Abito a villa Borghese. Non un granello di polvere, non una sedia fuori posto. Siamo soli, e siamo felici di esserlo, o, almeno, io sono felice di stare in sua compagnia senza nessuno tra i piedi, almeno per qualche tempo. Lei, invece, un po’ ne soffre: ama essere sempre al centro dell’attenzione, compiaciuta degli sguardi d’ammirazione che immancabilmente suscita.
Questa mattina, sul presto, ho fatto le pulizie, come al solito. Ora i marmi sono così lucidi da sembrare degli specchi e le sedie, ricoperte da un fine broccato color oro, sono sistemate ordinatamente ai quattro angoli della sala. La mia poltroncina, invece, è vicina alla finestra: da quella posizione posso controllare la stanza e, al tempo stesso, respirare la dolce aria di fine estate che entra dai vetri spalancati. Settembre è il mese che preferisco perché è il mese in cui l’ho incontrata. Sono passati trentaquattro anni da allora. All’epoca avevo venticinque anni, nessuna storia importante alle spalle, nessuno a casa ad attendere il mio rientro. Per via della mia timidezza, all’inizio, non osavo manco guardarla e mi limitavo a lanciarle brevi occhiate furtive, soprattutto quando lei era impegnata. Poi, poco alla volta, ho preso confidenza, mi sono fatto coraggio e, una sera (era la vigilia di Natale, mancava poco all’ora di chiusura e nessun visitatore si aggirava per le stanze), le ho dichiarato il mio amore. Da quel momento non ci siamo più lasciati.
Approfittando del fatto che ancora siamo soli, mi concedo il piacere di fissare il suo volto stupendo, cercando di catturarne lo sguardo. Sono come ipnotizzato dalla sua bellezza e ancora avverto le stesse emozioni provate la prima volta che l’ho conosciuta. Come allora
Paolina se ne sta mollemente adagiata sul letto, sostenuta da cuscini, all’apparenza distratta, ma, in realtà, attentissima ad ogni mio movimento: non sono rare le volte in cui colgo il suo sguardo fisso su di me. Si tratta di un lieve e quasi impercettibile movimento degli occhi, però, per me che la conosco a fondo, è cosa evidente. Anche il sorriso che mi rivolge è più dolce dell’abituale sorriso con cui accoglie gli altri: me ne accorgo dalla diversa piega della bocca. Una questione di millimetri. A me sorride in modo speciale, ad esempio, quando le accarezzo il corpo. Apprezza moltissimo le cure che le dedico e la leggerezza del mio tocco: in quei momenti i suoi occhi brillano e il piacere che mi procura è inimmaginabile. In quelle occasioni fatico a distaccarmi da lei e devo fare violenza su me stesso per tornare al mio posto in modo da non dare adito a sospetti.
Mi ripeto mille volte al giorno che per gli altri Paolina è solo una statua e che il loro interesse è puramente artistico, ma, in realtà, mica ci credo a questa balla che mi racconto. Così non sopporto tutte quelle persone che durante il giorno le si piazzano di fronte e la scrutano a lungo, senza il minimo ritegno: sono certo che, se potessero, allungherebbero persino una mano per toccarla! In tutti questi anni sono dovuto intervenire non so quante volte per riprendere gente sfacciata e maleducata.
Paolina, però, sa che con me presente può stare tranquilla. Non la lascio mai sola: di giorno sorveglio la stanza in cui vive, di notte, nei miei giri di controllo, passo e ripasso da lei. E non c’è notte che… Ma questa è un’altra storia.
Mia e di Paolina.
n.d.a. L’incipit è tratto da “Il Tropico del Cancro” di Henry Miller