Consuelo aveva ventitré anni, quando la conobbi. Non era alta, ma era ben fatta. La pelle ambrata, le gambe snelle e un certo suo modo di sorridere. Io avevo diciotto anni. Non ero più un ragazzo, ma nemmeno un uomo. Si era a maggio, forse addirittura ai primi di giugno. Quel giorno avevo dato buca a scuola. Avevo inforcato i pedali della mia bici e, raggiunta via Gozzano, avevo suonato al campanello di casa sua. Un bel coraggio, avevo avuto! Quando vidi apparire quel suo viso da creola dagli occhi neri come il carbone, le sorrisi con tutta l’ingenuità di cui ero capace.
– Ciao! – le dissi.
– Ciao, cosa ci fai qui? –
– Pensavo che... Potevamo fare due passi, se ti va –
– Ho l’esame, fra una settimana; però, se non stiamo via molto... –
– Se no, facciamo un’altra volta – le dissi, abbassando lo sguardo per non farle capire quanto ci tenevo. Chi ero, per lei? Nessuno, forse. Si era lasciata da poco con il suo ragazzo, e io lo sapevo.
– La bici, la puoi mettere dentro, – mi disse poi – Io torno subito – Tornò dopo qualche minuto, con un plaid rosso.
Una volta usciti dalla strada chiusa dove abitava, mi prese sottobraccio. Lo fece in modo tale che il mio braccio si appoggiasse al suo seno, che allora era pieno e saldo. Io non svenni, né subito né dopo, ma poco ci mancò. Non avevo idea di cosa fosse una donna. Il collegio non mi era stato di aiuto, in tal senso. Il pianeta donna aveva sempre percorso traiettorie tanto lontane quanto inafferrabili, per me. Se lei si accorse del mio turbamento – se ne rise fra sé – o meno, non ho idea.
C’incamminammo sul lungofiume. Trovammo un posto, sul prato che digradava verso il basso. Un canneto ci separava dalla stradina dove a quell’ora – le dieci del mattino – non passava nessuno.
Ci stendemmo sul plaid, a goderci il sole. Il fiume scorreva lento, quasi senza rumore. Dopo un po’ lei mi chiese:
– Come facevi a sapere che avevo bisogno di parlare con qualcuno? –
– Mah, non so. È che ti ho vista al cinema, domenica, con Sara. Eri sulle tue... –
– Ci siamo lasciati, io e Stefano. Due settimane fa... Il fatto è che nell’amore io do tanto. E non m’importa di avere in cambio chissà che cosa... –
– Cos’è che non andava, secondo te? –
– All’inizio stavo male quando non c’era. Quando non stava con me, voglio dire. Poi però ha cominciato con le bugie. Diceva che era andato a giocare a calcetto con i suoi amici, per esempio... Io sapevo che non era vero. – Non puoi pretendere – mi diceva delle volte – che mi stenda ai tuoi piedi ogni volta che ci vediamo –.
– L’unica cosa che voglio è volerti bene – dicevo io. Qualche volta riuscivo a non piangere. Ma non sempre. –
– Mi dispiace. Non serve a niente dirtelo, ma mi dispiace –
– Non so neanche – continuò – Se lo amo ancora o lo detesto punto e basta. –
– Non sono cose facili da sapere... –
– Vedi, con te sarebbe tutto più semplice. – Mi venivano i brividi, a sentire che mi diceva così. Ma dovevo fare l’amico fino in fondo. – L’emozione che provavo a stare con lui – continuò – era così intensa che non mi ha mai sfiorato, il dubbio. Poi un giorno l’ho trovato dove non doveva essere. In un locale. Faceva lo scemo con un’altra. Non ci ho visto più... – strinse i pugni e guardò lontano, oltre il fiume. – Me ne sono andata senza fiatare. Non gli ho risposto al telefono per una settimana. Poi è venuto lui da me, all’università, e mi ha detto che non era più sicuro di ciò che provava per me... –
– Immagino che non si sia più fatto vivo, dopo – le dissi.
Lei sospirò, e poi posò la testa sulla mia spalla, come se cercasse protezione. Io le misi una mano tra i capelli, improvvisando una carezza. Rimanemmo così a lungo, senza dire nulla. Dopo anni di reclusione, al collegio, potevo finalmente godere di quel sole meraviglioso, di quella brezza che faceva ondeggiare le canne, di quel contatto con una donna.
Nello stesso tempo mi sentivo come deve sentirsi un ladro, quando compie un furto. Me ne stavo lì ingiustamente, pensando che avrei voluto esserci io al posto di quel tale. Ero ben cosciente che ci si poteva ferire, se si cercava la felicità nel momento sbagliato, tuttavia non potevo sottrarmi. Di Consuelo insomma ero già ebbro, dopo il primo bicchiere.
All’incirca a mezzogiorno imboccammo via Gozzano. Il sole era accecante. Fu all’altezza di una casetta sgangherata, dal giardino mezzo incolto – ai bordi del quale c’erano cespugli di rose rosse – che venimmo sorpresi dalla musica. Stavamo temporeggiando, lì in mezzo alla strada, quando qualcuno mise giù la puntina sul disco e si sentì quel primo strofinio che precede l’inizio della musica.
In quella casa – me lo raccontò in seguito Consuelo – abitava un emigrante. “L’Argentino” – così lo chiamavano tutti – aveva vissuto per trent’anni a Buenos Aires. Rimasto vedovo, – non aveva fatto fortuna, come non l’avevano fatta in molti, laggiù – era tornato ad abitare la casupola che era stata dei suoi, al numero 8 di via Gozzano. Non gli erano rimasti che un giradischi e una collezione di tanghi, che ascoltava ogni giorno. D’estate lasciava aperte le finestre al pianterreno e così le note si spandevano in strada. – L’Argentino è uomo senza radici... – dicevano alcuni – È tornato, ma qui nessuno si ricorda di lui –; – Ecco che balla il tango con la moglie – lo prendevano in giro altri.
Il tango attaccò. Prima il violino e poi la fisarmonica. Consuelo mi allacciò in vita con un braccio e l’altro lo distese, invitandomi a prendere la sua mano; poi cominciò a portarmi. I miei passi si muovevano incerti, ma lei volteggiava infilando e poi ritirando velocemente un piede fra le mie gambe. Si attaccava e staccava ai miei fianchi, al suono della fisarmonica. Mi sembrò che avessimo ballato da sempre, sulle note di quel tango sbucato come per incanto. Poi il ritornello finale scemò a poco a poco, la puntina scivolò con qualche gemito sul disco e la stradina cadde nuovamente nel silenzio. Consuelo aprì gli occhi, ritrovandosi fra le mie braccia. E poi rise.
Casa sua era a non più di venti metri ed era probabile che qualcuno – i vicini, se non addirittura sua madre stessa – l’avesse vista ballare con me.
– Ci avranno visti? – mi chiese.
– Non lo so – risposi, alzando le spalle e ridendo con lei.
Lei raccolse il plaid che aveva appoggiato sul muro di cinta della casa de “l’Argentino” e poi ci avviammo. Dietro l’uscio di casa mi strinse in un abbraccio interminabile. Poi, mollando la presa, disse: – Va’, adesso, che è tardi – . Io, prima di mettermi in sella alla bicicletta, inviai un bacio all’indirizzo delle sue labbra, sfiorando con la bocca la punta delle dita. Quindi inforcai i pedali e corsi più forte che potevo.
Quello che c’è stato tra me e Consuelo è tutto qui. Non c’è davvero altro, se si escludono le innumerevoli lettere che le ho scritto, e le poche e sempre più distaccate che mi ha scritto lei. Le guardo, le sue lettere. Sono qui, sparse sopra il letto. Le ho ritrovate per caso, mettendo ordine tra le vecchie scatole – cose ormai vissute, che niente più hanno a che fare con il presente – . Quando le ho prese in mano, la musica e inquieta e struggente del tango ha preso a suonarmi in testa. Ho dovuto scrivere, per farla smettere.
Di Consuelo non ho saputo più nulla, dopo l’ultima lettera. Chissà dov’è andata a finire. E poi: che fine avrà fatto, “l’Argentino?” Ci abiterà ancora qualcuno, al civico 8 di via Gozzano? Ma poi, alla fin fine: chissà se mio figlio – leggendo questa storia – tornerà lì e suonerà allo stesso campanello al quale suonai io ( gli aprirebbe forse la giovane figlia di Consuelo. Lui resterebbe incantato dal suo viso creolo. Lei scomparirebbe all’interno della casa per poi riapparire con un plaid rosso. E tutto ricomincerebbe da capo)?
Francesco Settin