In: La Civiltà Cattolica n. 3897
Michele Maggi, Archetipi del Novecento. Filosofia della prassi e filosofia della realtà,
Napoli, Bibliopolis, 2011
Benedetto Croce (1866-1952), Giovanni Gentile (1875-1944), Antonio Gramsci (1891-1937): tre pensatori che hanno segnato in vari modi la storia italiana del Novecento contribuendo, fra l’altro, a mantenere viva l’attenzione sui collegamenti e le tensioni tra filosofia e vita statale considerata in senso lato. Questo il tema al centro della riflessione dell’A., ordinario di Storia della filosofia politica nell’Università di Firenze, che ripropone qui una serie di scritti che riprendono saggi già presentati in vari luoghi.
Il titolo introduce subito al cuore dell’analisi. L’A. considera il modo nel quale un po’ tutta la vicenda culturale del Novecento è caratterizzata dalla tensione tra due orientamenti fondamentali, veri e propri «archetipi». Da una parte c’è la filosofia intesa come comprensione dell’unità della realtà. Dall’altra l’unificazione come progetto, la filosofia come prassi totale e risolutrice, con il trionfo finale sul negativo. Sono due orientamenti che riaffiorano nella prospettiva di una filosofia integrale, intesa come concezione della vita e del mondo, piuttosto che come disciplina particolare.
Croce, Gentile, Gramsci: tre vicende tra loro molto diverse, non c’è dubbio, ma anche unite proprio da quell’elemento comune che l’A. intende valorizzare con il suo libro. Sono vocazioni intellettuali vissute in tutta la loro pienezza, caratterizzate da una visione culturale d’insieme, vera e propria filosofia integrale in cui le singole filosofie individuali sono parte di un progetto più generale che le sovrasta e contiene. Il loro pensiero contribuisce alla formazione di nuovi movimenti «spirituali», «credenze» capaci di integrare o sostituire le fedi storiche, non più attuali. Con loro, la filosofia tende a misurarsi più direttamente con la dimensione statale, ponendo in rilievo il rapporto fra teoria e politica, princìpi e istituzioni, filosofia e classe dirigente. In loro, quindi, si esplicita in modo esemplare il confronto tra filosofia della prassi e filosofia della realtà.
La proposta dell’A. non sembra porsi come semplice contributo alla storia della filosofia. Vi si intravede chiaramente una proposta di «filosofia civile», una sollecitazione di più ampio respiro volta a contrastare le attuali «tendenze dissolutrici», proprio tenendo insieme filosofia, sentimento storico e trasmissione della funzione dirigente. In un tempo in cui, nella memoria corrente nel nostro Paese sembrano smarriti il filo della continuità storica e il senso della propria complessità culturale, non deve apparire come datata, se non proprio inutile, un’operazione culturale come quella offerta dall’A.
Egli è consapevole degli ostacoli che tale proposta può incontrare proprio nella cultura professionale. Due in particolare. C’è innanzitutto il «rischio settorializzante», vale a dire la difficoltà di tenere presenti, come parti inseparabili di un insieme, i vari livelli, filosofici, storiografici e politici delle tre eredità considerate, che finiscono dispersi e ridotti nei diversi specialismi. E c’è il «rischio storicizzante», sempre presente quando determinati cicli ideologico-politici sono giunti a compimento e si sono esauriti: non si accede più a quei mondi di pensiero, perché non più rivendicabili praticamente e perché non si ha più nemmeno la necessità di contrastarli nel presente.
Si rischia, così, di abbandonare quella dimensione della filosofia civile che è sopraelevata alla filosofia delle scuole, ritornando alle «formalizzazioni senza tempo e agli esercizi della gnoseologia perennis». E questo è tanto più un rischio quanto più si accresce il vuoto di consapevolezza statale, anche per la debolezza delle élites politiche. Di fronte alle crescenti tendenze dissolutrici, quello dell’A. vuol essere un contributo che renda più pressante «la necessità dell’impegno degli uomini di buona volontà, ognuno come sa e dove può» (p. 37).