Articoli e lettere - 1997

p. Fabrizio Calegari




1997


Lettera agli amici

Dhaka, 24 febbraio 1997


“Se andrai in capo

alle tracce di Dio.

Se andrai in fondo a te

stesso troverai Dio” (M. Delbrel)

Carissimi parenti e amici,

un grande abbraccio a ciascuno di voi dal Bangladesh e, come direbbe la gente qui, nomoskar, che significa: ‘ti onoro, ti rispetto’.

Dopo molti mesi dalla mia partenza mi decido a farmi vivo con un po’ di notizie.

Prima però lasciatemi ringraziare tutti quelli, e sono molti, che in questi mesi mi hanno mandato lettere, bigliettini, fax, cartoline, e perfino videocassette: ho ricevuto tutto e sempre con grande piacere perché, sia pure per brevi istanti, è stato come ricevere voi.

Da parte mia mi impegno a rispondere a tutte le lettere, solo non garantisco in quale mese e di quale anno…

Un secondo grazie, ancora più grande del primo, è per coloro che non si sono stancati di offrire qualcosa della loro vita e delle loro fatiche per me, preghiere comprese. Penso ad esempio agli anziani e agli ammalati, ai molti papà e mamme, e alle tante suore di clausura ... che mi hanno adottato: le Clarisse di Assisi, le Redentoriste di Foggia e, soprattutto, le Sacramentine di Monza.

Vi posso assicurare che qui arriva tutto e tutto mi aiuta - per la legge del corpo mistico - a sostenere la mia vita missionaria.

Ricambierò come posso nella mia quotidianità e in ogni Eucarestia.

Veniamo a qualche notizia. Da dove cominciare ? Vediamo ... ecco!

Come forse alcuni di voi sanno sono arrivato qui in Bangladesh lo scorso 24 ottobre, dopo una sosta di studio in India per quasi sei mesi, servita allo scopo di prepararmi un poco ad un impegno di formazione nei nostri seminari, che i superiori pensano già di assegnarmi in futuro. Posso solo sperare che nel frattempo cambino idea... Sono stati mesi comunque utili per la mia formazione personale perché mi hanno permesso di accostare una cultura cosi composita e complessa come quella indiana, avendo avuto insegnanti e compagni di classe - tutti preti e suore - provenienti da tutta l’india Ma credo che la sosta indiana abbia anche preparato il terreno all’impatto con il Bangladesh, rendendolo meno traumatico.

Il Bangladesh dunque. Come faccio a descriverlo? Direi che la cosa migliore e’ quella di non provarci nemmeno: in attesa di conoscerlo meglio darò solo qualche dato molto scarno e asciutto, quasi da libro di geografia. E’ un paese che ha una popolazione di 124 milioni di abitanti su un territorio che e’ la metà di quello italiano, dando così come risultato una delle densità più alte del mondo di persone per cm. quadrato. Per verificarlo è sufficiente passeggiare per le strade di Dhaka, la capitale, la quale - come molte grandi città del terzo mondo - è anche afflitta da un alto tasso di inquinamento causato sopratutto dai tantissimi mezzi di trasporto. La popolazione è prevalentemente musulmana, quasi l’ 87 %, ci sono poi gli indù, 12 % circa, e altri gruppi minoritari tra i quali i buddisti e i cristiani. La presenza dei cattolici è ridotta a 250.000 persone, ma c’e’ sempre chi insiste a dire che i missionari sono più necessari in Italia.

E’ uno dei paesi più poveri del mondo, soggetto a grandi inondazioni - o per colpa dei grandi fiumi che lo attraversano o per colpa del mare - ma anche a periodi di siccità, per cui la vita di milioni di persone è messa a repentaglio per mancanza dei mezzi minimi di sussistenza. La scolarizzazione è bassa e cosi pure le strutture sanitarie quasi assenti nei villaggi.

Qualche cifra di confronto con l’Italia? Nel nostro paese l’età media è di 78 anni, qui di 56; da noi la mortalità infantile è ridotta al lo 0,7 %, qui arriva al 9 %; il consumo di calorie in Italia (ottimo dato per la Quaresima) è di 3,504 pro capite, qui si riduce a 2,100 ; una mucca in Bangladesh produce, quando va bene, 2 litri di latte al giorno: le mucche dei miei zii, quando andava male, ne producevano, ciascuna, 40.

In Bangladesh quasi tutto viene importato, perfino i sassi, che arrivano dall’India e vengono spaccati e usati per le costruzioni, e non invece lanciati dai cavalcavia come avviene nei paesi cosiddetti civili.

Mi fermo qui, a questi piccoli flash che non possono certo rivelare un paese in tutte le sue sfaccettature e, soprattutto, coglierne le ricchezze culturali, umane, religiose. Anche su questo mi piacerebbe che queste lettere potessero comunicarvi in futuro le scoperte fatte.

La comunità del PIME, di cui ho avuto un’ottima impressione, è presente qui in Bengala fin dal 1855 e conta ora poco più di una trentina di membri in tre diocesi.

Il lavoro principale, che rimane quello dell’annuncio del Vangelo e del ministero pastorale, ci vede anche coinvolti nella promozione umana: scuole, ospedali, microcredito, medicina preventiva, ma c’e’ anche chi aiuta nella formazione dei seminaristi della diocesi, e chi ha scelto la testimonianza della preghiera, vivendo da monaco in mezzo ai musulmani.

E’ una comunità molto ricca di personalità vivaci e davvero impegnata, la sento come un dono non solo perché è la mia famiglia, ma anche perché da loro ho tanto da imparare.

Tornando a me. Durante le vacanze di Natale sono stato a visitare alcune nostre missioni nella diocesi di Dinajpur, guardando e ascoltando la gente e i missionari nella vita di tutti i giorni.

Il giorno di Natale mi trovavo a Puthimari, un villaggetto nel nord-ovest del Bangladesh, invitato da fratel Ettore Caserini incaricato della missione La messa ho tentato di dirla usando un messalino in bengalese traslitterato in caratteri romani, facendo un mucchio di errori nella lettura e inciampando nella pronuncia. Ma nessuno, coraggiosamente, ha riso. Ho fatto una mini omelia in perfetto italiano, tradotta e allungata da Ettore, col quale mi sono divertito, alla sera, a guardare il cielo consultando la cartina, perché qui le stellate sono spettacolari.

Ci sono stati anche i miei primi battesimi bengalesi quattro, praticamente di più che in cinque anni di presbiterato.

Alla missione di Mariampur ho ritrovato p.Quirico, che è stato per tre anni il mio rettore in teologia. Conto di passare da lui tutta la Settimana Santa della prossima Pasqua.

Un ricordo nitido di quel giorno è stata la cena, consumata dalle suore di Maria Bambina che, tra le altre cose, hanno cucinato un coniglio cosi buono che da mesi non mangiavo più.

Molto belli anche i giorni trascorsi a Pathorghata con p. Luca e la sua famiglia venuta a trovarlo. Quando siamo arrivati per la prima volta alla sua missione i suoi hanno perso la parola per la prima mezz’ora, vedendo dove erano capitati e la povertà della sua abitazione. Io e Luca ridevamo sotto i baffi.

Capitolo lingua.

Praticamente subito, arrivando qui, mi sono cimentato nello studio del bengalese, frequentando una scuola per studenti stranieri, quattro ore ogni mattina e qualche volta anche il pomeriggio.

Si va a scuola anche la domenica (che tristezza !), perché il weekend è composto dal venerdì (giorno festivo per i musulmani), e dal sabato.

Ho imparato così, tra l’altro, che dire come mi chiamo e un po’ problematico, nel senso che il mio cognome fa ridere - Calegari in bengalese significa letteralmente ‘auto vuota’- mentre il mio nome qui non esiste ed è molto difficile da pronunciare (mancano la F e la Z). Giusto in questi giorni poi, abbiamo cominciato a scrivere e a leggere la ricamata scrittura bengalese, e mi sono ritrovato così di botto alla prima elementare: il quaderno da riempire di lettere, una per pagina, la maestra alla lavagna che ti mostra come si fa, io con la scrittura tremolante, la lingua fuori all’angolo della bocca teso nello sforzo.

Nel complesso è perfino divertente, ma ci sono momenti in cui il cervello mi va in acqua e manderei tutti alla malora, la maestra per prima. Come stamattina ad esempio, quando - dopo due ore di esercizio di scrittura, io già quasi in debito di ossigeno e le mani sporche di inchiostro - mi si avvicina l’insegnante, mi offre uno dei suoi sorrisi migliori, traccia una bella riga su una pagina e mi dice che no, non va bene, prova a rifarlo, stai più leggero, attento alle stanghette, vedi?, così e’ più bello. Ed io, che avevo calcato talmente la calligrafia da poterla leggere con le dita sul retro come il “braille”, l’avrei fulminata. Più bello??? Ma se è un capolavoro?

Allora nel pomeriggio sono andato al mercato dove ho comprato, sotto lo sguardo divertito del commesso, uno di quei quadernetti per i bambini con tante figure che illustrano ciascuna una lettera dell’alfabeto, proprio uguali ai nostri: l’ape per la ‘a’, la banana per la ‘b’, il cavallo per la ‘c’... e poi tutto lo spazio per comporre le parole. Una bella lezione di ‘volo basso’, di pazienza insomma, di spogliazione, chiamatela come volete, per chi, come me, è abituato all’esuberanza e al protagonismo e sente anche una grande voglia di lavoro pastorale.

Tutto, comunque, è nel conto: si tratta di un passaggio obbligatorio - come mi dicono i miei confratelli che l’hanno già vissuto - un inverno lungo almeno un anno nel quale si rimane sotto terra, si tace (praticamente un’impresa per me!), si ascolta, si osserva, e si cresce ‘dentro’, a patto di sfruttare come preziosa per la propria vita questa stagione.

A proposito di passaggi obbligatori e cruciali, consentitemi di tornare al momento della partenza, perché una pagina di Vangelo o anche una vostra lettera a cui rispondere, mi hanno offerto molte volte la possibilità di ripensarci.

Non mi è facile cercare di spiegare queste cose e, in un certo senso, provo anche un po’ di pudore nel farlo, ma credo anche che buttiamo via metà del nostro tempo senza mai condividere le cose più vere, senza mai scoprirci perché può far male meravigliandoci poi se le nostre amicizie e relazioni sanno di plastica, di finto, se sono incapaci di spessore. Dicevo del partire.

Un momento indubbiamente straordinario, insieme all’ordinazione il più intenso della mia vita, forse perché sono gli attimi in cui ho scommesso tutto quello che avevo, fidandomi solo di ciò che avevo scoperto e capito negli anni precedenti.

Quando ho cominciato a desiderare la missione non ero che un ragazzetto di undici anni, che qualche volta pensava a cosa fare di bello della propria vita, e qualche altra costringeva suo fratello minore a perdere partite già vinte - lui Boninsegna e io Mazzola - giocando nel cortile sassoso di casa Ci sono voluti quasi vent’anni per realizzare un progetto che, lo avrei scoperto nel tempo, non era nemmeno mio. E capire che proprio in questo fatto - aderire alla volontà di un Altro, lasciare che fosse Lui a decidere musica e spartito, tenere la rotta e assicurare la bussola - stava e sta la fonte della mia gioia.

Anni in cui ho imparato un poco a riconoscere la presenza - puntuale, sorprendente, ma anche nascosta e dolorosa - di Dio come Amore, a fidarmi di Lui e a credere che non mi avrebbe tradito, che la sua fedeltà non sarebbe venuta meno. Io si, infinite volte, con tenacia e disinvoltura, con la stessa faccia di bronzo di quando preparavo i ‘sacchi’ nei letti dei miei amici e fingevo di dormire aspettando le loro reazioni.

L’amore di Dio no, non viene meno mai, questo ora, lo so.

Partire mi ha fatto comprendere un poco di più quale sia il volto e il prezzo della libertà vera, quella paradossale del Vangelo che, proprio perché mi chiede di perdermi, mi fa ritrovare.

Credo che sia profondamente vero, ad esempio, quello che mi scriveva un amico carissimo di Foggia: “Adesso che sei partito mi accorgo che sei entrato nella mia vita”. Mi pare di poter dire la stessa cosa di ciascuno di voi, nel senso che la partenza mi ha permesso di verificare - cioè rendere ‘veri’- tutti questi rapporti, e che lungi dall’aver perso qualcuno vi ho in realtà guadagnato. Anche questo e’ parte di quel ‘centuplo’ che Gesù promette nel Vangelo.

Ma la partenza è stata anche l’occasione per comprendere un poco di più - ma in una misura mai provata prima - quale sia l’ampiezza e la capacità della mia anima, trovatasi a doversi misurare con il mistero immenso della presenza di Dio in lei, quando tutto il resto viene meno Quando si rimane soli io e Lui, la sua promessa e le mie paure, la sua pace e la mia pochezza.

E’ allora che avverto che il partire ha come dilatato - in me e attorno a me - nuovi spazi e orizzonti, come lo spalancarsi improvviso di nubi che lascia vedere, al di là, panorami solo intuiti.

Così tra i doni della missione ritrovo anche quello di mio cugino Luca che da laico è partito, lo scorso gennaio, per Parintins, Brasile, dove trascorrerà i prossimi tre anni, la samba al posto della danza classica, il Vangelo anziché libri al computer. Cresciuti insieme fin dall’infanzia abbiamo condiviso moltissime cose, adesso anche questa e ne sono felicissimo.

O, ancora, quello di Michela, infermiera a S. Giovanni Rotondo, che mi vedo arrivare qui - anche lei in gennaio, una befana in ritardo di qualche giorno - per andare al lebbrosario di Khulna lungo tutto quest’anno. E’ stato bellissimo ritrovarsi, dopo gli anni di Foggia, a contemplare con stupore i disegni di Dio. E Dora - del Movimento Giovanile Missionario, in Abruzzo - entrata pochi giorni fa dalle Missionarie dell’Immacolata.

Diversi, nello scrivermi, mi chiedono se sono felice. Una domanda non banale ma enorme.

Credo, nello svolgersi di questa lettera, di avervi dato una risposta forse più completa di un semplice e tutt’altro che scontato sì.

Auguro a ciascuno di voi, al termine di questa Quaresima, l’esperienza che toccò ai due di Emmaus: la gioia di imbattervi nel Signore Risorto, il cuore riscaldato dalla sua parola, gli occhi sgranati nello stupore di riconoscerlo, la bocca già spalancata nell’annuncio della Buona Notizia.

Vi abbraccio di nuovo, uno per uno, con grande affetto.

p. Fabrizio