Centro: per un punto O del piano passano infinite rette che costituiscono un fascio proprio; il punto O è detto centro del fascio di rette.
La sua casa, appena dietro alla chiesa, si trovava esattamente al centro del paese, al crocicchio di tutte le strade che lo attraversavano. E, per quella casa, tutti, per un motivo o per l’altro, c’erano passati.
Tòta Carmen faceva di professione il “mestiere” e, si sa, che è il sesso a far muovere il mondo. Aveva poco più di cinquant’anni, ma era ancora bella e piacente e non disdegnava il lavoro. Certo, aveva ridotto il numero degli impegni, però si riteneva ancora adatta a praticare quella che considerava una missione. Da tòta Carmen ci andavano tutti: i ragazzi, giusto per iniziare; le donne per parlare di certi problemi con i loro mariti; gli uomini soli per trovare un po’ di compagnia. Quelli sposati, no: la Carmen viveva bene in quella comunità e, per nessun motivo, avrebbe tradito la fiducia della gente. Diceva sempre che esiste una specie di codice non scritto e che se uno vuole guardarsi allo specchio tutte le mattine deve saperlo rispettare.
Di andare a parlare dal prete per certi problemi nessuno se lo sarebbe mai sognato: dal prete ci si andava per organizzare matrimoni o funerali che, a ben pensarci, sono quasi la stessa cosa. E tanto meno dal medico condotto: quello, quando sei ancora sulla porta e stai per aprire bocca, già ti ha prescritto una pagina intera di esami. “Bisogna avere un quadro completo: poi ne parliamo”.
Ma che quadro e quadro! Tòta Carmen sapeva ascoltare e usare il buon senso. L’esperienza, poi, faceva il resto. Sapeva anche leggere le carte e conosceva le erbe: dava certe tisane che facevano veri miracoli. O, per lo meno, non facevano male.
Una volta ci andò anche il prete. Si racconta che fosse geloso per via del fatto che era più la gente che si confessava dalla tòta Carmen che non quella che si recava al suo confessionale il venerdì alle cinque: lui, a quell’ora, stava in piedi davanti al portale della chiesa, con tanto di paramento viola e pronto per la confessione, a guardare corrucciato le persone gli passavano davanti, salutandolo rispettosamente –alcuni facendo pure il segno della croce- per poi infilarsi, lesti lesti, nella casa della Carmen.
Nessuno seppe mai cosa successe in quell’ora in cui Don Giuseppe rimase dalla donna. Quando ne uscì, però, aveva un’espressione serena sul volto e, da allora, se la incontrava per strada, era tutto un sorriso e un inchino per la tòta.
La gente andava e veniva davanti a quella casa: non serviva prendere appuntamento. Se il vaso di gerani era alla finestra significava che era disponibile, altrimenti bisognava ripassare. Alcuni ci andavano una sola volta, ma la maggioranza tornava.
Come Angelo, settant’anni suonati, arzillo e con lo sguardo furbetto, che ci passava sovente: avanti e indietro pur di transitare per quel punto. Gli bastava anche solo guardare quella finestra con il geranio al davanzale e sapere che lei era lì, disponibile, per sentirsi felice. E quando poteva, entrava. Sapeva che il suo era un sogno, ma ogni volta ci provava e, con fare sbarazzino, nell’aprire la porta immancabilmente le chiedeva:
-Tòta, për cas, a l'ha pa cambià idèja? A veul pròpi nen diventé la mia madama?-. (1)
La risata cristallina di tòta Carmen e l’offerta di un caffè, quasi a riparazione della risposta invariabilmente negativa, facevano di Angelo un uomo felice: in fondo era bello, anche per solo pochi minuti, essere lì, al centro della sua attenzione.
Racconto tratto da “Attrazioni e distrazioni” di Cesarina Bo pubblicato da ExCogita, 2004