“Come ci sono finita qua? Che posto strano! Che silenzio! Sembra una sala d’attesa, ma una sala d’attesa per andare dove?”
Una fredda luce bianca penetra attraverso le ampie finestre dai riquadri di legno e disegna ombre nette sul pavimento di marmo.
“Che freddo!”
Attraverso la sala vuota e mi avvicino alla grande stufa in ceramica, vecchia, dai bordi sbrecciati e inesorabilmente spenta.
Sono vestita tutta di bianco. Strano. Non ho mai sopportato il bianco: mi piacciono i colori forti, dal viola intenso al giallo mimosa al rosso fuoco: perché, allora, indosso questa maglietta e questi pantaloni?
Mi guardo attorno: vi sono quattro eleganti panche in legno scuro dallo schienale alto e alle pareti vecchie stampe che raffigurano stazioni e treni.
“L’avevo detto che questa era una sala d’attesa di una stazione…”
Mi avvicino a quello che sembra essere un quadro orario. Il foglio è grande, ingiallito dal tempo e, nonostante il vetro che lo ricopre, ormai quasi del tutto illeggibile. Per quanto mi sforzi è impossibile capire il nome della stazione di partenza e neppure quella di arrivo.
Sconsolata e infreddolita mi siedo su di una panca. Il chiarore che entra dalla finestra mi impedisce di vedere fuori, allora chiudo gli occhi e cerco di ricordare.
Avevo ricevuto un messaggio sul cellulare: a scrivermelo Vale, la mia amica di sempre.
“Siamo finiti tutti da Marco. Vieni?”
Il mio cuore aveva perso un battito. Era da più di un mese che cercavo una scusa qualsiasi per frequentare quel ragazzo di tre anni più grande di me senza mai riuscirci. Lui andava già all’università e si era fatto un giro di amici che non era il mio. Come avevano fatto Vale e gli altri a combinare? Beh, non aveva importanza. Mi buttai giù dal letto, aprii l’armadio e presi la felpa azzurra. Mamma sosteneva che mi stava benissimo perché della stessa tonalità dei miei occhi. E se lo diceva lei a cui andava mai bene nulla, c’era proprio da crederci.
Salii sul motorino e partii a tutta velocità: c’era un traffico caotico e sgusciavo tra le auto incolonnate. Dovevo fare in fretta, anzi in frettissima…
La porta d’ingresso si apre all’improvviso. Un giovane uomo si ferma sulla soglia e si guarda attorno spaesato: gli occhi scuri spiccano su quel volto pallidissimo. E’ vestito di bianco ed ha l’aria triste. Mi accorgo di non riuscire a parlare e, così, resto immobile al mio posto. L’uomo si muove lentamente come se gli costasse una fatica immane. Si siede sulla panca più vicino all’ingresso e abbassa lo sguardo a terra, mentre, silenziosamente, inizia a piangere.
Perché quell’uomo piange? Perché siamo qua? Cosa stiamo aspettando?
Ho voglia di piangere anch’io. Non riesco a muovermi, anche se so che ho mille cose da fare.
Da grande voglio fare la pediatra: mi piacciono i bambini, li adoro! E quando sarò affermata mi sposerò e farò almeno tre figli. Prima, però, devo finire il liceo. Non ce la faccio più… Che stress questo esame: i professori, mia madre, pure mio nonno ci si mette e ogni volta che mi vede inizia a dire: “Studia che quest’anno hai l’esame…” E come faccio a dimenticarmelo? Io e Vale abbiamo progettato di andare in ferie insieme. Non sappiamo ancora dove, ma mamma mi ha detto che se esco con un bel voto mi darà il permesso. Sarà un’estate meravigliosa: ne sono sicura!
La sala si sta riempiendo. Sono entrate altre persone. Un po’ si rassomigliano e non tanto per il colore degli abiti, ma per la stessa espressione rassegnata che si legge nei loro occhi.
Vorrei specchiarmi per vedere se sono come loro.
Non sono arrivata a casa di Marco. Un momento di distrazione e sono andata a finire contro un’auto: una cosa da nulla. Sono ruzzolata a terra e ho sbattuto la schiena contro lo spigolo del marciapiede, oltre a rovinarmi i jeans quasi nuovi, però, nonostante le mie proteste, mi hanno portata all’ospedale per gli accertamenti. E mentre mi facevano le radiografie pensavo che non sarei più riuscita ad arrivare per tempo dai miei amici.“Quell’incidente è stata una fortuna, una vera fortuna!” hanno detto i dottori dopo aver visto le lastre e scoperto che il mio cuore è troppo grande. Troppo.
Rimaniamo in attesa. Man mano che passa il tempo –ore? giorni? mesi?- siamo sempre più avviliti.
Mi sento stanca. Stanca da morire.
La porta si apre ed entra una folata d’aria gelida. Mi sveglio dal torpore che mi ha assalita: anche i miei compagni sollevano la testa e guardano l’uomo che è rimasto fermo sulla soglia.
Ci fissa uno ad uno con sguardo gentile e compassionevole, poi con voce profonda e mesta dice:
“E’ ora di partire.”
Ci alziamo e ci dirigiamo lentamente verso la porta tenuta spalancata dallo sconosciuto. Sono l’ultima della fila e mentre sto per varcare la soglia, la ragazza che mi precede si ferma, fa un passo indietro e mi porge una bellissima rosa gialla.
L’uomo, allora, mi fa segno che posso restare.
Sorride.
Sorrido.
Anche mia mamma, Vale, il nonno, ora intorno a me, sorridono. Poco distante c’è una donna che non ho mai visto, si asciuga le lacrime e mi guarda con affetto: mi dicono che è la madre della ragazza che mi ha donato parte di sé.
La ragazza della rosa gialla.
Questo racconto è nato da una mia libera interpretazione del video "Sala d'attesa2" ideato e realizzato dall'amico e collega Ivo Magliola.
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Menzione d’onore al concorso letterario Infermierionline 2007