Paolo sarebbe voluto scappare da quel salottino e si chiese ancora una volta perché, alla fine, aveva ceduto alle insistenze di sua moglie, tanto da acconsentire alla sua richiesta. Per esasperazione, si rispose; e per sfinimento; e perché non aveva le palle. A forza di sentirselo dire quasi gli veniva da credere che fosse vero. Sorrise amaramente pensando che Lisa aveva ragione quando gli rinfacciava d’essere uno “smidollato”, altrimenti non sarebbe stato lì.
L’odore di chiuso mescolato a quello di minestra andata male, la semioscurità, l’ammasso incredibile di mobili rendevano l’ambiente soffocante, quasi claustrofobico, ma, ormai, era dentro e la vecchia che l’aveva accolto all’ingresso se n’era andata.
La poltroncina dove era seduto –la vecchia gliel’aveva indicata semplicemente sollevando il braccio prima di andarsene ciabattando e bofonchiando un “aspetti lì” detto con tono sgraziato- era scomoda, bassa e stretta. La stoffa che la ricopriva era lisa e strappata in più punti; la sporcizia che si era depositata negli anni lasciava solamente immaginare il colore originale. Paolo rifletté che doveva essere stato un bel rosa antico. Come pure lo doveva essere la tappezzeria, ora di un colore indefinito.
I mobili di legno scuro, quasi nero, erano massicci e ingombranti. Tra la credenza, la libreria, il divano, le due poltrone e l’enorme scrivania quasi mancava lo spazio necessario per muoversi. Paolo si portò una mano alla gola per attenuare l’impressione di soffocamento e provò a guardare verso l’unica finestra.
I mobili, cristo! Era lì per colpa di stupidissimi mobili.
Anna, la vicina di casa, si era fatta la cucina nuova. Lisa aveva trascorso l’intera mattinata nascosta dietro le tendine della finestra a spiare l’andirivieni degli operai: dal furgone parcheggiato sulla strada fino all’ingresso della villetta per scaricare i mobili nuovi e viceversa per portare via quelli vecchi. Aveva accompagnato ogni andata dal furgone alla casa con “oh” di meraviglia e ogni ritorno con altrettanti “oh” di stupore:
“Ma che fanno? Buttano via quel mobiletto? E’ ancora bellissimo! Dio mio, che spreconi!”
Alla fine della giornata, però, a forza di rimuginarci su, aveva cambiato poco alla volta il parere sui vicini: no, non erano degli spreconi e il marito di Anna non era uno sbruffone. Un uomo che cambia l’arredamento non è un uomo che ha cura della propria casa? Che ha una dignità? E che è pure innamorato della propria moglie? Quel particolare glielo aveva detto Anna, nel tardo pomeriggio, quando l’aveva invitata ad andare a casa sua per vedere “le novità”.
“Mio marito ha voluto cambiare a tutti i costi la cucina. Io non volevo: quella vecchia non era così brutta, ma lui ha insistito. Sai cosa mi ha detto?”.
Lisa aveva scosso la testa. Anna, allora, aveva ripreso a parlare:
“Tu ti meriti questo e altro! Ecco che cosa mi ha detto”.
Poi si era messa a mostrarle ogni particolare: il grande frigorifero giallo con una ghiacciaia comodissima, la cucina a gas con cinque fornelli, i mobiletti spaziosi dalle maniglie rotonde e luccicanti, il tavolo allungabile. “Ci possiamo stare in otto” aveva precisato, con una punta di orgoglio, Anna.
Quando Paolo era rientrato alla sera, Lisa l’aveva assalito:
“Anna si è comprata la cucina nuova. Già, ma suo marito sa fare gli affari oltre che essere un vero signore…”
Poi aveva taciuto e aveva sbattuto con forza la pentola che aveva in mano sul tavolo tanto che alcuni piselli erano saltati fuori rimbalzando allegramente sul tavolo.
“Lo sai anche tu che quello che chiami ‹vero signore› fa l’allibratore nelle corse clandestine… Un giorno o l’altro lo beccheranno, vedrai!”
“E che c’entra? So solo che è così innamorato di Anna che le ha regalato una cucina nuova. Guarda la nostra! La vedi? Fa schifo! Il frigorifero è… è…”
Aveva lasciato la frase in sospeso non trovando la parola adatta. Dopo un attimo aveva ripreso a parlare rabbiosamente: “E’ semplicemente ridicolo, ecco! E il tavolo è tutto rovinato! Mi vergogno persino ad invitare le mie amiche per prendere un caffè.”
Paolo si era guardato attorno.
Il frigorifero, basso e panciuto, svolgeva perfettamente le sue funzioni nonostante qualche ammaccatura. Al momento dell’acquisto l’avevano trovato delizioso e buffo e, ora, non riusciva a capire perché, improvvisamente, per Lisa era diventato “ridicolo”. Posò, poi, lo sguardo sul ripiano di fòrmica verde del tavolo: vi erano alcune graffiature e, in un angolo, il segno di una bruciatura lasciata dal fondo di una pentola calda. Paolo non si ricordava nemmeno più da quanto tempo c’era quel segno indelebile, però, oramai, faceva parte della casa e quella bruciatura gialla gli aveva sempre ricordato, per via della sua forma particolare, un quarto di luna, esattamente un quarto di luna che si specchiava nelle acque verdi di uno stagno: a lui piaceva vedere quello, ma evidentemente Lisa non riusciva a vedere altro che uno sfregio.
Paolo sospirò.
“E’ un brutto periodo. Appena riceverò una promozione cambieremo i mobili anche noi”
“Sono anni che mi dici le stesse cose. Sono stufa di sentirmele ripetere…”
Paolo, a quel punto, per non litigare era uscito di casa, sbattendo la porta. Era andato al bar in fondo alla strada e aveva bevuto una birra dietro l’altra. Al diavolo Lisa, la cucina e i soldi! Lavorava come un dannato dal mattino alla sera e non era colpa sua se la paga gli permetteva appena di sopravvivere. C’erano ancora le rate dell’auto da pagare e aveva urgente bisogno di comprare un tosaerba: ultimamente il vicino di casa faceva un sacco di storie quando andava a chiedergli l’attrezzo in prestito. Non lo sopportava perché sentiva che ci provava gusto ad umiliarlo. Invece doveva stare zitto e rimangiarsi le risposte che gli venivano in mente.
Erano sempre le soliti frasi:
“Paolo, ma quando ti decidi a comprartene uno?”
“Paolo, vedi di riportarmelo indietro subito”
“Paolo, non è che non mi fidi di te, ma, sarei più tranquillo se rimanesse nel mio garage”
“Paolo, mi raccomando, stai attento che non si surriscaldi: l’ultima volta che me lo hai riportato ho sentito un rumorino strano”
Pensò che se c’era una persona che odiava era proprio quell’uomo.
Era tornato a casa a notte fonda, così ubriaco da far fatica a reggersi in piedi. Appena entrato in cucina aveva sferrato un pugno ad uno dei mobiletti, poi si era buttato sul divano addormentandosi di colpo. Il mattino successivo si era svegliato con una forte emicrania e con il corpo indolenzito per la scomoda posizione; si era messo lentamente a sedere cercando di ricordare cos’era accaduto: la vistosa ammaccatura sullo sportello di un pensile gli fece tornare immediatamente alla mente la discussione della sera precedente. Si accarezzò con delicatezza le nocche della mano destra.
Con il passare dei giorni Lisa aveva continuato a insistere: a colazione, a cena, alla sera nel letto. Aveva alternato ricatti (“Se non ti decidi a sistemare una volta per tutte questa catapecchia in cui mi fai vivere giuro che me ne vado”) a moine (“Amore, sono sicura che mi farai contenta! Ti conosco e sono pronta a scommettere che vuoi farmi una sorpresa, vero?”) a disprezzo (“Sei un incapace e un fallito e sono anni che me lo dimostri, giorno dopo giorno”).
Non c’era stato verso di farla ragionare. Paolo aveva provato a spiegarle, a promettere, ad alzare la voce, ad arrabbiarsi, ma inutilmente.
Alla fine aveva ceduto e per questo, ora, si trovava nel salotto dello strozzino del quartiere. Era stata sua moglie ad indicarglielo: anzi, glielo aveva ripetuto più volte.
“I Rovati si sono comprati la televisione a colori grazie a lui. Me lo hanno detto loro, proprio l’altro giorno. Basta che uno si presenti, spieghi il motivo per cui ha bisogno di un prestito, firmi una carta e se ne esce con i soldi. Semplice, no?”
“Bisogna anche restituirli prima o poi quei soldi. A questo ci hai pensato?”
“I Rovati mi hanno assicurato che quello non è un problema. Quel tizio non mette fretta.”
“Non metterà fretta perché così intasca più soldi di interessi.”
All’ennesimo litigio Paolo si era deciso: piuttosto che rientrare a casa e subire le lamentele senza fine di Lisa e le sue recriminazioni avrebbe provato ad ottenere un prestito.
Nella pausa pranzo era uscito dall’edificio di import-export dove lavorava come magazziniere e aveva preso la strada che fiancheggiava il fiume. Aveva guardato con tristezza mista a desiderio la panchina sotto i salici, proprio sul bordo del fiume, dove normalmente sedeva mangiando un panino e bevendo una birra scura nell’ora di libertà, ma aveva proseguito con passo deciso verso la casa dello strozzino. Sapeva perfettamente dove si trovava perché già da diversi giorni aveva preso l’abitudine di passarci davanti ripromettendosi di fermarsi: “Domani entro e mi informo così Lisa smette di rompermi le scatole” si proponeva ogni volta, senza però mai farlo.
Aveva camminato in fretta come una persona che sa perfettamente dove deve andare, cercando di non pensare all’incontro per evitare il rischio di cambiare idea all’ultimo momento. Era arrivato trafelato davanti a quella casa dalle persiane chiuse e dall’aspetto malconcio: aveva suonato il campanello e la vecchia vestita di nero l’aveva condotto in quell’opprimente salotto dove ora si trovava.
Paolo consultò l’orologio. Era già da dieci minuti che aspettava: si agitò sulla poltrona e pensò nervosamente che quel giorno si sarebbe dovuto fermare al lavoro oltre al solito orario per recuperare l’inevitabile ritardo.
Un rumore di passi interruppe i suoi pensieri: sulla porta apparve un uomo alto e magro, dalle spalle ricurve e completamente calvo. Portava dei pantaloni scuri, una giacca da camera blu con dei disegni arabescati, una camicia bianca e, al collo, una cravatta nera dal nodo striminzito.
“Stavo pranzando…” disse a mo’ di saluto e di spiegazione.
Ignorò la mano tesa di Paolo e andò a sedersi dietro alla scrivania.
L’uomo parlava a scatti e le sue frasi –brevissime- erano scandite dal continuo tambureggiare delle dita sul ripiano di legno; mostrava segni di insofferenza se le risposte di Paolo non erano altrettanto coincise annuendo vistosamente come a far intendere che aveva capito il concetto e che era inutile sprecare altre parole a quel proposito e sollevando un po’ la mano.
L’interrogatorio durò pochi minuti: l’uomo si informò della sua attività lavorativa, di eventuali possedimenti, della cifra di denaro richiesta e del motivo per cui gli serviva. Gli chiese anche da chi aveva saputo il suo nome. Paolo avrebbe voluto rispondere “Da mia moglie”, poi si ricordò che Lisa le aveva parlato dei Rovati e ritenne più opportuno dare il loro nome. Quasi senza rendersene conto Paolo decise, all’ultimo istante, di chiedere più soldi di quanti non gli servissero per cambiare la cucina. “Mentre ci sono tanto vale che ne approfitti: se me li dà mi compro anche il tosaerba” pensò preso da una strana eccitazione.
Alla fine lo strozzino disse: “Torni tra due giorni, a quest’ora. Le farò sapere” e, senza salutarlo, si mise a sfogliare delle carte che aveva sulla scrivania indicando chiaramente che considerava il colloquio concluso.
Paolo si era presentato puntuale all’appuntamento fissato. Non aveva detto nulla a Lisa per evitare inutili discussioni, ma tra sé e sé aveva fatto mille congetture. Era evidente che lo strozzino si era preso del tempo per raccogliere informazioni sul suo conto e per verificare la veridicità delle sue parole. Probabilmente aveva parlato con i Rovati e chissà con chi altri. Paolo non riusciva a prevedere l’esito della sua richiesta: a volte propendeva per il sì (in fondo uno strozzino non presta denaro per professione?), a volte per il no (perché mai avrebbe dovuto prestare denaro proprio a lui che, con quello stipendio ridicolo e le rate dell’auto ancora da pagare, non poteva offrire nessuna garanzia?).
Ad accoglierlo fu di nuovo la vecchia e, nell’aria, lo stesso odore di minestra andata male. A differenza della prima volta, però, non lo accompagnò nel salotto, ma glielo indicò con un semplice cenno del capo.
Lo strozzino era già seduto dietro alla scrivania.
“Si sieda.”
L’uomo, intanto, aveva tirato fuori un foglio da una cartellina e si era messo a leggere: si trattava di una specie di scrittura privata in cui Paolo si impegnava a restituire l’intera cifra entro un anno con un interesse del venticinque per cento o entro due anni con un interesse del trentacinque per cento.
“Firma?”
Lo strozzino aveva posato il foglio sulla scrivania rivolto verso Paolo e aveva messo la penna sopra, poi si era appoggiato allo schienale della poltrona ed era rimasto in silenzio. Paolo avrebbe voluto avere del tempo per pensarci perché tutti i ragionamenti fatti in quei due giorni erano stati fatti in termini astratti, come se la questione non fosse reale o non lo riguardasse personalmente. Rimase così in silenzio, fissando il foglio.
“Allora?”
Gli sembrò di sentire la voce stridula di Lisa: “Firmalo, stupido! Che aspetti?”
Prese la penna e firmò. Lo strozzino ritirò il foglio, aprì un cassetto della scrivania ed estrasse una mazzetta di denaro. Contò velocemente i soldi con l’abilità di un cassiere e li mise sulla scrivania, proprio davanti a Paolo, senza, però, togliere la mano di sopra.
“Un’ultima cosa: non pensi di fare il furbo. Per sua informazione sappia che con le buone o con le cattive sono sempre rientrato a casa dei miei prestiti. Ha capito bene?”
La frase –la più lunga tra tutte quelle dette nei due colloqui- era stata pronunciata sottovoce e con un tono di calma minaccia.
Paolo aveva annuito. Solamente a quel punto lo strozzino aveva tolto la mano dalla mazzetta e gli aveva fatto un cenno con la testa per indicare che poteva prendere il denaro.
Era uscito quasi di corsa dalla casa: il senso di soffocamento che aveva provato in quel salotto a poco a poco si attenuò e il cuore riprese a battere normalmente. Prese a camminare lentamente tenendo una mano nella tasca del giubbotto e, stretto nel pugno, il rotolo di banconote.
Dopo la semioscurità e l’odore di chiuso di quel salottino, Paolo trovò accecante il pallido sole primaverile e profumata l’aria del viale. Non se la sentiva di tornare subito al magazzino perché aveva bisogno di tempo per riordinare le idee: aveva in tasca un mucchio di soldi e, di certo, si era messo nei pasticci. Pensò a Lisa e alla faccia che avrebbe fatto nel vedere tutto quel denaro e immaginò i suoi gridolini di meraviglia, la bocca spalancata per lo stupore, le dita avide e ingiallite dalla nicotina mentre arraffavano con cupidigia i soldi. La conosceva bene: passato il primo momento d’euforia, avrebbe sostenuto che se fosse stato un vero uomo avrebbe potuto farsene dare di più, molti di più; poi si sarebbe messa a fare febbrilmente i conti e, allo stesso tempo, a recriminare per tutto quello che avrebbe dovuto rinunciare. In quel preciso istante si rese conto d’aver contratto un debito enorme e inutile. Sentì improvvisamente le gambe cedere e si appoggiò al muro di una casa: rimase fermo in quella posizione per qualche minuto, con gli occhi chiusi, cercando di calmarsi. Quando li riaprì si accorse che, nel suo camminare senza meta, era giunto nei pressi della stazione centrale e, quasi senza rendersene conto, entrò nell’atrio. La gente gli passava accanto camminando velocemente e urtandolo: alcuni trascinavano ingombranti bagagli, altri si affrettavano verso i binari reggendo in mano piccole valigie o anche solo un giornale spiegazzato, mentre l’altoparlante annunciava senza sosta treni in arrivo e in partenza.
Paolo prese una banconota e si avvicinò alla biglietteria.
“Un biglietto di solo andata per il primo treno in partenza.”
L’uomo allo sportello alzò gli occhi e lo guardò con aria stupita, poi consultò il terminale e disse:
“Al binario sei, tra due minuti, parte il treno diretto a…”
Paolo non lo lasciò concludere:
“Seconda classe. Grazie.”
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Terzo posto al concorso letterario della città di Grazzanise indetto dalla rivista letteraria Il mulo e dall’associazione culturale Le Tre Grazie.
Il racconto, successivamente, è stato inserito in "Alloggio vista mare e altri racconti" di Cesarina Bo, edito da Excogita nel 2007.