“Un maledetto idiota… ecco cosa sono!”
Mi protesi con il busto in avanti cercando di riuscire ad intravedere qualcosa che non fosse nebbia o buio al di là del parabrezza dell’auto. Era novembre inoltrato e, nonostante fossero solo le cinque del pomeriggio, era già scuro. La pioggia battente sembrava uscire dai boschi ad ondate per riversarsi tutta sulla strada.
“Questa non è una strada: è un sentiero! Se incontro un’altra automobile voglio proprio vedere come faremo a passare.” Allora mi misi a ridere amaramente: “Impossibile che ci sia in giro un altro idiota come me!”
In effetti la strada si era fatta sempre più stretta ed era priva di un qualunque tipo di segnaletica che facilitasse la guida. Spensi con rabbia la radio: ormai, in mezzo a quelle montagne, era un continuo gracchiare e, soprattutto, volevo rimanere concentrato per non finire fuori strada. Guardai il contachilometri e mi resi conto di aver percorso una quindicina di chilometri da quando avevo letto l’indicazione del paese in cui mi dovevo recare. Sicuramente avevo sbagliato a qualche bivio: quel cartello lo dava a dieci chilometri ed io ne avevo fatti di più e di quel paese nemmeno l’ombra.
Se non avessi avuto la malaugurata idea di far visita ancora ad un possibile cliente in quel posto sperduto a quell’ora sarei stato tranquillo a casa, al caldo, sdraiato sul divano a guardare la televisione. Invece il giro era stato insoddisfacente e avevo sperato di riuscire a piazzare qualcosa nella ferramenta di quel paesino. Così, ora, mi trovavo nei pasticci. Per di più iniziavo a sentire pulsare le tempie: segno inconfondibile che stava per venirmi mal di testa.
Procedevo a passo d’uomo dandomi dello stupido in continuazione e cercando uno spiazzo per fare inversione e ritornarmene indietro quando intravidi una sagoma attraversare la strada e, d’istinto, frenai; il fondo, reso viscido dalla pioggia e dalle foglie che lo ricoprivano, mi fece perdere il controllo dell’auto che, dolcemente, iniziò a scivolare fino ad arrestarsi contro delle piante.
“Maledizione!”
Scesi e feci il giro attorno all’auto. Il danno non mi sembrava eccessivo perché l’auto si era solo adagiata contro le piante. Risalii in macchina, misi in moto e innestai la retromarcia. Le gomme iniziarono a girare a vuoto e nonostante le poderose accelerate non riuscii a spostarla neppure di un centimetro. Spensi il motore e mi sfogai dando una serie di pugni sul volante. Scesi imprecando e sbattendo con forza la portiera; provai a spingere l’auto, ma mi resi subito conto dell’inutilità dei miei sforzi: su quel terreno scivoloso e da solo non avrei combinato nulla. Inoltre, grazie alle accelerate di prima, le gomme si erano ancor di più affossate in quel pantano. Tornai a sedermi sconsolato al posto di guida e mi obbligai a rimanere freddo e a ragionare. Decisi di telefonare ad un mio amico e, sebbene mi spiacesse disturbarlo, gli avrei spiegato la situazione: avremmo preso qualche decisione insieme. Selezionai il suo nome sul cellulare e accostai il telefono all’orecchio, nell’attesa del segnale. Muto. Ripetei più volte l’operazione prima di rendermi conto che sul display era segnalata l’assoluta mancanza di campo.
“E ora?” mi chiesi a voce alta. Mi abbandonai contro il sedile e cercai di calmarmi. Di rimanere lì seduto per tutta la notte non ci pensavo neppure. Dovevo solo decidere se andare avanti o tornare indietro. Soppesai le due possibilità: tornare indietro significava percorrere a piedi almeno quindici chilometri prima di trovare un centro abitato; andare avanti era un’incognita. Avrei potuto trovare una casa anche dietro alla prima curva, come non trovarla neppure dopo mille. Decisi per un compromesso: sarei andato avanti per dieci minuti poi, se non avessi trovato nulla, sarei tornato indietro. Mi infilai l’impermeabile e guardai l’ora: 17.38.
“Bene”, mi dissi, “alle 17.48 torni indietro.”
Iniziai a camminare velocemente, cercando di aguzzare la vista. La pioggia era quasi cessata e anche la foschia sembrava diradarsi. Il buio non mi avrebbe aiutato, ma senza quella nebbiolina avevo qualche speranza in più di vedere eventuali case illuminate.
“17.45. Ancora tre minuti e poi torni indietro.” Parlavo a voce alta, da solo, per infondermi sicurezza e per dare maggior peso ai miei propositi. Un vizio, questo, che avevo sin da bambino e che nei momenti più difficili riaffiorava. Stavo per ricontrollare l’ora quando intravidi, ad una trentina di metri, una piccola luce. Dentro di me esultai: “Visto? Hai fatto bene a fare questa scelta! Finalmente un po’ di fortuna!” Percorsi quasi correndo i metri che mi separavano da quella modesta casa che, ora, potevo vedere distintamente e rischiai più volte di scivolare sul prato umido. Si trattava di un edificio basso e quadrato dall’aspetto poco curato a giudicare dai muri scrostati e da una serie di attrezzi accatastati disordinatamente ai lati della porta d’ingresso tanto da rendere difficile avvicinarsi. Ma la cosa più importante per me era quella tenue e rassicurante luce che usciva da una delle finestre.
Mi fermai un attimo, ripresi fiato e mentalmente mi augurai che gli abitanti di quella casa potessero aiutarmi. Dopo essermi riassettato il soprabito e passato una mano tra i capelli bagnati per rendermi presentabile, bussai. Mi venne ad aprire una donna anziana, assai bassa di statura, con i capelli raccolti alla nuca in una sorta di coda di cavallo e vestita con un grembiule nero, liso e in alcuni punti strappato. Rimasi subito colpito dal contrasto tra l’aria dimessa della donna e lo sguardo con cui mi accolse. In quegli occhi non si leggeva diffidenza, né paura, né sorpresa: era uno sguardo acuto, quasi sfrontato. Alzando leggermente il capo mi fissò e rimase in attesa, in silenzio. Le spiegai dell’incidente, del bisogno di aiuto o, almeno, di avere la possibilità di telefonare.
Finalmente si decise a parlare. Si spostò di lato dicendomi: “Venga avanti, giovanotto. Si accomodi.”
Ringraziai e la seguii per il corridoio fino a giungere nella stanza illuminata. Si trattava della cucina: un piccolo locale con le pareti annerite dal fumo di una grossa stufa che scoppiettava allegramente diffondendo un piacevole calore. Mi guardai intorno: l’arredamento era costituito da un unico mobile, un lavandino, un tavolo e un paio di sedie spaiate. Quello che mi colpì fu, però, un grande crocefisso appeso nel bel mezzo di una parete; un crocefisso come quelli che si vedono nelle chiese. La donna ordinò di sedermi e, senza dire altro, prese dall’armadio un bicchiere e una bottiglia di vino. Dopo averlo riempito me lo mise davanti e mi disse: “Beva”. Lo presi e bevetti avidamente.
“Come ha detto di chiamarsi?”
“Maurizio Lecis.”
Mi sentivo imbarazzato sotto lo sguardo di quella donna. Forse per via del calore o per quel vino forte dal sapore amaro o per il comportamento strano della padrona di casa o per tutti questi motivi insieme, mi sentivo terribilmente a disagio.
“Signora, non voglio assolutamente recarle fastidio: se mi fa fare una telefonata tolgo subito il disturbo.”
Mentre parlavo la donna aveva aperto un cassetto del mobile e tirato fuori un libro che, con tutta evidenza, era stato letto e sfogliato tantissime volte.
“Non ho il telefono.”
Posò il libro sul tavolo e si sedette. Lessi il titolo “Vite dei Santi e dei Beati”: la scritta in oro luccicava sulla copertina di pelle rossa.
“Allora se non ha il telefono, signora, io vado e grazie per il vino: molto buono.”
Feci per alzarmi quando lei, senza sollevare gli occhi dal libro che stava sfogliando, disse: “Stia lì! Quand’è il suo onomastico? Lo sa?”
Rimasi per un attimo interdetto. “Il ventidue settembre, credo. E, ora mi scusi, ma devo proprio andare.”
“Bimba!”, esclamò con un tono di voce leggermente più alto. Pensai che quella donna era pazza e mi alzai in piedi, deciso ad andarmene al più presto. Proprio mentre mi stavo avvicinando alla porta entrò un cane enorme. Non avevo mai visto in vita mia un cane di quelle dimensioni: sembrava quasi un vitello. Il pelo era nero e lungo tanto che gli ricopriva completamente gli occhi. L’unica cosa che percepii nettamente di quel muso fu il biancore dei denti; all’orecchio mi giunse un ringhiare feroce. Indietreggiai fino a sbattere contro la sedia da cui mi ero appena alzato. Intanto Bimba continuava ad avvicinarsi pericolosamente a me.
“Si sieda, le ho detto.”
Obbedii e il cane smise immediatamente di ringhiare accovacciandosi tra me e la sua padrona.
“Brava Bimba! Allora vediamo…”
La donna si comportava come se non ci fossi. Sfogliava lentamente il libro in un’attenta ricerca.
“Dunque… i santi tra San Giovanni e San Giacomo ce li ho quasi tutti…” Nel dire questo annuiva soddisfatta e mi indicava con il dito delle croci nere, disegnate a mano, nell’angolo in alto a destra delle pagine in questione.
“Lei conosce le vite dei santi?”
Balbettai un “no”.
“Molto male, giovanotto. Sapesse come sono interessanti!”
Rimase un attimo in silenzio, poi riprese a sfogliare rapidamente il libro.
“San Casimiro, ad esempio. Si festeggia il quattro marzo e si invoca contro i pensieri impuri, per mantenere la castità e anche contro i raffreddori. Sa che quello era un principe? Bellissimo e corteggiato, ma non ebbe mai il minimo cedimento e rifiutò persino la figlia di un re. Peccato che lei non si chiami Casimiro… Già, un vero peccato: Casimiro mi manca.”
Rimase in silenzio un attimo e poi continuò:
“Al giorno d’oggi usano sempre e solo gli stessi nomi: Roberto, Paolo, Giovanni, Matteo… È quasi impossibile incontrare dei Callisto o Delfina o anche solo un Giustiniano!”
Approfittai di quel momento di pausa per dire: “Ha ragione, signora, si usano sempre gli stessi nomi. Ora, però, mi scusi, ma devo proprio andare.” Avevo appena terminato la frase e mosso le gambe nell’atto di alzarmi che, subito, Bimba mi mostrò i suoi denti e iniziò a ringhiare sommessamente.
Mi lasciai ricadere sulla sedia e il cane si acquietò all’istante. Mi misi freneticamente a pensare a come uscire da quella strana situazione in cui mi ero cacciato. Che quella donna fosse pazza era evidente: disperavo di dover sentire tutte le storie dei santi prima d’essere lasciato libero. “Pazzesco! Sono in ostaggio di una vecchia matta e di un cane!”
La donna quasi non si accorse dell’interruzione presa com’era a leggere il libro.
“Allora mi ha detto che si chiama Maurizio e che l’onomastico è il ventidue settembre: vediamo un po’…”
Osservai, quasi ipnotizzato, quella donna che con il capo chino si portava l’indice alla bocca, lo bagnava abbondantemente, poi voltava una pagina dopo l’altra, completamente assorta dalla ricerca.
“Signora, scusi, se potesse tenere il cane io tornerei alla mia auto.”
“Stia zitto, per favore! Così fa perdere tempo a me e a lei. Bimba, poi, non ama essere legata o trattenuta.” In effetti notai che non portava il collare.
Un silenzio innaturale scese nella stanza: si udivano solo il crepitio della legna che bruciava e il fruscio delle pagine voltate. Il calore, ad un tratto, mi sembrò insopportabile e iniziai a sbottonarmi l’impermeabile. A quel movimento Bimba sollevò la sua grossa testa, mi guardò per un istante, poi, tranquillizzata dal fatto che rimanevo seduto, tornò ad accucciarsi.
“Trovato! Sì, proprio il ventidue settembre: San Maurizio. Si invoca contro il demonio e la gotta.”
“Non soffro di gotta” dissi con un sorriso cercando di sdrammatizzare la situazione.
La donna continuò come se non avessi parlato.
“Capitano di una legione tebea che si rifiutò di andare a perseguitare dei cristiani in Gallia e per questo fu martirizzato assieme ad un centinaio di suoi soldati. Mi piacciono i martiri… sì, tra tutti, sono quelli che prediligo.”
Rimasi zitto non sapendo bene cosa commentare.
“Mi manca. San Maurizio mi manca. Vede che non c’è nessuna croce disegnata?”
“Scusi, ma cosa vuol dire ‘mi manca’?”
“Che sbadata! Non le ho spiegato nulla. Se mi segue, giovanotto, le farò capire cosa intendo dire.”
Si alzò e io la imitai. Immediatamente il cane si drizzò e guardò la sua padrona con aria interrogativa: “Vieni, Bimba. Tranquilla!”
Pensai che tra non molto sarei potuto finalmente uscire da quella casa: in fondo quella donna desiderava solo spiegarmi quanto le stava a cuore. Non era tutta a posto, questo era fuor di dubbio, ma vivere da sola in mezzo alle montagne non l’aiutava di certo. Chissà da quanto tempo non aveva occasione di parlare con un essere umano!
“Ora che ha trovato me per fare due parole non mi lascerà andare fino a quando non sarà soddisfatta…” conclusi sospirando.
Nel frattempo la donna aveva aperto un cassetto e preso un grosso mazzo di chiavi; uscì dalla stanza invitandomi con un cenno del capo a seguirla. Dietro di me si accodò Bimba. Attraversammo il corridoio e giungemmo ad una porta. La donna prese ad armeggiare con le chiavi prima di riuscire ad aprirla. Scendemmo per delle scale ripide e mal illuminate. Al fondo c’era un’altra porta, anch’essa chiusa chiave e con tanto di catenaccio provvisto di un grande lucchetto. Mi stavo chiedendo cosa mai potesse esserci in quella cantina di così prezioso da essere tenuto sotto chiave: tra poco l’avrei scoperto. A quel punto ero incuriosito.
Appena la donna aprì la porta venni investito da un getto di aria umida e fresca. Un odore di terra e di chiuso mi assalì: in effetti la pavimentazione di quel locale –che doveva estendersi quasi quanto l’intera casa- era di terra battuta e i muri di pietra trasudavano di umidità. Al nostro arrivo un grosso topo fuggì disturbato, passandoci quasi sui piedi.
“Maledetti topi! Dovrò rimettere le trappole…”. Poi rivolgendosi a me disse: “Mi segua.”
Accatastati alla parete notai degli attrezzi agricoli arrugginiti e, evidentemente, in disuso; sul lato opposto un grosso tavolo di legno dalla superficie macchiata e piena di tagli. Sopra al tavolo vi erano appese delle accette e delle asce di diverse dimensioni e in buono stato. Pensai che le usasse con regolarità per procurarsi la legna per la stufa.
Nella parete di fronte a noi vi era un’apertura. La donna vi si diresse, sostò un attimo prima di entrare come in raccoglimento, si fece il segno della croce, poi si rivolse a me e facendomi segno di tacere mosse leggermente il capo per indicarmi che dovevo seguirla.
Non riuscii a trattenere un moto di repulsione: davanti a me, ben allineati su diversi scaffali che rivestivano completamente le pareti di quella stanza, una serie di teschi e, sotto ad ognuno di essi, un biglietto con sopra scritto un nome.
San Giovanni, Sant’Agnese, Santa Rita, San Pietro…
La donna si mise ad osservarli: gli occhi le brillavano per la felicità.
Sussurrando mi disse:
“Tanti anni fa sono stata in una chiesa e ho visto, proprio sotto l’altare, le ossa di un santo…”
Ero come impietrito e non riuscii dire una parola. Il mio cervello lavorava febbrilmente alla ricerca di una via d’uscita.
“Vede questo?” e con l’indice mi indicò un teschio.
“Una donnina simpatica e gentile. È successo a settembre. Stava andando a funghi quando si è persa, così è venuta da me per cercare aiuto. Si chiamava Rebecca. Non mi è sembrato vero! Sa, non sono nomi usuali: non ho neppure dovuto consultare il libro. Ero certa che mi mancasse così come appunto mi manca San Maurizio.”
Mi voltai di scatto e presi a correre verso le scale. Sentii la voce della donna ad urlare con tono secco: “Prendilo, Bimba!”
Venni scaraventato a terra e sentii sul viso il fiato caldo del cane. Bimba mi era sopra con le sue enormi zampe e con il muso a pochi centimetri dalla mia faccia.
“Tienilo lì, Bimba!”
Rimasi fermo, immobilizzato dalla paura. Sentii la donna allontanarsi per le scale. Dopo qualche istante provai a muovermi, distendendo le gambe lentamente. Ad ogni piccolo movimento, però, il cane aumentava la pressione delle zampe sul mio corpo e avvicinava il suo muso alla mia faccia, ringhiando e mostrando i denti. Desistetti quasi subito. Dopo un tempo interminabile sentii i passi della donna rimbombare in quella cantina; poi la sua voce.
“Niente da fare, Bimba. Su quel libro non c’è descritta la fine di San Maurizio. Mi sa che dovrò arrangiarmi.”
E nel dire questo la sentii armeggiare con le asce appese al muro.
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Vincitore del concorso letterario “Una breve storia per la fine di ottobre” indetto dalla Bottega delle Arti di Arezzo