Vincent van Gogh, Campo di grano con volo di corvi (1890)
L’uomo procedeva lentamente sulla stradina polverosa che, dritta, attraversava i campi di grano maturo. Camminava con la schiena eretta, il fucile appoggiato sulla spalla, guardando fisso davanti a sé. Talvolta si fermava e osservava intorno: il suo sguardo abbracciava la distesa dei campi coltivati, fino al bosco scuro che s’intravedeva a sud e alle basse colline che ne delimitavano gli altri lati. Era giunto con la sua donna in quell’angolo di terra da appena un anno: avevano comperato quei campi e anche la casa di legno di abete che il precedente proprietario aveva costruito con le sue stesse mani, cinquant’anni prima.
Sognavano di raccolti abbondanti, di animali da allevare per poter mettere su famiglia. Arrivavano da un luogo dove il duro lavoro permetteva a mala pena di sopravvivere: avevano così deciso di lasciare le famiglie e gli amici alla ricerca di una terra fertile ed ospitale.
L’uomo scrutava il cielo con lo sguardo indurito e quasi insensibile ai raggi del sole che, in quell’afosa giornata, brillava allo zenith. Si passò il braccio sulla fronte e si deterse il sudore con la manica della camicia. Mise il fucile a terra e s’inoltrò di qualche passo nel campo di grano, dirigendosi verso una zona dove le spighe sembravano fossero state schiacciate. Rimase fermo a guardare per terra e intorno. Poi, scrollò le spalle e ritornò sulla stradina.
Camminò, senza più fermarsi, fino a casa. Il suo arrivo fu annunciato dall’abbaiare dei cani che gli corsero festosi incontro, e dallo starnazzare delle oche spaventate per quell’improvviso tramestio.
La casa era bassa e aveva sul davanti una veranda cui si accedeva tramite tre scalini. Le pareti erano state dipinte, evidentemente molti anni prima, di un giallo ocra, sbiadito e scrostato dal tempo; ammassati alle pareti, in disordine, attrezzi agricoli, vasi con piante rinsecchite, ceste. Su un tavolo sbilenco, pomodori e pesche erano allineati ordinatamente in due cassette.
Una donna vestita di nero, allampanata, si affacciò sulla porta asciugandosi le mani nel grembiule scuro che l’avvolgeva completamente. Rimase a fissare l’uomo e, solo quando questi si lasciò cadere pesantemente sulla panca di legno posta all’ombra della tettoia, parlò:
-Allora?-
-Niente-, poi aggiunse –Portami da bere: c’è da morire sotto questo sole-.
-Devi prenderli: non possiamo accettare che vengano a fare le loro schifezze da noi, nei nostri campi-.
Nel dire questo la voce divenne roca e bassa e lo sguardo, perso in un punto lontano, s’indurì. –Stanotte li ho sentiti arrivare con le loro auto, ridevano e bestemmiavano. Certo che hanno avuto coraggio a venir qua, sotto le nostre finestre…-.
-Non li ho sentiti-.
-Li ho sentiti io. Se ne sono andati sgommando dopo aver fatto, com’è vero iddio, chissà quali porcherie. Come quella volta che…-, la voce della donna si abbassò fino a diventare poco più di un sussurro, - hanno sporcato con i loro escrementi qui, davanti casa… Che siano maledetti!-.
Poi tacque: nell’immobilità della campagna assolata si udivano solamente il frinire dei grilli e l’ansimare dei cani che, accucciati ai piedi dell’uomo, ricevevano carezze distratte.
-Il raccolto andrà male, me lo sento-, e con questa sinistra profezia la donna si voltò e rientrò in casa, chiudendo la porta alle sue spalle.
Per quel giorno non si scambiarono altre parole.
In mezzo alla notte furono svegliati dallo starnazzare delle oche. Fecero in tempo ad affacciarsi alla finestra e ad intravedere, nel buio, alcune sagome scappare. Un istante dopo sentirono il rumore di un’auto che si allontanava. L’uomo, inutilmente, sparò in aria un colpo di fucile.
-Maledetti-, imprecò la donna, -perché non ci lasciano in pace?-
Al mattino trovarono tre oche decapitate, ormai irrigidite in mezzo al sangue rappreso. Delle loro teste nessun segno: sparite.
L’uomo prese il fucile, fischiò ai due cani e, insieme, s’incamminarono in direzione dei campi. Vicino alla grande quercia trovò delle bottiglie di birra frantumate e diversi mozziconi di sigarette. Rimase, inutilmente, tutto il giorno di guardia alla terra.
Quelli del paese li odiavano, solo perché erano arrivati da lontano. Li chiamavano “i forestieri” e si scansavano al loro passaggio, voltavano la testa dall’altra parte e gli uomini sputavano per terra in segno di disprezzo. Erano gelosi di quei rigogliosi campi di grano.
Una notte, poi, morirono i due cani, Buch e Tresor: li trovarono al mattino agonizzanti e con la schiuma alla bocca, avvelenati. Non avevano sentito nulla, quella volta.
L’uomo non parlò, prese una vanga e scavò dietro casa una profonda buca. La donna si asciugò le lacrime.
-Non dovevamo venire in questo posto e lasciare la nostra terra. Abbiamo peccato di presunzione e Dio ci sta punendo-.
Si voltò, dirigendosi rassegnata verso casa con la schiena appena ricurva, e chiuse dietro di sé la porta, lentamente. Un gesto che sapeva di sconfitta e di definitivo. In quel momento, per la prima volta, rimpianse la sua terra d’origine, dura e avara, e si convinse che tutto quello che stava succedendo era la giusta punizione per aver voluto cercare una strada più facile e per aver ceduto al desiderio di una vita migliore.
Non disse nulla al suo uomo quando iniziò a radunare le loro cose, a riporle dentro vecchi scatoloni, ricoprendoli con fogli di giornali e chiudendoli con dello spago. Sentiva che presto se ne sarebbero dovuti andare da quel posto, perché la prossima volta sarebbe toccato a loro. Si chiedeva solo come sarebbe successo e quando.
L’uomo fissava il tramonto, seduto sotto la veranda. Di fianco il fucile. Dalla grande quercia si alzarono in volo sette corvi: li seguì con lo sguardo e li vide dirigersi verso la casa. Iniziarono a descrivere ampie circonferenze, proprio sopra la sua testa: ne descrissero sette prima di allontanarsi.
In lontananza, in più punti, colonne di fumo si stavano innalzando dai campi di grano, ormai maturo.