(Illustrazione di Viola Bairo)
Il fumo ristagnava in quell’osteria dal soffitto basso e dalle strette finestre e si mescolava all’odore di cibo cucinato. A quell’ora del giorno il locale era pressoché deserto: chi aveva consumato un pasto veloce se ne era già andato, mentre era ancora troppo presto per chi vi avrebbe trascorso il pomeriggio in compagnia di un mazzo di carte e di qualche bicchiere di vino rosso in attesa della sera.
Al tavolo d’angolo, vicino alla piccola finestra rivolta verso il mare, stava seduto un uomo. Aveva in bocca una pipa, spenta da tempo, e, davanti a sé, dei libri, alcuni fogli e un bicchierino di acquavite quasi vuoto. Fissava attraverso la finestra aperta le onde del mare che il vento ingrossava. Distolse lo sguardo solo quando, come tutti i giorni, l’oste venne a sedersi al suo tavolo con in mano due bicchieri e una bottiglia speciale di acquavite. La loro era un’amicizia profonda che durava ormai da diversi anni, esattamente da quando Emilio era andato a vivere in quel piccolo paese di mare abitato per lo più da pescatori. Al suo arrivo aveva preso in affitto una stanza sopra all’osteria e aveva iniziato a trascorrere gran parte della sua giornata seduto a quel tavolino. Consumava lì tutti i suoi pasti, talvolta osservava la gente giocare a carte o usciva per brevi passeggiate, ma, soprattutto, stava seduto a leggere o a scrivere poesie.
Domenico gli riempì il bicchiere, poi si servì. Rimasero in silenzio a bere. Emilio guardò nuovamente fuori dalla finestra e disse: -È finito-.
-Che cosa è finito?-.
-È finito un sogno-.
-Che sogno?-.
-Il sogno di una donna-.
-Una donna? Non ti ho mai visto con una donna in tutti questi anni. Non sapevo che ce ne fosse una-.
-Non l’ho mai vista neppure io, ma mi scriveva. Erano lettere vere,a volte ingenue, ma mai banali. Mi piaceva riceverle e, ora, è finito tutto-.
-Come l’hai conosciuta? E perché ti scriveva?-.
Emilio non rispose subito. Posò il bicchiere che teneva in mano, prese una serie di fogli che si trovavano sul tavolino. Si schiarì leggermente la voce e cominciò a leggere, sottovoce.
Roma, 10 marzo 1955
Gentile Signor Emilio,
le scrivo perché sono entrata in possesso di un libro che, credo, sia suo. L’ho ritrovato sul sedile di un treno e in quello scompartimento non c’era nessuno oltre me; così mi è venuto istintivo prenderlo, anche se riconosco che sarebbe stato più corretto consegnarlo al capostazione. Ma il titolo mi ha attirato: “Il violinista pazzo” di un certo Fernando Pessoa. Sulla prima pagina c’era il suo nome e cognome, l’indirizzo e una poesia scritta a mano.
Le vorrei chiedere se posso tenerlo per leggerlo prima di restituirglielo.
Ho agito d’impulso, come quella volta che trovai una banconota per terra. La raccolsi dicendomi che ero stata molto fortunata nel trovarla. In realtà quella banconota mi tolse la tranquillità fino a quando non decisi di entrare in una chiesa e di metterla nella cassetta delle offerte. Ma sto divagando.
Mi direbbe chi è l’autore di quella poesia scritta a mano? Io non sono una donna di lettere però l’ho veramente apprezzata. Il libro non ho ancora potuto leggerlo per via del lavoro.
Mi scuso per l’eventuale disturbo che questa mia lettera può causarle e attendo sue disposizioni.
Ester
P.S. L’indirizzo che troverà indicato sulla busta è quello del mio posto di lavoro. Il proprietario è una brava persona e non credo avrà nulla da ridire se ricevo una lettera indirizzata a me.
-Ha iniziato lei a scrivermi, per via di quel libro che avevo dimenticato-.
-E tu le hai risposto? Te lo sei fatto restituire?-
-No, le ho detto che poteva tenerselo. Credevo che la cosa finisse lì, invece lei mi ha nuovamente scritto-.
Roma, 21 marzo 1955
Gentile Signor Emilio,
la ringrazio tantissimo per la sua risposta e per l’inaspettato regalo. Le assicuro che terrò con gran cura il libro che ha deciso di donarmi.
Ora l’ho nascosto. L’altra notte sono rientrata dal lavoro. Deve sapere che faccio la cameriera in un night club e che, dopo la chiusura del locale, mi fermo per fare le pulizie in modo da arrotondare lo stipendio; così arrivo a casa che sono le cinque del mattino. L’altra notte sono rientrata dal lavoro e mi ha preso voglia di leggere qualche pagina del suo libro: sono quindi rimasta in cucina e avevo appena iniziato a leggere la prima poesia quando è arrivato mio marito.
Per farla breve mi ha sgridato, mi ha chiesto che cosa avevo in mente di fare e che dovevo smettere di lamentarmi di essere sempre stanca se, poi, sciupavo il mio tempo per leggere delle “cretinate”. Le assicuro che era proprio molto arrabbiato: mi ha preso il libro dalle mani e lo ha gettato a terra; per un attimo ho temuto che lo rovinasse.
Io lo conosco bene e so che quando è di malumore è meglio non contraddirlo: così l’ho seguito in camera cercando di rabbonirlo, ma Le garantisco che il pensiero del libro per terra mi straziava. Comunque sono stata molto fortunata perché non si è accorto della poesia scritta a mano sulla prima pagina. Mio marito mi vuole molto bene e, per questo, è un po’ geloso; appena si è addormentato sono corsa a recuperarlo per nasconderlo, approfittando del buio.
Per concludere il discorso, ora il suo libro è ben protetto tra le lenzuola del mio corredo e, per tranquillizzarLa, sappia che non ha subito danni per quel volo inaspettato.
Nella sua gentile lettera non mi ha detto chi è l’autore di quella poesia. Se ne è dimenticato?
Ora, sebbene a malincuore, la debbo salutare
Ester
P.S. Forse perché oggi è il primo giorno di primavera, forse perché non mi aspettavo il suo regalo mi sento particolarmente felice…
-Che razza di uomo ha sposato! Povera donna…-.
Emilio quasi non si accorse dell’interruzione dell’amico. Riprese a leggere, quasi stesse leggendo per sé.
Roma, 28 Marzo 1955
Gentile Signor Emilio,
lei mi chiede di commentare le poesie che leggo e di dirle quello che provo leggendole. La cosa mi imbarazza molto, perché temo di non esserne all’altezza.
Certo che ci sono passi in cui mi ritrovo, altri che credo di capire, altri ancora dove mi accontento di godere di quelle parole che mi piace tanto.
Ha presente la prima poesia? Quella che dà il titolo al libro?
Non fluì dalla strada del nord
né dalla via del sud
la sua musica selvaggia per la prima volta
nel villaggio quel giorno.
. . .
La sua strana musica infuse
in ogni cuore desiderio di libertà.
Non era una melodia,
e neppure una non melodia.
. . .
Risposta a quel desiderio
che ognuno ha nel proprio seno,
il senso perduto che appartiene
alla ricerca dimenticata.
. . .
Ecco le ho riportato alcuni versi di quella poesia, quelli che mi hanno maggiormente colpita. In un certo qual senso questo libro di poesie rappresenta per me quello che la “musica selvaggia” di cui parla il poeta rappresentò per gli abitanti di quel paese.
Non riesco bene ad individuarne il motivo, ma sento una forte voglia di libertà. Ci fosse ancora mia madre in vita mi direbbe: “Tutte storie.. è solo la primavera che ti fa questo effetto”. Io non credo proprio. E’ qualcosa di più profondo e radicato. Le confesso che da quando ho questo suo libro tra le mani mi sono venute strane idee in testa: desiderio di conoscere, di fare cose diverse da quelle che solitamente faccio, di sognare. Devo però stare attenta. Ieri sera, ad esempio, sono stata aspramente ripresa dal padrone: pensi che ha minacciato di licenziarmi. Stavo lavando dei bicchieri e ad un certo punto sono rimasta come incantata. In realtà ripetevo mentalmente alcune strofe della poesia di cui le parlavo prima -l’ho letta così tante volte che l’ho imparata a memoria- e continuavo a lavare sempre lo stesso bicchiere! Il padrone se ne è accorto e, così, mi ha ripreso. D’ora in poi non succederà più: mio marito non riesce a trovare un lavoro che lo soddisfi appieno e non posso certo perdere il mio impiego. Un po’ sono preoccupata perché, al di là dell’episodio del bicchiere, ho sentito il padrone dire ad un vecchio cliente che ha intenzione di cercare delle cameriere giovani e belle per migliorare il suo locale. Io non sono più giovane e neppure particolarmente bella...
Mi scusi per lo sfogo. Le prometto che la prossima volta le parlerò di altre poesie.
Un caro saluto
Ester
Emilio posò i fogli e si accese la pipa. L’amico versò da bere, in silenzio.
Dopo averne trangugiato un sorso disse: -E poi? Cosa ti ha scritto?-.
Emilio posò la pipa e riprese a leggere.
Roma, 15 aprile 1955
Gentilissimo Poeta,
permette vero che la chiami così? Quasi non credevo ai miei occhi quando ho letto che la poesia scritta a mano è sua! Ora sono ancor più imbarazzata nel rivolgermi a lei. Credo che possa capire questa mia sensazione.
Ricorda il discorso della mia inquietudine di cui le ho parlato nell’altra lettera? L’ho trovata descritta in una poesia del suo libro, come se quel poeta stesse provando le stesse mie sensazioni.
Sogni ardenti di qualcos’altro!
Frenesia di andare via,
(Oh, onda che in me si ingrossa!)
via dalla vita, dove la vita deve rimanere –
vita sempre fino a oggi!
La poesia termina con questa strofa:
Dove? Se lo sapessi,
non ci vorrei andare.
Ecco, io non sono d’accordo: se io sapessi dove ci andrei…
Almeno, così credo. Certo, a ben pensarci, non cambierebbe nulla: in un altro posto tutto ricomincerebbe, prima o poi, da capo, l’inquietudine tornerebbe e, con questa, la voglia di andar via. Forse per questo il poeta conclude la sua poesia in quel modo.
Mi chiedo se sono solo io a provare queste cose o se è una condizione comune anche ad altri.
Con sincera ammirazione
Ester
Domenico annuì, lentamente.
-Quante volte ho pensato di chiudere questa baracca e di imbarcarmi, di andare lontano… Sì mi sarebbe proprio piaciuto andare in America!-.
Poi aggiunse: -Scusami, Emilio. Vai avanti a leggere-.
-Questa è l’ultima…-.
Roma, 29 aprile 1955
Caro Amico poeta,
non se ne abbia a male per questo modo confidenziale con cui mi rivolgo a lei. Vi sono due motivi che le faranno capire perché mi sono permessa tanto.
Il primo è che io la sento veramente amico, come ha dimostrato in tutta questa nostra corrispondenza e, in particolare, nella sua ultima lettera in cui mi ha tranquillizzato sulla mia “normalità”. Le assicuro che mi ha fatto piacere.
Il secondo, il più importante, è che questa è l’ultima lettera che le scriverò. Questa mia decisione non è stata presa a cuor leggero. Già da tempo mi ero posta un limite, anche se non ho mai osato dirglielo: avrei smesso di scriverle nello stesso momento in cui avessi finito di leggere il suo libro. Ora il libro l’ho letto tutto, più volte, tanto da sapere a memoria molte di quelle poesie.
Smetto di scriverle perché è necessario che torni nella mia realtà, che smetta di sognare. I sogni sono illusori: ti danno una felicità effimera e, soprattutto, rendono i risvegli tristissimi. Lei capisce quello che intendo dire, vero?
Come pure, capirà la mia difficoltà nel chiudere questa lettera. La lascio con questi versi che, sicuramente, valgono più di mille mie parole: esprimono ciò che vorrei dirle se ne fossi capace…
Nella mia mente è sopita una poesia
che esprimerà la mia anima intera.
La sento vaga come il suono e il vento
eppure scolpita in piena chiarezza.
. . .
So che non sarà mai scritta.
So che non so cosa sia.
Ma sono contento di sognarla,
e una falsa felicità, benché falsa, è felicità.
E nel salutarla per l’ultima volta le do un lieve bacio.
Ester
Emilio ripiegò i fogli con cura, rimanendo in silenzio.
-Deve essere una gran donna- e nel dire questo Domenico si alzò. I primi clienti stavano arrivando e lui doveva riprendere il suo posto, dietro al bancone.
–Comunque ha ragione lei: non aveva nessun senso continuare a scriversi, considerata la sua situazione- aggiunse prima di allontanarsi.
Emilio annuì: Domenico aveva detto bene. Lui stesso sapeva che quella relazione epistolare non sarebbe potuta durare. Gli era balenato per la mente la possibilità di chiedere ad Ester di ripensare a quella sua decisione, ma poi aveva capito che il suo sarebbe stato puro egoismo.
Strappò in tanti pezzi la lettera che aveva preparato. Rimase per lungo tempo immobile a guardare il mare e pensò a quella dolce donna, ai suoi desideri e alla sua rinuncia finale. Non poteva essere egoista: non se lo meritava, lei. Il sole stava tramontando e il vento si era calmato. Distolse lo sguardo dal paesaggio e prese a scrivere velocemente.
Cara amica mia,
ho inteso perfettamente quello che voleva dire. Non voglio forzare in nessun modo la sua decisione. Mi ha fatto compagnia per un breve tratto di strada e di questo le sarò infinitamente grato.
Consideri questi pochi versi come un regalo fatto ad una donna speciale: lei. In fondo sono suoi, perché è lei che mi ha ispirato. Vede, non ha importanza quanto tempo due persone trascorrono insieme: possono trascorrere un’intera vita senza che mai le loro anime si tocchino, neppure per sbaglio, oppure è sufficiente un attimo perché esse si fondano.
A noi è capitato questo e questo rimarrà per sempre.
Il tempo non è che una variabile dipendente,
che il nostro presente racchiude
in uno spazio infinitamente piccolo,
tra due parentesi,
al di fuori delle quali
non esiste un prima o un dopo.
suo
Emilio
Chiuse il foglio in una busta, senza rileggerlo. Si alzò ed uscì tra le prime ombre della sera: sembrava avesse urgenza di imbucare la lettera.
Le poesie presenti in questo racconto, tranne l’ultima, sono state tratte dalla raccolta "Il violinista pazzo" di Fernando Pessoa.
Racconto tratto da “Attrazioni e distrazioni” di Cesarina Bo pubblicato da ExCogita, 2004