In: La Civiltà Cattolica n. 3870
Brunero Gherardini, Quaequmque dixero vobis. Parola di Dio e Tradizione a confronto con la storia e la teologia,
Torino, Lindau, 2011
Già ordinario di Ecclesiologia all’Università Lateranense, rappresentante della nota «Scuola Romana» di teologia e autore di numerose pubblicazioni, da tempo Gherardini presta una particolare attenzione ai temi del Vaticano II e della Tradizione, come nel suo precedente libro: Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare (2009) e in quest’ultimo lavoro.
Il libro si apre con un lungo Prologo, che introduce al tema centrale e ai suoi passaggi chiave. Il tema è la «Tradizione», fondamentalmente quella divina e divino/apostolica, come vogliono indicare le parole di Gesù nel titolo.
La questione fondamentale è se il Vaticano II, che pure si dichiara ripetutamente a favore della Tradizione, l’abbia rispettata pienamente. Secondo l’A., le dichiarazioni dottrinali del Concilio «in certi casi riesumano il precedente Magistero, in altri lascian alquanto a desiderare […] in altri ancora son quanto meno in sospetta discontinuità» (p. 8). «Identità e nobiltà» del Concilio messe in dubbio? Due i quesiti di fondo: quale relazione il Vaticano II ha stabilito con la Tradizione, e cosa esso intenda per Tradizione.
Inevitabile, per l’A., iniziare dal confronto con le posizioni conciliari dell’attuale pontefice, da lui sostenute già da molto prima di essere eletto al soglio pontificio. Queste risultano tutte e sempre coerenti con una posizione di difesa e promozione del Concilio, contro i due eccessi contrapposti: quello di chi vede nel Concilio qualcosa di superato, e quello di chi ritiene il Concilio responsabile della decadenza della Chiesa.
Alla luce delle sue numerose prese di posizione precedenti, diventano ancora più comprensibili le ben note parole sulla giusta interpretazione del Concilio, sulla contrapposizione tra due differenti interpretazioni: «Ermeneutica della discontinuità e della rottura […]. Ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità» (Benedetto XVI, 2005). Per l’A., inoltre, non ci sono dubbi: «Quasi ogni riferimento ratzingheriano al Concilio lo collega con la Tradizione» (p. 20).
L’A. si affida al «più rigoroso metodo teologico», alla metodologia dogmatica classica, al procedere in lumine fidei-sub Ecclesiae Magisterii ductu. Ecco un passaggio chiave: «Per mezzo della Chiesa e del suo Magistero, la Rivelazione si fa Tradizione: Cristo che rivela insegna trasmette» (p. 38). Tradizione è quel «ricevere-ritrasmettere» che precede la Scrittura. Di qui l’anteriorità della Chiesa, e quindi della Tradizione, rispetto alla Parola scritta: è quest’ultima che nasce dalla Chiesa, e non viceversa.
Nel terzo capitolo l’A. «chiede» a qualcuno dei più significativi padri della Chiesa «che cosa sia la tradizione, s’essa debba distinguersi o no dalla Scrittura, se abbia o no un perché nella vita della Chiesa» (p. 72).
Ma è con il capitolo sulla Tradizione nel magistero conciliare che si entra nel cuore della tesi sostenuta dall’A. Il Tridentino e il Vaticano I sono accomunati dalla stessa conclusione: la fede cattolica «è contenuta nei libri scritti e nelle tradizioni non scritte», dove fondamentale sarebbe la congiunzione «e».
Prima di considerare il Vaticano II, l’A. accenna brevemente ad alcune variabili proprie di quel contesto storico-culturale, in vari modi correlate al Concilio stesso: una mentalità naturalistica che sostituisce la visione soprannaturale dell’uomo; la Rivelazione che si scioglie nel divenire; un’escatologia antropocentrica del progresso e del benessere; una concezione del peccato non come ribellione a Dio ma come autoconoscenza e arricchimento di sé; una «teologia delle realtà terrene».
In pratica si verifica quella «svolta antropologica», messa in luce, ad esempio, da C. Fabro (1911-95), e il conseguente travaso dell’antropocentrismo nel Concilio. Del Vaticano II l’A. analizza in particolare la Dei Verbum, soprattutto i paragrafi 7-12. In proposito egli crede di poter cogliere significative incongruenze rispetto al dettato dogmatico del Tridentino e del Vaticano I, in merito soprattutto a un aspetto decisivo: l’«accantonamento» della dottrina delle «due fonti» della fede, cioè la Tradizione da una parte e la Scrittura dall’altra.
A questo punto l’analisi si sposta sulla teologia della sacra Tradizione. Qui l’A. tratta nel loro specifico i concetti di Tradizione e di Magistero, e le loro varie specificazioni. Il testo si chiude con un Epilogo che sintetizza e chiarisce ulteriormente tutto il discorso precedente, allargando le critiche anche al decreto conciliare Unitatis redintegratiosull’ecumenismo, e alla Dignitatis humanae sulla libertà religiosa.
Anche se la bibliografia è datata e il periodare un po’ aulico, nel suo insieme il libro è ben scritto. Se letto senza pregiudizi, appare come un appassionato elogio della Tradizione, argomentato con sistematicità, e pone in luce il sincero attaccamento alla Chiesa da parte dell’A. Certo, nel mettere in evidenza la discontinuità del Vaticano II rispetto alla Tradizione e ai grandi Concili precedenti, soprattutto sul tema del rapporto tra Parola scritta e Tradizione, e riproponendo la teoria delle «due fonti», l’A. non riesce a evitare il rischio di interpretazioni parziali, riduttive e datate.
E, appellandosi proprio alla passione con cui l’A. parla del Magistero, sorge una domanda: perché, con riferimento al Vaticano II, egli non è coerente con una sua enfatica affermazione: «non mi stancherò mai di ripetere con sant’Agostino: nemmeno all’evangelo crederei, se non mi fosse proposto dall’autorità della Chiesa» (p. 42)?
È davvero fondata la sua accusa di «discontinuità» in alcuni testi del Concilio? E non c’è anche una forzatura letteralistica dei testi, come nel caso della teoria delle «due fonti»? Questa, in realtà, non è insegnata dal Tridentino, ma forzata da alcune sue interpretazioni teologiche successive.
In continuità con le origini la Dei Verbum intende riproporre ciò che la Scrittura già esprime con chiarezza: la pienezza della Rivelazione è Cristo, in lui il Padre rivela se stesso. La Rivelazione è proposta di comunione di Dio all’uomo, è relazione interpersonale. È, quindi, molto più di un sistema dottrinale, di un contenuto di verità espresse in proposizioni.
Tali verità, poi, non sono distribuite in parte nella Scrittura, in parte nella Tradizione, come due parti tra loro separate. L’una e l’altra sono, invece, «strettamente congiunte e comunicanti tra loro» (Dei Verbum, n. 9), e «costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio affidato alla Chiesa» (ivi, n. 10). E questo non significa ridimensionare Tradizione, Magistero e Chiesa.
Un simile «rinnovamento nella continuità» non si traduce, poi, in un’assolutizzazione della storia e in un relativismo della norma.
Rispetto alla precedente dottrina della Chiesa, quindi, il Vaticano II: «né ha voluto cambiare né di fatto ha cambiato tale dottrina, ma ha voluto solo svilupparla, approfondirla ed esporla più ampiamente» (Congregazione per la dottrina della fede, 2007). E chiudiamo con le parole di Benedetto XVI sul Concilio: «se lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere e diventare sempre di più una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa» (2005).