Amava quella scrivania. Ogni giorno, accarezzava con gli occhi il lucido vetro doppio, il piano di mogano, le gambe tornite con le piccole cariatidi ed il fior di loto. Toccandola poi, provava sensazioni fortissime, come sfiorando delicatamente la pelle profumata ed esotica di una donna sensuale, misteriosa ed elegante. Rispetto alla donna, la scrivania aveva degli enormi vantaggi, a suo avviso: non parlava che ad un animo sensibile, portava sempre il profumo che lui gradiva, non c’era il rischio che un giorno sapesse, per malaccortezza o frettolosità, di deodorante comprato in farmacia, o peggio di saponetta economica. Poi era solida, robusta e simbolica: l’immagine stessa del potere. Fedele, e questo non era sempre vero con le donne: la lasciava la sera, e la ritrovava uguale la mattina, al solito posto, forse solo un pelino di polvere in più, ma a quello si poteva rimediare, lasciando un bigliettino a penzolare dal fermacarte, un bigliettino azzurro, in segno di richiesta di pulizia urgente. Inoltre, gli dava sicurezza, ed ancora una volta, non sempre questo accadeva con le donne, mentre intimidiva chi osasse disturbarlo o anche proporgli qualche affare che egli non approvava (o peggio, di cui non vedeva la necessità).
Nosedo Massimi (per tutti Edo), vice presidente della Futurtreni, gestiva di fatto la rete ferroviaria del Sud-Ovest, con l’avallo compiaciuto, si diceva, dell’intero consiglio di amministrazione. Anche l’ingegner Midali, presidente, era ben felice di starsene più a pescare sul lago di quanto si facesse vedere nel grande palazzo di vetro-cemento della società, dopo che quel promettente giovane manager era stato scovato, per così dire, o forse costruito dal nulla.
In qualche raro momento di sincerità, Edo era pronto ad ammettere, ed anche quasi senza sforzo, di capir ben poco di ferrovie. L’ultimo treno l’aveva preso all’età di otto anni per andare dalla zia Filomena, una severa e burbera parente che abitava in un paese poco lontano, e da allora era rimasto fedele all’assunto che sua zia espose l’ultimo Natale della sua vita, a tavola, quasi un testamento spirituale, certo per disapprovare quello smidollato e modesto impiegato di suo padre: “Un uomo di oltre trent’anni che usa il trasporto pubblico è un fallito”. Per buona misura, Edo aveva iniziato un bel po’ prima, ed ora che i suoi trent’anni erano volati via, con buona parte dei suoi capelli ricci, non aveva certo intenzione di deflettere da quel proposito.
Fino a tre anni prima, era nel consiglio d’amministrazione di una piccola ditta di acque minerali, la Scintillina s.r.l., cui faceva velo, oltre al nome infelice (“quasi come il mio” ammise una volta Edo), il fatto di servirsi di una sorgente inquinata da almeno trent’anni, cui si riusciva ad assicurare potabilità tramite robuste iniezioni di acido fluorocarbonico e tangenti pagate al professor Chimienti del Dipartimento di Chimica Analitica dell’Università Progressiva.
La Scintillina veniva venduta in bottiglie rosa-azzurre con l’etichetta ornata dal disegno di una torre ghibellina e da una serie di benemerenze, anteriori all’inquinamento della fonte, avendo cura di render poco leggibili le date sui medaglioni, ufficialmente perché la grande scritta bluastra Scintillina apparisse in tutto il suo splendore. Tutte idee sue, il rosa azzurro era di quando stava ancora con Bianca, la cui tenuta tipica era maglione rosa e gonna a pieghe azzurra: aveva personalmente ricercato i colori dei due tessuti rispettivi e li aveva mischiati al computer. Bianca però l’aveva lasciato lo stesso, dicendogli che se lui aveva proprio voglia di finire in galera, lei aveva dal canto suo altre idee nella vita che portargli le arance.
“Troppe idee, caro mio, hai troppa creatività per questo posto” aveva sentenziato suo zio Riccardo e, prima che la situazione della Scintillina precipitasse, lo aveva raccomandato ad una “grossa forchetta” del partito, perché lo assumesse in qualche direzione che contava, perché, come disse alla segretaria dell’onorevole, “mio nipote, a forza di stare in mezzo alle acque, finirà col prendersi un reumatismo” e lei rise, pensando che il signor Riccardo aveva sempre voglia di scherzare.
Edo si era così trovato seduto proprio in fondo ad un grande tavolo ovale, in un ufficio costellato di improbabili dipinti di condottieri in calzamaglia, col cimiero in mano e gli stivaletti a punta, come quelli che erano appunto tornati di moda, e di bottiglie di acqua minerale, che, riconobbe con sollievo, non avevano la torre ghibellina, ma una cascata di petali di rosa sull’etichetta.
All’ordine del giorno erano le 30000 ore di ritardo complessivamente accumulate l’autunno precedente a causa della caduta di foglie sui binari. Il giorno era quanto mai oscuro, dal velame di spessi cumuli grigi non filtrava che una debolissima luce, sicché tutti i tubi al neon erano bianchescenti, così come erano accese le semicilindriche lampade personali sul tavolo, tuttavia l’impressione comune era che non ci si vedesse ad un palmo.
Intorno al tavolo, volti in prevalenza preoccupati e corrugati, con qualche residua traccia, su due o tre paia di zigomi, di un’estenuata arroganza. Edo faceva in quel tempo ancora i conti con quel barlume di timidezza che gli restava, che non era estraneo al suo passato ascendente, o forse fascino, su ragazze del tipo di Bianca. Esitò dunque a lungo, vedendo i concitati interventi dei vari membri del consiglio d’amministrazione rendere, se possibile, ancora più pesante ed insostenibile l’atmosfera. A capotavola, l’incommensurabile ingegner Midali esprimeva con leggere smorfie e sottili cenni del capo tutte le ambasce in cui la Futurtreni si dibatteva, a causa di quelle volgari ed“imprevedute” foglie di platano, come disse il Responsabile Relazioni col Pubblico, dottor Sepalo.
Si alzò allora il ragionier Panonto, motivatore capo (o più esattamente: Responsabile del Reparto Wellbeing del Personale e Job Strategy) che, mostrando un lucido visibilmente tratto da un libro di botanica, passò in rassegna le varie foglie degli alberi prossimi agli impianti ferroviari del Sud-Ovest, e dopo aver avuto parole ispirate per “il mite cipresso” e “l’utile abete”, attaccò in profondità le caducifoglie e specialmente le latifoglie “alberi importati per nostra sventura, piantati con allegra
leggerezza al fianco di strade e ferrovie, che spargono nella notte, non visti, le loro immense, morenti propaggini, ondulanti al vento...”. Ben detto, e specialmente ben recitato, anche il presidente ebbe quasi un sorriso, e qualcuno forse ebbe pure l’impressione che le mani dell’ingegner Midali si giungessero in un leggero applauso, sull’ultima frase della prolusione di Panonto “noi ci permettiamo quindi di chiedere al governo regionale e nazionale uno sfoltimento e ripiantumazione delle essenze arboree in luoghi lontani dalla strada ferrata”. Si era allenato, il ragionier Panonto: aveva snocciolato le sei sillabe di ripiantumazione senza prender fiato, con la
stessa seria determinazione di un montanaro che sugge il liquore dalla grolla.
In quel momento, Edo decise la sua sorte. Alzò la mano per trenta lunghissimi secondi, e quando, con un certo malgarbo, la signorina Sangiacomo, assistente personale del presidente, gli fece un cenno dalla leggera foschia che avvolgeva quell’estremità del tavolo, capì che poteva parlare. Disse, sillabando a saltelli come una vecchia auto dopo una gelata notturna: “Ecco...io pensavo se...si mandassero degli operai...lungo le linee a spazzare le foglie”.
Il silenzio calò sulla sala, anche il mormorio di Robusti e Crivelli, che seduti, come si conviene, a sinistra del presidente, tramavano da sempre contro di lui. Tutti aspettavano la parola dell’ingegner Midali su quella proposta innovativa, rivoluzionaria, sconvolgente. Ma la parola non venne. Invece, Midali si alzò e guardò Edo attraverso la foschia come se non fossero stati presentati, attraversò tutta la sala e con un volto determinato e sicuro, gli strinse con forza la mano, poi uscì a fumare,
segno che tutto era risolto. La signorina Sangiacomo scrisse nel suo bel corsivo “La seduta è tolta, ore 16.45”.
Se l’era conquistata, quella scrivania, ed ora aveva ben ragione di coccolarla: stava per lasciarsi andare alla commozione, quando ricordava quel momento, quell’improvvisa svolta nella sua vita e carriera, quell’idea, diciamolo pure, geniale. Nella sua vita precedente spesso gli veniva l’istinto di prendere un libro e leggerlo. Poi nel suo ufficio erano così belli, allineati, rossi, bruni, azzurri, neri, tutte quelle belle lettere dorate stampatelle e gotiche, e quelle righe gigliate, quelle delicate roselline. Si avvicinò allo scaffale, ma non riuscì a prendere il libro che voleva, anzi scalfì appena con l’unghia il dorso. Tutti quei dorsi di libri incollati alla parete erano solo un fondale, e non sen’era mai accorto. Si vede che era la prima volta che gli veniva da leggere, da quel giorno. E pensare che leggeva tanto, prima. Ma non aveva rimpianti.
Appena Edo ebbe capito che era destinato ad una delle più rapide carriere che si ricordassero nel campo del trasporto pubblico, ricevette una telefonata dallo zio Riccardo: “Qui tutti sono entusiasti di te, l’onorevole Di Ciocco, che conosci, credo almeno, dice che hai risollevato la Futurtreni con un tocco da maestro. Un mago, ti ha definito. Però a me puoi dirlo: come hai fatto?”
“Un’intuizione” disse Edo strusciando nervosamente le dita tra loro, un po’ imbarazzato.
“Già, sei sempre stato un giovane brillante, mi ricordo. Sempre voti altissimi... Però devi concedermi che un po’ del merito va anche al tuo vecchio zio, che non ha mai smesso di credere in te, anche quando ti eri incaponito a stare in quella Sfrizzolina, Strizzina...”
“Scintillina, zio”
“Va bene, sia quel che sia...ma tu meritavi la grande industria, il successo. Sai, il successo, una volta che nasce, si propaga da solo, come i cerchi nell’acqua”.
E già: e finalmente Bianca si sarebbe accorta di lui. La incontrò un giorno per la strada, lei se lo trovò davanti all’improvviso. Dopo qualche agrodolce scambio di battute, seppe che si era sposata.
Edo sorrise ironicamente:
“Non con me, dunque”
“L'avresti saputo, non credi?”
“No, dicevo...era una possibilità...”
Bianca lo guardò, incerta se stesse scherzando, poi si convinse: faceva sul serio.
“D’altronde - continuò Edo - sono errori che si pagano”
“Tutto si paga”
“Già, vedi, come ti dicevo”
“Ed è per questo che ti ho lasciato”
Dopo quell’incontro, sgradevole, ma chiarificatore, Edo si convinse che aveva bisogno di una segretaria: non per il lavoro, lavorava pochissimo, tanto si sentiva un pesce fuor d'acqua, con quel minimo di ritegno che gli era rimasto. Di studiare che cosa fosse una ferrovia, non aveva voglia, e poi forse non serviva… Stava in ufficio circa dalle dieci alle cinque, metteva firme, faceva qualche telefonata per organizzarsi la serata…D'altronde, com'era fatto un treno? Aveva visto una foto di uno dei loro nuovi "complessi di quattro elementi", come il dottor Sepalo l'aveva chiamato, ed era rimasto un po' confuso, come sempre. Chiese a Sepalo: "Perché non si aggiunge un elemento?" "Quattro é il numero giusto, questo treno deve fermare anche a Rivella, perché sa - disse Sepalo, abbassando la voce - l'onorevole Fumaretti…E Rivella ha il marciapiede corto…"
Edo aveva fatto l'unica domanda che gli veniva in mente e coprisse la sua ignoranza. In realtà voleva chiedere: "Dov'é la locomotiva?", ma non osava più pronunciare quella parola, da quando quell'antipatico del dottor Pistillo dell'Ufficio Tecnico l'aveva rimbeccato: "Le locomotive sono a vapore, i locomotori sono elettrici o diesel". Poi seppe da Sepalo che il marciapiede non si poteva allungare perché c’era lo scambio. Scambio di che? Col passare del tempo, Edo finì per dare ragione un po’ a tutti. A volte, preso da curiosità, chiedeva informazioni “tecniche”, sperando di sapere quello che veramente gli stava a cuore, che era molto più terra-terra. In questo modo contorto, non infrequentemente veniva a conoscere qualcosa, che di solito subito dimenticava, per quel che poteva servirgli. In ogni modo, sapeva che buona parte del consiglio di amministrazione era di nomina politica, persino Midali il grande capo, il luminare, aveva preso una laurea in ingegneria honoris causa per aver fatto una donazione a non sapeva più quale università privata in America Latina.
“Alla fine - diceva Edo tra sé - i treni vanno lo stesso, poi da quando si spazzano le foglie, sono anche più puntuali “.
Già, gli serviva una segretaria: aveva la signora Marcella che gli batteva qualche lettera (non aveva certo voglia di rovinarsi la vista al computer, ora che aveva fatto carriera); beh, la signora la poteva tenere, anche perché faceva finta di non vedere quando tirava fuori i fumetti dal terzo cassetto a destra: impareggiabile scrivania, cara, cara.
E per dar l’idea del potere, la segretaria doveva essere coreografica, in technicolor, offrire anche visivamente la sensazione del suo status, stabilire con il suo aspetto, anche e soprattutto fisico, quella cesura, quello “iato” (aveva otto in italiano al liceo) per cui il visitatore, cliente o collega che fosse, si rendesse conto immediatamente di essere in condizioni d’inferiorità e cercasse scampo, rifugio, una via di fuga insomma. Benissimo. Gli venne fuggevolmente il pensiero che potesse venire una donna, od un uomo che non fosse colpito per qualche motivo dal technicolor, cioè dalla sua assistente, ma scartò subito quest’ipotesi: poche donne si occupano di treni in Italia (mai
conosciuta una), inoltre avrebbe scelto una segretaria che riscuotesse successo immediato e generalizzato, un tipo universale.
Gli cadde l’occhio su Carla Remotti, l’aiuto-bibliotecaria: difficile dire se la Carla, come la chiamavano tutti, forse perché veniva da Vò (il che era già un controsenso) o Vho (sui cartelli stradali) nel Monferrato, fosse un tipo universale. Però piaceva ad Edo, che essendo un uomo di successo, lui credeva, universale, per sillogismo poteva infondere un po’ del suo carisma sulla Carla. Gli piaceva perché non gli ricordava Bianca, snella, svelta, intelligente, un po’ nervosa nei gesti, romantica, ma sempre con la risposta pronta. Onesta: che fastidio tutta questa onestà sbandierata, ostentata ad ogni piè sospinto. Edo voleva invece una segretaria morbida, morbida e
morbosa, due aggettivi che venendo entrambi da morbus, malattia, davano l’idea di quel che ella doveva rappresentare: una donna da farci una malattia. A sentir parlare tutto il santo giorno di rotaie, traversine, saldature (dove sono le saldature in una ferrovia?), massicciata (cioè tutti quei sassetti e sassoni che non aveva mai capito a cosa servissero, non si poteva asfaltare tutto come per la strada?) Edo si era messo a formulare strane teorie vagamente sessuate, più che sessuali. In questo delirio, dovuto forse all’inattività protratta troppo a lungo, confidava a se stesso come probabilmente l’intelligenza delle donne fosse legata in qualche modo non spiegabile alla taglia del reggiseno, o all’assenza dello stesso, idea abbastanza entusiasmante che non osava formulare apertamente. Edo individuava, pur nel proprio stato di penoso smarrimento, traccia delle adolescenziali reminiscenze della canzone sfatta, dolciastra e vagamente maniacale sulla “maglietta fina”, canzone che Bianca ai tempi del liceo non poteva cantare senza inclinare la testa da un lato, di solito il destro, lasciando che i capelli le sfiorassero la spalla. Si ricordava anzi di una sua poesia (già, scriveva poesie) sul“baluginio castano/ obliquamente disceso / a costellare un bacio”. Che demente! Comunque, pur essendo in fondo magra, quanto a seno la Carla non scherzava e, maglietta fina o no, colmava tuttavia di gradito profumo e discreta seduzione l’ambiente.
La Carla sapeva di esser passata dal clima umido polveroso della biblioteca al caldo dolciastro o gelo condizionato dei piani alti a seconda della stagione (Edo voleva essere esagerato in tutto, anche nel climatizzare) per meriti non equivoci, anzi inequivocabili. Si erano incontrati al bar un giorno, ed Edo seppe che aveva trovato la segretaria, e forse qualcosa di più. Una sera, dopo un approccio un po’ eccessivo che era culminato nel rovesciamento di una sedia, per fortuna senza danno per la
scrivania, ed in alcuni commenti poco simpatici sul luogo dove chi grugnisce dovrebbe stare, Carla gli disse, calma e decisa quanto poteva, date le circostanze: “E non provarci nemmeno a rimandarmi in biblioteca, sennò...”.
La minaccia funzionò: d’altronde gli rimaneva una segretaria temibile, oltre che esageratamente prosperosa, il potere e soprattutto gli restava la scrivania, che delle tre cose era quella cui in fondo teneva di più. Questo fino a quella fatidica mattina dell’otto novembre.
Dopo Ognissanti aveva iniziato a piovere incessantemente, sicché ogni sera in televisione passavano immagini di alluvioni e smottamenti. Ci fu qualcuno che disse anche che il mare non era mai sembrato tanto vicino alla città.
“Che scemenza” pensò Edo “Il mare rimane dov’è: l’acqua viene dal cielo e poi si propaga sulla terra, mica il contrario”
Comunque fosse, la sera del sette novembre uno stellato, anche se segnato da un vento gelido di tramontana, era tornato a mostrarsi. Edo aveva acceso, come non faceva mai, la stufetta in salotto, cosicché poteva stare in casa anche a torso nudo, cosa che faceva molto manager anglosassone che si rilassa. Si era comprato, col successo, un villone in campagna su una collinetta che dominava il fiume, intonacato di un rosa un po’ volgare e attorniato da un boschetto di betulle, che era quello
che l’aveva deciso all’acquisto, forse perché le betulle hanno il tronco bianco, come osservò tra sé, non senza un attimo di sgomento. Quella notte tra il sette e l’otto novembre, Edo si sognò bello, con tanti capelli e vestito bene, ma non da manager, forse da studente il giorno della laurea, e nel sogno c’era Bianca che era tornata, anzi era venuta a vivere nel villone, ed avevano tanti amici intorno al caminetto, qualcuno con la chitarra, tanta gente che aveva ormai perso di vista.
Quella mattina entrò come al solito in ufficio, lasciò cappello, sciarpa e soprabito (con la calvizie aveva ripreso l’uso di un berretto scozzese), e si diresse alla scrivania, aspettando che qualcuno, forse la Carla, o la signora Marcella, gli venisse a dire che cosa avrebbe dovuto fare della sua giornata. Sapeva già che se era la Carla a venire, significava che era una giornata di routine, se c’era qualcosa di particolare, di urgente, allora vedeva avvicinarsi il volto rassicurante della signora Marcella. Ma ultimamente veniva quasi sempre la Carla, forse perché gradatamente tutti avevano capito che Edo non sapeva nemmeno, come tanti politici fanno, fingere quella competenza nel settore che non aveva, e portava delle carte un po’ a casaccio, perché desse un’occhiata.
Edo l’occhiata la dava, però alla Carla, e allora lei si voltava con una faccia di compatimento e a volte un po’ di disprezzo, e si avviava all’uscita, ma ad Edo andava bene lo stesso, perché a lui la Carla piaceva anche da dietro, per un’altra sua complicata teoria sul contrasto tra il sopra e il sotto: “Sembrano due donne diverse” rifletteva “E’ come avere due segretarie”. Quel che non vedeva, è che la Carla non lo salutava neanche, da mesi, ed anzi si riferiva a lui nelle conversazioni da bar o
da mensa come “il balordo”.
La scrivania non era la stessa del giorno prima: cercò di figurarsi cosa fosse accaduto, ma non trovò nulla. Guardò oltre il portacarte, tra l’orologio coi cubi ed il portamatite, dove molte non erano mai state temperate: ne aveva chieste cento e di colori diversi, perché il potere si vedeva anche dal numero di matite sul tavolo. Il vetro era lustro, una traccia di polvere c’era appena sul pulsante della lampada: d’altronde l’accendeva di rado, serviva per leggere e lui non leggeva, firmava, parlava,
stringeva mani e guardava la Carla entrare e uscire (sbuffando, ma lui non se ne accorgeva).
Cosa c’era di diverso? Ah ecco, nascosta sul piattino delle gomme c’era un rotolino grigio, evidentemente una gomma di nuova concezione, che certo gli era stata portata dalla signora Marcella (“che brutta però: speriamo almeno cancelli bene”). D’un tratto la gomma si mosse, anzi due piccole antennine le spuntarono e si srotolò tutta.
Edo stava per mettersi a gridare e nell’eccitazione, premette il campanello rosso invece del blu, e la Carla apparve. Aveva un maglione rosso mattone con delle specie di piccole rondini blu, ed Edo rimase ancora un attimo in contemplazione, ma lei gli disse brusca: “Allora?”
Sorpreso, Edo osservò che forse non era esattamente il modo in cui una segretaria dovesse trattare un vicedirettore della maggiore compagnia ferroviaria della regione, ma sapeva perdonare, da buon manager, poi si ricordò della gomma grigia, che nel frattempo si era avvicinata al portacarte, e quindi a lui. Se ne accorse, e fece un salto all’indietro, alzandosi: “Cos’è quella bestia?” La Carla arricciò il naso, e solo ora Edo si accorse che ciccava una gomma, presumibilmente non grigia, ma che comunque accresceva il suo panico. Aveva le mani sui fianchi e sillabò: “Lu-ma-ca di ma-re”
“Lu...che?”
“Hai capito benissimo, Edo”
“Perché mi dai del tu? “ era dal “fattaccio” che aveva ripreso a dargli del lei (o così Edo credeva di ricordare, almeno).
“Non per il motivo che pensi, è che quando si fanno e specie si pensano le cose che fai e che pensi tu, non rimane spazio per il rispetto”
“Ma che sei diventata...comunista?”
“Comunista no, ma sveglia lo sono sempre stata”, poi lo guardò aggressiva e disse, posandogli la gomma ciccata nel posacenere vicino all’altra: “Insomma, è una lumaca di mare, ma perché mi hai chiamato?, oppure, come preferisci: Il signore desidera?”
“Sulla mia scrivania!” gemette Edo come se fosse stato ferito “Ed ora farà...”
“I bisognini, ed anche un po’ di bavetta”
“Ahhh!” Edo, già in piedi com’era contro la finestra, corse verso la Carla, quasi inciampando nel tappeto.
“Toglimela, ti prego, Carletta”
“Fossi matta! Io sono una segretaria, e faccio la segretaria. Porto scartoffie, non tolgo lumache né asciugo bavette”
“Non è che forse...”
“No, non mi fanno schifo, fanno schifo a te, e poi la tua bella scrivania, macchiata di piscio di lumaca...”
La lumaca, sentendo quasi urlare (la Carla aveva una voce tagliente, altro che morbida/morbosa), si era rincantucciata ancora di più, tornando molto simile alla vera gomma per matita che le era a non più di cinque centimetri, solo che la lumaca era più grigia e piena di rughe profonde.
“Che faccio?”
“Chiama la donna delle pulizie”
“Ma non...”
“No, no, no! Non te la chiamo io. E’ già andata via, perché il signore qui arriva alle dieci, mentre la signora Pastorelli attacca alle sei, e poi ha un altro lavoro al pomeriggio. Se chiami subito, la trovi a casa. Ti porto il numero”
Edo guardava la lumaca, che nel frattempo aveva ritirato fuori la testa e le chiedeva con autentico
dolore: “Lumachina, perché non te ne vai, perché non mi lasci in pace...Dai, sii buona!” ma, si sa, una lumaca, per quanto di mare, è lenta nei movimenti e nelle decisioni, e così tornò prima la Carla col numero della signora Pastorelli.
“E’ una lumaca di mare” confermò ella “Ha piovuto tanto in questi giorni, ed appena è tornato il freddo, ha trovato rifugio dietro un mobile, o da qualche parte. sarà entrata in un buco del muro. Capita, basta un forellino piccolo piccolo per lei. Si acciambella tutta e passa di là”
“Cosa si fa?”
“Ci son due cose da fare: se la vuole uccidere, ci mette del sale e lei si secca e muore”
“Sulla mia scrivania, no!” gridò Edo.
“Se no gliela prendo con cura, con delicatezza, gliela porto in giardino e le do una foglia di lattuga”
“Pure!”
“Che vuole, son lumachine, poveri esserini anche loro”
“Faccia come vuole, ma me la tolga da davanti”
“Però, dottore, mi permetta di dirle: quando entra una di queste lumachine in casa, porta bene a chi ha fatto del bene, e meno bene a chi non lo ha fatto. C’è anche un proverbio del mio paese...”
“Va bene va bene, signora - tagliò corto Edo - le dia l’insalata e quel che vuole, poi torni su, che le firmo lo straordinario, e scusi se l’ho disturbata, ma capirà, nella mia posizione, sulla mia scrivania...” disse Edo, terreo in volto.
La signora Elvira Pastorelli, collaboratrice a contratto della Futurtreni, aveva, forse per caso forse no, intravisto un pochino nel futuro di Nosedo Massimi, detto Edo. Infatti di lì a poco i treni tornarono a far ritardo, per il gelo di quell’inverno eccezionale, ed i profitti calarono irreparabilmente per sei lunghi mesi. Fu necessario trovare un capro espiatorio e lo si individuò in quel giovanotto calvo ed elegante, che non era simpatico a nessuno, anche se diceva di sì a tutti.
Così sparì il successo, e di lì a poco anche la bella scrivania con le cariatidi ed i fior di loto. Se sia stata colpa della lumachina, non è facile dirlo. Quel che è certo, è che i cerchi prima o poi svaniscono, e l’acqua torna liscia come l’olio.
Carlo Santulli