua fotocopia. Iniziano a frequentare. Un giorno mi chiama da parte: “Tutti pensavano che Ashish volesse farsi musulmano. Invece sono io che voglio farmi cristiana. Mi ha spiegato, conosco le preghiere, mi piace la Messa e tutto il resto”. Un seminarista insegna il catechismo a tutti e quattro, e li accompagna a sentire la Chiesa come loro casa. Pian piano, anche le famiglie li stanno accettando…

Terzo mucchietto: i matrimoni interreligiosi. Buddista tailandese lei, cattolico spagnolo lui; lui musulmano bengalese, lei cattolica degli Stati Uniti; lei cattolica dello Sri Lanka, lui musulmano, se n’è andato e ora lei annaspa per mantenere i due figli, senza conoscere né bengalese né inglese… Ce ne sono di tutti i tipi. Dialogo interreligioso nella vita di tutti i giorni, contatti discreti per sostenerli nella convivenza spesso non facile, amicizie nuove…

Ci sarebbero altri mucchietti, ma non c’è più spazio per scriverne.

Quelle suore che non si abituano alla miseria

Franco Cagnasso

MissiOnLine - 19 febbraio 2009


Sono state finalmente liberate suor Maria Teresa Olivero e suor Caterina Giraudo, le due religiose del Movimento Contemplativo Charles de Foucauld rapite lo scorso 9 novembre a El-Wak in Kenya.

Vogliamo gioire in questo momento con i missionari e le missionarie del Movimento Contemplativo Charles de Foucauld proponendo una testimonianza di padre Franco Cagnasso, missionario del Pime in Bangladesh, che ci racconta lo stile di presenza semplice accanto agli ultimi che contraddistingue lo blue sisters, l'ordine religioso a cui suor Maria Teresa e suor Caterina appartengono.

"P. Franco, oggi ti diamo un bel sacchetto di cipolle". "...Cipolle? E da dove arrivano?" Sr Emilia e sr Nives si guardano, e ridendo mi porgono un sacchetto che peserà almeno due chili. "Ti abbiamo già parlato di Sopna: marito paralizzato, tre figli piccoli, nessuna risorsa... una delle famiglia più malandate dello slum: non sapevamo più come aiutarli, e abbiamo inventato di comprare cipolle. Lei si siede con i tre bambini in qualche angolo dello slum e le vende, tenendosi il ricavato. Il problema inatteso è che quando non riesce a venderle tutte, la sera viene e le vende a noi." "A voi che gliele avete regalate?" "Come dirle di no? D'altra parte un regalo è un regalo, e non si prende indietro, non ti pare?"

Piemontese Emilia, coreana Nives, da anni sono una piccola e umile presenza nell'immensa Dhaka. Il loro programma è semplice: stare con i poveri, e pregare.

Lo "stare con" è dentro di loro tanto da diventare una seconda natura. Ogni settimana celebro la Messa nella loro cappellina - ricordo un commento al Vangelo fatto da Nives: "Due anni fa l'alluvione ha devastato lo slum. Baracche crollate, malattie, fame dappertutto. Mi chiedevo: ma quando avrà fine tutto questo? Come è possibile tanta sofferenza? Pensavo che la fine del mondo sarà così. Ma sentivo anche una gioia grande, profonda dentro di me, la gioia di essere con loro e condividere quella tragedia."

Visito con Emilia la città satellite di Uttora, per considerare un possibile trasferimento là, dove sappiamo esserci parecchi cristiani senza nessun punto di riferimento. Camminiamo a lungo per strade e stradette, alla ricerca degli angoli nascosti dove vivono quasi rintanati i poveri, la "carne da macello", soprattutto le donne, di questo frenetico costruire nuovi palazzi. Per meno di un Euro al giorno sbriciolano mattoni, setacciano sabbia, portano terra e cemento impastato in pesanti ceste, sulla testa. Io mi sento a disagio, se devo chiedere un'indicazione mi guardo in giro alla ricerca di qualcuno che mi sembra istruito. Emilia si rivolge alla donnetta accoccolata per terra a martellare sui mattoni, chiede, un istante dopo sembrano vecchie amiche.

Le attività che svolgono sono le più semplici possibili, un piccolo doposcuola per i bambini più trascurati, visita alle famiglie, assistenza ai malati, una distribuzione settimanale di medicinali presso la vicina parrocchia degli Oblati di Maria Immacolata. Non hanno progetti di sviluppo né di catechesi, solo cercano di alleviare le sofferenze più nascoste, e pregano.

Quando, quasi trent'anni fa, don Gasparino venne in visita per decidere se mandare qui alcune Sorelle, qualcuno gli disse: "C'è tanta miseria, si sta male, ma poi in qualche modo ci si abitua". "Spero che non si abituino mai" fu il suo commento.

Posso dire che non si sono abituate, passiamo tanto tempo a parlare di sofferenze, a chiederci se si può fare qualcosa, a confrontarci. Se il loro metodo è semplice, non è però ingenuo e tanto meno inteso a "mettersi a posto la coscienza."

Un visitatore italiano che accompagnai a incontrarle rimase sconvolto passando nello slum dove vivono ed entrando nelle loro fragili stanzette, ma più tardi mi scrisse: arrivare da loro è stato come trovare ad una sorgente di acqua nel deserto, una piccola luce accesa nel buio della miseria umana.

Per me, sono un'amicizia preziosa.

La sete della Parola il fuoco della prova

Franco Cagnasso

Mondo e Missione - aprile 2009

Il rapimento di Maria Teresa e Rinuccia in Somalia: un richiamo all'essenziale della vocazione missionaria. La croce non è un incidente di percorso, ma la conferma dell'autenticità

"L'avevamo chiesta. E quando i rapitori ce l'hanno consegnata è stato un momento profondo. Era importante per noi, come le medicine di cui non potevamo fare a meno". In un'intervista alla Stampa del 20 febbraio scorso, Rinuccia e Maria Teresa, missionarie del Movimento contemplativo Charles De Foucauld, liberate dopo tre mesi di sequestro in Somalia, ridicono le parole di Gesù dopo il lungo digiuno nel deserto: "Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio" (Mt 4,4).

I rapimenti - purtroppo non infrequenti - costituiscono un passaggio che fa verità in ciascuno, missionari compresi: un incontro faccia a faccia con il mistero di Dio, della vita, della fede e di noi stessi. A proposito degli apostoli, san Paolo scrive: "L'opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco proverà la qualità dell'opera di ciascuno" (I Cor 3,13). Il "fuoco" che improvvisamente porta via, priva della libertà, crea totale incertezza, mette la persona in condizioni fisiche dure (isolamento, minacce...), prova la qualità dell'opera dei missionari. Le attività, certo, ma molto più ciò che sono, ha reso tali i missionari e li fa vivere in un altro Paese, spesso in condizioni difficili, per tanti anni. Padre Giancarlo Bossi, missionario del Pime, è liberato da guerriglieri islamici dopo un mese nelle loro mani. In Italia piomba in un vortice di incontri, interviste, commenti assolutamente estranei al suo stile semplice e schivo, ma per una volta viene alla ribalta la verità dimenticata di uomini e donne come lui, che si dedicano, pregano, credono in modo silenzioso e nascosto.

Quale la verità dei lunghi giorni vissuti da Maria Teresa e Rinuccia nella paura e nell'attesa? La loro sete della Parola di Dio, che fa desiderare la Bibbia quanto le medicine necessarie a sopravvivere.

La Parola ha dato loro pace: "Avevamo un sentimento di perdono e di accoglienza, mai di ribellione, di rifiuto. Ci ha aiutato molto la pagina del Vangelo che insegna l'amore per i propri nemici", hanno detto ad Avvenire il 21 febbraio. Persuase che Dio non è l'ultima spiaggia a cui ricorrere quando non ce la facciamo più, ma il Dio incarnato, sentono "la certezza della presenza di Dio con noi, che era prigioniero, che soffriva con noi e ci sosteneva". "Sin dal primo momento - hanno dichiarato dopo la liberazione - ci siamo dette: la nostra comunità inizierà a pregare per noi e chissà quanti ci penseranno". Silenziosamente, esse dialogavano con sorelle e fratelli lontani: "Andavamo con la mente alla comunità. Pregavamo di continuo, per sentirci unite alle nostre fraternità in tutto il mondo. Eravamo sicure, anche nel silenzio di notizie, che stavano facendo la stessa cosa per noi".

Riandare con la memoria agli affetti più cari e riceverne forza è normale per tutti i rapiti; per Maria Teresa e Rinuccia il cerchio si allarga a tutto il mondo, facendo emergere un senso vivo e caldo di appartenenza alla loro comunità e alla Chiesa. Anche in condizioni disumane, emerge l'umanità. Mettono sotto i loro occhi una fotografia di Bin Laden: "Sapete chi è?". "Sì, è una creatura di Dio", è la risposta spontanea delle suore. "Siete musulmane o infedeli?". "Siamo persone che vogliono bene a tutti in nome di Dio".

Il "fuoco" della prova fa emergere valori, stili interiori di vita che interrogano noi missionari: non "al di là", ma "dentro" ciò che facciamo, quale sostanza rimane, emerge più pura e forte quando ci accade che "il fuoco proverà la qualità di ciascuno?".

Il ponte

Dhaka, maggio 2009

Ce la prendiamo comoda, p. Achille e io, perché il treno parte alle 16.08. Camminiamo pensando che presto saremo alla missione: doccia, caffè, riposo… Con dieci minuti d’anticipo arriviamo alla stanzioncina sperduta nell’immensa distesa di risaie verde brillante. Chiusa. Bussiamo all’unica casetta vicina, ci apre il capostazione: “Il treno è passato poco fa, in ritardo come sempre”. “Ma non era alle 16.08?”. “No, alle 15.08”. “Altri treni per Chatmahar?”. “Domattina alle 7”.

E ora? Tornare indietro no, arriveremmo nel cuore della notte; restare qui, ma dove? Andare avanti, ma come?

Vediamo in lontananza due anziani contadini, con la svolazzante palandrana, la barba e il cappellino che alcuni musulmani vestono. Stranieri in quel posto sono una rarità, perciò i due sono ben contenti che li fermiamo per chiedere un consiglio. Ci guardano stupiti, poi ci danno la più ovvia delle risposte: “Camminate lungo la ferrovia e arrivate a destinazione senza sbagliare. Ci sono soltanto 18 chilometri”. Infatti… si può arrivare in poco più di tre ore.

Ci avviamo, e proprio mentre ci salutano perché sono vicini al loro villaggio, un pensiero mi agghiaccia: “Prima di arrivare a Chatmahar c’è un fiume, largo…”. “Certo, ma c’è il ponte!”.

Il problema è che molti ponti ferroviari in Bangladesh non hanno né pavimento né sponde. Tra un pilastro e l’altro gettano robuste traverse di cemento, sopra le traverse le rotaie e basta. Si passa mettendo i piedi sulle traversine mentre sotto vedi l’acqua che scorre; ai lati c’è il vuoto. E io soffro di vertigini. Forse si può attraversare in barca. No. “Achille, tu ce la fai?”. “Penso di sì”. “Io no, sono sicuro di cadere”. Esitiamo, spieghiamo il problema: “Ci passano tutti! Non tornate indietro, è pericoloso star fuori la notte, a fare il giro sulla strada impieghereste 10 ore”. Si avviano sul sentierino che li conduce al villaggio, mentre io mi giro sui miei passi. Su quel ponte non ci vado.

Ci corrono dietro. “Davvero non andate?”. “No, ho paura”. “Vi accompagniamo noi”. Chiacchierando, percorriamo circa dieci chilometri, e arrivati al ponte dicono con decisione: “Vieni, ti sosteniamo”. Mi prendono una mano ciascuno e quasi mi trascinano. Cammino irrigidito e senza fiato, so bene che se scivolo le loro mani non mi sostengono. Ma passo. Un grande sospiro di sollievo, un grande grazie e loro se ne tornano ripercorrendo i dieci chilometri mentre noi siamo quasi arrivati.

Mi viene in mente Pietro che con slancio va verso Gesù camminando sulle acque, ma poi si spaventa, grida, e il Signore stende una mano e lo sostiene (Mt 14, 28-31). Si può sostenere una persona con una mano sola? No, succede solo nei film, quando l’eroe prende al volo la ragazza che cade dalla finestra. Però una mano può dare quella fiducia che permette di farcela. La mia fede è più fragile di quella di Pietro, eppure al momento giusto è sempre arrivato un tocco che – come le mani dei due contadini musulmani – mi ha fatto attraversare il ponte.

Dana

Domanda: come fa quel nasetto a reggere gli occhiali? Dana è piccola e minuta, ha il viso chiaro, tondo, occhi allungati tipici dei Tripura, un gruppo minoritario che vive nell’estremo sud del Bangladesh.

Nata 18 anni fa in un villaggio remotissimo, quando aveva tre anni e due fratelli, il papà – buddista – è morto. La mamma, cattolica, si è risposata con un Cristiano battista. Quando nascono i figli del secondo matrimonio, Dana e fratelli iniziano a girovagare di ostello in ostello, di città in città, finché lei approda a Dhaka, in un pensionato per ragazze di varie religioni. Là qualcuno la invita agli incontri vocazionali. Non è cristiana, né buddista, né musulmana, però viene e segue fedelmente i 10 incontri. Timidamente cerca amici, pian piano incomincia a legare con qualcuno.

Un giorno mi viene a trovare, accompagnata da due ragazze, e mi racconta la sua storia. A scuola riesce bene, da casa riceve quanto basta per studiare, l’ostello non è male.

Finito il lungo racconto, stiamo in silenzio un momento, poi domanda: “Capisci perché sono venuta?” “Beh, se ti fa piacere qualche volta confidarti un poco, sono contento”. E’ stupita, e anche le due amiche hanno l’aria interrogativa: ma proprio non ci arrivi? “Voglio di più. Anche loro sono d’accordo, perciò le ho invitate. Io voglio… un papà, ne ho bisogno, e ho scelto te.” Prendo tempo: “Dana, ma sei sicura? Potrei essere tuo nonno…” “Hai ragione, forse… ma no, io voglio proprio un papà!”

Incomincio la nuova esperienza di papà adottato. Non ci vuole molto: Dana è sveglia e sa cavarsela da sola. Però sente il bisogno di qualcuno che le voglia bene, che le dica se sbaglia, qualcuno a cui telefonare quando è ammalata, per poi sentirsi richiamare: “Ora come stai? Va meglio?”, qualcuno a cui mostrare i risultati scolastici per un sincero: “brava”, oppure: “Ti sei innamorata? Dove avevi la testa in questo semestre?”

La morte del papà ha disfatto la famiglia, appartiene a un popolo minoritario da cui vive lontana, si sente guardata con curiosità in mezzo a gente di razza diversa, è vissuta fra religioni differenti ma non fa parte di nessuna. Vive in un ostello, ma ha bisogno di una casa per il suo cuore.

“Vedendo le folle, Gesù ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore. Allora disse ai suoi discepoli: “La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate il padrone della messe che mandi operai” (Mt 9, 36-38) . Fra i compiti di noi “operai”: predicazione, malati, poveri, la giustizia, preghiera… Ne sto scoprendo uno che non era ancora venuto a galla, “fare il papà”.

“Padre nostro”. Così Gesù ci ha insegnato a iniziare la nostra preghiera, dando voce al desiderio di essere figli. Certo, ha anche detto: “Non chiamate nessuno ‘Padre’ sulla terra perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo” (Mt 23, 9). Ma se sento sempre più Dio come mio Padre, posso sperare di comunicare a qualcuno che è “stanco e sfinito”, e solo, un poco della Sua paternità?

Laura e Giovanni

Da Dhaka viaggiamo verso nord, alla media di 4 chilometri all’ora. La strada è una baraonda di camion, autobus stravecchi e stracarichi, risciò, pedoni, strombazzare assordante, fumo, buche fangose. Ai lati, casoni brutti e grigi dove si confezionano montagne di vestiti, magliette, camicie, vendute in tutto il mondo. Le operaie hanno turni di 12 ore, una settimana di giorno, la seguente di notte. S’intravvedono dalle finestre aperte, curve sulle macchine, i ventilatori che girano. D’estate, là dentro, la temperatura non scende mai sotto i 40°. Tanti gli incidenti, anche mortali.

Finalmente arriviamo e Giovanni ci accoglie. Salutiamo il guardiano, attraversiamo il cortile pulito con fiori ad ogni angolo, ci fa entrare.

Rimango senza fiato. Un immenso salone con aria condizionata in cui ronzano quaranta telai che “sputano” ininterrottamente chilometri di tessuti. Aspiratori ripuliscono l’aria dal pulviscolo. Giovanni mi parla con entusiasmo delle macchine, dei problemi di azzeccare perfettamente i colori: se si sbaglia, si sprecano centinaia di metri di stoffa. “E’ una lotta per mantenere la qualità; se i dipendenti non se ne rendono conto, vanno a spanne. Ma quando capiscono, fanno bene”. Passando, salutiamo tecnici e operai che controllano la produzione.

Ci presenta Shanto: “Nessuno voleva pulire i gabinetti, finché ho trovato lui, un “metor”, casta disprezzata che fa solo questo lavoro. Secondo le leggi di mercato, quando è difficile trovare un operaio, si aumenta lo stipendio, e così ho fatto. Gli altri hanno protestato: dare a un metor più di quanto riceviamo noi? Ho spiegato che se qualcuno vuole, può fare il lavoro di Shanto, e riceverà lo stesso stipendio…”

Giovanni e la moglie Laura hanno affidato ai figli una ditta bene avviata in Italia per ripartire da zero qui. “Sono un imprenditore, non so fare altro. Creare un’industria che produca senza sfruttare, in un clima di rispetto, operi per uno sviluppo umano, non solo economico, questa è la mia sfida”. A volte si sfoga: la concorrenza sleale imbroglia, corrompe, e lui rischia di andare fuori mercato. “Per legge bisogna mettere i depuratori, perché la nostra produzione inquina. Li mettono ma non li fanno funzionare. Io controllo ogni giorno, non voglio avvelenare questo paese”.

Dice spesso: “Gesù mi piace da matto perché è un ‘bastian contrario’, capovolge tutto. Il più piccolo è il più grande, il debole vince, il Maestro lava i piedi, Dio muore come un malfattore… Io, imprenditore, sono l’ultimo, devo lavare i piedi ai dipendenti” Poi sorride: “Ci provo”. Laura commenta: “Fino dove essere pazienti e buoni è giusto, e dove invece favorisce la pigrizia e l’imbroglio?”. Nessuno ha la risposta sicura, cercarla è la fatica di ogni giorno.

Ricordate la parabola dei talenti (Mt 25, 14-30)? Giusi e Giovanni non hanno seppellito i loro, se li giocano seguendo Gesù in questo modo: fare le cose bene, essere seri professionalmente e moralmente nel proprio lavoro, qualunque sia.

Sephali

Come dieci chicchi di riso mescolati ad un quintale di grano, così sono i cristiani nell’immensa periferia di Dhaka. Spesso non sanno dove sia, oppure la chiesa è così lontana che a sì e no ci vanno una volta all’anno.

I seminaristi, il venerdì – giorno festivo settimanale, mentre la domenica è feriale – si sparpagliano per fare doposcuola ai bambini di villaggi indù, aiutare le suore di Madre Teresa, fare catechismo a ragazzi o ragazze di queste famiglie disperse... Qualcuno viaggia tre ore in bicicletta per restare un’ora, ma anche poco è prezioso quando i contatti sono rari. Inoltre, è importante venire a sapere di altri, cercarli. Frequentando una famiglia, Peter è entrato in contatto con un’altra ed è andato a cercarla: papà, mamma, un bambino di circa 10 anni e Sephali che ne ha venti. E’ una bella ragazza, ha imparato un po’ di cucito, ma non parla. “Qualche cosa –dice Peter – riesce a sentire. Quand’era piccola, un medico l’aveva indirizzata ad uno specialista, ma i genitori non hanno soldi per pagare”. Ne parlo a Bernardette, suora “pocket size”, sempre in movimento come una formichetta per prendersi cura di malati vari. Accompagna Sephali da due specialisti, che danno speranza: è tardi, ma si può tentare. Compriamo un apparecchio acustico.

Appena lo mette, Sephali si guarda intorno spaventata: d’improvviso è entrata in un nuovo, sconosciuto mondo di suoni che la confonde, le fa perdere l’equilibrio. Non capisce le parole, che non ha mai sentito, e la mamma – con il linguaggio che si sono costruite loro due –spiega che deve abituarsi, fare esercizi con il dottore, se ha pazienza potrà ascoltare e parlare normalmente.

Per tre mesi Sepali prova, passa dalla gioia alla paura, piange, getta via l’apparecchio acustico, lo cerca, non sa che fare. Bernardette le fa coraggio, la mamma insiste, il dottore ha pazienza, dice che qualche progresso c’è. Ma alla fine diventa irremovibile: rimango come ero. E getta l’apparecchio nel fiume.

Sephali mi torna in mente con pena quando ascolto musica. Le si è aperto davanti un mondo nuovo, l’ha intravisto, ma è tornata nel silenzio, là dove è abituata e si sente sicura. Tanti intravedono la bellezza del vangelo, provano, ma si fermano, tornano indietro. “Uno scriba si avvicinò e gli disse: ‘Maestro, io ti seguirò dovunque andrai’. Gli rispose Gesù: ‘Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Mt 8,19), e lo scriba si ritira spaventato, come il giovane ricco invitato da Gesù: vendi tutto e seguimi (Mt 19, 16-22). La fede ci fa entrare in un mondo nuovo, continuamente da riscoprire, ma a volte abbiamo paura, siamo attirati ma non entriamo, fagocitati dal modo di pensare comune, da ciò che vediamo e ci dà sicurezza, anche se non soddisfa.

Avrei perso incalcolabili ricchezze se, per paura, non avessi affrontato i rischi di venire missionario in Bangladesh!

Simon

Simon arriva emozionato. “Ho bisogno di parlarti…”. E’ un giovane solido, della popolazione Santal. Da ragazzino scorrazzava nel villaggio, andava a caccia di topi, s’infilava fra i malati dell’ospedaletto dove la mamma lavorava, sguazzava negli stagni con i compagni. Se non aveva altro da fare, andava a scuola. Gli piaceva pregare, forse per questo un giorno il parroco gli dice: “Perché non vai in seminario?”. Ci va. Tutto bene, finché succedono guai in famiglia e una sorella non ha i mezzi per mantenere i cinque figli. Simon a vent’anni esce e trova lavoro a Dhaka, in un piccolo centro che accoglie ammalati poveri, li aiuta a trovare un medico, li accompagna e li assiste all’ospedale, dà le medicine… Sotto la guida del missionario P. Pope, Simon s’appassiona, impara a trattare con i malati e con i medici, spesso sprezzanti o esosi, dimostra buon senso e pazienza.

Un giorno, viene a sapere che ci sarà un insolito raduno di mendicanti, nel cortile di una stazione di polizia. Vogliono parlare dei loro problemi: cacciati o picchiati, derubati, non sanno dove cucinare, ricevono cibo guasto… Con P. Pope, Simon decide di andarci.

Trovano un centinaio di persone sedute nella polvere, donne a destra, uomini a sinistra, con innumerevoli mocciosi che gattonano fra loro. Molti hanno mutilazioni o deformità gravissime. Uno senza gambe ha una pezza di cuoio sotto il sedere e si sposta a braccia, una ragazza va a quattro gambe, un anziano ha le orbite vuote e il naso roso dalla lebbra… “Ero paralizzato. C’era un caos totale, grida, insulti, richieste. Seduti su due sedie, aspettavamo che si calmassero, ma da noi volevano soldi e non c’era verso di riportare ordine. Un ragazzo sui 12 anni, ritardato mentale, spastico, si rotola nella polvere sbavando. Si ferma un attimo, mi guarda, riprende a rotolarsi. “P. Pope sto male, andiamo via”. Mi alzo ma subito, spinto da un impulso fortissimo, mi siedo per terra, afferro il ragazzo, lo tiro a me, appoggio la sua testa sul mio petto, lo accarezzo e piango. Si fa un silenzio assoluto. Poi la donna più vicina allunga la mano e mi tocca, poi un uomo, poi altri. Senza fiatare, saltando, rotolandosi, zoppicando si affollano intorno a me per toccarmi e tenere la mano sulle spalle, le gambe, la testa. Dopo un tempo infinito riusciamo a parlare: “Non siamo qui a dare soldi, ma ad offrirvi un servizio. Non lasciate infettare le vostre ferite, non morite di polmonite o di appendicite. Possiamo accogliervi al nostro centro, volentieri”. Parliamo per tre ore, poi tutti ce ne andiamo, in ordine.

“Il Verbo si è fatto carne, ed è venuto ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Quante volte mi chiedo che cosa fare, e basterebbe stare vicino? Come Simon fra i mendicanti, Dio è sceso in mezzo alle nostra miserie, peccati, pazzie. Ci si è messo dentro, ha fatto un pezzo di strada con noi, è finito come tanta gente ammazzata dallo sfruttamento, dalla fame, dal disprezzo.

E’ per questo che credo in Dio, che amo Gesù, che sono cristiano.

Mong Yeo

In piedi in un angolo del giardino del seminario, vestiti dimessi, puliti, una specie di ventiquattrore, l’aria sperduta, tutti gli passano accanto e lui non ha il coraggio di fermare nessuno. L’avvicino. “Chi cerchi?”. “Cerco te”. “Ma se non mi conosci!”. “Lo so, ma non conosco nessuno, e quando non si conosce nessuno come si fa a cominciare a conoscere qualcuno?”. Parla il bengalese con uno strano accento mai sentito. “Che cosa vuoi?”. “Che qualcuno mi ascolti, senza mandarmi via dicendo: bravo, bravo, vai...”.

Così ho conosciuto Mong Yeo Marma, 25 anni, primo di 8 fratelli e sorelle, laureato a forza di volontà e fame, ingenuo, pieno di fiducia in Dio, testardo. E’ un Marma, popolazione di origine birmana, buddista. “Siamo un popolo piccolo, povero, ignorante. Il governo ci considera ribelli, i musulmani infedeli, la polizia ci picchia, le organizzazioni internazionali chiedono progetti, carte e garanzie, nessuno viene a trovarci. Ma se non cominciamo a studiare, a uscire dai nostri villaggi, il nostro popolo scompare”.

Ha lasciato il suo primo impiego, a Dhaka, mettendosi a disposizione di un Bonzo che teneva alcuni bambini nella sua pagoda per farli studiare. In breve, tutta la responsabilità è ricaduta su di lui – senza lavoro e senza soldi. Ma ha un principio solido come una roccia: io faccio tutto quello che posso così, se Dio vuole, si fa.

Sono trascorsi cinque anni dal primo incontro, possiamo dire di essere amici nonostante la differenza di età, amicizia consolidata anche da momenti tempestosi, perché non è facile capirsi avendo lingue, culture, ambienti di vita così diversi. E anche, lo riconosco, perché io spesso cercavo di frenarlo con una prudenza molto umana, e lui rischiava, con la sua fede umile, forte e serena. Un giorno mi disse che conosce il vangelo, e che proprio Gesù, insieme a Madre Teresa, è il suo modello.

Ha messo in piedi un ostello dove vivono e studiano 70 ragazzi e ragazzi poverissimi, molti senza genitori, dalla classe prima alla decima. Casette semplici, di bambù e lamiera, lavoro ogni giorno per coltivare alberi da frutto e allevare pesci, i più grandi fanno una lunga strada per arrivare a scuola. Dieta di riso, patate e verdure. Ma ottengono buoni risultati scolastici e sono pieni di speranza. Pregano ogni giorno davanti all’immagine di Budda e a quella di Gesù, affiancate.

Quando parlo del futuro, risponde candido: “Dio mi ha fatto trovare te, mi farà trovare la strada”.

Ogni incontro con Mong Yeo è una meditazione sul Vangelo del centurione di Cafarnao che chiede a Gesù di guarire il suo servo. A Gesù disposto ad andare risponde: “Non sono degno, dì soltanto una parola e il mio servo sarà guarito”. E Gesù: “Presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande” (Mt 8, 5-13) o Cornelio, che stupisce Pietro perché lo Spirito scende anche su di lui e la sua famiglia (At 10). O la Cananea – pagana pure lei – a cui Gesù dice: “Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri” (Mt 15, 21-28)

La promessa di Joseph

Franco Cagnasso

Missionari del Pime - agosto/settembre


"I tuoi fratelli non hanno potuto studiare, sono nel buio. Ora tutti ti sosteniamo, vai avanti e diventa una luce per aiutarli a trovare la strada giusta". Joseph Mongol Aind, del Bangladesh, che ha pronunciato la promessa definitiva come missionario laico del Pime il 3 luglio scorso, ripete commosso le parole del papà.

"Appartengo a un gruppo indù della popolazione Oraon, il più piccolo di cinque fratelli e due sorelle. Tutti ricordiamo la devozione di mamma e papà: pregavano spesso, comunicandoci il senso di Dio nel quotidiano. Il mio villaggio non è lontano dalle missioni di Chalapara e di Gulta, dove mio fratello maggiore Nitto conobbe i missionari, e chiese la Bibbia. Era analfabeta, se la faceva leggere da me che frequentavo le elementari. Ascoltava attento, trasmettendoci il suo entusiasmo".

I vicini di casa criticano, ma Nitto persuade il papà e iscrive Joseph alla scuola cattolica di Borni. "Nell'ora di religione andavo alle lezioni di induismo, prendevo ottimi voti, ma mi piacevano anche il catechismo e le preghiere cristiane. Stavo come in mezzo... Ero piccolo e timido, suonavo, cantavo, giocavo al pallone benino.

Padre Quirico e le suore mi portavano con loro nelle visite alle famiglie e ai villaggi. Tacevo, ma ero felicissimo". La sua famiglia, vegetariana, sente dire che il cibo è scadente, e include carne e pesce. "Vuoi tornare?" chiede il papà, ma lui rimane: "Mi piace tutto il resto, mi vogliono bene".

"Mi interessavano le storie bibliche: Abramo, Mosè... Mi sentivo chiamato a diventare cristiano. Il babbo per rispettare la mia scelta fece fronte alle ostilità del villaggio, e venne a trovarmi ancora una volta.

Partecipò alla Messa, facendo la Comunione senza sapere che, non essendo battezzato, non avrebbe potuto. Morì quando ero in terza media, un anno prima che io e tutta la famiglia ricevessimo il battesimo. Soffrii molto per la sua morte, e anche perché i miei erano poveri. Nitto mi spiegò che padre Zanchi - da Chalapara - aiutava per le spese scolastiche, e che potevo rivolgermi a lui con fiducia".

Joseph dice che la sua vita è condotta silenziosamente dal Signore. Quando padre Zanchi lascia Chalapara e padre Quirico viene trasferito da Borni, si sente come abbandonato, ma poco dopo proprio padre Zanchi diventa parroco a Borni, lui lo prende con sé nei villaggi, e sarà lui a battezzarlo. Un giorno: "Di passaggio a Chalapara, vado a salutare il nuovo missionario, che mi riconosce subito come fratello di Nitto, e mi tiene con sé un giorno intero". Nasce con padre Mariano Ponzinibbi un rapporto di grande fiducia: "Mi conosceva fino in fondo!".

Alle scuole superiori è in ricerca. Conosce fratel Guillaume, della Comunità di Taizè, che lo affascina con il suo stile di vita, fratel Lucio Beninati, padre Achille Boccia.

Va ogni giorno a Messa; visitando ammalati in ospedale trova un anziano che da una settimana non riesce a lavarsi. Compra un pezzo di sapone, lo aiuta a fare il bagno, e lo ascolta: "Mio figlio non viene, ma io ora mi sento in paradiso. Tu da oggi sei mio figlio". Scopre che il Vangelo si annuncia anche senza parole. "Padre Mariano si accorse che ero attratto dai malati, e mi iscrisse a un corso per infermieri. Ebbi la conferma che il Signore mi voleva nel Pime".

Tre anni dopo, viene mandato in Italia, dove tutto è molto difficile: "Signore, fai venire padre Mariano!"... E padre Mariano viene assegnato proprio a Busto Arsizio, dove lui è in formazione!

La preparazione prosegue in Camerun. "Non sarò con te - lo saluta padre Mariano - ma stai sereno: ti seguo, certamente troverai qualcuno che ti sarà vicino".

A Mouda, nel nord, in un grande centro per disabili: "Mi sembrava di essere un bambino, soffrivo per la lingua, il cibo, il clima. Però l'affetto per gli ospiti del Centro suppliva a tutto. Anche con protestanti, o musulmani, riuscivamo a capirci, mi sentivano vicino più di altri missionari, molto occupati. Trovai elementi comuni fra la medicina tradizionale dei Guiziga e quella degli Oraon. E anche là il Signore mi mandò la persona di cui avevo bisogno: padre Giuseppe Parietti, che sa ascoltarmi, capisce, mi accompagna".

Fratel Joseph tornerà in Camerun. Cercherà di imparare meglio la lingua franca della zona, di insegnare l'orticoltura, quasi sconosciuta, a vantaggio di tutti, e... della sua dieta rimasta semi-vegetariana. Spera di stare ancora di più con gli ammalati. È sicuro che il Signore continuerà a guidarlo silenziosamente sulla strada a cui lo ha chiamato.

Viaggio verso gli altri


Intervento effettuato all’ “Interreligious Film Festival and Seminar” organizzato a Dhaka il 10 agosto 2009 dall’Ambasciata Italiana e dal Goethe Institute (Originale in Inglese - Tradotto dall'autore)

Non sono un esperto in materia interreligiosa, il mio contributo sarà molto modesto: la storia di una persona comune che ha avuto la possibilità di conoscere mondi diversi dal suo dal punto di vista religioso e culturale, e di come questa esperienza mi sembra preziosa. Per me e forse anche per altri.

Sono italiano, cristiano, cresciuto in un ambiente monoculturale di religione cattolica. La mia famiglia aveva una forte e attiva fede cristiana, e mi ha educato, in nome di questa fede, ad aprirmi agli altri: amare Dio e amare il prossimo. Ma non mi facevo molte domande.

In liceo, a scuola di religione avevo un insegnante che era prete cattolico e professore di antropologia. Fu lui a darci le prime aperture. In pratica a vedere gli altri con interesse, ad avere il desiderio di conoscere, superando il pregiudizio che solo ciò che so io è giusto. Gli altri diversi da me non vanno classificati come persone che sbagliano, o come un pericolo per la mia fede, o addirittura come nemici. Altre religioni e altri popoli, se accostati con intelligenza, mi aprono a capire meglio l’affascinante storia del cammino dell’uomo su questa terra. Esperienze religiose spesso elaborate e profonde possono essere semplicemente scartate come errori? Può Dio essere assente dalla vita di persone che nascono e vivono in contesti culturali e religiosi diversi da quelli dove è maturata la mia fede?

Ho incominciato a capire che – oltre a quello che avevo ricevuto e che restava per me saldo – c’erano altre cose da conoscere, vedere e da cui imparare.

Un secondo passo è avvenuto quando – diventato prete – ho iniziato studi superiori di teologia. All’università, per una circostanza curiosa che io considero opera della grazia di Dio, frequentai un corso sull’Islam. Il segretario della scuola mi chiese per favore di iscrivermi a un corso sull’Islam perché era opzionale e aveva pochi alunni. Con meno di cinque iscritti, avrebbero cancellato. Accettai.

Il corso era breve e non si poteva approfondire molto. Ma frequentandolo conobbi un professore, molto serio nei suoi studi, profondo conoscitore dell’arabo, e con numerosi contatti con personalità culturali del mondo islamico in Africa, specialmente Egitto, Kenya, Tanzania. Anche lui prete e missionario, riuscì a darmi almeno un’idea importante: “Studiare un’altra religione significa scoprire un mondo nuovo, e per entrarvi occorre una vita”.

Di nuovo una curiosa circostanza: saputo che avevo frequentato questo corso, il vescovo di Dhaka, che conobbi a Roma, mi invitò a venire in Bangladesh. Decisi di prepararmi meglio, e andai ad una scuola di studi arabo islamici per due anni. Naturalmente conobbi meglio la materia, ma soprattutto ebbi i miei primi contatti con persone di religione islamica, e di altre religioni. Si facevano incontri regolari di studio, in un’atmosfera di grande cordialità.

Erano incontri per specialisti, che restavano un poco astratti, artificiosi. Tuttavia mi permisero di conoscere persone profondamente credenti, e allo stesso tempo aperte ad incontrarmi, a condividere con me il loro cammino culturale e spirituale.

Nel contesto di questi studi, trascorsi un mese in Marocco, ospite di un prete francese che viveva completamente immerso nel mondo islamico di un’area rurale del Marocco centrale. Ebbi i miei primi contatti con l’Islam popolare, vissuto dalla gente semplice. Era il 1975, ancora non era iniziata l’immigrazione di Marocchini, e di Nord africani, o di Bengalesi in Italia. L’Islam era una religione lontana, quasi sconosciuta. Ricordo che scrissi un articolo per comunicare la mia percezione che l’Islam sia molto radicato nel popolo. Citai come esempio le numerose moschee, piccole e poverissime, che trovai in ogni angolo nelle grandi baraccopoli di Casablanca: poveri, senza casa, ma vogliono il loro luogo di preghiera...

In Bangladesh questa percezione ha trovato conferma. Vivendo qui per anni, ho imparato a vedere anche alcune diversità all’interno di un mondo che a prima vista appare omogeneo. Ci sono, ad esempio, molte persone illetterate che hanno una fede molto profonda e la praticano. Nessuno di loro l’ha elaborata criticamente, ma mentre alcuni hanno un atteggiamento chiuso, difensivo, o anche aggressivo, la maggior parte riesce ad unire giudizi e pregiudizi anche molto negativi con un atteggiamento pratico di cordialità, stima e curiosità che mettono a suo agio anche chi si presenta come diverso.

Ricordo un commerciante di villaggio, presso il quale lasciavo la motocicletta ogni tanto, che un giorno mi disse: “Mi hanno insegnato, e dovrei credere, che tu non essendo musulmano non andrai in paradiso. Forse è proprio così, ma io ora credo e spero che Dio saprà trovare una via per salvare anche te.”

Qui a Dhaka continuai ad avere incontri interreligiosi, non più fra studiosi, ma con persone della classe media. Dopo molti anni la considero l’esperienza più bella ed efficace. Ci radunavamo periodicamente per condividere su temi quali: preghiera, fede, perdono, poveri... Persone praticanti la vita islamica o cristiana, ma non specializzate, comunicavano quello che sapevano, e come di fatto vivevano queste realtà.

Tra l’altro, ascoltai diverse storie popolari che trovai molto simili alle parabole del vangelo, o ai midrash ebraici. Ancora oggi ne uso alcune quando predico o insegno.

Questa esperienza mi condusse a capire che una religione vissuta è allo stesso tempo uguale e anche molto diversa da quella stessa religione conosciuta sui libri, specialmente sui libri che ne presentano le verità di fede.

Negli studi, viene spontaneo evidenziare ciò che è diverso, quanto non si condivide o addirittura non piace. Alcune cose possono apparire strane. La religione vissuta, se condivisa con sincerità e verità, raggiunge il cuore, e il cuore dell’uomo è sostanzialmente uguale ovunque e in ogni tempo. In questi scambi emergono il comune desiderio di trovare un senso alla propria vita, una direzione. Il bisogno di non sentirsi isolati nell’universo, ma in colloquio con Dio, attraverso la sua legge, la sua Parola, la nostra preghiera e le nostre celebrazioni. Il bisogno pure di condividere la propria vita di fede con altri, di esprimerla insieme, appoggiandosi l’uno all’altro.

Emergono pure altri attitudini e mentalità. Si capisce ad esempio che ciascuno è contento della propria religione, ma allo stesso tempo è a disagio e anche soffre per posizioni fanatiche, gruppi e insegnamenti di mentalità ristretta, mancanza di sensibilità che si trovano in certi ambienti e persone della sua stessa religione. I problemi posti alle religioni dal secolarismo, dal rapporto con il mondo moderno, dalla tecnologia sono simili per tutti, e all’interno delle diverse religioni si trovano gruppi e mentalità che possono dialogare molto bene fra loro, mentre trovano difficoltà a dialogare con altri gruppi della loro stessa religione.

Questo non significa annacquare la fede o perdere la propria identità. Un aspetto della mia esperienza mi dice che persone di fede profonda e di pratica fedele possono trovare, all’interno della loro propria religione vissuta in profondità, le ragioni e la forza per relazionarsi in modo pacifico e costruttivo con altri, cercare insieme il bene comune con rispetto e apprezzamento reciproco.

Per concludere.

Il mio vivere cercando di guardare anche agli altri, ascoltare, comunicare mi ha arricchito molto e mi ha fatto fare una serie di passi avanti che considero positivi.

Tuttavia, se guardo a me stesso, capisco che c’è ancora dentro di me il bisogno di ripercorrerli in modo più completo ed efficace.

Ho detto ad esempio che il primo passo, compiuto grazie al mio professore di religione antropologo, mi ha fatto capire che la mia formazione mi aveva dato molto, ma occorreva anche guardare fuori. Molti anni dopo, sento che questo atteggiamento va continuamente rinnovato. So che ci sono ancora dentro di me paure, pregiudizi, aggressività. A volte riscopro un complesso di superiorità che non mi piace e non condivido, ma rimane, nascosto.

Rimane anche la paura opposta, a esprimere quello che sono. Il mio desiderio di dialogo può portarmi involontariamente a mentire, se – per paura di non essere capito o accettato - non esprimo chiaramente quello che sono e quali sono le mie posizioni.

Il cammino è ancora lungo – tanto quanto la vita che Dio mi darà, e che spero lunga.

Rapite

Ottobre

Pubblicato in inglese su "Dipto Shakkho", peeriodico del Seminario Maggiore "Holy Spirit", Dhaka - 2009/1 Traduzione a cura di Banglanews, rivista dall'autore

Una storia del nostro tempo

Nel mezzo della notte, circa 15 uomini armati sino ai denti, irrompono nella casa sparando all'impazzata con i mitra, sfondano la porta della loro stanza e rapiscono Rinuccia e Mariateresa, due Suore del Movimento Missionario Contemplativo di Charles de Foucauld (conosciuto in Bangladesh come "Blue Sisters"). Le costringono a camminare nel buio per parecchie ore finché raggiungono un camioncino, a bordo del quale iniziano il loro viaggio verso l'ignoto.

Era il dicembre del 2008. Dalla missione in Kenia (Africa) in cui avevano lavorato per molti anni, Rinuccia e Mariateresa vengono portate lontano, a Mogadiscio, in Somalia, dove trascorreranno tre mesi nelle mani dei loro rapitori prima di essere liberate.

Ho letto un'intervista da loro concessa ad un giornale, dopo la loro liberazione; successivamente ho anche visto un DVD che mostra la breve e semplice condivisione delle due Suore, dopo la Messa di Ringraziamento, celebrata nella sede centrale del loro Movimento, a Cuneo (Italia).

Quanto da loro detto è piuttosto semplice. Tento di riassumerlo, per quanto sono riuscito a capire.

Abbiamo vissuto lunghe settimane di angoscia; avevamo in ogni momento paura per la nostra vita, le condizioni nelle quali eravamo imprigionate erano davvero molto dure.

Abbiamo pregato molto, ed abbiamo sentito moltissimo la solidarietà della Chiesa e della nostra comunità, ne eravamo sicure. Per ragioni che non conosciamo, dopo qualche tempo i nostri rapitori ci hanno dato una Bibbia. La ricevemmo con immensa gioia, e provammo la stessa gioia quando ci diedero le medicine di cui avevamo bisogno per sopravvivere. Il Vangelo ci sostenne sempre di più. Appena un'ora e mezzo dopo la nostra traumatica cattura, comprendemmo che Gesù ci aveva detto di amare i nostri nemici e di pregare per loro; cominciammo a farlo subito, e da allora in poi, per grazia di Dio, non provammo mai nessun odio per loro. Piuttosto, gradualmente, cominciammo ad osservarli; eravamo dispiaciute per quei giovani e per le condizioni della loro vita; tentammo di essere gentili con loro, e loro cominciarono ad essere più umani con noi.

All'improvviso, ci trovammo immerse in una condizione di assoluta povertà. Avevamo solo i vestiti che indossavamo al momento del rapimento, e non avevamo nessuna libertà di movimento. La mancanza assoluta di comunicazioni e di ogni genere di notizie, e il non avere alcuna idea sul nostro futuro erano espressioni particolarmente pesanti di questa forzata povertà. Ma, proprio a causa di ciò, fummo davvero in grado di comprendere come la fede ci dice di mettere tutta la nostra fiducia soltanto nel Signore. Tutto il resto passa, è assolutamente inattendibile; Dio è la Roccia, e noi abbiamo potuto sperimentare un'intimità sempre più profonda con Dio come Padre, Vita, Salvezza.

Eravamo vissute insieme per anni e la nostra relazione era sempre stata ottima, ma i novanta giorni di prigionia ci hanno fatto crescere nella comunione che ci unisce. Ringraziammo Dio per essere insieme e pregammo di non essere separate. Il mutuo amore in Gesù divenne così tangibile, profondamente radicato nella nostra umanità e nella nostra fede, e fu per noi una vera consolazione.

Come possiamo concludere? È stata un'esperienza ricca, un dono per il quale ringraziamo Dio con tutto nostro cuore…

La storia interpretata

Il Direttore di questo periodico mi ha chiesto di scrivere un articolo su "La Parola di Dio nella nostra vita". Cosa c'entra questa storia con questo argomento?

Molto!

Certamente Rinuccia e Mariateresa non c'insegnano metodi di meditazione, non c'invitano direttamente a leggere la Parola di Dio, non ci danno profonde illuminazioni sulla Bibbia, o pensieri contemplativi. Tuttavia, attraverso la loro esperienza, ci vengono mostrati i frutti di una relazione intensa, prolungata, tra la loro vita e la Parola di Dio.

Scrivendo ai Corinzi sugli Apostoli e sui loro doveri, Paolo dice che devono costruire salde fondamenta su Cristo, ed essere attenti nel costruire: con oro, argento, gioielli, legno, fieno o paglia, perché l'opera di ciascuno sarà ben visibile: "la farà conoscere quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco proverà la qualità dell'opera di ciascuno". (1 Co 3:13; vedi anche vs 10-15).

Questo "Giorno che si manifesterà col fuoco" è il giorno del giudizio universale, ma penso che anche prima di quel giorno tale esperienza di fuoco accade nella vita di ognuno. Può essere un fallimento inaspettato, può essere una malattia, o una prova della nostra fede, o semplicemente la monotonia della vita, o qualsiasi altra prova. Per Pinuccia e Mariateresa, è stata l'esperienza, totalmente inaspettata, di essere rapite, tre mesi nel fuoco della desolazione e della paura.

Durante tre mesi, la qualità del loro edificio fu messa a dura prova, e risultò che avevano costruito con oro.

La spiritualità del Movimento al quale appartengono è profondamente centrata sulla Parola di Dio e sulla preghiera, entrambe inserite nel loro vita concreta, una vita semplice e di condivisione. Cercano di studiare, pregare e vivere insieme la Parola ogni giorno.

La memoria; di che cosa?

Secondo il Vangelo di Giovanni, Gesù fa questa promessa ai suoi discepoli,: "Lo Spirito Santo che il Padre manderà in mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto" (Gv 14:26). Questo "ricordare" dello Spirito Santo promesso da Gesù è molto più di una questione di memoria. Penso che possa essere capito come un'azione che "dà vita" alla conoscenza che abbiamo.

Noi impariamo, conosciamo, ricordiamo molte cose della Bibbia e dell'insegnamento della Chiesa. Ma onestamente non possiamo dire che tutte sono attive ed efficaci in noi. Come potrebbero esserlo? La Bibbia è il frutto dell'esperienza religiosa di un Popolo in un periodo di oltre mille anni e il Nuovo Testamento è il frutto dell'esperienza del Figlio di Dio sulla terra. Come possiamo aspettarci di riuscire a vivere pienamente tutto questo?

E così molte parti della Parola di Dio sono semplicemente accettate dalla nostra memoria, senza entrare nella nostra vita. Può essere colpa nostra, ma può anche essere il fatto che non abbiamo occasione per viverle. Ricordo una giovane signora, ammalata da anni, che mi disse: "Ho paura di non poter recitare correttamente la Preghiera del Signore perché quando pronunzio ' Perdona i nostri peccati come noi li perdoniamo a chi ha peccato contro di noi ', penso di non avere nessuno da perdonare. Tutti sono così gentili nei miei riguardi…" Certamente questo pensiero è la prova di una vita molto spirituale e delicata. Quella signora pensava di non aver occasione per praticare quella parola del Signore. Ma l’aveva presa con serietà, credeva in essa, la teneva nel suo cuore.

In altri casi, possiamo anche non capire la Parola, come Essa arriva a noi. Accade a Maria e Giuseppe quando trovano Gesù nel Tempio e sentono la sua risposta: "Non sapevate che devo essere nella casa del Padre mio"? (Lc 2:50). Certamente capirono il significato letterale delle sue parole, ma non erano pronti a comprendere il pieno ed allo stesso tempo profondo significato pratico che esse avevano.

In altri casi, non possiamo "spiegare" la Parola. Pensiamo alle Beatitudini: possiamo realmente dire che capiamo perché" Gesù proclama "Beati i poveri", o "Beati gli afflitti"? (Mt 5:3.5). Se contempliamo queste parole, apprezziamo la loro bellezza, ma non afferriamo il collegamento che hanno con la nostra vita quotidiana. Ci sembrano dei bei racconti in cui crediamo con il dovuto rispetto e che persino predichiamo, ma quando siamo noi i poveri, o quando siamo noi gli afflitti, allora…

Ed allora? Luca ci dice che Maria "conservò tutte queste cose nel suo cuore" (Lc 2:52). Non è quello l'atteggiamento che permette allo Spirito Santo di venire al momento giusto e "ricordarci" quello che già è stato "immagazzinato" nei nostri cuori, così da poter divenire con forza vivo e efficace?

Un mio amico, missionario nelle Filippine, mi disse che comprese il potere effettivo di alcune delle Beatitudini quando fu arrestato e messo in prigione con alcuni contadini che aveva tentato di proteggere contro l'ingiusto comportamento di proprietario terrieri. "Ero veramente felice perché potevo mettere in pratica il Vangelo, ed essere vicino a Gesù vivendo questo momento di solidarietà con questi poveri che lui ama."

L'azione del Spirito è come il "click" del mouse che ci porta sullo schermo il contenuto che noi stiamo cercando. Naturalmente, se abbiamo già inserito nel computer quello che ora cerchiamo.

Nulla è perso, o sprecato

Quando ascoltiamo la Parola come è predicata e annunciata dalla Chiesa, quando la meditiamo, dobbiamo cercare il collegamento che essa ha con la nostra vita. Ma non dovremmo forzarla a dirci immediatamente quello che dobbiamo fare. Non dovremmo aspettarci di capirla completamente, ed essere delusi quando non ci riusciamo. Anche nelle nostre relazioni umane dobbiamo accettare che alcune idee o parole o comportamenti di un amico possono essere immediatamente poco chiari. Molto di più nella comunicazione di Dio a noi; dovremmo riceverla umilmente e dovremmo credere ad essa e alla sua efficacia. Non possiamo e non dovremmo misurare il potere della Parola in base agli scarsi risultati che qualche volta vediamo in noi stessi. Significherebbe una mancanza di rispetto e di fede nella Parola.

La Parola è come un Oceano di verità. Possiamo nuotarvi, possiamo navigarvi, ma non possiamo aspettarci di comprenderla completamente.

La Parola è come un cibo nutriente. Qualche volta lo apprezziamo maggiormente, qualche volta no; ma anche il cibo che mangiamo senza aver molta fame o gusto ci sostiene efficacemente giorno e notte, quando dormiamo, giochiamo, lavoriamo, o preghiamo.

Ciò avviene se aumentiamo la nostra familiarità con la Parola. Per mezzo della nostra costante, fedele meditazione, e pratica, immagazziniamo nel nostro cuore una ricchezza di cui non siamo completamente consapevoli.

Quando arriva il tempo, lo Spirito completa la missione che ha adempiuto in Rinuccia e Mariateresa "ricordando" loro le parole che avevano tante volte meditato, e condiviso con molte sorelle e fratelli. Con il lavoro dello Spirito, la Parola "immagazzinata" e silente diviene un raggio di luce, una forza potente, una risorsa di vita che ci sorprende e ci fa rendere grazie a Dio per momenti e esperienze che - dal punto di vista umano - possono soltanto portare rabbia, pena, e disperazione.

Se non andiamo nella profondità della Parola perché pensiamo di conoscerla, o perché vogliamo essere pratici nella nostra predicazione, o perché preferiamo pii libri che ci parlano di buoni sentimenti ma non vanno in profondità… quando abbiamo realmente bisogno della Parola non la troviamo. Siamo vuoti, e lo Spirito non può ricordarci ciò che non abbiamo.

Mangiamo e beviamo ogni giorno. Dobbiamo essere come la cerva che anela la corrente della Parola di Dio che fluisce dalla Bibbia e dall'insegnamento della Chiesa.

Promemoria reciproci

Il Signore Risorto spiega ai suoi discepoli la realtà e il significato della sua risurrezione citando le Sacre Scritture, che loro già conoscono. Non ne capiscono il significato, ma esse erano là, immagazzinate nei loro cuori e nelle loro menti (vedi Lc 24:13-32).

I discepoli fanno lo stesso: come strumento dello Spirito, Filippo illumina l'ufficiale della regina di Etiopia che legge le Sacre Scritture, ma non le capisce (vedi At 8:26-40).

La storia di Filippo mi suggerisce di toccare ancora un punto e di tentare di rispondere alla domanda: come fa lo Spirito a ricordarci la Parola in Dio immagazzinata in noi?

Talvolta con un'intima inspirazione; più spesso con l'azione della Chiesa cioè di chi crede come te e come me.

Un sacerdote mi disse una volta: "Tento di evitare le confessioni di preti, perché non so cosa dire. Sanno tutto meglio di me. Così do loro la penitenza e l'assoluzione senza nessun commento o esortazione di cui non hanno bisogno". Capisco il sentimento di questo sacerdote, e può anche essere vero che il prete che si confessa da lui "sa meglio", ma la fede e la vita cristiana non sono soltanto una questione di conoscenza. Dobbiamo credere nell'azione dello Spirito, che normalmente lavora per mezzo della Chiesa. Abbiamo bisogno di segnali e parole per rendere la Parola chiara ed efficace. Spesso quello che conosco diviene efficace e vivo solo quando qualcuno, nello Spirito, mi ricorda quella specifica parola di cui ho bisogno in questo specifico momento.

Gesù ci sussurra di nuovo quello che disse ai discepoli sulla strada di Emmaus: "Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! " (Lc 24:25), e questo porterà in noi luce, pentimento, forza, consolazione e gioia.

L'impresa come missione

Franco Cagnasso


La missione non è solo per preti e suore, non solo predicazione, o beneficienza. Può prendere volti diversi il cui denominatore comune è la ricerca di vivere il Vangelo con e per gli altri.

La seguente è un'intervista che ho fatto agli amici Giuseppe Berto - imprenditore tessile veneto - con la moglie Giovanna Danieletto, apparsa su Mondo e Missione di novembre 2009. Fa parte di una serie di riflessioni che commentano con esempi pratici l'enciclica di Benedetto XVII "Caritas in Veritate"

Un capitale chiamato uomo di Giuseppe Berto

Mondo e Missione - 1 novembre 2009

È veneto di origine e si chiama Giuseppe Berto proprio come l'autore de "Il male oscuro". Ma il Berto in questione di professione è imprenditore. Alto, fisico asciutto, da sportivo, nato a Bovolenta (Pd) nel 1947, dal 1998 Giuseppe Berto vive e opera a Dhaka, in Bangladesh, uno dei Paesi più poveri al mondo, ma anche una delle tante "succursali" a basso costo delle imprese occidentali. Abbiamo chiesto a lui - che, per inciso, in Bangladesh s'è fatto amico di molti missionari - di raccontarci che significa essere imprenditori nello spirito della Caritas in veritate.

Duecento dipendenti, fatturato annuo: 13 milioni di dollari, una struttura di 11 mila metri quadrati (che sta per raddoppiare), dove produciamo tessuti per abbigliamento partendo da filati provenienti dall'India. I nostri tessuti vanno a confezionisti locali che lavorano esclusivamente per l'esportazione. Il 38 per cento dei nostri tessuti finisce poi a lavoratori impiegati nel nostro settore confezioni con sede a Padova (circa tremila dipendenti), il resto a confezionisti che lavorano per grandi catene di distribuzione. Questo l'identikit dell'azienda che dirigo, la Eos Textile Mills Ltd, insediata in Bangladesh undici anni fa.

La mia avventura imprenditoriale ha una storia alle spalle. Io sono uno dei tre figli del titolare di un'azienda fondata nel lontano 1887. Dopo il servizio militare, ho preso un master in business administration, anche se il mio sogno era fare il maestro di sci. Ma, una volta buttatomi nel lavoro, mi sono subito appassionato. Da bambino - al mio paese, tremila anime - ho avuto come compagni di giochi ragazzi di famiglie meno abbienti della mia. Mi sentivo un po' in colpa per quello che io avevo e gli altri no. Il mio sogno, fin da giovane, era riuscire a "equilibrare" un po' la situazione.

Quando comincia la mia attività di impresa, le cose inizialmente vanno benino. All'epoca avevamo due aziende: una tessile e l'altra di confezione. Negli anni Ottanta, però, la situazione si complica. Intorno ai trent'anni mi cade addosso la responsabilità dell'impresa e vengo chiamato a scelte importanti. Siamo riusciti a fare una ristrutturazione "morbida" senza subire neppure uno sciopero. Da 500 dipendenti siamo passati a 150 nel giro di un anno. Utilizzando tutti gli strumenti a disposizione (cassa integrazione speciale, prepensionamenti, cooperative...), abbiamo tagliato il personale in armonia con i sindacati.

Intorno agli anni Ottanta-Novanta, comincio a girare in vari Paesi dell'Asia. La grande miseria che vedo mi risveglia la sensazione provata da ragazzo. Cosa posso fare per questa gente? Decidiamo di chiudere l'azienda di confezioni in Italia ed aprire un'attività in Romania, poi in Cina e infine in Bangladesh.

GUIDATI ANCHE da padre Pierluigi Lupi, un saveriano, abbiamo fatto il salto. Lui mi ha aiutato ad inserirmi, così come nel reclutamento del personale e nella lingua. Abbiamo scelto questo Paese perché godeva di un canale privilegiato nelle esportazioni verso l'Europa (con esenzione di dazi) e perché era più povero di altri. Internazionalizzare l'azienda era anche un'opportunità per far crescere i miei figli, i quali, con molto impegno, ora gestiscono le attività in Italia. Non ho mai imposto loro di continuare l'attività, eppure mi hanno seguito entrambi, dimostrando notevoli capacità.

Detto del nostro lavoro, che significa essere imprenditori attenti ai valori del Vangelo? Che significa provare a costruire un'economia dal volto umano?

Io penso, innanzitutto, che per un'azienda il profitto sia doveroso e indispensabile, a condizione che venga usato per la continuità dell'azienda stessa, in una visione di lunga prospettiva. Il patrimonio di un'impresa sono i lavoratori, il capitale è rappresentato dai clienti. Tutti questi "attori" debbono produrre, insieme, profitto, ma non con la finalità di "ingrassare" i dirigenti o i soci, come accaduto nella crisi recente. È l'amministrazione del profitto che qualifica il cristiano socialmente impegnato.

Il profitto è sacro, come il posto di lavoro. Il punto è come lo si usa: se serve per comprare uno yacht, dev'essere tassato all'ennesima potenza; se invece rimane all'interno dell'azienda e crea ricchezza, il discorso cambia.

Essere imprenditori responsabili, a mio avviso, significa far fruttare i talenti. Noi oggi esportiamo nei Paesi sviluppati. Ma è tempo che anche i Paesi poveri comincino a partecipare dell'economia globale, secondo regole etiche. Se penso alla nostra azienda, essa genera un forte indotto. Dal 2002, ad esempio, la Manifattura Corona (l'azienda che ho lasciato a mia figlia Francesca) ha acquistato 80 milioni di dollari di manufatti, tutti realizzati con i nostri tessuti, prodotti in Bangladesh.

CHE SIGNIFICA produrre eticamente? Innanzitutto trattare i dipendenti con la stessa dignità con cui sono trattati i livelli superiori. Poi, dare la giusta mercede agli operai. Rispetto al contesto locale, i nostri salari sono abbastanza elevati, ma speriamo di poterli alzare ancora. E soprattutto di insegnare a questa gente un lavoro. In Bangladesh devo adattarmi a fare di tutto: ogni mattina ho dieci manutentori a cui spiego come si interviene sulle macchine. Non fa parte del lavoro di amministratore delegato, ma qui non posso non farlo. Mi piace molto, la vivo come sfida. Perché quando vedo i ragazzi crescere, mi si riempie il cuore di gioia. Etica, infatti, significa anche far crescere le persone. Ho portato, in tempi diversi, 15 lavoratori in Italia per la formazione . È bello vedere che la gente rimane con te e si appassiona.

Mi chiedono talvolta se sono pentito della scelta fatta. No, anche se le difficoltà non mancano. In Bangladesh sono legate soprattutto alla corruzione: se hai bisogno di qualche autorizzazione, devi pagare una bustarella per ottenerla, cosa che non ho mai fatto in Italia. Quanto ai rapporti di lavoro, in questi 10 anni ho avuto solo un episodio di tensione. Un gruppo di ragazzi, che avevo selezionato insieme a padre Lupi, hanno protestato e fatto una serie di richieste. È stato il primo sciopero nella mia vita.

ESSERE IMPRENDITORI responsabili significa anche porre attenzione all'ambiente. Mi batto perché questo Paese, che vive una crisi energetica grave, utilizzi al meglio l'energia che ha. Oggi nella nostra azienda recuperiamo oltre il doppio dell'energia che altri buttano. In Italia era una prassi normale. Per me è stato un dovere, anche se non ottengo un recupero immediato dell'investimento. È stato, se vogliamo, un calcolo economico ed etico: ora essere "verdi" diventa anche economico. Io mi sto impegnando per razionalizzare l'uso dell'energia, cruciale in un'industria delle nostre dimensioni. Con opportuni accorgimenti, penso che si potrebbe ridurre a meno della metà il fabbisogno energetico dell'industria tessile del Paese.

Sembrerà una battuta, ma ho trovato che alcune indicazioni della Caritas in veritate sono già in opera. Penso al metodo Deming (dal nome del suo promotore, uno studioso americano - ndr). La nostra azienda ha riscoperto il Deming nel periodo in cui tutti inseguivano un'organizzazione del lavoro nel segno della parcellizzazione, basata sull'assunto che competenze molto limitate rendono la "sostituibilità" dell'individuo molto elevata. Il metodo Deming, al contrario, valorizzava l'individuo e la sua creatività. Siamo stati fra i primi in Italia ad aver applicato la qualità totale: un tempo si produceva un tessuto con 8-10 difetti ogni 100 metri; grazie alla tecnologia si è scesi a 2. Il miglioramento decisivo - sottolineo - si deve al fatto che sono stati coinvolti direttamente i dipendenti. Nessuno può migliorare il proprio lavoro più di chi lo fa. E non è il capo a risolvere il problema, ma egli si mette al servizio dei suoi dipendenti per aiutarli a capire, per raggiungere gli obiettivi.

I giapponesi, mi si perdoni la battuta, hanno scoperto l'acqua calda. Gesù, duemila anni fa, ci ha spiegato che il capo è il servo dei servi. Personalmente trovo un parallelismo tra l'atteggiamento suggerito dal Vangelo e i presupposti della qualità totale che all'apparenza sembrerebbero antitetici. In realtà, la passione, la dedizione, l'entusiasmo che un imprenditore mette nella sua attività sono una forma di donazione.

LA CULTURA GIAPPONESE si ferma alla creazione dell'utile, ciò che, invece, qualifica l'imprenditore cristiano è che la creazione dell'utile è un momento essenziale, ma finalizzato alla creazione di sviluppo durevole, nel tempo. Nel momento in cui un imprenditore si ubriaca dei successi del momento e si lascia prendere dalla sensazione devastante del potere, allora cominciano i problemi.

Un antidoto per non cadere in tentazione? Per me è passare tutte le mattine davanti alla ferrovia di Dhaka per vedere quanti dormono sotto una tendina. Beninteso: non do l'elemosina a nessuno, non serve a nulla. Meglio investire sull'educazione. È quel che cerco di fare, cercando di insegnare un metodo di lavoro, tirando giù i ragazzi dalle palme e mettendoli davanti ad un computer.

La missione di custodire

Franco Cagnasso

Missionari del Pime - dicembre 2009

Dopo l’ “ascolto”, il “sostegno” e i… “mucchietti”, di cui ci ha parlato nei mesi scorsi, padre Franco ci presenta un altro modo di vivere la missione: custodire.

Terminata la Messa, Sr Mariateresa, sr Nives, Hilarius e io, ci affrettiamo lungo strade larghe del centro, brulicanti di folla che fa acquisti per la festa Id-ul-Fitr. Proseguendo, le strade si fanno strette, poi sterrate; è buio, quando il cammino sfocia nella periferia fangosa, sentieri fra immondizie, stagni putridi, casette precarie. Ci vuole quasi un’ora, di buon passo: Kolpona e Shilpi abitano qui.

Sopra una casa non finita, al posto del tetto hanno messo un tavolato e una capanna di legno. Salgo esitando la scaletta senza ringhiera, ed ecco: un letto in legno fa anche da tavolo, uno scaffale contiene di tutto, il pentolame sta per terra, il tetto in lamiera è ancora caldissimo.

Kolpona significa “Fantasia”, Shilpi vuol dire “Artista”. Sui 25 anni, simpatiche, sprizzanti di gioia: ci avevano invitati tante volte!

Sono amiche d’infanzia; le famiglie, ricche di figli, abitano nel sud. Kolpona ha un fratello e una sorella sordomuti, Shilpi il papà ammalato. Sarebbe il momento di sposarsi, ma come piantare i loro cari nei guai? “Andiamo a Dhaka. Sappiamo ricamare e cucire, troveremo lavoro”. L’hanno trovato. Ogni giorno un’ora per andare al laboratorio, 12 ore di lavoro, turni settimanali: dalle 9 alle 21 o dalle 21 alle 9. Un’ora per tornare, si mangia qualcosa, lettura del vangelo, rosario, e – che sia giorno o che sia notte - a dormire. “Siamo contente, perché l’ambiente è sicuro, il padrone di casa gentile. Pregate per sua moglie, che non sta bene...”.

Noi seduti sul letto, loro in piedi, ci dicono che portano l’acqua con i secchi, ma il pozzo è vicino, che cucinano all’aperto su un fornello a petrolio, che mandano qualche soldo a casa, e ricamano anche su ordinazioni che ricevono in abbondanza. Ci mostrano qualche lavoro: “Quante ore ci vogliono per cucire uno stemma come questo?” Ridono: “Dieci minuti”. Sono proprio brave!

Chiacchieriamo a lungo. “Sentivamo la mancanza di una chiesa, dell’incontro con altri cristiani. Avete aperto la cappella di Uttora, adesso ci sentiamo meno sole”. Ci offrono una bibita che beviamo a turno nell’unico bicchiere. Le benedico e ci salutano: “Pregate per noi!”.

Mi s’affollano in mente Adam, epilettico con tre figli, Alfred e Promi in cammino verso il battesimo, Nicholas appena ordinato diacono, Dillip pieno di debiti, Ripon che sta scegliendo la sua strada, Manik, e la mamma che si consuma per curarlo, e poi Chondona, Anna, Paola, Mong Yeo e i 78 bambini del suo ostello, Thomas, Giorgio, Teresa e il piccolo Matteo...

“Prega per me...” Come fare?

Ho chiesto consiglio a Maria. Maria di Nazareth intendo. Mi ha spiegato che anche lei vedeva e sentiva mille cose. Molte non le capiva, ma “le custodiva tutte nel suo cuore” (cfr. Lc 2, 51). Anche Paolo di Tarso mi ha dato una mano. Ai Corinzi, arrabbiati con lui, scrive: “Il nostro cuore si è tutto aperto per voi. Non siete davvero allo stretto in noi; è nei vostri cuori invece che siete allo stretto. Io parlo come a figli; rendeteci il contraccambio, aprite anche voi il vostro cuore” (II Co 6,11-13).

La mia missione è anche questa: aprire il cuore, farvi spazio per coloro che incontro con le loro pene, gioie, peccati, paure. Poi, quando prego, apro il cuore a Dio, e loro sono tutti lì, cristiani, musulmani, buddisti, lontani, vicini, dappertutto.

Ho detto al Signore che lui sa che cosa occorre a tutte queste persone, e non ha bisogno che io stia lì a ricordarglielo. Conta ogni passo di Kolpona e Shilpi, ne sente ogni Ave Maria quando, stanchissime, non si addormentano senza terminare il Rosario.

Non soltanto sa, le ama più di me, e mi chiede di amarle insieme con lui.

“La ringrazio per avermi presa a bordo” mi ha scritto una signora dalla Svizzera.

Kolpona e Shilpi, ora siete a bordo anche voi con i vostri ricami e la vostra bontà. Per questo sono venuto in Bangladesh!

Lettera natalizia

Dhaka - Natale 2009

Carissimi Amici,

Non spaventatevi per la lunghezza di questa lettera natalizia! A parte la possibilità di cestinarla subito, c’è pure quella di leggerne solo la parte che interessa. Ho messo i titoli in grassetto per facilitare la selezione.

Fervorino iniziale...

C’è qualcosa di nuovo che posso raccontarvi quest’anno? Si rinnova sempre la continua sorpresa che accompagna la mia vita: trovo – in mezzo a tanti avvenimenti dolorosi o tragici, fra ipocrisie e avidità disgustose – persone e avvenimenti che dicono il contrario, senza urlare, nel concreto della vita quotidiana.

Mi danno fastidio celebrazioni di Natali “allo zucchero”. A Natale, come ogni giorno, si continua a soffrire e a morire, a far soffrire e a far morire. Eppure, a Natale come ogni giorno si continua a consolare, a fare giustizia, a dare speranza, a rispettare e amare. Io ho scommesso e continuo a scommettere su questa seconda faccia della realtà. Mentre la prima, quella del male e della sofferenza, si presenta a volte con violenza, s’impone alla mia attenzione, mi devasta interiormente, la seconda va cercata con pazienza, bisogna darle spazio e credito. Allora diventa forte, il motore della mia esistenza e della mia serenità – allo stesso tempo espressione e sostegno insostituibile della mia fede.

Questo condivido con voi, come introduzione al racconto di alcune attività che sono possibili grazie all’aiuto di voi lontani, e di persone qui che lavorano con generosità e impegno per la gente del loro Paese.

Non ho preparato e non dirigo progetti; mi limito ad appoggiare il lavoro di altri, e a fare da ponte fra persone che, in Bangladesh, in Italia e altrove, attraverso di me s’incontrano su obiettivi comuni.

Cose nuove...

Prima degli aggiornamenti su programmi avviati tempo fa, ecco alcune novità spuntate nel 2009.

L’Ostello Santali consiste in due stanze prese in affitto qui a Dhaka, dove dal febbraio scorso vivono 6 ragazze, 5 della popolazione Santal e una bengalese, indù. La più grande, Maria Loreta, studia all’università, e fa da guida alle altre, che frequentano un Liceo vicino. Erano venute a Dhaka per continuare gli studi lavorando, ma le famiglie presso cui sono andate non lasciavano un minuto libero dal lavoro, e in qualche caso le maltrattavano. Stavano per tornarsene deluse, quando grazie all’iniziativa di Gisella Aschedamini, il “Gruppo Solidarietà” del Liceo Mascheroni di Bergamo ha accolto la proposta di un gemellaggio. Ora i due gruppi – Bergamo e Dhaka - si scambiano corrispondenza, e pensano anche ad una possibile visita qui, una volta o l’altra. Le ragazze Santal “ripagano” l’aiuto che ricevono aiutando altri: ogni giorno fanno doposcuola ai bambini di uno slum vicino, e – dopo le prime incertezze – ora ci prendono gusto.

12 Villaggi

In maggio s’è avviato un altro progettino, chiamato “12 villaggi”, nell’area di provenienza delle ragazze. Ogni villaggio ha scelto un giovane della classe nona o decima che fatica a pagarsi gli studi. Ciascuno riceve un aiuto mensile per libri e spese varie; in cambio, nel proprio villaggio tiene un’ora di doposcuola a bimbi e bimbe delle elementari, più mezz’ora di gioco insieme. Sotto l’occhio vigile degli anziani, e grazie al coordinamento di Maria Loreta e di un piccolo comitato sul posto, vengono così aiutati 7 studentesse e 5 studenti grandi, e circa 240 bambini. Per ora, tutto sembra procedere bene.

Profughi

“Una tantum” è stato l’intervento presso 21 profughi del Myanmar, di popolazione Cin-La, sistematisi nel sud presso un ospitale villaggio Mong, ma senza mezzi per mantenersi. La festa di pensionamento dalle responsabilità alla FAO (Roma) di Yves Bensoussan è stata l’occasione per trasformare i regali di circostanza nell’aiuto necessario perché i Cin sviluppino il loro artigianato: fabbricazione a mano di coperte.

Uttora

Il primo marzo scorso, presenti 40 fedeli, è nata l’iniziativa di Uttora, un grande quartiere oltre l’aeroporto. Fa parte di Dhaka, ma cresce vertiginosamente come una città a sé, dotata di tutto: abitazioni, fabbriche, uffici, banche, ospedali, presto anche uno o due centri culturali, e di molti poveri e baraccati. Mancava un luogo dove potessero ritrovarsi i cattolici immigrati da varie parti del Bangladesh.

Ogni venerdì (vacanza settimanale), ci raduniamo in piccolo appartamento affittato, e arriva qualcuno nuovo che ci ha scoperto grazie al “passaparola”. Siamo già più di cento, contenti di pregare insieme, conoscersi, superare lo smarrimento del passaggio dai villaggi, con forti legami sociali, all’anonimità e all’isolamento di Uttora. L’iniziativa funziona grazie a Hilarius Marandi, alcuni studenti, e 5 seminaristi, di cui due fanno catechismo ad un orfanotrofio a pochi chilometri.- Bisognerebbe realizzare qualcosa di stabile, ma per ora resta un sogno che va oltre le mie possibilità...

Ashram

Hilarius Marandi, a cui ho fatto cenno, è un paramedico della popolazione Santal, che da anni lavora in un centro accoglienza malati. Ha iniziato a darmi una mano, fuori orario, e ne ho scoperto la rara abilità a trattare sia con i malati sia con i medici, a capire quale sia l’ospedale giusto, a dedicarsi con grandissima passione. Recentemente ha aperto anche la sua casa, dando ospitalità a malati che non hanno punti di riferimento a Dhaka e sono in attesa di ricovero o sono stati appena dimessi, attendono esami clinici e controlli, sono denutriti... Ora la chiama “ashram”, ed è spesso piena. Come non appoggiarlo?

...e cose antiche

Lebubari

Fra le iniziative più stagionate, l’ostello di Lebubari ci ha dato non pochi grattacapi. Problemi famigliari di Thomas e Noyon, la coppia che lo gestisce, culminati con un rapimento (?) di una delle figlie; disagio dei ragazzi più grandi, in piena adolescenza, e intervento degli anziani del villaggio che ne hanno fatto mandar via qualcuno; difficoltà a far quadrare i bilanci e ad intenderci sui criteri di spesa e di lavoro. Abbiamo rischiato la rottura, ma a fine ottobre siamo risusciti a ricucire. La parrocchia manderà un maestro competente e maturo di età, che da gennaio abiterà all’ostello, con la responsabilità educativa e contabile. Scampato pericolo, spero... Aggiungo che, grazie al molto lavoro svolto, tutta la zona sta diventando molto bella per alberi, fiori, e vegetali che crescono floridi, e per gli allevamenti di gamberi e pesci.

La ragazza rapita? Liberata dopo un mese, e dopo un altro ha sposato il rapitore... Poi s’è sposata la sorella minore. Ora le quattro figlie sono “accasate”, mamma e papà respirano di sollievo, anche se con nostalgia...

I Marma

L’ostello di Tong Khyang Para invece ha trascorso un anno di progressi. In agosto, con i due amici Franco e Beppe ho gustato il programma di accoglienza: ragazze e ragazzi sono più spigliati, cantano e danzano bene, sembrano molto sereni e impegnati. Mong Yeo, fondatore e direttore, procede con tenacia e convinzione, appassionato dei ragazzi e del futuro del suo popolo. Ha ottenuto un aiuto per costruire una scuoletta di tre stanze, in muratura; ha trasportato la precedente struttura di bambù e lamiere per farne una “sala da pranzo”; ha realizzato un acquedotto “formato famiglia”, e trasferito in città, vicini alla scuola, i 7 studenti delle classi superiori. Il tutto, seguendo uno per uno i 78 ragazzi e ragazze! Il laghetto per i pesci permette dieta migliore e qualche guadagno. Una vecchia auto comprata e riparata viene data a noleggio Un allevamento di anatre ci ha deluso: si sono ammalate. Mong Yeo esitava, ma il vicino villaggio ha rotto gli indugi e, lasciando i prudenti a bocca asciutta, le ha mangiate tutte con gusto, senza i temuti mali di pancia...

Il prossimo obiettivo è di aprire una cartolibreria con uso di computer, nello stabile in cui abitano i ragazzi grandi. Il negozio contribuirà a coprire le spese dell’ostello – che sono tante visto il numero delle bocche, la necessità di pagare i maestri, e le spese per cure mediche, malaria in testa.

Poorest Women

Dino continua con le ragazze in difficoltà, quasi tutte con bambini piccoli, nello slum “Notun Bazar”. Cuciono, ricamano, mentre Giovanna Danieletto cerca di aiutarlo ad acquisire una mentalità più professionale e meno assistenzialista, e mentre in Italia la vulcanica Paola Mazzoleni, con amiche, vende. L’obiettivo (o il sogno) non è sopravvivere soltanto, ma uscire dalla miseria. Alcuni studenti fanno scuola, alle ricamatrici,puntando al diploma elementare, e alle bimbe più piccole (una cinquantina) a cui regaliamo 10 chili di riso ogni mese perché i genitori non le mandino a mendicare o rubare e le lascino frequentare.

Altri giovani che aiuto a studiare sono impegnati in altre attività di volontariato.

La vita in seminario continua. Insegno, studio, prego, ascolto... mi trovo bene. Il programma formativo “Samuel” per giovani piace. Ho casa e lavoro qui fino alla fine del prossimo anno, poi vedremo.

Di tutto cuore, un buon Natale e feste connesse!

P. Franco Cagnasso