(per gentile concessione di Giovanni Faraoni, autore della foto)
Nicola si abbottonò il cappotto e uscì di casa. S’incamminò per corso Giulio Cesare, in direzione del ponte Mosca. Camminava lentamente attento a schivare rifiuti, bottiglie vuote di birra, sacchetti unti lasciati a terra. Passò davanti a un capannello d’immigrati che fumavano e parlavano concitatamente in una lingua a lui sconosciuta; appoggiate a terra grosse buste di plastica piene di mercanzia che, di certo, avrebbero esposto più tardi al mercato del Balon.
A dire il vero era presto anche per Nicola, ma quella mattina era stato preso da una strana frenesia di uscire. Le altre domeniche scendeva per la consueta passeggiata verso le dieci o anche dopo.
Non aveva nessun impegno o orario da rispettare: viveva solo e poteva fare tutto quello che desiderava. Alla sua età, poi, non provava nemmeno l’impellente necessità di mangiare. A volte saltava il pranzo e si accontentava di un bicchiere di vino e due biscotti secchi al rientro a casa. Andare al mercato del Balon era un passatempo che non gli dispiaceva. Girava tra le bancarelle di cose vecchie spacciate per antiquariato, conosceva di vista tutti i venditori, la posizione dei loro banchetti, la qualità della merce esposta e si divertiva a guardare le persone affannarsi, a volte litigare, per portare a casa un pitale sbrecciato o un mazzo di chiavi arrugginite.
Quando era stanco della gente andava sul lungodora, sedeva su una panchina e guardava lo scorrere lento del fiume dalle acque limacciose e torbide senza pensare a nulla. Non amava vivere di ricordi e non aveva nulla che valesse la pena d’essere ricordato.
“Ogni cosa ha il suo tempo: a mio tempo ho avuto ogni cosa”. Si consolava così, pensando che la vita se l’era goduta –e non poco!- quando aveva l’età giusta per godersela: ora non era più il tempo e lasciava trascorrere i giorni tutti uguali, senza chiedere nulla e senza dare nulla.
Ben presto si ritrovò nel dedalo di viuzze dietro a Porta Palazzo, circondato dal solito vociare, dai richiami dei venditori per attirare l’attenzione dei possibili clienti, dalle battute scherzose che si lanciavano da una bancarella all’altra. La giornata era particolarmente fredda, il cielo uggioso e c’era poca gente per strada. Nicola tirò su il bavero del cappotto e infilò la mano libera in tasca, mentre con l’altra impugnava il bastone su cui si appoggiava per camminare. A causa della stupida fretta d’uscire che lo aveva preso, aveva dimenticato a casa i guanti e, ora, sentiva le dita gelate.
“Ehi, signore!” esclamò a voce alta una donna che stava seduta dietro ad un piccolo banchetto che Nicola non aveva mai visto prima di allora.
Gli venne istintivo di fermarsi. Dopo averle lanciato un’occhiata interrogativa prese nuovamente a camminare, quando la donna si rimise a parlare:
“Signore, dico a lei! Sì, proprio a lei con il cappotto blu e il bastone da passeggio!”
Il tono di voce era autoritario, ma, allo stesso tempo, accattivante. Era una donna enorme, infagottata dentro un pesante maglione e portava, ben calcato sulla testa, un berretto di lana rossa dal quale spuntavano delle ciocche di capelli dello stesso colore.
Sulla sua bancarella, ben allineate e distese, stavano bambole di tutte le forme e dimensioni: ce n’erano così tante da formare un grosso, ordinato mucchio a più strati.
“Mi scusi, ma proprio mentre lei passava qua davanti, una delle mie bimbe mi ha detto: “E’ lui il mio padrone! Proprio lui, quel signore anziano con il cappotto blu. Chiamalo! Non farlo andare via!”. Che ci vuole fare, le mie bimbe sono fatte così. Sembrano assenti e distratte, invece a loro non sfugge nulla e mi comandano a bacchetta. Ma io ci sono affezionata e non me la prendo. Aspetti che ora gliela cerco…”
Nicola guardò con attenzione la donna pensando che se non era matta era molto furba. La venditrice prese a frugare tra le bambole, spostandole con delicatezza. A quel punto, incuriosito, attese.
“Eccola!” e nel dire questo sollevò una grande bambola in porcellana, ancora in ottimo stato, con un vestitino a quadretti bianchi e rosa e ai piedi delle scarpe di plastica bianca. Il volto era paffuto con le labbra di color rosso vivo pronunciate e gli occhioni azzurri spalancati. I capelli, stopposi e biondi come la paglia, erano legati a coda di cavallo e fissati con un fermaglio. La bambola aveva un’aria imbronciata, quasi cattiva per via di una sottilissima crepa che partiva da una guancia e scendeva fino al collo.
“Questa è sua per soli…” si interruppe, guardò la bambola come se questa stesse per parlarle, poi terminò la frase: “… cinque euro.”
L’uomo rimase sorpreso: mentre la donna fissava la bambola, si era riproposto che, per quanto divertente e astuta fosse quella venditrice, non avrebbe sborsato più di cinque euro. Una bambola così valeva sicuramente cinque volte tanto, ma a lui non interessava proprio comprarla.
La donna si accorse del suo sguardo stupito, scoppiò a ridere e sottovoce gli confidò: “Me lo ha detto la mia bimba che lei non avrebbe pagato più di quella cifra: a loro non sfugge nulla, poi se riconoscono il proprio padrone diventano furbissime fanno di tutto pur di farsi prendere. Anche svendersi…”
Nicola scosse la testa e sorrise divertito. E, quasi senza sapere come, si ritrovò a pagare e ad allontanarsi con la bambola, la cui testa sporgeva dalla busta in cui la donna l’aveva riposta.
Mentre si dirigeva verso casa pensò che aveva fatto un affare: la bambola era bella e avrebbe fatto un figurone seduta sulla cassapanca dell’ingresso.
Alla sera, mentre si spogliava per andare a dormire, Nicola provò la strana sensazione d’essere osservato. Con circospezione, allora, si avvicinò alle finestre e, attraverso le imposte, guardò fuori. Abitava a piano terreno e non era raro che qualche sfaccendato di passaggio si fermasse e sbirciasse dentro casa: in quel momento non c’era nessuno. Controllò che la porta d’ingresso fosse chiusa, accese le luci nelle due stanze che costituivano il suo alloggio e si guardò attentamente intorno senza notare nulla di strano. Finalmente si coricò, ma quella fastidiosa sensazione gli rimase addosso fino a quando non riuscì prendere sonno.
Il mattino successivo, mentre si radeva chiuso nel bagno, sentì nuovamente uno sguardo indiscreto su di sé. Posò il rasoio sul lavabo e, cercando di non far rumore, si avvicinò alla porta: la spalancò di colpo e si affacciò nel piccolo corridoio senza trovare nessuno. L’orribile sensazione d’essere spiato lo perseguitò per tutto il giorno e non sparì nemmeno nei giorni successivi. Solamente quando usciva di casa provava sollievo, ma era sufficiente rimettere piede nel proprio alloggio per sentirsi osservato. Ed era uno sguardo cattivo, quello che sentiva costantemente su di sé. Nicola non provava paura, ma solo un profondo fastidio perché non ne capiva l’origine. Nella sua vita si era trovato più volte in situazioni difficili, a volte anche scabrose, ma non aveva mai avuto timore perché il “nemico” da combattere era sempre reale, definito, perfettamente identificabile.
Iniziò a spiare gli inquilini della casa per scoprire movimenti sospetti, tenne perennemente chiuse le imposte delle finestre che davano sulla strada, mise sottosopra il piccolo alloggio alla ricerca di un qualcosa, anche se non gli era ben chiaro cosa; alla fine ridusse drasticamente le uscite: il nemico era in casa e lì doveva restare per stanarlo.
Un giorno fece finta d’uscire: si vestì di tutto punto, prese il bastone, le chiavi di casa e si diresse verso la porta. Spense le luci –perennemente accese per via delle imposte chiuse- ed aprì la porta facendo rumore con le chiavi. La oltrepassò appena, poi, silenziosamente, rientrò richiudendola con un gran tonfo. Rimase immobile, in attesa. Passarono pochi minuti prima di sentire su di sé il solito sguardo, questa volta divertito e sfottente.
Nicola si impose di stare calmo. Dopo essersi tolto il cappotto si sedette sul divano e si mise a riflettere. Da quando era iniziata quell’ossessione? Con la mente ripercorse i giorni passati, uno alla volta. Si sforzò di rimanere concentrato e di ricordare ogni più piccolo particolare che potesse aiutarlo. Staccò il calendario dal muro e di fianco ad ogni data, andando a ritroso, segnò i pochi episodi degni di nota che gli erano successi negli ultimi tempi. Quando giunse alla data “domenica 16 gennaio” gli tornò subito alla mente la passeggiata domenicale, la visita al mercato del Balon che si teneva, appunto, alla seconda domenica del mese e l’acquisto -un po’ strano per com’era avvenuto- della bambola.
“E’ da quel giorno! Sì, ne sono sicuro: tutto è iniziato tutto dopo quel giorno…” si disse.
Si alzò e andò nell’ingresso a prendere la bambola. La portò con sé e l’appoggiò sul tavolo della cucina: iniziò ad esaminarla con attenzione. Le tolse le scarpette di plastica, le sollevò l’abito, scoprendo che sotto portava delle mutandine bianche con fiorellini rosa e gliele abbassò fino alle caviglie. Provò a scuoterla, a rivoltarla, ma non trovò nulla di particolare. Risistemò le mutandine e l’abito, poi rimase a fissarla. Ad un certo punto la sedette nel bel mezzo del tavolo, sotto il lampadario: il fermaglio a forma di stella che aveva sui capelli brillò e, all’improvviso, Nicola si ricordò di un altro fermaglio a forma di stella…
Era piena estate: un’altra estate così torrida proprio non me la ricordavo. Stavo viaggiando già da diverse ore attraverso campagne secche e polverose quando, all’improvviso, decisi di uscire dall’autostrada e di fermarmi nel primo paese che avessi incontrato: mi sentivo stanco, accaldato e avevo la gola asciutta. Inoltre, a ben pensarci, non avevo nessuna fretta di tornare a casa. Il viaggio era stato proficuo, nessun intoppo e il Capo si era mostrato soddisfatto della merce che gli avevo portato.
“Bravo ragazzo!” mi aveva detto nel consegnarmi il denaro pattuito. Facevo quel viaggio una volta al mese: contrabbandavo armi dalla Germania e le rivendevo a quell’uomo di cui conoscevo solamente il soprannome, Capo. Era sufficiente un viaggio al mese per garantirmi un notevole guadagno, una vita comoda e agiata, senza dovermi ammazzare di lavoro. Agli amici raccontavo di fare il rappresentante per una ditta tedesca e, in un certo qual senso, era vero.
Arrestai la macchina davanti ad un motel, alla periferia del paese. Il posto era squallido: aveva la forma tozza di un cubo di cemento e, sopra alla porta d’ingresso, un’insegna scolorita con su scritto “OASI”. Appena sceso fui assalito dal calore dell’asfalto che sembrava, quasi, stesse per liquefarsi. Entrato nel motel chiesi una camera per la notte e una birra ghiacciata; dopo una doccia mi gettai sul letto e mi addormentai. Mi svegliai che era ormai sera e decisi di uscire per fare due passi in paese. Doveva esserci la festa patronale perché nella piazza del centro c’erano giostre e baracconi, musica e luci. Al bar comprai una bottiglia di birra, poi, appoggiato ad una pianta, rimasi ad osservare il via vai della gente. Un gruppetto di ragazze, dagli abiti corti e scollati, facevano capannello proprio vicino a me. Ben presto mi accorsi d’essere oggetto delle loro attenzioni: colsi gli sguardi lanciati, le risatine, le frasi sussurrate. Non mi mossi, divertito dalla situazione. Ero abituato alle attenzioni del genere femminile: madre natura mi aveva fatto particolarmente bello, la faccia da bravo ragazzo e l’aria ingenua facevano il resto. Finita la birra, accesi una sigaretta e rimasi lì, ad offrirmi alla curiosità di quelle ragazzine.
Una di queste si staccò dal gruppo e mi si avvicinò. Non era particolarmente carina, ma aveva il fisico snello e belle labbra turgide. Notai gli sguardi di ammirazione mista ad invidia delle sue amiche e l’occhiata di superiorità che la ragazza lanciò loro per risposta.
“Ciao, sei nuovo di queste parti?”
Risposi di sì.
“Sei venuto per la festa?”
Dissi di no.
“Sei di passaggio?”
Di nuovo risposi di sì.
Mi divertivo a rispondere a monosillabi per vedere fino a che punto si sarebbe spinta.
“Ti va di venire a fare un giro con noi?”
“Non amo la confusione.”
La ragazza sorrise come se quella risposta fosse stata un complimento diretto a lei.
“E di fare un giro solo con me ti va?” chiese provocante.
“Perché no? Ma lontano dalla festa.”
La ragazza mi spiegò che, subito, non poteva lasciare le sua amiche, ma che verso l’una, a festa finita, ci saremmo potuti vedere. Annuii e le diedi appuntamento per quell’ora presso un incrocio, poco distante dal motel. Mi raccomandai di non dire niente a nessuno, per prudenza. La ragazza mi rassicurò che sarebbe stato “il nostro segreto”. A stento mi trattenni dal ridere per l’aria seria che aveva assunto.
Rientrai in albergo, scambiai due parole con il tipo seduto alla reception, poi mi feci dare le chiavi della camera assieme ad una bottiglia di whisky. Avevo deciso che per recarmi all’appuntamento sarei uscito direttamente dalla finestra -la mia camera si trovava a piano terra e dava sul retro dell’edificio- senza così essere visto dal portiere. Non mi piaceva mettermi in mostra inutilmente, regola, tra l’altro, utilissima anche per il mio mestiere.
Sdraiato sul letto, mentre una leggera brezza entrava dalla finestra, stappai la bottiglia e ne bevvi un lungo sorso per brindare alla mia fortuna: ero pieno di soldi e tra meno di un paio d’ore mi sarei divertito con una puttanella. Avevo tutti i motivi di questo mondo per festeggiare e, nuovamente, nell’oscurità della camera brindai.
La ragazza mi stava aspettando all’incrocio. L’aria era tiepida e il frinire delle cicale riempiva il silenzio della notte illuminata dalla luna piena. Ci scambiammo qualche banalità, poi l’afferrai per mano e ci allontanammo dalla strada principale.
“Dove andiamo?” mi chiese.
“Non preoccuparti e vieni dietro a me” risposi.
Attraversammo un campo, la feci ridere con delle sciocche battute, poi ci si sedemmo sotto ad una pianta, ai bordi di un canale.
Presi a baciarla con impeto: appoggiai le labbra sulle sue e le penetrai la bocca con la lingua. La ragazza stava immobile, appoggiata al tronco dell’albero, mentre, senza staccare la bocca da quella di lei, presi ad accarezzarle i seni, da sopra la maglietta. Poi insinuai la mano sotto la gonna, risalii lentamente lungo le cosce e indugiai sul bordo delle mutandine.
A quel punto si divincolò.
“No, fermati…”
“Fermati?”
“Fermati, per favore… Io non voglio…” balbettò la ragazza.
“Ah! Tu non vuoi! Prima mi provochi e poi cambi idea?”
“Io volevo solo conoscerti…”
“Eh no, mia cara puttanella, guarda che le cose non funzionano mica così!”
Ero fuori di me! Mi aveva preso in giro, quella stronza. Infilai con forza la mano in mezzo alle gambe della ragazza e le strappai le mutandine.
“Non fare la difficile, piccola stupida che non sei altro!” sibilai.
La ragazza prese a dibattersi, cercando di sfuggirmi. Si mise ad urlare.
Persi la testa. Eccitato dall’alcool e dalla provocazione, pensai che non potevo permettermi di lasciarla andare via.
“Adesso ti chiarisco le idee, stupida puttana!”
Mi misi in piedi, la sollevai con forza e, tenendogli le braccia ferme dietro la schiena con una mano, la trascinai sul bordo del canale dove la buttai nuovamente a terra con il capo a pochi centimetri dall’acqua. Mi misi seduto a cavalcioni sulla sua schiena, mentre con le mani spingevo la testa della ragazza sotto acqua. Di tanto in tanto la lasciavo riaffiorare, per poi spingerla nuovamente con maggiore violenza e tenerla sotto sempre più a lungo. Smisi solo quando sentii il corpo diventare inerte.
Rimasi a guardare i capelli biondi galleggiare sull’acqua mentre un raggio di luna, per un istante, fece brillare il fermaglio a forma di stella che la ragazza aveva sul capo. Mi calmai, tornai lucido e freddo: ero stato costretto ad agire così. Amen.
Feci scivolare il corpo nell’acqua: il canale era profondo e la corrente era forte. Sarebbero trascorsi molti giorni prima del ritrovamento del cadavere e io sarei già stato lontano. E, poi, chi avrebbero cercato? Un forestiero alto e bruno senza segni particolari? Senza contare che il documento che avevo lasciato al motel era falso.
Nicola riconobbe quel fermaglio a stella, ricoperto da strass. Gli ritornò alla mente quello che, dentro di sé, aveva definito “spiacevole incidente” e che, quando fu certo d’averla fatta franca, aveva completamente rimosso dalla memoria. Almeno fino a quel momento.
Non capiva com’era possibile una simile cosa, ma la coincidenza del fermaglio non poteva essere casuale. Decise che avrebbe dovuto sbarazzarsi di quella maledetta bambola, così come si era sbarazzato di quella stupida ragazza.
Prese la bambola e la mise dentro ad un sacchetto, poi si vestì ed uscì di casa portandola con sé. Percorse poche centinaia di metri e arrivò alla Dora: avrebbe fatto fare alla bambola la stessa fine della ragazza e se ne sarebbe liberato per sempre. Di entrambe.
Fu questione di un attimo, ma nel lanciare la bambola nel fiume Nicola perse l’equilibrio e finì nelle acque scure della Dora. Morì affogato sotto gli occhi di decine di passanti. Gli esperti della scientifica dissero che, in quelle condizioni, era praticamente impossibile salvarsi. Troppi i fattori contrari: il cappotto pesante, la temperatura fredda dell’acqua, l’età avanzata.
Interessante fu il commento di un testimone: “So che è una cosa da matti, ma vi giuro che ho avuto l’impressione che fosse la bambola a trascinare quel povero diavolo dentro al fiume”. Altri che avevano visto la scena annuirono imbarazzati.
Racconto tratto da “Alloggio vista mare” di Cesarina Bo pubblicato da ExCogita, 2007