Articoli e lettere agli amici - 2017

p. Franco Cagnasso


2017


«Il Vangelo del dialogo» di Franco Cagnasso in Bangladesh


Piero Gheddo

Mondo e Missione - 6 maggio 2017

Al termine dell’ultimo Blog su “Il dialogo col mondo moderno da Paolo VI a Papa Francesco”, promettevo di pubblicare l’esperienza di un missionario sul campo. La novità assoluta del dialogo interreligioso, lanciata da Paolo VI con l’enciclica “Ecclesiam suam” (6 agosto 1964) e dal Concilio Vaticano II con il Decreto “Nostra Aetate” (28 ottobre 1965), ha capovolto l’atteggiamento che i missionari avevano delle religioni non cristiane: da nemiche di Cristo, oggi sono viste come una preparazione a Cristo, una ricchezza dei popoli che la Chiesa deve conoscere e accogliere con discernimento, per essere veramente “cattolica” e rappresentare tutti i popoli del mondo.

Padre Franco Cagnasso, esperto di islam che ha studiato l’arabo, è missionario in Bangladesh dal 1978 al 1983; e poi, dopo 18 anni alla guida del Pime (1983-1989 da vicario, 1989-2001 da superiore generale), è tornato alla sua missione nel 2002. Ha pubblicato “Il Vangelo del dialogo – A cura di Sergio Bocchini” (Centro editoriale Dehoniano, Bologna 2013, pagg. 194) un contributo interessante di esperienza personale in un paese islamico, ma avendo visitato decine di altri paesi con altre religioni.

Tra l’altro, in Bangladesh padre Franco è stato padre spirituale e insegnante di teologia nel seminario maggiore di tutte le diocesi bengalesi a Dacca e ha contatti di amicizia con musulmani, indù e buddisti locali, trovando anche il tempo, e gli aiuti economici, per “sporcarsi i sandali” aiutando i poveri senza idealizzarli o umiliarli.

Attualmente risiede a Mirpur, un vastissimo quartiere della periferia di Dhaka, dove aiuta il parroco P. Quirico Martinelli, PIME, a servire una comunità di cristiani

immigrati da ogni parte del paese in un contesto completamente islamico. Ha dato il via ad un Centro pastorale (futura parrocchia) a Uttara, nell’estrema periferia della metropoli, che conta 14-16 milioni di cittadini fra i quali anche molti giovani tribali convertiti a Cristo nei loro villaggi e che poi, nella grande capitale, rischiano di perdere la fede se non trovano una chiesa, un prete, una suora pronti ad accoglierli.

Il “Dialogo inter-religioso” orienta la missione primaria della Chiesa, annunziare Cristo ai non cristiani, in modo diverso dal passato: non solo annunzio, proclamazione della salvezza in Cristo, ma anche dialogo con tutti gli uomini ai quali la missione trasmette la Buona Notizia. In Asia, il Dialogo si è imposto nelle giovani Chiese, di fronte agli sterminati popoli che vivono la loro religione (buddismo, induismo e islam soprattutto) come identità nazionale e culturale. Ma diocesi e parrocchie praticano lo schema tradizionale della missione: annunziare Cristo, testimoniare Cristo, convertire a Cristo, fondare le comunità cristiane, in particolare fra le popolazioni aborigene di religione animista, che entrando nell’ovile cristiano acquistano una nuova identità e rappresentanza sociale. Il parroco-pastore conosce le sue “pecorelle”, si impegna ad aiutare i poveri, esercita la sua missione con tutti gli strumenti di cui dispone, catechesi, Sacramenti, lettura e meditazione della Parola di Dio, carità, formazione, ecc.

Padre Franco, rendendosi conto dell’abisso di incomprensione che esiste fra lui e i bengalesi, non solo per la lingua ma in ogni aspetto della vita, svolge anche un altro tipo di approccio, quello del dialogo: Parte dall’uomo bengalese, che è così diverso dall’italiano! Vuole conoscerlo anche nella sua fede islamica, amarlo, capirlo, condividere i suoi problemi e le sue difficoltà ed entrare in dialogo amichevole con lui, apprezzando i suoi valori umani e religiosi; non solo rimanendo ben fondato nella fede e nell’amore a Cristo Salvatore, ma trovando nella fede e nell’amore a Cristo le ragioni e lo spirito che porta ad aprirsi alle diverse esperienze umane e spirituali di fratelli e sorelle non cristiani.

L’approccio è diverso da quello tradizionale, però i due tipi di missione non sono alternativi ma complementari e ambedue necessari. Non è sempre facile viverli assieme, ma si arricchiscono a vicenda. La “Missione del Dialogo”, che Papa Francesco pratica soprattutto con i lontani del mondo moderno, a 50 anni dal Concilio è ancora in fase sperimentale. Dio solo lo sa, ma in Asia il futuro della missione si sta orientando verso il “Dialogo”. Lo Spirito Santo, “che è il protagonista di tutta la missione ecclesiale” (Redemptoris Missio, 21), non cessa mai di stupire e di inventare, formule nuove di missione e di pastorale, “dummodo Christus annuntietur” scrive San Paolo, “purché Cristo sia annunziato” (Fil. 1, 8).

Ringrazio l’amico padre Franco che ha accettato di raccontare, con sincerità e umiltà, la sua esperienza di “esperto del Dialogo”, i fallimenti e la pochezza dei risultati raggiunti. Il suo racconto è di grande saggezza umana ed evangelica, scritto “in punta di piedi”(con prudenza, discrezione), perché dimostra che il Dialogo con il diverso è indispensabile non solo nella “missione alle genti”, ma anche nel nostro occidente cristiano, dove non sappiamo più ascoltare chi la pensa diversamente da noi. P. Franco, fra l’altro, attira l’attenzione su un tema molto concreto che interessa tutti, affermando che l’alternativa al Dialogo con l’islam è il terrorismo, la guerra . Il Dialogo, dopo il Vaticano II era avversato o non compreso dalla maggioranza dei vescovi e dei missionari, oggi tutti benedicono questa forma profetica di missione alle genti. In Asia vivono il 62 per cento degli uomini e i cristiani, tutti assieme, sono circa il 6-7 per cento degli asiatici! Questo dato di fatto spiega perché Giovanni Paolo II, nella sua esortazione “Alzatevi andiamo!” ha detto: “L’Asia, ecco il nostro compito per il terzo millennio”.


Piero Gheddo

Tempo perso a Nazareth?

Accolgo volentieri l’invito di padre Piero a scrivere qualcosa sulla mia “esperienza di dialogo con i membri di altre religioni”, in continuità con il mio libro “Il Vangelo del Dialogo” (EDB, Bologna, 2013), che ha come sottotitolo: “Riflessioni di un missionario a 50 anni dal Concilio”. Ecco come ho cercato di “dialogare” con membri di altre religioni, soprattutto musulmani.

Inizio con il mio primo tentativo. Ero giovane prete, arrivato da poco in Bangladesh (1978), e volevo scoprire se era possibile quel “dialogo” di cui tanto si parlava. Con altri due giovani missionari proponemmo al Vescovo di stabilirci a Bogra, importante città di circa cento mila abitanti, dove la presenza cristiana si riduceva a pochissime unità. Non avevamo un progetto preciso: volevamo “stare” e, giorno dopo giorno, vedere, stabilire relazioni di amicizia e rispetto, conoscenza e – appunto – dialogo. P. Gianni e p. Achille si orientarono sul servizio. Gianni frequentava aree povere facendo amicizia e offrendo nozioni di medicina preventiva, nutrizione, pronto soccorso; Achille aveva letteralmente “scovato” famiglie provate dalla presenza di membri con disabilità, creando una piccola rete di aiuto reciproco, e orientando su metodi semplici per far compiere qualche progresso ai disabili. Tutto ciò con persone di religione islamica, e qualche indù, ed era un’occasione per conoscersi, stimarsi, superare pregiudizi.

Io ero lo “specialista” del dialogo, e dovevo mettermi in contatto con centri religiosi: moschee e santuari. Ma non riuscii a combinare nulla, se non qualche incontro impacciato e formale, attraversato dal sospetto: che cosa vuole questo straniero che si dice interessato a conoscerci, e perché è venuto? Capii che il dialogo come “professione” non faceva per me, e che partire da ciò per cui sappiamo di essere diversi – la religione – non porta lontano.

Anni dopo, un missionario americano, P. Bob, parlando della sua esperienza mi disse drasticamente: “Incominciare discutendo su Dio, è da matti”. P. Bob, ormai ultra settantenne, ha lo scopo di realizzare un primo contatto fra un popolo musulmano e un cristiano – lui stesso. Ogni tre anni cambia sede, va in una località dove non ci sono cristiani, abita un locale povero e semplice, fa tutto da sé, va in bicicletta a trovare ammalati e spendere tempo con loro, in qualche caso li aiuta accompagnandoli in ospedale. Anche lui è accolto con sospetto (come potrebbe essere diversamente?), ma presto la curiosità prevale, e poi entra la simpatia, e anche la riconoscenza. Non da parte di tutti, ovviamente; ma quando si trasferisce può dire che qualcuno ora conosce un poco Gesù, perché per tre anni, ogni volta che gli chiedono: “Tu chi sei? Che cosa fai?” risponde: “Sono un missionario cristiano, e cerco di fare come il mio Profeta Gesù, che passò facendo del bene (cfr. Atti degli Apostoli)”. Lo accettano così, lo ammirano, qualcuno lo aiuta.

E’ poco? Pochissimo. Ma è qualcosa, una semina da fare con fede, lasciando perdere il pallottoliere per contare i risultati. Dopo il mio fallimento a Bogra, ho sempre operato all’interno della comunità cristiana, ma cercando di tenere aperti gli occhi e cogliere occasioni d’incontro con persone di altre religioni. Ricordo con simpatia un piccolo gruppo che frequentavo a Dhaka, formato da qualche prete e qualche imam, e da professionisti laici praticanti, musulmani e cristiani. Ogni due mesi condividevamo riflessioni su temi vari: il perdono, i poveri, la fede, la preghiera… Si percepiva un poco la religiosità nel quotidiano, il significato della fede per la vita di ciascuno. C’era desiderio di conoscersi, qualcuno esprimeva il bisogno di uscire dagli schemi mentali chiusi in cui era cresciuto. C’era anche chi sperava, alla fine, di riuscire a convertire gli altri alla propria religione; era considerato un desiderio legittimo, purché accompagnato dall’ascolto sincero e rispettoso dell’altro.

Guidato dall’esperienza e dall’entusiasmo di Fratel Guillaume, da tanti anni in Bangladesh con la comunità di Taizè, ho partecipato ad incontri più numerosi e vari fra cristiani e membri di altre religioni, nelle rispettive sedi: semplicemente primi contatti di reciproca conoscenza. Abbiamo incontrato buddisti, musulmani sufi, ahmadyia, indù di diverse correnti, ba’hai, sciiti, sunniti. La nostra proposta di incontro in qualche caso è stata rifiutata come inutile, in molti casi abbiamo gustato cordialità e persino affetto, in altri si è rotto il ghiaccio: ghiaccio appunto, ma con qualche crepa… Ci siamo anche trovati all’Università statale, facoltà di scienze religiose, da dove poi sono stati organizzati incontri fra gruppi di giovani e di donne, a trattare temi comuni.

L’esperienza più bella è spesso quella del rapporto personale, nato nelle circostanze più varie. Pochi giorni fa, nella condivisione al termine del ritiro annuale dei missionari del PIME in Bangladesh, uno di noi che ha sempre operato fra gli aborigeni, con la gioia di accompagnarne molti al battesimo, diceva che nella sua vita ha “sentito” la paternità come affetto, sostegno, accoglienza e dono non solo dal suo padre naturale, ma anche da due amici musulmani conosciuti in Bangladesh.

Il dialogo non è tanto, o non è solo qualcosa che si fa, ma un atteggiamento interiore, una “forma” della mente e del cuore, che ti fa stare accanto all’altro a partire dalla sua umanità. Ho sentito più volte musulmani affermare: siamo diversi, ma il nostro sangue è rosso, come il vostro. Ricordo con commozione un colloquio fra genitori, musulmani e indù, di bambini con gravi disabilità, i quali spiegavano che la scoperta della comune sofferenza dei e per i loro figli aveva creato fra loro una fraternità che altrimenti non avrebbero mai sperimentato. I musulmani poveri che ospitiamo nel nostro piccolissimo Centro di accoglienza per ammalati, si aprono ad un rapporto di fiducia, che scoprono possibile anche con noi cristiani, e spesso sono loro a mostrare più riconoscenza.

Il beato Charles de Foucauld, vissuto ben prima che si parlasse del dialogo, aveva un profondo desiderio di accompagnare i musulmani a incontrare Cristo, ma aveva intuito che a questo stadio l’incontro deve avvenire “a Nazareth”, quando ancora Gesù non aveva iniziato predicazione e opere, eppure viveva la sua ricchezza di Figlio dell’Uomo e Figlio di Dio – che emergerà poi nella breve stagione della “vita pubblica” – dentro la semplicità di rapporti quotidiani. Possibile che i trent’anni di Nazareth siano stati “tempi morti” perché Gesù ancora non predicava e annunciava?

Ho un amico buddista che, nell’ostello che dirige, ha messo un’immagine di Gesù e una statuetta della Madonna, dove i giovani portano doni e pregano, come fanno davanti al piccolo altare di Buddha. Lo ascolto quando mi parla dei suoi ritiri di meditazione in una pagoda, e lui s’illumina quando gli racconto storie del Vangelo. E’ dialogo questo? O annuncio? O tempo perso…?

Ecco, dico “tempo perso” perché qualcuno giustamente si chiede dove sono i risultati prodotti da questa posizione “dialogante”, e io non so rispondere. Ha scritto padre Gheddo nel suo Blog sul dialogo che, se vogliamo essere concreti, l’alternativa al dialogo è il conflitto. Nella storia si è tentato molte migliaia di volte di risolvere i problemi con la guerra, di far cambiare gli altri con la forza. Certo che io, “povero untorello”, non cambio il corso della storia né risolvo il problema del terrorismo. Che è un problema grave proprio perché il terrorista rifiuta ogni dialogo e vede nell’altro solo il nemico. Erano così i “brigatisti rossi” italiani, sono così i terroristi odierni di matrice islamica.

Qualcuno chiede con rabbia: “Dove sono i musulmani “moderati”? perché non si fanno sentire?” Domanda legittima, ma la vigorosa e numerosa opposizione al terrorismo esiste, e consiste nella reazione e resistenza presente nella vita civile di quel grande magma che è il mondo islamico. L’informazione che l’occidente ci dà, narra di fatti orribili, ma raramente s’accorge di ciò che con fatica avviene nel quotidiano di questo mondo. Qui in Bangladesh, fondamentalismo e terrorismo sembrano purtroppo in fase di crescita. Chi cerca di contrastarli? I cristiani? Gli occidentali? Sono musulmani quelli che subiscono e fronteggiano, finora con efficacia, questa minaccia che nasce da una mentalità e da una visione religiosa che ritengono aberrante, e che temono. Certo, argomentando contro il terrorismo, non mancano di sottolineare fatti e atteggiamenti che forniscono ad esso dei pretesti, molti dei quali sono responsabilità dell’occidente. A noi questo dà fastidio, ma hanno sempre torto? O non sarebbe meglio ascoltarli con attenzione?

Ecco, ascoltarsi! L’anno scorso, in Italia, ho assistito a qualche dibattito televisivo. In pochi minuti ero preso dall’angoscia. Quale che fosse il tema, tutti urlavano le loro certezze, nessuno voleva ascoltare; non si capiva assolutamente nulla, mentre crescevano rabbia e ostilità. A noi piace ascoltare chi dice cose che riteniamo giuste. Mi sembra normale. Ma se ci mettiamo in ascolto anche di chi la pensa diversamente, spesso scopriamo che pure l’altro ha le sue ragioni; possiamo accettarle oppure no, ma, conoscendole, potremo almeno tenerne conto.

La nostra fede non va nascosta, anzi deve essere evidente dalla nostra vita, azioni, parole; non deve essere semplicemente urlata senza tener conto dell’altro. S. Pietro ha scritto: “Non sgomentatevi per paura di loro, e non turbatevi, ma adorate il Signore Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza…” (I Pt 4,15-16a) Ecco, potrei ridurre a questo la mia modestissima esperienza: cercare di vivere il Vangelo con speranza e amore, e di entrare in rapporto – se possibile – con tutti, senza lasciarmi dominare dalla paura; con umiltà, rispetto e onestà.

P. Franco Cagnasso, Dhaka

Missionario in Bangladesh: siamo un ‘piccolo resto’ guidati dallo Spirito Santo

Dhaka - 2 dicembre 2017

P. Franco Cagnasso, Pime, interviene di fronte a papa Francesco, che parla a braccio a sacerdoti, suore e religiosi. “Una Chiesa che rimane al chiuso è una Chiesa malata”. “Il bisogno interiore di scoprire che il mio carisma serve in qualche posto”.

“I missionari stranieri in Bangladesh sono un piccolo resto, guidati dallo Spirito Santo ad annunciare il Vangelo”. Lo dice ad AsiaNews p. Franco Cagnasso, missionario del Pime (foto n. 2). Egli è tra i religiosi e consacrati che hanno appena incontrato papa Francesco a Dhaka, nella chiesa dell’Holy Rosary a Tejgaon. Con lui si sono raccolti in preghiera e hanno ascoltato il discorso a braccio del pontefice, che parla – tra le altre cose – di armonia e della divisione creata dal pettegolezzo, e paragona il parlar male degli altri ai “terroristi che lanciano le bombe”.


Nel suo intervento, il missionario del Pime sottolinea che il “piccolo resto” della prima ondata missionaria oggi lascia in eredità una Chiesa ben formata, che riesce anche ad esprimere forze da inviare all’estero. A margine dell’incontro, riflette sul significato di fare missione: il “servizio totale” degli operatori pastorali, l’apertura ad accogliere nuovi evangelizzatori che possono arricchire le Chiese locali, la Chiesa pellegrina che segue il disegno dello Spirito Santo.

La testimonianza di Cristo, afferma, “in un Paese straniero avviene in maniera gratuita, senza aspettarsi ricompense in cambio”.

L’aspetto che provoca più apprensione tra i pochi missionari “della prima ora” rimasti, è “non avere un ricambio con nuove leve, che possano portare dinamicità alla missione”. Allo stesso tempo “bisogna sottolineare un fatto rilevante: essere un piccolo gruppo di operatori pastorali ci aiuta molto ad un servizio totale, perché le decisioni sono prese dalla Chiesa locale. Questo ci ‘costringe’ ad avere una posizione di servizio non dominante. Mentre a volte, quando si è in maggioranza, si tende anche in maniera involontaria a far prevalere il proprio giudizio, il proprio modo di pensare e la propria cultura. Invece, rispettare le scelte di altri ci spinge ad un processo di inculturazione personale, di adattamento più efficace di quando eravamo noi ad avere in mano le leve del comando. Siamo immersi nei bisogni della comunità e più vicino a quelli che fanno le decisioni della Chiesa. Un processo simile porta ad adattarsi ai bisogni della gente e risponde meglio all’obiettivo di condivisione e stare insieme alla gente”.

Sulle esigenze di nuovi evangelizzatori, p. Cagnasso spiega: “Una Chiesa matura è una Chiesa missionaria sul proprio territorio, ma anche lontano.

Lo Spirito Santo ha le sue strade, e spinge anche ad andare dove nessuno ha mai sentito parlare di Cristo. Quando sono partito dall’Italia tante persone mi dicevano che c’era tanto da fare per i cattolici locali. E allora si può ben immaginare quanto bisogno ci sia qui, in Bangladesh”. “Capire che il Signore mi chiama ad andare fuori – continua – è un valore enorme per comprendere la natura della Chiesa, che non è un rullo compressore che vuole cristianizzare secondo programmi ben precisi, ma è la seminagione della Parola che poi cade in terreni diversi.


Ci sono posti in cui il seme dà frutto e altri in cui non germoglia, ma noi tentiamo il più possibile di gettare i semi”. Come è arricchente andare fuori a predicare il messaggio cristiano, allo stesso tempo “è importante continuare ad accogliere, perché persone che vengono da fuori con una propria cultura e bagaglio personale portano modi di vedere le cose che possono essere d’aiuto”.

Il missionario riflette anche sul “valore della Chiesa pellegrina alla ricerca del Regno, cioè sul fatto di non legarsi ad una comunità locale, ma avvertire che bisogna andare lì dove la mia opera può dare più risultati”. Non si tratta di un patologico senso di irrequietudine “che ti porta a non rimanere mai fermo in un luogo. Semmai, risponde alla dimensione fondamentale dell’uomo, che non è mai sufficiente a se stesso. Il papa dice sempre che una Chiesa che rimane al chiuso è una Chiesa malata. Andare fuori invece, provoca l’incontro, l’arricchimento, la scoperta. E forse c’è anche un bisogno interiore di scoprire che il mio carisma, le mie capacità, servono in qualche posto”. (ACF)

Di seguito l’intervento di p. Cagnasso alla chiesa dell’Holy Rosary di Dhaka.


Santità,

sono un missionario italiano, erede di tanti che – negli ultimi secoli – sono venuti da Europa e America per evangelizzare i popoli del Bengala e – spesso con grandissimi sacrifici – hanno fondato la piccola Chiesa che ora accoglie Lei con gioia.

Fino a pochi decenni fa i missionari esteri, insieme ai catechisti locali, erano la “struttura portante” della Chiesa in Bangladesh, nel contesto della grande maggioranza di fedeli di altre religioni. Oggi siamo un “piccolo resto” che si mette al servizio di una Chiesa ben formata, in grado di gestirsi, articolata in ministeri, vari tipi di pastorale, e di impegni.

La nostra presenza desidera essere il segno che la Chiesa è missione dal suo nascere: missione presso il popolo in cui si trova, e missione che ne supera confini, crea comunione con altri popoli per dare e per accogliere le ricchezze del Vangelo vissute in Chiese diverse.

Vogliamo cercare, con pazienza e creatività, le “periferie” a cui Lei spesso fa riferimento, senza paura di sprecare energie anche per chi non dà speranza di risultati concreti e visibili. Vogliamo seminare in tutti i terreni possibili, ed essere la testimonianza umile della condizione cristiana su questa terra, la condizione di pellegrini alla ricerca del Regno.

Siamo grati a Dio perché la Chiesa in Bangladesh ha iniziato a donare evangelizzatori ed evangelizzatrici anche oltre i propri confini; speriamo che questa dimensione cresca, e allo stesso tempo rimanga l’apertura a ricevere volti nuovi, anche dall’Africa, dall’America Latina e da altri Paesi asiatici.

Siamo contenti di essere qui, e grati a questi popoli che ci accolgono, permettendoci di spendere la nostra vita in mezzo a loro per essere, con loro, partecipi del Vangelo di Gesù.

Il Bangladesh, il Papa e il ruolo «secondo» dei missionari


Mondo e Missione - 5 dicembre 2017

Da Dacca padre Franco Cagnasso racconta i momenti più intensi della visita del Papa e cosa rimane alla Chiesa e alla società civile

Il momento più intenso? «Quando il Papa ha nominato i Rohingya, (la minoranza etnico-religiosa più perseguitata del mondo secondo l’Onu, ndr). Purtroppo la visita in Bangladesh è stata inquinata da un focus orientato erroneamente su questo: il fatto che pronunciasse o meno il nome dei Rohingya. Alla fine il Papa l’ha fatto esattamente al momento giusto, l’unico possibile, quando li ha incontrati di persona… trovandosi davanti a persone che soffrivano. Il modo con cui li ha ascoltati, e anche aver fatto vedere la sua emozione per i bengalesi è stato un momento bello e significativo. Era una situazione estremamente delicata ed è stata gestita bene. Credo che in questo il Papa si sia fatto guidare davvero dallo Spirito Santo».

A parlare, a tre giorni dal rientro del Papa a Roma dopo la visita in Bangladesh, è padre Franco Cagnasso, missionario del Pime a Dacca. Arrivato in Bangladesh per la prima volta nel 1978, dopo una parentesi di 18 anni alla guida del Pime come vicario e superiore generale fino al 2001, padre Franco è rientrato a Dacca nel 2002. Durante l’incontro di papa Francesco con i religiosi,

che si è svolto nella chiesa dell’Holy Rosary a Tejgaon, ha preso la parola a nome dei missionari, parlando di loro come di «un piccolo resto» a servizio della Chiesa locale.

«In pochi minuti ho cercato di concentrare i punti significativi di questa fase della nostra presenza missionaria in Bangladesh – spiega da Dacca padre Franco -. Quando i primi missionari sono venuti in questo Paese erano i protagonisti di quel tanto o poco che si poteva fare. Con il crescere del numero dei cristiani, il clero locale ha via via preso in mano la gestione della Chiesa e il nostro ruolo è diventato di appoggio. Prima eravamo immersi in una grande realtà non cristiana. Oggi siamo anche immersi in una realtà piccola, ma reale, fatta di comunità cristiane, di preti locali. Io stesso ho vissuto per 11 anni nel seminario diocesano e, a parte un fratello svizzero, gli altri erano tutti bengalesi. Mi sono trovato molto bene, umanamente. E ho imparato a osservare. Ora qui in Bangladesh la sfida di noi missionari è cercare di capire sempre meglio il punto di vista di persone che hanno la nostra stessa fede ma cultura diversa. E questi cambiamento sono una fonte di arricchimento, rischiamo meno di essere i protagonisti di un’unica visione dell’annuncio del Vangelo».

È stata la cordialità l’atteggiamento di papa Francesco che ha colpito i bengalesi, secondo padre Franco. «Nell’incontro con i religiosi mi ha colpito il fatto che scendesse ogni volta incontro a chi stava parlando, per abbracciarlo. Non me l’aspettavo. Si vedeva anche che era molto stanco. Nell’omelia ha lasciato da parte il testo scritto e ha parlato a braccio toccando punti vitali per la piccola chiesa del Bangladesh. Ci sono stati riscontri positivi anche da parte di persone di altre religioni, quindi si può sperare che il suo messaggio abbia un’eco anche al di fuori dal contesto cristiano. Anche se bisogna intendersi bene: qui il Papa non lo conoscono in molti. Non bisogna fare l’errore di vedere tutto il mondo da Roma».

Lettera agli amici

Dhaka - dicembre 2017

Carissimi Amici,

ho iniziato a scrivere questa lettera alla fine di ottobre, a Dinajpur, dove ho goduto alcune giornate piacevolissime, in compagnia degli altri missionari del PIME in Bangladesh, riuniti per un’assemblea. Abbiamo gustato il clima fresco, le chiacchiere fra amici, la condivisione di vita, la preghiera comune, le risate in cui sfociano anche i momenti difficili , quando vengono ricordati insieme. Avevo bisogno di questo breve intervallo, dopo cinque mesi di fatica per tener testa agli impegni, divenuti eccessivi a causa dell’assenza del parroco p. Quirico Martinelli, in Italia per cure che si prolungavano. Ma ora p. Quirico è ritornato, possiamo aiutarci a vicenda. E riprendo a scrivere...

In questi giorni, dal 30 novembre al 2 dicembre, abbiamo avuto fra noi Papa Francesco. Il piccolo e sparpagliato gregge dei cristiani in Bangladesh, anche non cattolici, si era preparato con entusiasmo ad accoglierlo, fieri di essere – per tre giorni – al centro dell’attenzione: ci siamo anche noi! Molti di altre religioni hanno mostrato interesse, e per la prima volta varie TV hanno trasmesso ampi servizi sulla visita, anche in diretta, compresa la lunga celebrazione della Messa nel parco centrale di Dhaka.

Tutto si è svolto pacificamente, un “pellegrinaggio dello spirito” – ha detto il cardinale Patrick, arcivescovo di Dhaka. Il Papa ha elogiato il Bangladesh come “modello” di convivenza fra religioni, e ci ha incoraggiato a vivere la nostra fede senza timidezze, con gioia, aperti ad incontrarci con tutti, e a riscoprire la bellezza di seguire Gesù anche quando ciò costa sacrifici, emarginazioni, pericoli.

Per l’occasione, è venuto da Rajshahi anche un gruppo dei più grandi fra i 42 membri della comunità Snehanir (Casa della tenerezza). Venticinque anni fa il primo bimbo, orfano e colpito dalla poliomielite, venne accolto da suor Gertrude e p. Mariano. Non c’erano programmi nè progetti; Snehanir è iniziata e cresciuta passo passo, “spinta” o “costretta” dalla Provvidenza, che affidava a Suore Shanti Rani e Missionari del PIME, bimbe e bimbi in gravi difficoltà per qualche disabilità, o per l’estrema poverà e senza nessuno a sostenerli. Alla Messa del Papa hanno avuto un posto “speciale”, vicino a lui: un piccolo segno che, nel Regno dei Cieli, quelli che noi pensiamo gli ultimi sono invece i primi...

A gennaio festeggeremo i venticinque anni di Snehanir. Nel frattempo, stiamo raccogliendo i racconti di chi vive, o è vissuto nella comunità fino a quando ha trovato la sua strada nella vita. Vorremmo dimostrare che chi ha una qualche forma di disabilità ha anche tante abilità, che non devono restare soffocate o inespresse, ed è un dono prezioso per coloro che sanno accoglierlo. Faremo una piccola pubblicazione e una bella festa, ricordando con riconoscenza voi che ci aiutate e tutti coloro che accompagnano Snehanir con simpatia, preghiera, donazioni, amicizia.

Da oltre due anni non posso visitare i ragazzi e le ragazze Marma dell’ostello a Bandarban, perché il governo ha vietato agli stranieri di andare in quella zona, considerata “pericolosa”. Il recente aggravarsi della crisi dei Rohingya e il gran numero di loro che si affollano proprio nella regione di Bandarban, rendono ancora più delicata la situazione. Il nostro ostello per ora non ha avuto fastidi, ma c’è preoccupazione. Le popolazioni aborigene di tutta l’area (e i Marma fra loro), già angariate da immigrati interni del Bangladesh in cerca di terre, vedono nei Rohingya un pericolo per i loro villaggi, e non hanno fiducia nella protezione delle numerose forze militari distribuite nella zona, temendo siano più un sostegno degli “invasori” che protezione dei residenti: una penosa rivalità fra poveri... All’ostello, comunque, grazie al progetto “Sorella acqua”, abbiamo migliorato l’approvvigionamento e la distribuzione di acqua. “Sorella acqua” però ci ha fatto un brutto scherzo, e nel mese di settembre la troppa pioggia ha danneggiato le fondamenta di due edifici, che ora dobbiamo rafforzare e sistemare.

Non potendo andare io a Bandarban, ho invitato i ragazzi a fare il lungo viaggio fino a Dhaka, per trascorrere due giornate di giochi, danze, condivisioni, preghiere (ciascuno secondo la propria fede) insieme ai ragazzi della nostra parrocchia. Non ci vorrà molto per ospitarli: qualche stuoia sui pavimenti delle nostre sale per incontri, mentre per il cibo abbiamo qui una “pattuglia di pronto intervento” che se la cava benissimo con pentoloni, riso e quant’altro occorre.

La scuola per le bambine e i bambini della baraccopoli presso Notun Bazar, a Dhaka, “impresa” coraggiosa di Dino e Rotna, nonostante le paure cresciute dopo l’attentato terroristico del luglio dell’anno scorso, ha trovato amici che aiutano anche a migliorare la qualità dell’insegnamento e della formazione degli alunni, compresa l’attenzione perché le ragazze non siano obbligate a matrimoni precoci. Sta diventando una scuola modello – naturalmente senza trascurare di offrire ogni giorno un prezioso pasto ad oltre 120 alunne e alunni.

A Rajshahi continua il servizio del CAM (Centro Assistenza Ammalati). In Bangladesh si stanno diffondendo dispensari medici, piccole cliniche, centri di maternità, ecc., inesistenti fino a pochi anni fa. Per questo, al CAM, arrivano meno ammalati per casi “ordinari”, e sempre più ammalati in condizioni difficili, complesse e che richiedono cure costose: cardiopatici, pazienti in chemioterapia o in dialisi. Tener testa alle nuove esigenze non è facile, ma vogliamo continuare perché si tratta di un servizio prezioso: anche in parrocchia abbiamo tre stanzette a disposizione di chi deve venire a Dhaka per cure speciali. Accogliamo, accompagniamo, consigliamo, visitiamo quelli che sono ricoverati. I giovani che vivono con noi “perdono” tempo chiacchierando con i malati, creando un clima da cui qualcuno rimane affascinato e grato perché – pur essendo di altra religione - riceve attenzioni e simpatia inattese.

A proposito dei giovani che vivono con noi in parrocchia: quest’anno Regan Gomes, che era stato nella comunità per quattro anni, è stato ordinato sacerdote per il PIME ed è già a Lisbona, dove studia il portoghese per andare alla sua missione, la Guinea Bissau. E’ il quinto missionario del PIME originario del Bangladesh. Dopo di lui, cinque giovani stanno proseguendo gli studi nel seminario PIME di Monza; tre sono entrati nel seminario a Dhaka, altri hanno preso altre strade, o sono arrivati nuovi; ora qui sono tredici in tutto: una comunità in cui mi trovo molto bene, in barba alla differenza di età!

Insieme a loro, insieme ai molti bambini, giovani, ammalati, poveri che grazie al vostro aiuto possono studiare, curarsi, vivere un po’ meglio, e insieme ai cristiani delle nostre comunità, vi auguriamo di cuore un Natale sereno, con la gioia che l’amore di Dio viene a donarci, in Gesù.

Un saluto cordiale e riconoscente

P. Franco Cagnasso