In: La Civiltà Cattolica n. 3991
Elie Wiesel, Il mendicante di Gerusalemme, Milano, Edizioni Terra Santa, 2015
Elie Wiesel, Nobel per la pace nel 1986, nasce nel 1928 a Sighet, in Romania. Nel 1944, insieme alla sua famiglia, viene rinchiuso in un ghetto della sua città, e poco dopo viene internato ad Auschwitz, e poi a Buna e a Buchenwald. Riesce a sopravvivere all’Olocausto. Dopo la fine della guerra, come tanti altri sopravvissuti, non se la sente né di parlare né di scrivere della sua esperienza.
Decide di farlo soltanto dieci anni dopo, grazie all’insistenza di F. Mauriac (1885-1970), Nobel per la letteratura e suo intimo amico. Di questa esperienza assolutamente incancellabile e che trasforma per sempre la sua vita, così scrive il libro La notte, che racconta la sua vita di prigioniero nei campi di sterminio: «Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto. Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai».
Da allora Wiesel compone numerose opere in prosa e in versi, accomunate dal senso di vuoto incolmabile che segue alla Shoah.
Sulla stessa linea si pone anche questo libro, scritto di getto nel 1967 e pubblicato in lingua francese l’anno successivo, e finora inedito in italiano.
Tutto comincia poco prima della «Guerra dei sei giorni», quando Wiesel progetta di recarsi a Gerusalemme, perché è preoccupato della situazione di accerchiamento di Israele nel disinteresse mondiale, come ai tempi dell’Olocausto. Ma può raggiungerla soltanto pochi giorni dopo la fine delle ostilità, nel giugno del 1967.
Lì vede sfilare migliaia di uomini e donne davanti al Muro, animati da «uno strano raccoglimento» e questo lo colpisce. È la molla che fa scattare il bisogno di scrivere di getto questo libro, fusione di realtà e immaginazione, memoria e fantasia. Protagonisti sono la diaspora, la Shoah, Gerusalemme e i suoi mendicanti che discutono tra loro e sognano. E c’è David, l’io narrante, in questa città che è: «per gli esiliati, una preghiera. Per gli altri, una promessa. Gerusalemme: città che miracolosamente trasforma qualunque uomo in pellegrino; nessuno può visitarla e partire immutato» (p. 17).
In questa cornice si intrecciano tante storie diverse, ognuna delle quali riesce a catturare l’attenzione del lettore.
Una è ambientata in un villaggio ebraico nella regione montuosa dei Carpazi, dove ebrei e cristiani coabitano da secoli come buoni vicini. All’improvviso ecco sfilare gli ebrei, increduli e silenziosi, condotti dai tedeschi verso la foresta. Vanno incontro alla morte, ma con la concessione di poter morire uniti per gruppi familiari, mano nella mano. Tra loro spicca la figura del Maestro che, prima invita tutti ad accettare la morte come volontà di Dio, poi sembra bestemmiare: chiede ai Patriarchi non di intercedere ma di essere testimoni di questa ennesima ingiusta strage. E c’è l’ufficiale tedesco che urla al Maestro: «non hai ancora capito che Dio siamo noi?». Poi si procede, con metodo e precisione, alla strage degli innocenti, finché non cala la notte…
Un altro squarcio narrativo coinvolgente è la separazione tra Malka e il marito Katriel che parte per la «Guerra dei sei giorni», convinto che questa non scoppierà. E invece Malka «non lo rivide più».
Toccante è anche la storia di Ileana, che nasconde un giovane ebreo e cerca di salvarlo quando gli abitanti del paese lo vogliono consegnare ai nazisti. Poi, gli eventi incalzano e il lettore si trova immerso nella guerra e, insieme ai soldati, corre verso Gerusalemme, fino alla Città vecchia, fino al Muro del tempio, che David guarda: «come si guarda un essere vivente dal quale siamo stati a lungo o da sempre separati» (p. 188).
Prive di sentimentalismo e venate di ironia, ricche di personaggi e di atmosfere particolari, le pagine di Wiesel consentono al lettore di conoscere dal di dentro il vissuto del popolo ebraico, da sempre così carico di angoscia di annientamento, nonché l’importanza di Gerusalemme nella vita individuale e di tutto il popolo.