Calciai forte. Di punta. Poi, chiusi gli occhi.
Mi rividi bambino nel cortile di casa con il pallone tra i piedi mentre, instancabile, correvo, dribblavo avversari fantasma, puntavo a rete e…goaaallll: il pallone andava rumorosamente a colpire il vecchio portone di ferro facendolo tremare. All’ennesimo tiro usciva mia madre sul balcone: “Basta, Giovanni! Smettila! Mi fai venire matta… Piuttosto vieni a fare i compiti o vai aiutare tuo padre, ma smettila di tirare pallonate al cancello: prima o poi verrà giù…”
Avevo tirato in modo istintivo, col sinistro, senza pensare a nulla, senza guardare se c’erano compagni smarcati in mezzo all’area. Il campo era fradicio di pioggia e, dopo il tiro, iniziai a scivolare a terra, come a rallentatore. Con gli occhi chiusi cercai di immaginare la traiettoria del tiro: il pallone si era sicuramente alzato: avevo fatto in tempo a vedere una zolla di terreno fangoso staccarsi.
Più di vent’anni passati a correre nei campi di periferia. Un operaio del pallone: questa era l’etichetta che mi avevano affibbiato, sin dai primi campionati disputati quando, ancora ragazzino, sognavo di giocare in una grande squadra.
Per via del fisico robusto mi avevano sempre piazzato in difesa con l’ordine perentorio di non rischiare. Ne avevo cambiati tanti di mister e tutti a dirmi: “Piuttosto buttala in tribuna, ma non tenerti la palla”. Agli inizi quella frase mi faceva male dentro, poi, come per tutte le cose della vita, mi ci ero abituato.
Stavolta, però, la palla l’avevo tenuta. L’avevo strappata ad un’attaccante e mi ero messo a correre verso la porta degli avversari. Era la mia ultima partita da professionista e, per una volta, volevo provarci proprio come facevo da bambino quando attraversavo tutto il cortile per andare a fare goal.
Percepivo la fastidiosa sensazione di bagnato e, nello stesso tempo, sentivo il buon odore dell’erba, così vicina al mio volto. Immaginai che il pallone avesse, ormai, raggiunto il punto più alto della sua traiettoria: ora sarebbe sceso finendo di descrivere l’elegante parabola.
In quel momento pensai che non c’era mai stato un coro per me: per gli attaccanti sì e, talvolta, anche per il portiere, ma mai per me. Al massimo una pacca sulle spalle negli spogliatoi da parte dei compagni.
“Giovanni, che ci vuoi fare? È così. È che il tuo lavoro non si vede, ma non prendertela. Mica sei un bambino! E poi, che diamine, servono anche i difensori, quelli che spazzano l’area, che distruggono il gioco, quelli rudi come te…”.
Credevano di consolarmi. Forse lo dicevano in buona fede. Forse loro non avevano mai sognato oppure si erano già dimenticati. O, forse, pensavano che io non avessi sogni.
Aprii gli occhi e vidi il cielo carico di nuvole. “Mio Dio, ti prego, fa che entri: ti chiedo solo questo…”
Guardai verso la porta appena in tempo per vedere il pallone sfiorare la traversa e posarsi in fondo alla rete.
Mi alzai, fissai ancora per un attimo quel pallone, prima di essere travolto dall’abbraccio dei miei compagni.
Poi, lentamente, uscii dal campo.